Manifestazione nazionale per la liberazione di Nekane Txapartegi

Giovedì 08 Settembre 2016 16:37

nekane

Sabato 24 SETTEMBRE a BERNA si terrà una grande manifestazione nazionale per la liberazione di Nekane Txapartegi, giornalista basca e militante della sinistra indipendentista, la quale è stata arrestata dalle autorità svizzere e incarcerata a Zurigo l’8 aprile 2016, a seguito di una domanda di estradizione depositata dallo Stato spagnolo.

Nel 1999, Nekane è stata arrestata e incarcerata una prima volta dalla Guardia Civil, corpo paramilitare della polizia spagnola, incaricato delle “operazioni antiterroriste”. Durante i primi giorni di detenzione, lei e un altro prigioniero sono state rinchiusi in isolamento (incomunicacion), pratica nella quale le detenute e i detenuti accusati di “terrorismo” scompaiono in un buco nero per giorni, senza poter aver contatti con l’esterno, neppure un avvocato, subendo un utilizzo quasi sistematico della tortura durante gli interrogatori. In quell’occasione Nekane è stata violentemente torturata dai militari spagnoli è ha subito uno stupro da parte dei suoi torturatori. Ciò che ha dovuto patire in carcere è stato denunciato poche settimane più tardi.
Dopo una rapida archiviazione della denuncia da parte delle autorità spagnole, gli avvocati di Nekane sono riusciti a fare riaprire la procedura qualche anno più tardi, prima che il caso fosse definitivamente insabbiato. Nonostante numerosi certificati medici che dimostrano che Nekane sia uscita dall’incomunicacion con numerosi ematomi su tutto il corpo e nonostante testimonianze di compagni di cella indicando che una volta giunta in carcere Nekane fosse in stato di shock e non riusciva né a camminare, né a muovere le mani, i magistrati spagnoli hanno rifiutato di identificare i suoi aguzzini. Solo uno di loro è stato finalmente sentito, per video conferenza e in forma anonima, senza però rispondere alle domande della difesa. Così come in decine di altri casi, che hanno portato alla condanna della Spagna da parte di organi internazionali, la denuncia è stata archiviata dalle autorità spagnole e i torturatori di Nekane sono rimasti impuniti.

Dopo nove mesi di detenzione preventiva, Nekane è stata rilasciata su cauzione e nel 2007 è fuggita dallo Stato spagnolo per evitare una nuova incarcerazione basata unicamente sulle testimonianze ottenuta sotto tortura. Infatti, durante il maxiprocesso contro numerose organizzazioni della sinistra indipendentista basca, denominato “Sumario 18/98”, è stata condannata a una pena di sei anni e nove mesi con l’accusa di appartenenza in prima istanza, e di collaborazione in appello, con un’ ”organizzazione terrorista” (ETA). Nel corso di questo processo Nekane ha nuovamente denunciato quanto ha dovuto subire in carcere nel 1999 (video) e, come massima ignominia, ha dovuto pure confrontarsi con uno dei suoi torturatori, intervenuto in tribunale in qualità di “esperto”. Le colpe principali che le sono state imputate sono quelle di aver partecipato a una riunione con degli attivisti indipendentisti baschi a Parigi e di aver consegnato due passaporti a dei membri di ETA.

Il Collettivo Scintilla organizzerà un trasporto collettivo dal Ticino per essere presenti in massa a questa manifestazione.
Chi volesse partecipare può scrivere un messaggio privato a questa pagina oppure a [email protected]Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

EVENTO FB: https://www.facebook.com/events/1845934795625795/

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/17565-manifestazione-nazionale-per-la-liberazione-di-nekane-txapartegi

“Regeni marchiato e seviziato per giorni dai suoi aguzzini”

I risultati dell’autopsia sul ricercatore italiano ucciso in Egitto: sul corpo incise cinque lettere. I genitori: “Nostro figlio vittima di professionisti della tortura”

di CARLO BONINI e GIULIANO FOSCHINI

ROMA – Il corpo di Giulio Regeni è stato usato come una lavagna dell’orrore. Quattro, forse cinque lettere, tracciate da una lama in cinque punti diversi documentano incontrovertibilmente quello che a tutti era apparso da subito evidente. Nessun incidente. Per giorni, più mani di boia hanno torturato e marchiato, con sadismo e reminiscenze di altri secoli, il ricercatore italiano. Per poi, dopo giorni di sevizie, finirlo, ruotando il suo volto sfigurato su se stesso, fino a spezzargli il collo. Con quel corpo, con le fotografie contenute nelle 221 pagine di relazione del professor Vittorio Fineschi, da mesi a disposizione anche delle autorità del Cairo, torneranno da oggi a fare i conti i cinque investigatori egiziani che nelle prossime 48 ore incontreranno il procuratore Giuseppe Pignatone e il team di inquirenti italiani. Perché – come ora dicono i genitori di Giulio – “è stato il suo corpo, riconoscibile solo dalla punta del naso, a rimandare indietro ogni depistaggio. A stroncare il tentativo di accreditare che fosse drogato o vittima di un incidente stradale”.

IL MISTERO DELLE LETTERE
Nelle 225 pagine di esame autoptico il professor Fineschi fa un lungo esame delle torture subite da Giulio: ossa rotte, denti spezzati, tumefazioni ovunque. Segnala però alcuni particolari decisivi: qualcuno ha tracciato alcune lettere sul suo corpo. “Sulla regione dorsale – scrive Fineschi – a sinistra della linea si trovano un complesso di soluzioni disposte a confermare una lettera”. Stessa cosa all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. E poi sulla mano sinistra dove c’era una X. Lettera presente anche sulla fronte. Nessun incidente quindi. Ma torturatori professionisti. Ma chi ha voluto segnare il corpo di Giulio e perché lo ha fatto?

COLPITO CON PUGNI E BASTONI
Chiunque sia stato ha infierito sul corpo del ragazzo per giorni e in tempi diversi. Cinque i denti fratturati. Rotte anche le due scapole, l’omero destro, il polso, le dite delle due mani e dei due piedi, con entrambi i peroni ridotti in poltiglia. Ovunque ci sono segni di tagli e bruciature. “Si possono ipotizzare – si legge ancora nell’autopsia – che lo abbiano colpito con calci, pugni, bastoni, mazze” per poi scagliarlo ripetutamente a terra o contro alcuni muri. “Alcune lesioni cutanee – concludono i medici legali – hanno caratteristiche che depongono per una differente epoca di produzione avendo un timing differenziato”. Tradotto: Giulio è stato torturato ripetutamente, a distanza di giorni.

L’IRA DELLA FAMIGLIA
“Ci sembra chiaro che le torture che gli sono state inflitte, i tempi e le modalità dei supplizi che nostro figlio ha dovuto sopportare non possono che essere l’opera perversa di qualche professionista della tortura” dicono Paola e Claudio Regeni. “È evidente che non possiamo parlare di incidente ma non riusciamo ancora a capire come si possa dubitare che Giulio sia stato torturato; c’è un’azione mirata e sistematica sul corpo del povero Giulio. Azioni che possiamo ricondurre alle modalità già variamente e riccamente illustrate da vari rapporti internazionali, come quelli di Amnesty. So che per chi vive in Italia non esiste sistema cognitivo ed emotivo per anche solo riuscire ad immaginare cosa sia successo a Giulio. Ma il suo corpo parla”. Eppure l’Egitto continua a respingere ogni responsabilità.

L’INCONTRO
La famiglia di Giulio spera che da oggi qualcosa possa cambiare. Del resto, dopo il disastro della prima missione, il secondo viaggio degli investigatori egiziani a Roma è un punto segnato dal Governo nel tentativo di tenere inchiodato il Cairo a una cooperazione giudiziaria sin qui priva di risultati. Ma, in qualche modo, può anche trasformarsi in un’ultima chiamata. Per questo, il procuratore Giuseppe Pignatone, il sostituto Sergio Colaiocco, i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco che da febbraio lavorano al caso aspettano risposte precise dal procuratore generale egiziano, Nabil Ahmed Sadek. A cominciare dal famigerato traffico delle celle telefoniche della zona in cui Giulio venne sequestrato. Ieri – ed è un altro timido segnale positivo –sono arrivati alcuni documenti da Cambridge. Altri sono attesi nei prossimi giorni. “Siamo così abituati ai depistaggi – dicono Paola e Claudio – che siamo in una sorta di sospensione. Ma attendiamo. E non rinunceremo mai alla verità”.

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Due prigionieri egiziani morti in quattro giorni

Egitto. Abdallah ucciso da un infarto, Ahmed dalle torture. La polizia: è caduto dalla camionetta, anzi da un palazzo. In carcere i detenuti sono vittime di abusi e mancanza di cure. Centro Al Nadeem: nel 2016 71 casi, 137 nel 2015

Secondo le associazioni per i diritti umani, sarebbero 60mila i prigionieri politici egiziani

Due morti in quattro giorni dietro le sbarre di una prigione egiziana. Il conto delle vittime della brutalità della polizia o dell’assenza di cure mediche nelle carceri va aggiornato di giorno in giorno.

Ieri Abdallah M. E., 58 anni, è morto in una stazione di polizia di Alessandria. Secondo la procura, ha avuto un attacco di cuore. La polizia dice di aver subito chiamato i soccorsi, ma il detenuto è spirato prima dell’arrivo dell’ambulanza.

Non certo un caso isolato: il 17 agosto a morire in una stazione di polizia a Fayoum era stato Abdel Halim Abdel Hayy, arrestato venti giorni prima con l’accusa di aver dato alle fiamme una caserma nel 2013, durante una protesta anti-golpe dei Fratelli Musulmani. Condannato a 15 anni, godeva di cattive condizioni di salute legate all’età, 71 anni. La famiglia chiedeva il ricovero in ospedale, ma le autorità carcerarie l’hanno negato.

Il 13 agosto era morto Ibrahim Saleh Hashish, insegnante di arabo di 58 anni, stavolta in un ospedale di Damietta dove era stato portato qualche giorno prima dalla polizia carceraria perché le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate. Era affetto da tumore ai reni che in prigione, dove si trovava dal luglio 2015 (anche lui con l’accusa di aver partecipato a scontri nel 2013 accanto alla Fratellanza), nessuno ha curato. La famiglia aveva chiesto che venisse rilasciato per ragioni mediche.

E se in carcere non si muore di mancanza di cure, si muore di pestaggi. L’ultima vittima accertata è uno studente di medicina di 28 anni, Ahmed Kamal. Era stato arrestato lunedì mattina. Su di lui pendeva una condanna a due anni, comminata a febbraio, per aver preso parte lo scorso anno a proteste non autorizzate.

Un reato comune in Egitto dal novembre 2013 quando il generale al-Sisi, a pochi mesi dal golpe e dalla strage di manifestanti islamisti a Rabaa (tra 1.000 e 1.500 morti), emanò una legge che vieta manifestazioni che le autorità non abbiano prima avallato.

La sera stessa, alle 23,30 di lunedì, Ahmed è morto. Il giorno dopo la famiglia ha identificato il corpo, mentre l’autopsia preliminare indica in una grave fattura alla testa e la conseguente emorragia le cause del decesso. Il legale della famiglia ha già chiesto l’apertura di un’inchiesta contro i poliziotti che lo avevano in custodia.

La polizia, da parte sua, dà la sua versione. Anzi, due. Ahmed, dicono, è morto cadendo mentre cercava di fuggire da una camionetta. È anche morto cadendo dal secondo piano di un edificio a Nasr City, dal quale si è lanciato per sfuggire ad una retata in una casa di prostituzione. Peccato che – spiega l’avvocato Ahmed Saad Sabah – non ci siano intorno alla ferita abrasioni tipiche di una caduta. Parla anche il fratello, Mohamed: il volto di Ahmed era pieno di ematomi.

Secondo il Nadeem Center, organizzazione che da vent’anni segue i casi di torture e abusi da parte delle forze di sicurezza, solo a luglio almeno 10 prigionieri sono morti per mancanza di assistenza sanitaria o torture. Fuori, in strada, le vittime di polizia e esercito sono state 99. In un mese soltanto.

Da gennaio a fine luglio 2016 i morti in custodia sono stati almeno 71; nel 2015 137 (a cui vanno aggiunti 328 morti in scontri con la polizia); nel 2014 almeno 90 solo nei governatorati di Giza e del Cairo. E, calcola Al Nadeem, nei primi 100 giorni di governo al-Sisi (da luglio a settembre 2013) i deceduti in carcere sono stati per lo meno 35.

Le giustificazioni che la polizia adduce a certe morti sono più o meno le stesse: le origini della morte di Regeni sarebbero da cercare in ambienti omosessuali, dissero; Khaled Said, ucciso nel 2010, era un trafficante di droga. Per molti si tratta di meri insabbiamenti, punta dell’iceberg di una macchina repressiva ben collaudata. Tra i suoi ingranaggi c’è la legge anti-terrorismo voluta da al-Sisi. Normativa controversa, che soffoca la libertà di espressione e manifestazione, ora è sul tavolo della corte costituzionale.

Nel mirino c’è proprio l’articolo che vieta le proteste non autorizzate dalle autorità. Il primo ottobre l’Alta Corte dovrà rivedere (su appello di avvocati per i diritti umani) la disposizione che ha permesso in tre anni l’arresto di decine di migliaia di persone, portando a 60mila il numero – presunto – di prigionieri politici.

 

 

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/due-prigionieri-egiziani-morti-in-quattro-giorni/

A ROMA LA MOSTRA “NOME IN CODICE: CAESAR”

Pubblico · Organizzato da Comitato Khaled Bakrawi
Dal 5 ottobre alle 14:00 al 9 ottobre alle 19:00
Roma
“Caesar” è lo pseudonimo che protegge l’identità di un ex fotografo della polizia militare del regime di Bashar Assad. Fino al 2011 e all’inizio delle manifestazioni di protesta, l’incarico di “Caesar” consisteva nel riprendere scene del crimine (come incidenti stradali o delitti comuni) e fotografarne le vittime. Successivamente, lui ed i suoi colleghi vennero sempre più spesso chiamati a fotografare i corpi delle vittime delle torture e degli omicidi commessi nelle prigioni e nei centri di detenzione del regime, particolarmente in quello denominato Military Hospital 601, situato a Mezze, sobborgo di Damasco.
Per due anni, “Caesar” ha copiato su alcune chiavette USB le immagini che scattava per lavoro, contemporaneamente organizzando la sua fuga dalla Siria, effettivamente avvenuta nell’estate del 2013. Lasciando il suo Paese, “Caesar” ha portato con sé circa 55.000 immagini. Recentemente, l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha eseguito un’analisi delle immagini e delle informazioni fornite da Caesar, pubblicando poi un dettagliato rapporto (in inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, giapponese, cinese e russo) che costituisce un atto d’accusa sconvolgente, intitolato “Se i morti potessero parlare – Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria”. Le foto di “Caesar” sono state consegnate a HRW dal Movimento Nazionale Siriano e l’organizzazione umanitaria si è concentrata su 28.707 immagini che, sulla base di tutte le informazioni disponibili, mostrano almeno 6.786 persone morte in carcere o dopo essere stati trasferiti dal carcere in un ospedale militare, come il n. 601 di Mezze, Damasco. “Le foto rimanenti – scrive HRW – sono di attacchi a luoghi o di corpi identificati dal nome come appartenenti a soldati governativi, altri combattenti armati o a civili uccisi in attacchi, esplosioni o attentati”.
Le foto di “Caesar” hanno fatto il giro del mondo: sono state esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU a New York, all’Holocuast Memorial Museum di Washington, al Congresso U.S.A., alla facoltà di Legge dell’Università di Harvard, al Parlamento Europeo di Strasburgo, alla House of Commons di Westminster, alla Royal Hibernian Academy di Dublino e presso molte altre istituzioni a Boston, in Canada e in altri Paesi. In Francia, la giornalista Garance Le Caisne ha raccolto il racconto di “Caesar” in un libro – “Opèration Cèsar” – uscito lo scorso ottobre (pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo “La macchina della morte”) e la magistratura francese ha avviato un’inchiesta nei confronti del regime di Assad per crimini contro l’umanità, sulla base dell’art. 40 del Codice di Procedura Penale, che obbliga ogni autorità pubblica a trasmettere alla giustizia le informazioni in suo possesso se è venuta a conoscenza di un crimine o di un delitto. Gran parte della segnalazione inviata dal Ministero degli Esteri di Parigi alla magistratura si basa sulla testimonianza di “Caesar”.
In Italia, la mostra delle immagini di “Caesar” arriverà il prossimo ottobre. Abbiamo assunto questa iniziativa per contribuire a colmare le lacune mostrate dall’informazione in Italia sulle vicende siriane, particolarmente sui motivi che sono all’origine delle manifestazioni del 2011 contro il regime degli Assad. La sistematica violazione dei diritti umani dei Siriani da parte degli apparati del regime è una di queste motivazioni e le fotografie di “Caesar” sono lì a dimostrarlo. Sono immagini sconvolgenti nella loro fissità e nel loro richiamare alla mente altre immagini che tutti abbiamo visto, in bianco e nero, sui nostri libri di storia e che non avremmo mai voluto rivedere nell’attualità del colore.
L’inaugurazione della mostra “Nome in codice Caesar”, consistente in 27 pannelli fotografici 50 x 70, è prevista per il 5 ottobre e sarà preceduta da una conferenza stampa presso la sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, una delle organizzazioni promotrici dell’evento. Oltre alla FNSI, partecipano alla promozione Amnesty International, UniMed (Coordinamento delle Università del Mediterraneo), FOCSIV e Articolo 21. Nei giorni della mostra sono previsti iniziative e dibattiti in corso di organizzazione.
Fonte:
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Qui informazioni su Comitato Khaled Bakrawi:

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Qui il link per donazioni:

DENTRO SAYDNAYA: CARCERE DELLE TORTURE DELLA SIRIA

Un video molto importante prodotto con enormi sforzi da ‪#‎Amnesty‬ International, che ha collaborato con Forensic Architecture, un’agenzia di ricerca con sede presso la Goldsmiths, University of London, per ricreare gli orrori di #Saydnaya attraverso un modello 3D interattivo.
#Saydnaya è un Carcere siriano di tortura vicino ‪#‎Damasco‬.
Il video contiene un esempio delle torture sistematiche che il regime di Assad pratica fino ad uccidere i detenuti, uno scorcio di inferno sulla terra.

 

Fonte:

https://www.facebook.com/NomeInCodiceCaesar/posts/931379510339575

TORTURE, CONDIZIONI DETENTIVE INUMANE E DECESSI DI MASSA NELLE PRIGIONI SIRIANE

Torture, condizioni detentive inumane e decessi di massa nelle prigioni siriane

Comunicato stampa 18 agosto 2016

Siria, una immagine dal rapporto di Amnesty International

Le terribili esperienze dei detenuti sottoposti a una tortura dilagante sono state rese note oggi da Amnesty International, in un rapporto che stima in 17.723 il numero delle persone morte in carcere in Siria dal marzo 2011, l’inizio della crisi: una media di oltre 300 morti al mese.

Il rapporto di Amnesty International, intitolato “Ti spezza l’umanità. Tortura, malattie e morte nelle prigioni della Siria“, denuncia crimini contro l’umanità commessi dalle forze governative di Damasco e ricostruisce l’esperienza provata da migliaia di detenuti attraverso i casi di 65 sopravvissuti alla tortura.

Da questi racconti, emergono le agghiaccianti e inumane condizioni delle strutture detentive gestite dai vari servizi di sicurezza siriani e nel carcere militare di Saydnaya, alla periferia della capitale. La maggior parte dei testimoni ha riferito di aver assistito alla morte di compagni di prigionia e alcuni hanno raccontato di essere stati tenuti in celle insieme a cadaveri.

Il campionario di orrori contenuti in questo rapporto ricostruisce in raccapriccianti dettagli le violenze da incubo inflitte ai detenuti sin dal momento dell’arresto e poi durante gli interrogatori, svolti a porte chiuse all’interno dei famigerati centri di detenzione dei servizi di sicurezza siriani: un incubo che spesso termina con la morte, che può arrivare in ogni fase della detenzione” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Da decenni le forze governative siriane usano la tortura per stroncare gli oppositori. Oggi viene usata nell’ambito di attacchi sistematici contro chiunque, nella popolazione civile, sia sospettato di non stare dalla parte del governo. Siamo di fronte a crimini contro l’umanità, i cui responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia” – ha aggiunto Luther.
I paesi della comunità internazionale, soprattutto Russia e Stati Uniti che condividono la direzione dei colloqui di pace sulla Siria, devono mettere questo tema in cima all’agenda delle discussioni tanto col governo quanto coi gruppi armati e sollecitare gli uni e gli altri a porre fine alla tortura” – ha proseguito Luther.

Amnesty International chiede inoltre il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza. Tutti gli altri detenuti dovrebbero essere sottoposti a un giusto processo in linea con gli standard internazionali oppure rilasciati. Osservatori indipendenti dovrebbero poter visitare immediatamente e senza ostacoli tutti i centri di detenzione.

Il rapporto di Amnesty International contiene nuove statistiche del Gruppo di analisi sui dati relativi ai diritti umani (Hrdag), un’organizzazione che usa un approccio scientifico per analizzare le violazioni dei diritti umani. Sulla base delle sue analisi, l’Hrdag ha concluso che tra marzo 2011 e dicembre 2015 nelle prigioni siriane sono morte 17.723 persone, oltre 300 al mese. Nei decenni precedenti il 2011, Amnesty International aveva riscontrato una media di 45 decessi in carcere all’anno, ossia tre o quattro al mese.

Si tratta, in ogni caso, di stime prudenti. Secondo l’Hrdag e Amnesty International, considerando le decine di migliaia di persone sottoposte a sparizione forzata nei centri di detenzione di tutta la Siria, il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.

In occasione del lancio del suo rapporto, Amnesty International ha anche collaborato con un team di specialisti di Architettura forense per creare una ricostruzione virtuale in 3D della prigione militare di Saydnaya. Utilizzando modelli architettonici e acustici e le testimonianze degli ex detenuti, il modello ricostruisce il terrore quotidiano vissuto all’interno della prigione e le agghiaccianti condizioni detentive.

Per la prima volta, mettendo insieme le tecniche tridimensionali e la memoria dei sopravvissuti, siamo in grado di entrare dentro uno dei più famigerati centri di tortura della Siria” – ha spiegato Luther.

La violenza in ogni momento

La maggior parte dei sopravvissuti, le cui testimonianze hanno contribuito al rapporto di Amnesty International, ha raccontato ad Amnesty International che le torture iniziano al momento stesso dell’arresto e durante il trasferimento nei luoghi di detenzione.

Qui, all’arrivo, i detenuti sono sottoposti al cosiddetto haflet al-istiqbal (“festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici).

Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” – ha raccontato Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama.

Alla “festa di benvenuto”, spesso seguono i “controlli di sicurezza” durante i quali le donne vengono sottoposte ad aggressioni sessuali e a stupri da parte di personale di sesso maschile.

All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subiscono costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, oppure semplicemente come punizione.

I metodi di tortura descritti dagli ex detenuti comprendono il dulab (“pneumatico”: il corpo della vittima viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico) e la falaqa (“bastonatura”, pestaggi sulle piante dei piedi), ma anche le scariche elettriche, lo stupro, l’estirpazione delle unghie delle mani o dei piedi, le ustioni con acqua bollente e le bruciature con sigarette.

Ali, detenuto presso la sede dei servizi di sicurezza militari di Homs, ha raccontato di essere stato sottoposto alla tortura dello shabeh (“impiccato”: il detenuto viene tenuto appeso per i polsi, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente per parecchie ore).

La combinazione tra sovraffollamento, mancanza di cibo e di cure mediche e insufficienza di servizi igienico-sanitari costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante, vietato dal diritto internazionale.

Le celle, hanno raccontato gli ex detenuti, erano così sovraffollate da rendere necessario fare i turni per dormire o, in alternativa, dormire rannicchiati.
Era come stare in una stanza di morti. Cercavano di farci fare quella fine” – ha raccontato un altro ex detenuto, Jalal.

“Ziad” (il nome è stato cambiato per proteggere la sua identità) ha denunciato che un giorno, nella sezione 235 dei servizi di sicurezza militari di Damasco, l’impianto di aerazione si è rotto e sette detenuti sono morti soffocati.

Ci prendevano a calci per vedere chi era morto e chi no. Ad alcuni di noi hanno ordinato di alzarci in piedi. In quel momento mi sono reso conto che c’erano sette morti, che avevo dormito accanto a sette cadaveri. Poi nel corridoio ho visto gli altri, circa 25 cadaveri“.

Gli ex detenuti hanno raccontato che l’accesso al cibo, all’acqua e ai servizi igienico-sanitari viene spesso limitato. La maggior parte di loro ha riferito di non aver mai potuto lavarsi adeguatamente. In questo ambiente, scabbia, pidocchi e altre infezioni proliferano. Poiché alla maggior parte dei detenuti vengono negate cure mediche adeguate, in molti casi i detenuti ricorrono a medicamenti rudimentali, ciò che ha contribuito al drammatico aumento dei decessi in carcere dal 2011.

In generale, i detenuti non hanno contatti con medici, familiari o avvocati: una condizione che in molti casi equivale a una sparizione forzata.

Il carcere militare di Saydnaya
I detenuti spesso trascorrono mesi se non anni nelle strutture detentive dei vari servizi di sicurezza siriani. Alcuni alla fine vengono portati di fronte a un tribunale militare, che li condanna nel giro di qualche minuto, per poi essere trasferiti nel carcere militare di Saydnaya, dove le condizioni sono particolarmente atroci.
[Nelle strutture dei servizi di sicurezza] ti torturano per farti ‘confessare’. A Saydnaya, l’obiettivo è la morte, una sorta di selezione naturale per liberarsi dei più deboli appena vengono trasferiti lì” – ha dichiarato Omar S., un ex detenuto.

La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Salam, un avvocato di Aleppo che vi ha trascorso due anni, ha raccontato: “Quando mi hanno portato dentro la prigione, ho sentito l’odore della tortura: un odore
specifico, un misto di umidità, sangue e sudore. Lo riconosci: è l’odore della tortura
“.

Salam ha descritto un caso in cui le guardie hanno picchiato a morte un istruttore di arti marziali dopo aver scoperto che allenava i compagni di cella: “Hanno picchiato a morte l’istruttore e altri cinque detenuti, poi hanno proseguito con gli altri 14. Nel giro di una settimana erano tutti morti. Vedevamo il sangue scorrere via dalla cella“.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, i detenuti cui viene negato il cibo si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Omar S. ha raccontato di una volta in cui una guardia ha obbligato due uomini a denudarsi e poi ha obbligato uno a stuprare l’altro, minacciandolo di morte se non l’avesse fatto.

La deliberata e sistematica natura della tortura nel carcere di Saydnaya rappresenta la forma più manifesta di crudeltà e di abietta mancanza di umanità” – ha commentato Luther.

Fonte:

Quei 900mila detenuti negli ex gulag di Stalin

di Damiano Aliprandi 12 ago 2016 14:35

Costretti ai lavori coatti nelle colonie penali siberiane. Nadja Tolokno, attivista e cantante russa del gruppo punk rock Pussy Riot ha creato la piattaforma ?Justice Zone? per una mobilitazione contro il sistema carcerario russo

Gelide oasi in cui sono costretti migliaia di alienati, obbligati ai lavori coatti con orari massacranti, paghe da fame e senza il permesso di coprirsi, a 30-40 gradi sotto zero, con indumenti caldi che non siano il cappotto poco imbottito fornito dai carcerieri. Parliamo delle famigerate colonie penali sparse in Siberia. Nella Russia di Putin, formalmente esistono solo sette carceri ordinarie, il resto dei detenuti – che sono oltre 900 mila – vengono dislocati in queste strutture ereditate dai Gulag staliniani.
La condizione delle detenute.
Sono circa 750 le colonie penali e le donne, secondo i dati dell’autorità penitenziaria di Mosca, rappresentano una minoranza di oltre 47 mila detenute, spedite in 46 colonie femminili. E le donne subiscono delle torture che ricordano descrizioni non molto diverse dai quadri dei gulag tratteggiati dal grande romanziere Aleksandr Sol?enicyn, rinchiuso nel 1950. Una delle testimoni è Nade?da Andreevna Tolokonnikova, anche nota come “Nadja Tolokno”, un’attivista e cantante russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, finita in galera per aver cantato per mezzo minuto un inno contro Putin sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Quando è uscita dalla colonia ha deciso di intraprendere una battaglia di mobilitazione per il sistema carcerario russo. Con altre attiviste ha creato la piattaforma “Justice Zone”: la base per l’azione collettiva di persone accomunate dall’interesse per il destino di quelle detenute le cui vite si stanno sgretolando sotto il sistema penale russo. Molte sono le testimonianze. Una è di Kira Sagaydarova, attivista di Justice Zone che nel passato aveva vissuto il dramma dei gulag “moderni”. Questi sono solo alcuni degli episodi che Kira ha vissuto: “Per i primi sei mesi ti uccidono lentamente. Rizhov, direttore della zona industriale, vuole che i supervisori dei laboratori di cucito raggiungano una certa quota di produzione, ma i supervisori non raggiungono la quota finché le nuove ragazze non imparano a cucire. Perciò i supervisori le picchiano. Una volta ti picchiano, poi magari ti strappano i capelli, ti sbattono la testa contro la macchina per cucire o ti portano in una cella punitiva, dove ti prendono a botte e calci usando mani e piedi, oppure tolgono la cinghia dalla macchina per cucire e ti colpiscono con quella”. Dice, ancora: “I supervisori sono i responsabili della maggior parte delle violenze che avvengono nella colonia penale. Fanno quello che vogliono e dispongono a loro piacimento della vita delle persone. Mi hanno colpito sulla schiena con tutta la loro forza, o sulla testa, non fa differenza. Più volte sono crollata e ho pianto, e non riesco nemmeno a elencare tutte le cose che succedevano lì. A loro non importa nulla. C’è stato un periodo in cui ci versavano addosso acqua gelida in una cella punitiva ghiacciata in pieno inverno! ”
Le condizioni maschili e la famigerata “Aquila nera”.
Ma per gli uomini è ancora peggio. Una delle peggiori colonie penali, la numero 56, viene chiamata anche Aquila Nera: è una delle carceri di massima sicurezza per i condannati all’ergastolo. Per un quarto di secolo i detenuti non hanno mai messo piede fuori da questo luogo. Per il rifornimento d’acqua, il carcere è collegato con tubature ad un lago, mentre l’energia nelle celle e nei recinti elettrificati è garantita da una serie di generatori. Non esistendo il sistema fognario, gli ergastolani devono svuotare il loro secchio nell’ora d’aria giornaliera in un fosso su cui si affacciano tutti i cortili. I reclusi trascorrono 23 ore al giorno dentro la cella, e hanno diritto a trascorrere solo un’ora fuori ma all’interno di una sala scoperta, senza tetto. Sono costretti a dormire con la luce accesa e durante il giorno è proibito restare a letto. Nel resto delle colonie, formalmente, l’obiettivo della reclusione nei campi è quello di abbinare la rieducazione allo sconto della pena, secondo il principio – travisato dai nazisti – per cui il “lavoro rende liberi”. La realtà è che i detenuti sono costretti a turni asfissianti di lavoro e pulizie, in strutture che sono le stesse dai tempi di Stalin. E con salari miseri di 20 rubli al giorno, non più di 70 euro al mese. Il compenso serve a coprire i costi delle uniformi e del rancio quotidiano.
Il sistema giudiziario senza alcuna garanzia per l’imputato.
E se il sistema penitenziario russo è devastante, non è da meno nemmeno quello giudiziario. Secondo la denuncia di Amnesty International, diversi processi di alto profilo hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario penale della Russia, tra cui la mancanza di parità tra le parti, l’uso della tortura e altri maltrattamenti nel corso delle indagini, nonché l’incapacità di escludere in aula le prove inquinate dalla tortura, l’uso di testimoni segreti e di altre prove segrete, che la difesa non può contestare, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato di propria scelta. Il dato parla chiaro: meno dello 0,5 per cento dei processi si è concluso con l’assoluzione. Il caso di Svetlana Davydova è stato uno dei sempre più diffusi casi di presunto alto tradimento e spionaggio, categorie di reato definite in modo vago, introdotte da Putin nel 2012. Svetlana Davydova era stata arrestata il 21 gennaio dell’anno scorso per una telefonata fatta otto mesi prima all’ambasciata ucraina, in cui aveva avanzato il sospetto che alcuni soldati della sua città, Vjaz’ma, nella regione di Smolensk, fossero stati inviati a combattere in Ucraina orientale. L’avvocato nominato d’ufficio aveva dichiarato ai mezzi d’informazione che la donna aveva “confessato tutto” e si era rifiutata di ricorrere in appello contro la sua detenzione perché “tutte queste udienze e il clamore sui media [creavano] un inutile trauma psicologico ai suoi figli”. Il 1° febbraio 2015, due nuovi avvocati hanno preso il caso. Svetlana Davydova ha denunciato che il primo avvocato l’aveva convinta a dichiararsi colpevole per ridurre la sua probabile condanna da 20 a 12 anni. Il 3 febbraio è stata rilasciata; il 13 marzo, in contrasto con tutti gli altri casi di tradimento, il procedimento penale nei suoi confronti è stato archiviato. A settembre dell’anno scorso è iniziato il processo contro Nade?da Savcenko, cittadina ucraina e appartenente al battaglione volontario Aidar. È stata accusata di aver deliberatamente diretto il fuoco dell’artiglieria per uccidere due giornalisti russi durante il conflitto in Ucraina, nel giugno 2014. La donna ha insistito sul fatto che il caso era stato inventato e che le testimonianze contro di lei, tra cui quelle di diversi testimoni segreti, erano false. Il suo processo è stato caratterizzato da moltissimi vizi procedurali. Il 15 dicembre del 2016, il presidente Putin ha approvato una nuova legge in base alla quale la Corte costituzionale poteva dichiarare “inattuabili” le decisioni della Corte europea dei diritti umani e di altri tribunali internazionali, qualora “violassero” la “supremazia” della costituzione russa.

 

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/giustizia_e_carcere/28760_quei_900mila_detenuti_negli_ex_gulag_di_stalin/

Cella zero, 22 agenti indagati per i pestaggi nel carcere di Poggioreale

carcere

A Gennaio 2014 Fanpage.it, in un servizio esclusivo, raccoglie la testimonianza di un ex detenuto che apre lo squarcio decisivo sull’orrore della “cella zero” del carcere di Poggioreale. Ma le denunce – scopriamo –  erano già 40, ed erano tra le mani della Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco. Pareti sporche di sangue, maltrattamenti, percosse, timpani perforati a suon schiaffi e pugni. “Erano le dieci e mezza di sera. All’improvviso, senza motivo sono stato portato giù nella cella zero: le guardie mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno picchiato, mi hanno umiliato”: così iniziava l’intervista realizzata dal nostro giornale, che raccontava l’esistenza di una “cella zero” e di indicibili violenze. Una Abu Ghraib napoletana.

Una lunga battaglia contro le violenze in carcere

Ma erano anni che si parlava di una cella degli orrori. Il primo a denunciarne l’esistenza, nel 2012, è stato Pietro Ioia, attivista per i diritti dei detenuti, presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani, che contro i maltrattamenti nel carcere napoletano ha ingaggiato una lunga battaglia. Sempre nel 2012, dopo la denuncia di Ioia, l’associazione “Il carcere Possibile”, guidata a quei tempi dall’avvocato Riccardo Polidoro, presentò un esposto in Procura a Napoli. Nel 2014, a seguito del servizio e della conseguente bufera mediatica, fu aperta un’altra inchiesta condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, che accorpò anche la precedente. Poi seguì una visita della Commissione Libertà Civili del Parlamento europeo e la direttrice, Teresa Abate, fu sollevata dall’incarico e trasferita in un’altra sede. Anche l’associazione Antigone Campania e i Radicali ebbero parole dure per quella modalità di gestione del carcere, improntata sulla violenza. L’esistenza della cella espressamente “adibita” ai pestaggi non sembra aver trovato ancora riscontri specifici nell’attività investigativa, ma ci sono 22 agenti indagati e un medico per lesioni e abuso di mezzi di correzione nei confronti dei detenuti.

L’inchiesta della Procura di Napoli

L’inchiesta della Procura di Napoli, condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, è molto complessa ma stamattina sono arrivati i 23 avvisi di conclusione delle indagini: ora bisognerà capire se per gli indagati si deciderà il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Al di là della verità giudiziaria, che emergerà, c’è quella raccontata, vissuta, incisa sulla pelle degli ex detenuti. “Dopo le denunce, con il nuovo direttore non arrivano più notizie di pestaggi e violenze sui detenuti – racconta Pietro Ioia – E’ un risultato straordinario. Io per primo ho subito tante volte violenze all’interno di quel carcere. Anche per futili motivi, come nel 1995: mi pestarono a sangue perché avevo un mazzetto di carte in cella, con il quale passavo il tempo. Una volta, negli anni Ottanta, sono stato anche incappucciato e minacciato con un cappio”. Ma Ioia non era certo un’eccezione: “Negli anni ho visto centinaia di detenuti con i timpani spaccati e gli ematomi sul corpo”.  Tanto è stato fatto, dopo la bufera, ma tanto resta ancora da fare: “Per trent’anni c’era una squadretta, un gruppo fisso di persone – racconta – Da quello che so, le guardie indagate non hanno più contatti con i detenuti”. Se ci sarà un processo, annuncia Ioia, l’associazione degli ex detenuti napoletani si costituirà parte civile: “Oggi è un’ulteriore conferma che ho sempre detto la verità, nonostante i tanti attacchi ricevuti per questo”.

Il carcere di Poggioreale sta lentamente cambiando

Dopo lo scandalo, il direttore del carcere di Poggioreale, da due anni, è Antonio Fullone: dagli ambienti penitenziari trapela una relativa serenità rispetto a quanto sta accadendo, si era preparati all’eventualità di uno sviluppo delle indagini in questo senso e negli anni si è cercato di rasserenare il clima tra guardie penitenziarie e detenuti, seppur in un contesto complicatissimo – sovraffollamento, inclinazione alla violenza, condizioni a volte fatiscenti del carcere – e ora un primo risultato raggiunto sembra essere una complessiva diversità relazionale. Contestualmente, ci sono stati alcuni cambiamenti all’interno della casa circondariale che – ricordiamo –  tra il 2013 e il 2014 è stata nell’occhio del ciclone e sotto i riflettori dell’Europa, pietra dello scandalo per la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Si è avviata la ristrutturazione di alcuni padiglioni, avviate alcune azioni di manutenzione straordinaria, sono state raddoppiate le ore di passeggio, si stanno introducendo varie attività e si stanno sperimentando le celle aperte, almeno in una parte dell’istituto di pena. Ma tanto resta ancora da fare: basti pensare che Poggioreale è di nuovo sovraffollato, e quest’anno ha toccato e superato più volte la soglia dei 2mila detenuti. Sul versante della violenza, dagli ambienti penitenziari c’è chi pone l’accento sul lavoro psicologico e di accompagnamento che si sta facendo, un cambiamento culturale assolutamente necessario. ( Gaia Bozza da Fanpage )

Poggioreale/Antigone. “Bene si faccia chiarezza. Se le denunce fossero provate, ancora una volta mancherebbe il reato di tortura”

Si è chiusa oggi l’inchiesta sulle violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Poggioreale – e in particolare nella cosiddetta “cella zero” – tra il 2012 e il 2014. A denunciarle furono alcuni detenuti che, direttamente, avrebbero subito tali violenze per le quali oggi 23 persone (22 agenti di polizia penitenziaria e un medico) risultano indagate.

La cella zero sarebbe una stanza vuota, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti.

I reati ipotizzati a vario titolo dalla Procura di Napoli – che segue l’inchiesta – vanno dal sequestro di persona, all’abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni, violenza privata.

“Ogni tentativo di fare chiarezza è sempre importante, soprattutto nei casi di violenze che avvengono quando un cittadino è sottoposto all’affidamento dello Stato” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Quello che ci auguriamo è che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili”.

“In episodi come quelli denunciati nel carcere di Poggioreale, infatti, il rischio di prescrizione, proprio nei casi di colpevolezza, è sempre molto alto poiché spesso le denunce avvengono molto tempo dopo i fatti, anche per paura di eventuali ritorsioni finché si è sottoposti a custodia” prosegue Gonnella che sottolinea come, dai primi casi che emergerebbero da queste denunce, sarebbero già passati 4 anni.

“Purtroppo, se i fatti denunciati corrispondessero a realtà, dovremo constatare ancora una volta come in Italia manchi il reato di tortura poiché, soprattutto le violenze che sarebbero avvenute nella cella zero, questo sono”. “Reato di tortura – sottolinea ancora il presidente di Antigone – che eviterebbe anche il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità”.

“Per tale ragione – conclude Gonnella – chiediamo che non si perda ulteriormente tempo e a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile”.

Un ulteriore elemento riguarda la questione dell’isolamento.

“Benché la cella zero, se fosse riconosciute le accuse, rappresenterebbe un luogo che va al di là di ogni regolamento – sottolinea ancora Gonnella – l’isolamento è un particolare regime dove, più facilmente, possono avvenire violenze. Rappresenta inoltre una soluzione particolarmente afflittiva che spesso porta i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi”. “Per questa ragione – conclude Gonnella – abbiamo da poco presentato una proposta di legge, invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato di farla loro, per una riforma profonda di questo regime”.

La proposta di legge di riforma dell’isolamento e alcuni degli episodi avventui in questi reparti nel corso degli anni.

 

leggi anche:

Carcere di Poggioreale: «Nudo, umiliato e picchiato dalle guardie»

 

Poggioreale: si indaga sulla cella delle torture

 

Così si muore nelle “celle zero” italiane

 

Tre sadici e una cella. A Poggioreale va in scena l’orrore

 

Carcere: Le squadre speciali usavano la “cella zero” per violenze di ogni tipo.

 

Le celle zeeo, purtroppo, esistono in tutte le carceri

 

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/cella-zero-22-agenti-indagati-pestaggi-nel-carcere-poggioreale/

Solidarietà con Nekane

Solidarietà con Nekane, gli aggiornamenti dalla Svizzera

02:18

Continua la pressione per impedire l’estradizione di Nekane Txapartegi, rifugiata basca in Svizzera su cui pende una richiesta da parte della magistratura spagnola.

Un membro del collegio difensivo di Nekane ci racconta gli ultimi aggiornamenti sulla sua vicenda, anche alla luce dell’annullamento, la settimana scorsa, da parte del tribunale supremo spagnolo, di una condanna inflitta ad un militante basco a causa di una denuncia di tortura non presa in considerazione da parte delle autorità.

Una decisione obbligata a causa dei numerosi pronunciamenti da parte di diversi organismi internazionali, a loro volta sollecitati dalle pressioni decennali di associazioni e collettivi che si battono contro l’uso della tortura nello Stato spagnolo.

Nel frattempo, proseguono le iniziative di solidarietà, che vedranno il loro apice in una manifestazione internazionale che si terrà a settembre a Berna.

Per notizie, aggiornamenti e per scrivere a Nekane:

 

https://twitter.com/freenekane https://www.facebook.com/freenekane/

 

Fonte:

http://www.ondarossa.info/newsredazione/solidariet-nekane-aggiornamenti-dalla-svizzera

 

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SOLIDARIETA’ A NEKANE!

  • maggio 10, 2016 23:33

Rueda de prensa ofrecida en Bilbo por representantes de Askatasuna, Gurasoak, Torturaren Aurkako Taldea (TAT) y ciudadanos vascos torturados por Ertzaintza, PolicÌa espaÒola y Guardia Civil en la que han denunciado los malos tratos recibidos por Ibon MeÒika tras su detenciÛn la pasada semana. En la imagen, Nekane Txapartegi (torturada y violada por la Guardia Civil).

Rueda de prensa ofrecida en Bilbo por representantes de Askatasuna, Gurasoak, Torturaren Aurkako Taldea (TAT) y ciudadanos vascos torturados por Ertzaintza, PolicÌa espaÒola y Guardia Civil en la que han denunciado los malos tratos recibidos por Ibon MeÒika tras su detenciÛn la pasada semana. En la imagen, Nekane Txapartegi (torturada y violada por la Guardia Civil).

L’infame repressione contro la dissidenza basca sta colpendo anche in Svizzera.
Solidarietà a Nekane e alle compagne e ai compagni che stanno seguendo il suo caso.
No all’estradizione!
Nekane libera!
Tutti libere!

ELKARTASUNA ETA ASKATASUNA
SOLIDARIETA’ E LIBERTA’

 

 

Fonte:

https://uncasobascoaroma.noblogs.org/post/2016/05/10/solidarieta-a-nekane/

 

LA MACCHINA DELLA MORTE SIRIANA

Colgo l’occasione di un post del compagno Germano Monti per parlare del “dossier Caesar”.

Dal profilo Facebook di Germano Monti:

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Pensierino del pomeriggio: non è la Turchia, le immagini non sono di vittime della repressione di Erdogan. E’ la Siria, le immagini sono di vittime della repressione di Assad, una piccolissima parte delle foto esportate clandestinamente da “Caesar”, un fotografo della polizia militare siriana che ha disertato nell’agosto di tre anni fa. Erano tutti manifestanti pacifici, attivisti per i diritti umani, rifugiati palestinesi, semplici cittadini. Quindi, potete infischiarvene, come avete fatto fino ad ora.

"Soldiers from the Assad regime shown placing numbered victims of starvation and other means of torture in body bags before stacking them.  This photo was taken by Caesar or one of his fellow military photographers between 2011-2013."
"Numbered victims of starvation and other means of torture lined up in rows to be photographed and catalogued by the Assad regime before being placed in body bags and stacked.  These victims were placed in a warehouse when the nearby hospital that the regime had used for this purpose overflowed with victims' bodies.  This photo was taken by Caesar or one of his fellow military photographers between 2011-2013."
"A Christian Syrian victim of starvation and other Assad regime torture.  His regime assigned number is written on his stomach and right thigh.  The white card held in the picture also shows the victim's number and the number of the regime security unit responsible for his detention and death.  His number and eyes have been covered in this picture out of respect for the victim's family, which may not yet be aware of his death.  This picture was taken by Caesar or one of his fellow regime photographers between 2011-2013."
"Victims of starvation and other Assad regime torture.  The white card held in the picture shows the center located victim's number and the number of the regime security unit responsible for his detention and death. His number and eyes have been covered in this picture out of respect for the victim's family, which may not yet be aware of his death. This picture was taken by Caesar or one of his fellow regime photographers between 2011-2013."
Stand with Caesar: Stop Bashar al-Assad’s Killing Machine ha aggiunto 28 nuove foto all’album: Evidence of Bashar al-Assad’s Killing Machine — a Damasco.

This is an extremely small sample of the nearly 55,000 photos that Caesar smuggled out of Syria. These are also some of the least gruesome. Most of the other photos show unimaginable cruelty, far beyond what you see even in the horrible photos included here. Due to Facebook limitations and our concern that children may view these images, we have chosen to show these alone for now. In the future, we may add others in order to more fully display the unspeakable brutality of the Assad regime’s killing machine. These photos have been analyzed and validated by various international experts, including the FBI.

Fonte:
Dal blog di Germano Monti:

CHI HA PAURA DI CAESAR?

MILAN, ITALY - JULY 15:  Chamber of Deputies President Laura Boldrini attends congress on feminicide at the Camera del Lavoro on July 15, 2013 in Milan, Italy. Data from EU.R.E.S (European Economic and Social Researches) reports that between 2000 and 2011, of the 2,061 total women in Italy who had died, 1,459 died as a result of domestic violence.  (Photo by Pier Marco Tacca/Getty Images)

La domanda corretta sarebbe: “Chi ha paura delle immagini delle vittime delle torture degli aguzzini di Bashar Al Assad trafugate dalla Siria e divulgate all’estero da un ex fotografo della polizia militare del regime?”. Troppo lunga per un titolo.
Ai lettori del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano la vicenda è già nota da tempo: la Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, ha impedito l’esposizione nelle sale di Monte Citorio della mostra comprendente una selezione delle fotografie scattate da “Caesar”, impiegato della polizia militare siriana, incaricato di fotografare i corpi delle vittime decedute – dopo essere state atrocemente torturate – nelle carceri del regime di Assad. Una trentina di immagini, scelte fra le migliaia scattate da Caesar fra il 2011 e il 2013, già esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU, al Parlamento Europeo, al parlamento inglese e in molte università.
Il pretesto con cui la Boldrini ha opposto un rifiuto all’esposizione della mostra, curata dall’associazione “Non c’è pace senza giustizia”, appare francamente improbabile: le immagini sarebbero troppo crude e potrebbero turbare gli alunni delle scolaresche che visitano quotidianamente i locali della Camera e del Senato. Che si tratti di un pretesto, lo dimostra il fatto che, come si è detto, le stesse immagini sono state mostrate nelle sedi istituzionali di New York, Londra e Strasburgo, oltre che in alcune università. Per non parlare del fatto che, se la crudezza di certe immagini andasse veramente risparmiata alle scolaresche, bisognerebbe interrompere le visite organizzate per gli studenti ad Auschwitz e negli altri lager e, magari, proibire che i testi di storia ne pubblichino le fotografie… a meno che il problema non sia il fatto che le immagini dei lager di Hitler sono perlopiù in bianco e nero, mentre quelle dei lager di Assad sono a colori.

***

Proviamo ad andare oltre l’evidente pretestuosità del diniego opposto da Laura Boldrini all’esposizione delle fotografie di Caesar, anche se è difficile non osservare come offenda l’intelligenza dei cittadini italiani. L’esistenza in Italia di una forte e trasversale lobby che potremmo definire “filo Assad” è cosa nota, come è noto che tale lobby comprenda non solo attivisti sia di estrema destra che di “sinistra”, ma anche – e soprattutto – potenti settori del Vaticano, segnatamente quelli più reazionari, nonché la schiera di ammiratori italiani del presidente russo Vladimir Putin, schiera anch’essa forte e trasversale, comprendendo la Lega di Salvini, tutte le formazioni della destra post missina (da Fratelli d’Italia della Meloni alla Destra di Storace) e quelle della destra più radicale, CasaPound e Forza Nuova incluse. A “sinistra”, invece, le ragioni del dittatore siriano sono validamente sostenute da alcuni personaggi che godono di una certa notorietà (come il giornalista Giulietto Chiesa), da tutta la galassia di partitini più o meno “comunisti” e da alcuni settori che si definiscono “pacifisti”. Dulcis in fundo, nell’armata italiana che difende la trincea di Assad si è arruolato anche il Movimento 5 Stelle, che ha chiesto la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Damasco e la riapertura dell’ambasciata della Siria a Roma, chiusa nella primavera del 2012 dal governo italiano, dopo l’ennesima strage di civili operata dalle truppe del dittatore.
E’ possibile che la pressione di queste forze abbia influito in maniera decisiva sulla scelta di Laura Boldrini di oscurare le immagini di Caesar? Solo in parte. Probabilmente, la motivazione di una scelta tanto umiliante per la dignità dell’istituzione che rappresenta risiede nella volontà di non creare difficoltà alla politica estera del governo Renzi, basata sulla spasmodica ricerca di consensi e di sostegno “a prescindere”, che si tratti dei monarchi sauditi o del Pinochet del Cairo, il generale golpista il cui regime è responsabile di crimini quantitativamente lontani da quelli commessi da Assad, ma qualitativamente non meno feroci, come ha tristemente dimostrato a tutti la vicenda di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e assassinato al Cairo da una delle tante squadracce delle forze di sicurezza di Al Sisi.
Il servilismo di Renzi in politica estera è perlomeno pari alla sua spocchiosa arroganza in politica interna, aldilà delle cartucce a salve sparacchiate contro l’Europa dei burocrati, a beneficio del tentativo di rosicchiare qualche voto nell’area crescente dell’antipolitica (che, più correttamente, dovremmo definire con il termine storico di qualunquismo). La signora Boldrini non ha fatto altro che accodarsi al corteo dei cortigiani del nuovo “uomo forte” della politica italiana, ben deciso a tenersi buoni i vari Al Sisi, Rouhani, Al Saoud – con annessi Rolex in omaggio – ed anche Putin, probabilmente senza nemmeno rendersi conto che questi giochini somigliano più ai baciamano di Berlusconi a Gheddafi che alle sottigliezze diplomatiche di Andreotti. E la signora Boldrini, nella carica che ricopre, si è mostrata molto più simile a Irene Pivetti che a Nilde Iotti.

 

Fonte:

LA MACCHINA DELLA MORTE DEL REGIME DI ASSAD. IL RACCONTO DI “CAESAR”.

Buchenwald_Victims

caesar 15

Buchenwald ieri                                                                     Damasco oggi

Un libro che tutti dovrebbero leggere, soprattutto i tanti ignavi che, di fronte a quello che sta avvenendo in Siria, pensano che Assad sia “il male minore”. Leggendo La macchina della morte, della giornalista francese Garance Le Caisne, sembra di tornare indietro nel tempo, quando si inorridiva di fronte alla consapevolezza di un’altra macchina della morte: quella dei lager nazisti.

L’autrice e gli editori del libro hanno scelto di non pubblicare le immagini che “Caesar”, ex fotografo della polizia militare siriana, ha fatto uscire clandestinamente dal Paese, motivando così la loro scelta. “Buona parte delle foto sono visibili in rete. Non avremmo saputo quali scegliere, né con quale criterio. E poi si tratta di immagini davvero molto, molto forti. Alcuni potrebbero esserne turbati al punto da non volere o potere proseguire la lettura”. E’ una scelta condivisibile, perché le immagini dell’orrore della tragedia siriana sono da anni a disposizione di tutti, attraverso le migliaia di filmati e di fotografie che gli attivisti rivoluzionari hanno postato sui social network e che documentano la repressione delle manifestazioni, gli effetti dei bombardamenti del regime, le torture… ma questa valanga di immagini ha finito per mitridatizzare l’opinione pubblica, rendendola insensibile, abituandola a convivere con lo scempio. La parola scritta, al contrario, nella sua apparente freddezza, finisce con il rendere comprensibile e razionale quello che le immagini possono lasciare intuire e che, a fronte della loro insostenibilità, contribuiscono a rimuovere.

Leggendo La macchina della morte è impossibile non cogliere le analogie con l’organizzazione dello sterminio degli Ebrei, degli Slavi, dei comunisti, degli oppositori – veri o presunti – costruita dai gerarchi del III Reich. La stessa ossessione per la burocrazia, la stessa paranoica ripetitività, la stessa banalizzazione del Male. Del resto, gli apparati repressivi del regime degli Assad sono stati costruiti con la consulenza e la supervisione di Alois Brunner, assistente di Adolf Eichmann, il quale lo definì il suo uomo migliore. Come comandante del campo di internamento di Drancy dal giugno 1943 all’agosto 1944, Alois Brunner fu responsabile dello sterminio nelle camere a gas di oltre 140.000 ebrei. Dopo la sconfitta del nazifascismo, sfuggito alla cattura, Brunner, dopo un lungo girovagare, trovò rifugio in Siria, dove il regime di Assad padre gli fornì protezione e un impiego come insegnante di tecniche di tortura presso i servizi segreti del regime. Scorrendo le pagine de La macchina della morte non si può non constatare come gli “insegnamenti” di Brunner siano stati diligentemente appresi e messi in pratica.

Altri insegnamenti, invece, sembrano essere stati dimenticati, come rivelano le parole di Margit Meissner, sopravvissuta all’Olocausto: “I rifugiati che fuggono dalla Siria hanno lo stesso sguardo disperato che ho visto in chi fuggiva dal regime nazista. Ma la distruzione degli ebrei in Europa era segreta, e le poche informazioni vennero respinte perché la gassificazione di civili era ritenuta improbabile. La crisi umanitaria in Siria non è certo un segreto. E’ stata documentata per quattro anni ed è, a detta di tutti, la più grande crisi di rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale. (…) Quando i fatti della Seconda Guerra Mondiale sono stati conosciuti, ho creduto che una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere di nuovo. Che pensiero ingenuo”.

la macchina della morte

 

Fonte:

AUSCHWITZ A DAMASCO

Auschwitz, Damasco

Il dossier “Caesar”

“Voi potete prendere fotografie da chiunque e dire che si tratta di tortura. Non c’è alcuna verifica di queste prove, quindi sono tutte accuse senza prove”

Bashar Assad alla rivista Foreign Affairs, 20 gennaio 2015

Non è dato sapere quante persone, in Italia, siano informate a proposito della vicenda di “Caesar” e delle sue fotografie. In sintesi, “Caesar” è lo pseudonimo di un disertore dell’esercito siriano, un fotografo militare che, per circa due  anni, dall’inizio della rivolta contro il regime della dinastia Assad fino al 2013, era incaricato di documentare – fotografandoli – i corpi degli oppositori morti nei centri di detenzione di Damasco. Nell’estate di quell’anno, “Caesar” riesce ad uscire dalla Siria, portando con sé le copie delle immagini di decine di migliaia di cadaveri di vittime dei carnefici del regime siriano.

Ad oggi, a non tutte le immagini è stato possibile attribuire con sicurezza un’identità accertata, ma ce n’è quanto basta per parlare di una Auschwitz del XXI secolo. Recentemente, l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha eseguito un’analisi delle immagini e delle informazioni fornite da Caesar, pubblicando poi un dettagliato rapporto (in inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, giapponese, cinese e russo) che costituisce un atto d’accusa semplicemente sconvolgente, intitolato Se i morti potessero parlare – Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria. Le foto di “Caesar” sono state consegnate a HRW dal Movimento Nazionale Siriano e l’organizzazione umanitaria si è concentrata su 28.707 immagini che, sulla base di tutte le informazioni disponibili, mostrano almeno 6.786 persone morte in carcere o dopo essere stati trasferiti dal carcere in un ospedale militare, come il n. 601 di Mezze, Damasco. “Le foto rimanenti – scrive HRW – sono di attacchi a luoghi o di corpi identificati dal nome come appartenenti a soldati governativi, altri combattenti armati o a civili uccisi in attacchi, esplosioni o attentati”.

Le foto di “Caesar” hanno fatto il giro del mondo: sono state esposte in una mostra al Palazzo di Vetro dell’ONU a New York e al Parlamento Europeo di Strasburgo, a Londra e a Parigi. In Francia, la giornalista Garance Le Caisne ha raccolto il racconto di “Caesar” in un libro – “Opèration Cèsar” (Stock editore) – uscito lo scorso ottobre e la magistratura francese ha avviato un’inchiesta nei confronti del regime di Assad per crimini contro l’umanità, sulla base dell’art. 40 del Codice di Procedura Penale, che obbliga ogni autorità pubblica a trasmettere alla giustizia le informazioni in suo possesso se è venuta a conoscenza di un crimine o di un delitto. Gran parte della segnalazione inviata dal Ministero degli Esteri di Parigi alla magistratura si basa sulla testimonianza di “Caesar”.

In Italia, la vicenda di “Caesar” appare largamente sottovalutata, se non oggetto di una censura strisciante che lascia spazio alla propaganda dei sostenitori locali del dittatore siriano, molto numerosi a destra – dove contano sul sostegno di formazioni come la Lega Nord, Fratelli d’Italia e tutti i gruppi dell’estremismo nero, da Forza Nuova a CasaPound – ma presenti anche a “sinistra”, nei partiti di ascendenza stalinista, come i Comunisti Italiani o il PC di Marco Rizzo, o nei vari movimenti sedicenti “antimperialisti”. Quello che fa la vera differenza rispetto ad altri Paesi europei, probabilmente, è il sostegno garantito alla dittatura siriana da ampi settori del Vaticano, un sostegno esplicito nel caso degli esponenti della Chiesa Melchita, la cui sede romana (la Basilica di Santa Maria in Cosmedin, in Piazza della Bocca della Verità) è l’ambasciata de facto del regime siriano, dopo l’espulsione dell’ambasciatore e la chiusura dell’ambasciata di Damasco in Italia, avvenuta nel 2012. Leggi l’articolo intero »

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