Antimafia, una manifestazione in ricordo di Rita Atria e di tutti i testimoni di giustizia

Antimafia, una manifestazione in ricordo di Rita Atria e di tutti i testimoni di giustizia
 
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Regista teatro civile e addetta stampa M5S
Martedì 26 luglio è una giornata importante: a Roma (dalle ore 19.30 alle ore 21 in viale Amelia 23) verrà ricordata la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria a ventiquattro anni dalla sua prematura scomparsa. La storia di Rita è una di quelle storie che deve essere conosciuta e raccontata, è una di quelle storie che arriva dritta al cuore. Figlia del boss di Partanna a soli 17 anni decise di seguire le orme della cognata Piera Aiello e di raccontare alla magistratura tutto ciò che sapeva. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu il giudice Paolo Borsellino a cui si legò come a un padre. Quando la mafia, dopo la strage di Capaci mise di nuovo in ginocchio Palermo il 19 luglio 1992, Rita si suicidò lanciandosi dal settimo piano di un palazzo: non ce la faceva a vivere senza il suo caro Borsellino.

Troppo giovane, ripudiata dalla famiglia e dagli amici era, proprio come tutti gli adolescenti, fragile. Rita Atria in nome della giustizia, rinunciò a tutto, anche all’affetto di quella madre che, poco dopo, avrebbe distrutto la sua lapide a suon di martellate. La piccola Rita è stata una testimone di giustizia, non una pentita: non commise mai nessun reato di stampo mafioso. In un Paese come l’Italia, così duramente colpito da un profondo radicamento della criminalità organizzata, i testimoni di giustizia rappresentano una linfa vitale e vanno assolutamente protetti. I cittadini devono essere incoraggiati a denunciare e devono sentirsi al contempo tutelati dallo Stato.

Ma qual è la situazione dei testimoni di giustizia in Italia e quali le proposte in Parlamento? La proposta di legge di riforma del sistema tutorio per i testimoni di giustizia è stata assegnata alla Commissione giustizia della Camera, anche se non è ancora iniziato l’iter legislativo. La proposta, a prima firma della presidente dem della Commissione antimafia Rosy Bindi, è stata sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari ed è il frutto del lavoro del V Comitato della Commissione coordinato dal deputato Pd Davide Mattiello, con un sostanziale contributo del deputato M5s Francesco D’Uva.

Quali le novità salienti della proposta?

– se fosse approvata, sarebbe la prima legge dedicata ai testimoni di giustizia: infatti ad oggi le norme che li riguardano sono state inserite nella normativa sui collaboratori di giustizia – che invece risale al 1991 – e questo contribuisce alla confusione grave e dolorosa tra testimoni e collaboratori;

– viene superata la dualità tra le misure di sostegno previste per le speciali misure di protezione e lo speciale programma di protezione in modo da adoperarle tutte con maggior flessibilità e aderenza ai casi particolari;

– è prevista la figura del “referente” che deve accompagnare il protetto e la sua famiglia dall’inizio alla fine del percorso garantendo continuità, affidabilità e capacità di interfacciarsi con le parti dell’amministrazione pubblica;

– è prevista per la prima volta la protezione di coloro, soprattutto donne con minori, che pur non avendo informazioni rilevanti da offrire all’autorità giudiziaria – essendo inserite in contesti familiari criminali e non essendo in alcun modo coinvolte nella commissione dei delitti – decidano di rompere il proprio legame familiare, scegliendo di ricominciare una vita altrove, con nuove generalità.

Segnali forti e importanti, di cui necessita il nostro Paese. E’ fondamentale che la proposta di legge sui testimoni di giustizia venga calendarizzata quanto prima. La relazione sui testimoni, non è un caso, è stata dedicata proprio alla preziosa figura di Rita Atria. Sì, perché Rita è l’emblema della libertà: Rita che voleva essere libera dai codici mafiosi della sua famiglia. Rita che, secondo l’associazione antimafie Rita Atria “comprese molto presto che, per essere veramente liberi e per lottare contro la mafia, si deve intraprendere un percorso continuo, travagliato, nel quale si deve combattere quotidianamente dentro di noi quel pensiero mafioso diffuso che rende accettabili arretramenti morali e che degrada come favore ciò che spetta come diritto”.

“Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi”.

L’appuntamento dunque è nella giornata di martedì 26 luglio dalle ore 19:30 alle ore 21:00 in Viale Amelia 23 per ripercorrerne la storia e la lotta, attraverso la lettura di passi del suo diario e di testi di denuncia sulle mafie. Quest’evento, dal titolo L’unica speranza è non arrendersi mai, è stato organizzato dal presidio romano dell’associazione antimafie “Rita Atria”.

Dal diario di Rita:

“Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/25/antimafia-una-manifestazione-in-ricordo-di-rita-atria-e-di-tutti-i-testimoni-di-giustizia/2932163/

Avola: Giovane si toglie la vita dopo una notte di violenze in questura

Sebastiano Caruso ha lasciato due lettere in cui muove pesanti accuse alla Polizia
Le ultime volontà: “Al mio funerale non voglio poliziotti”

C’erano tantissimi giovani ai funerali di Sebastiano Caruso, 27 anni, celebrati giovedì 23 giugno nel Chiesa di San Giovanni. Lacrime e applausi per dare l’addio a Sebastiano, un ragazzo benvoluto da tutti. E che era morto in modo tragico.

Si era impiccato il 18 giugno secondo alcuni per una delusione d’amore, in quanto era stato lasciato dalla fidanzata; secondo altri perchè la ditta di Noto in cui lavorava lo aveva licenziato. Ma il vero motivo che aveva spinto il ragazzo a togliersi la vita è un altro. E lo descrive lui stesso in due lettere che ha lasciato ai genitori e al fratello. In quelle missive, Sebastiano esprime anche un desiderio. O meglio una sua ultima volontà . Ha chiesto ai genitori di impedire l’ingresso in chiesa durante il funerale agli agenti della Polizia di Stato.

Come mai tanto odio verso gli operatori delle forze dell’ordine? Alla domanda risponde l’avvocato Paolo Signorello, che nei prossimi giorni presenterà alla Stazione dei Carabinieri e negli uffici della Procura della Repubblica una denuncia contro un poliziotto in particolar modo, accusato di aver picchiato, ammanettato senza alcun motivo Sebastiano Caruso e di averlo umiliato in quanto, per togliergli le manette, avrebbe preteso che il ragazzo chiedesse scusa a lui e a tutti i suoi colleghi in servizio al Commissariato della Polizia di Stato di Avola.

Lo hanno trattenuto tutta la notte al Commissariato ma non è stato redatto alcun verbale. Nelle due lettere Sebastiano Caruso scrive nome e cognome del poliziotto e anche lo pseudonimo: Lupin. In quelle due lettere il giovane avolese ha raccontato lo scontro verbale e fisico con alcuni poliziotti del Commissariato della Polizia di Stato di Avola, avvenuto sabato 11 giugno Dopo aver terminato di scrivere le missive, Sebastiano è uscito di casa e si è recato in contrada Bocchini, dove si è arrampicato sopra un albero, si è stretto attorno al collo un cappio ricavato da un cavo elettrico e si è lasciato cadere nel vuoto, morendo asfissiato.

Nelle missive Sebastiano Caruso racconta che sabato 11 giugno si trovava in compagnia della fidanzata, quando all’improvviso è stato colto da un impellente stimolo di dover fare la pipì. Nella strada in cui si trova a transitare non ci sono locali pubblici, per cui, per non farsela addosso, decide di appartarsi in un punto sperando di non essere visto da alcuno. Mentre sta orinando sopraggiunge un’auto civetta della Polizia, e uno dei due componenti dell’equipaggio si avvicina a Sebastiano e lo redarguisce. Il giovane, ritenendo eccessivamente pesanti le frasi del poliziotto, risponde per le rime. Il poliziotto non avrebbe gradito la reazione di Sebastiano Caruso e, dinanzi agli occhi della sua fidanzata, lo avrebbe malmenato.

Il ragazzo è stato condotto in Commissariato con le manette ai polsi, e trattenuto senza un valido motivo al posto di Polizia. Su richiesta di Sebastiano, i poliziotti lo hanno accompagnato anche al Pronto Soccorso dell’ospedale Di Maria, dove i medici di turno gli hanno riscontrato una contusione alla mano destra e delle ferite lacero contuse.

Durante la visita medica, i poliziotti non hanno tolto le manette dai polsi di Sebastiano Caruso. Lui si è sfogato con i sanitari facendo nome e cognome del suo aggressore, ma i medici non hanno riportato nella cartella clinica il nome del poliziotto che avrebbe picchiato il giovane, ma si sono limitati a scrivere “aggredito da persona a lui nota”. Poi alle 5 di mattina, il ragazzo è stato rilasciato, ma prima ha dovuto chiedere umilmente scusa a tutti i poliziotti che si trovavano nel Commissariato e soprattutto all’agente che lo aveva malmenato. Ritornato a casa Sebastiano Caruso ha raccontato ai genitori e al fratello Giuseppe, 34 anni, il disumano trattamento cui era stato sottoposto al posto di Polizia.

L’indomani tutta la famiglia si è recata nella sede del Commissariato per chiedere conto e soddisfazione. Ma, anzichè ottenere le spiegazioni che speravano di avere, la situazione è ben presto degenerata. E dal Commissariato i fratelli Giuseppe e Sebastiano Caruso sono usciti con una denuncia a piede libero per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Ritenendo di essere stato vittima di soprusi da parte degli operatori di polizia, Sebastiano Caruso si è recato nello studio dell’avvocato Paolo Signorello, cui ha manifestato l’intenzione di voler sporgere querela contro gli agenti e in particolar modo nei confronti del poliziotto che a suo dire lo aveva picchiato e ammanettato senza un valido motivo. L’indomani però ha cambiato idea e ha telefonato al legale per chiedergli di annullare tutto. Sembrava avesse smaltito l’ira contro l’agente Lupin, ma non era così.

Nella tarda serata tra venerdì 11 e sabato 12 giugno, Sebastiano Caruso ha scritto le due lettere, poi nel cuore della notte è uscito e si è recato in contrada Bocchini dove si è impiccato. Sul posto di sono recati i Carabinieri che hanno immediatamente informato il Pubblico Ministero Giancarlo Longo, il quale ha disposto l’autopsia sul corpo di Sebastiano Caruso, affidando l’incarico al medico legale Franco Coco. Adesso la famiglia di Sebastiano Caruso ha chiesto all’avvocato Paolo Signorello di presentare la querela contro gli agenti del Commissariato di Polizia di Avola

da diario1984

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/avola-giovane-si-toglie-la-vita-notte-violenze-questura/

 

Torture di Stato: gennaio 1982, sevizie ai brigatisti

26 gennaio 1982 – Verona

torture di lenardo

La “squadra speciale” UCIGOS diretta da Umberto Improta e Gaspare De Francisci (e composta da Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano Di Gregorio) fa irruzione nella casa della militante di sinistra Elisabetta Arcangeli, il cui nome era stato fatto da Paolo Galati fermato e portato in Questura in quanto fratello di Michele Galati in carcere con la accusa di avere partecipato al sequestro Taliercio, e che l’aveva indicata come compagna di quel Nazareno Mantovani arrestato il 23 gennaio e “inutilmente” sottoposto a tortura dalla squadretta del Dottor De Tormentis alias Nicola Ciocia.

In casa della Arcangeli i militari trovano l’attuale compagno, Ruggero Volinia che viene brutalmente torturato per due giorni insieme alla compagna, finchè la notte del 27 crolla e ammette di fare parte delle BR con il nome di Federico e di avere guidato il furgone che il 17 dicembre 1981 aveva trasportato il sequestrato Dozier a Padova e conduce la squadra dei NOCS alla base di Via Pindemonte dove al mattino del 28 verrà liberato il generale americano. (ricostruzione tratta da “Colpo al cuore” di Nicola Rao ed. Sperling&Kupfer).

I militanti che hanno dichiarato all’epoca di essere stati torturati al momento dell’arresto dalle forze dell’ordine sono Alberto Buonoconto, Enrico Triaca, Luciano Farina, Nazareno Mantovani, Francesco Giordano, Maurizio Iannelli, Michele Galati, Elisabetta Arcangeli, Ruggero Volinia, Fernando Cesaroni, Gianfranco Fornoni, Armando Lanza, Ennio Di Rocco, Stefano Petrella, Anna Maria Sudati, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella, Antonio Savasta, Emilia Libera, Giovanni Ciucci, Alberta Biliato, Roberto Vezzà, Paola Maturi, Giovanni Di Biase, Annarita Marino, Lino Vai, Sandro Padula, Giustino Cortiana, Daniele Pifano, Arrigo Cavallina, Luciano Nieri, Giorgio Benfenati, Aldo Gnommi, Federico Ceccantini, Adriano Roccazzella, Sisinnio Bitti, Umberto Lucarelli, Roberto Villa, Gioacchino Vitrani, Annamaria e Michele Fatone.

Il 16 ottobre 2013 la Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della condanna per calunnia di Triaca, ha stabilito che in occasione del suo arresto a Roma del 1978 lo stesso fu sottoposto a reiterata tortura con il metodo del water-boarding dalla squadretta di Nicola Ciocia che in seguito, dimessosi dalla Polizia, farà fino al 2013 l’apprezzato  avvocato a Napoli.

Alle ripetute interpellanze dei radicali, ed in particolare dell’On. Sciascia, all’epoca il Ministro Rognoni aveva risposto “sdegnato” che “lo Stato usava solo metodi democratici” e che il solo metterlo in dubbio significava “fiancheggiare il terrorismo”. Per questi fatti nessun poliziotto è mai stato condannato, la denuncia di Alberto Buonoconto (in seguito morto suicida) fu archiviata dall’allora PM Lucio Di Pietro che in seguito si renderà protagonista del caso Tortora, quella di Di Lenardo vide la immunità a Salvatore Genova divenuto onorevole grazie al PSDI (della “fermezza” ai tempi di Moro) e la prescrizione degli altri, Cesare Di Lenardo si trova tuttora in carcere dal 1982 senza mai avere usufruito di un giorno di permesso. Oscar Fioriolli, che ebbe a torturare anche nelle parti intime Elisabetta Arcangeli per diretta testimonianza del presente Genova, verrà nominato dal Questore Manganelli direttore della nuova scuola di addestramento della polizia in risposta alle mattenze di Genova Diaz e Bolzaneto.

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/26-gennaio-1982-verona/

Il mio migliore amico si è suicidato per omofobia: “Adesso vado al posto suo ai Gay Pride coi miei figli”. L’intervista

Intervista di Flavia Viglione.

Il suo amico si è suicidato per omofobia. Adesso Rita è ogni anno al Gay pride di Reggio Calabria con la sua maglietta e i figli.



“Ora le sue lotte sono le mie. Al Pride di Reggio avevo la sua maglietta. Volevo che ci fosse, che vedesse e gioisse dei piccoli passi in avanti che la nostra città compie. Avrei voluto che avesse capito che anche qui era possibile, solo ci voleva più tempo…”. Il suo Sanz si è suicidato per omofobia. Adesso Rita gli fa rivivere ogni anno il Gay pride di Reggio Calabria indossando la sua maglietta, accompagnata dai suoi figli e sostenuta dal compagno. LGBT News Italia l’ha intervistata.


È stata l’immagine più tenera del Gay pride di Reggio Calabra 2015: una mamma bellissima con una corona di fiori colorati e il suo bambino in braccio. Abbiamo cercato di saperne di più e abbiamo scoperto, dietro quel sorriso raggiante, una storia struggente che vogliamo raccontarvi. Un amico, che chiamava fratello, distrutto e ridotto pelle e ossa dal cancro dell’omofobia e della vergogna che non lascia scampo alle famiglie e alla società. Il verme della depressione stroncato con un colpo di pistola. Lei adesso non perde un solo Pride, proprio in uno dei territori d’Italia più ostili all’amore in tutte le sue forme. Così, come a far rivivere la presenza di lui in quella piazza e dimostrare pubblicamente che la lotta per i diritti LGBT appartiene a tutti gli eterosessuali; nell’amara consolazione che il ricordo di quel sacrificio possa salvare qualche altra povera vita persa nel pozzo della disperazione familiare, perché le famiglie capiscano che non esiste alcun giudizio della gente che conti più di un abbraccio a tuo figlio quando ha più bisogno di te e vorrebbe sentirsi dire: “Ti ho messo al mondo e ti amo, perché non può esserci nulla di esterno fra noi e te che possa impedirci di amarti comunque tu sia e ovunque tu sia”.

Rita il suo bambino e il marito. Al Gay Pride nel ricordo di un suicidio per omofobia

Come mai un impegno così forte per i diritti LGBT?

L’impegno per la causa LGBT non ha una storia particolare, è un sentimento di partecipazione alla lotta per l’uguaglianza che ho anche nei confronti di altre minoranze e che ricordo di aver provato già da piccolissima. Empatia verso chi era vittima di soprusi o ingiustizie di varia natura ed entità, dal gruppo di bulletti alle violenze sugli animali. Dovevo intervenire in qualche modo e credo che tutto questo sia solo cresciuto con me.

Cosa è successo al tuo amico?

La storia del mio amico è una storia di ordinaria tristezza…come lui tanti ragazzi sono stati minati nel profondo dalla discriminazione, dalla mancanza di accettazione, dall’esclusione, dall’allontanamento, tutte cose che spingono chiunque sia dotato di una sensibilità fuori dal comune e una fragilità interiore a sgretolarsi lentamente. Questo è accaduto: trauma dopo trauma perdeva un po’ di se stesso, colpo dopo colpo un po’ della sua gioia di vivere (e vi assicuro che ne aveva da vendere). Era lui l’anima della festa, il burlone, il compagnone, sorriso e battuta sempre pronti. Si parlava di mentalità, era arrabbiato e ferito da ignoranza e tentativi di omologazione, voleva distinguersi, esprimersi in tutte le sfaccettature della sua complessa personalità. Il non venire compreso però lo alienava ogni volta. Ho assistito a scontri di idee e battaglie per il rispetto, non si tirava indietro mai, poi però partiva per Paesi lontani e più tolleranti alla ricerca della sua libertà, ma quello spazio avrebbe voluto averlo qui nella sua terra, a casa sua. Tornava sempre ma le sue ‘fughe’ non cancellavano i problemi che lo stancavano sempre più, la ribellione veniva sostituita dalla rassegnazione nelle continue discussioni. Era demoralizzato e sfiduciato. Ci si consolava confidandoci, aveva sollievo a sentirsi capito. Io in realtà non faticavo a capire lui, ma le persone con cui aveva a che fare che lo ferivano di continuo. Venne ad abitare con la mia famiglia e diceva di sentirsi bene con noi. Si usciva, giocava con la mia bimba, ma arrivarono altri duri colpi. Poi l’ennesima partenza, stava per nascere la mia secondogenita e lui partiva per la Spagna con la promessa di ritrovarci tutti dopo un paio di mesi. Non andò bene, l’ennesimo trauma e smise di mangiare e parlare. Ricoverato in una clinica del luogo, l’hanno riportato qui che era l’ombra di sé stesso. Depressione e schizofrenia, dicevano i dottori, e lo imbottivano di farmaci che facevano peggio. Tutti abbiamo provato di tutto. Tutto inutile. Due anni di tristezza, di speranze, di tentativi. In due anni c’ha provato due volte a farla finita. Poi il 12 luglio 2012 un colpo di pistola ha segnato la fine della sua vita, della sua sofferenza e l’inizio della mia. Era fragile come il cristallo ma è stato provato come la roccia dalla vita..troppo duramente. Come il cristallo è andato in pezzi e io ancora non posso accettarlo. Ora le sue lotte sono le mie. Al Pride di Reggio avevo la sua maglietta. Volevo che ci fosse, che vedesse e gioisse dei piccoli passi in avanti che la nostra città compie. Avrei voluto che avesse capito che anche qui era possibile, solo ci voleva più tempo…

Come ha fatto a procurarsi una pistola?

Come ha fatto non è stato accertato ufficialmente, le indagini sono state sommarie e frettolose.

Abbiamo parlato con tante persone, in Calabria emerge un quadro di omofobia davvero spaventoso e a nostro avviso peggiore di quello di qualsiasi altra regione. È davvero così? Dove rintracceresti le cause?

È così purtroppo, ma la situazione sembra migliorare. Le cause vanno cercate all’interno delle famiglie e dei gruppi religiosi (che, bisogna dirlo, con Dio non hanno niente a che fare). I padri qui sono molto inquadrati nella figura di uomo-macho, anche piuttosto duro, anziché in quella di padre affettuoso e amorevole. A loro volta sono stati educati così. Poi ho sentito con le mie orecchie fanatici religiosi affermare che le persone omosessuali sono contro Dio e che finiscono per ammalarsi di depressione proprio per questo. Non puoi immaginare come queste parole siano devastanti per una psiche giovane o fragile ed è allora che diventa fondamentale il sostegno della famiglia.

Rita e la sua famiglia: Solo figli gay friendly

Pensi che siano molte le persone eterosessuali che portano avanti un impegno e un interesse forte come il tuo?

Non so quante persone ‘esterne’ si impegnino nella causa, sono a conoscenza di qualcun altro che lo fa come il mio compagno e alcuni amici. E spero che ce ne siano più di quanti immagini e che le campagne di sensibilizzazione le faccia aumentare sempre di più.

Cosa diresti alle persone non direttamente interessate alla questione dei diritti LGBT per far capire quanto sia fondamentale che ci diano il loro sostegno?

Credo che sia molto importante che chiunque, di qualsiasi orientamento sessuale, scenda in piazza, si esponga e prenda parte alla causa, semplicemente perché è giusta, non perché è la propria. Queste storie dovrebbero indignare e offendere chiunque poi pretende di essere definito essere umano. Chiunque dovrebbe voler vedere finire questo capitolo di sofferenza gratuita e inutile e iniziare a rispettare le differenze fra individui che non fanno altro che arricchire invece di spingere questi ragazzi al disprezzo di sé e all’autodistruzione. La morte per suicidio di uno di noi è il nostro fallimento come società. Come comunità.

Famiglia di Mamma e papà al Pride dopo il suicidio per omofobia

Continuo ad avere la speranza che il mondo possa diventare un mondo migliore. Ho tre figli e il mio impegno è soprattutto rivolto nell’educare loro al rispetto e all’amore, cosicché la catena continui…

Se qualcuno dei tuoi figli da grande ti confidasse di essere omosessuale. Come reagiresti?

Se uno dei miei figli mi dicesse di essere omosessuale gli starei più vicina, accertandomi che sia sicura o sicuro di avere il sostegno, la comprensione e l’amore di sua madre in ogni scelta e in ogni difficoltà. Gli direi solo di cercare la sua felicità ovunque la trovi, di difendere l’amore in ogni sua forma e di non cercare per forza comprensione o rispetto dove non può trovarlo, ma di pretendere la libertà di essere ciò che vuole essere. Sempre!

 

 

 

 

Fronte:

 

http://www.lgbtnewsitalia.com/intervista_2015_08_07_il-mio-migliore-amico-si-e-suicidato-per-omofobia-adesso-vado-al-posto-suo-ai-gay-pride-coi-miei-figli-intervista/

Alberto Buonoconto

Di Davide Steccanella:

 

20 dicembre 1980: muore suicida nella casa della propria madre a Napoli il nappista Alberto Buonoconto, arrestato nel ‘75 e a lungo sottopposto ad una dura carcerazione speciale. Fu uno dei primi a subire le torture di polizia del Dr. De Tormentis, il funzionario UCIGOS Nicola Ciocia, in seguito diventato avvocato a Napoli. Il 16 ottobre 2013 la Corte di Appello di Perugia riconoscerà per la prima volta, e sulla base delle testimonianze di Salvatore Genova, Nicola Rao e Matteo Indice, che in quegli anni in Italia venne fatto uso della tortura revocando la condanna per calunnia di Enrico Triaca, che nel 1978 aveva denunciato il “trattamento de Tormentis” in occasione del proprio arresto romano. Anche Buonoconto aveva denunciato nel 1975 Nicola Ciocia e la sua “squadretta”, ma il PM era quel Lucio Di Pietro che anni dopo sarà tra gli infausti protagonisti del “caso Tortora”.

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10204222321131810&set=a.1057213904180.2009890.1040825023&type=1&theater

 

Si impicca dopo le accuse di spaccio di droga: tre poliziotti condannati

Anton Alberti si è tolto la vita a Soresina, Cremona, il 15 settembre 2012, dopo essere stato perquisito e sospettato di essere un pusher. Ma era innocente. Gli agenti condannati per violazione di domicilio e falso ideologico

di | 3 luglio 2014

Si impicca dopo le accuse di spaccio di droga: tre poliziotti condannati

 

A Cremona tre poliziotti sono stati condannati per falso ideologico e per avere violato il domicilio di un giovane, morto suicida dopo essere stato ingiustamente accusato di essere uno spacciatore. Il 25enne Anton Alberti – bielorusso di Chernobyl adottato da una famiglia di Soresina, in provincia di Cremona, quando aveva 7 anni – si è tolto la vita il 15 settembre 2012. Prima è stato perquisito dalla polizia a seguito della segnalazione di due extracomunitari che, trovati in possesso di sostanze stupefacenti da un pattuglia della Polstrada di Crema l’11 settembre 2012, accusano il giovane di essere il pusher che li aveva riforniti.

Non essendo del posto e non conoscendo Anton, gli uomini delle forze dell’ordine vanno nella caserma locale dei carabinieri. E anche a loro non risulta che Anton sia uno spacciatore. Arrivati a casa di Anton i poliziotti, che nel frattempo sono diventati cinque per l’arrivo di un’altra pattuglia a supporto, procedono ad una perquisizione. Il ragazzo quel giorno era in casa. Non era andato al lavoro perché aveva mal di schiena. Gli agenti lo portano in Questura “per identificarlo”. Nel tardo pomeriggio il giovane rientra a casa, e anche se in seguito sarà scagionato dalle accuse, è molto scosso da quello che gli è capitato. Il 13 settembre, poi, sulla stampa locale compare un articolo dove viene raccontata la cronaca del fermo e della perquisizione di un “ragazzo di Soresina originario della Bielorussia”, aggiungendo la falsa informazione del rinvenimento a casa dello stesso di sostanze stupefacenti. Era come fare il nome e cognome di Anton Alberti e legarlo a un fatto di droga.

Anton confida tutta la sua amarezza anche al datore di lavoro, che gli consiglia di rivolgersi a un avvocato. Ma sabato 15 settembre 2012 il corpo del ragazzo senza vita viene rinvenuto dalla madre: il giovane si è impiccato. Lascia un messaggio ai parenti in cui dice di “considerarsi indegno” del loro affetto e i carabinieri di Cremona decidono di indagare sui motivi di quel gesto. Vengono così a sapere dell’operazione della Polstrada, della perquisizione e dell’articolo sul giornale e trasmettono gli atti alla Procura. Le indagini, condotte dal Pubblico ministero di Cremona, Francesco Messina, durano 3 mesi e portano al rinvio a giudizio di 5 agenti di polizia.

Escludendo sin da subito l’ipotesi accusatoria dell’istigazione al suicidio, il 10 giugno scorso due agenti sono stati condannati dal Tribunale di Cremona rispettivamente a un anno e due mesi e a nove mesi, per violazione di domicilio e un terzo a nove mesi per falso ideologico. Tutti assolti (compresi altri due agenti) dall’accusa di sequestro di persona. Si attendono le motivazioni delle sentenza, ma per il giudice è chiaro che nessuno poteva violare il domicilio di Anton. “Una decisione che siamo certi verrà ribaltata nei successivi gradi di giudizio”, ha detto Daniel Segre del Sap di Cremona. Per l’avvocato Luca Landi, legale di parte civile in rappresentanza della famiglia di Anton Alberti, si tratta invece di “una sentenza storica, che stabilisce le colpe della Polizia anche quando le violenze sono solo verbali o psicologiche e non fisiche”.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/03/si-impicca-dopo-le-accuse-di-spaccio-di-droga-tre-poliziotti-condannati/1045081/

Comunicato stampa Slai cobas sul suicidio dell’operaia Maria Baratto

Maria

Fiat Pomigliano / suicidi operai:  stavolta è toccato a Maria Baratto, 47 anni, operaia Fiat in cigs da anni del WCL fantasma di Nola, si è ammazzata con quattro coltellate al ventre lo scorso martedì 20 maggio nella sua casa di Acerra e solo ieri ne è stato rinvenuto il corpo dopo che i vicini hanno allertato i Carabinieri che con l’ intervento dei vigili del fuoco sono entrati nell’appartamento.

 

Maria faceva parte del Comitato Mogli degli Operai di Pomigliano d’Arco, e già il 2 agosto 2012 aveva postato sul sito delle “donne operaie” un suo articolo scritto l’anno precedente e già riferito  al suicidio di un operaio della Fiat Pomigliano ed al tentato suicidio di un altro operaio sempre della Fiat di Pomigliano. 

 

Il suo scritto che di seguito riportiamo è un lucido testamento politico e sindacale:  “la nitida rappresentazione dell’attuale condizione e solitudine operaia fotografata dall’interno”, una “forte accusa” alla Fiat ed alle complicità istituzionali, politiche e sindacali che stanno contribuendo al fenomeno dei suicidi operai, da Pomigliano a Nola all’intero lavoro dipendente e fino ai piccoli commercianti. Appena lo scorso febbraio si è suicidato un altro operaio del reparto logistico fantasma di Nola: Giuseppe De Crescenzo impiccatosi nella sua casa di Afragola. 

 

SUICIDI IN FIAT di Maria Baratto post 2 agosto 2012 su www.comitatomoglioperai.it/?p=63    

 

NON SI  PUO’ CONTINUARE A VIVERE PER ANNI SUL CIGLIO DEL BURRONE DEI LICENZIAMENTI, L’INTERO QUADRO POLITICO-ISTITUZIONALE CHE, DA SINISTRA A DESTRA, HA COPERTO LE INSANE POLITICHE DELLA FIAT E’ RESPONSABILE DI QUESTI MORTI INSIEME ALLE CENTRALI CONFEDERALI”. 

 

Dopo aver lucrato negli anni scorsi finanziamenti pubblici multimiliardari lo speculatore Marchionne chiude e ridimensiona le fabbriche italiane e delocalizza la produzione all’estero per fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione.

 

A Pomigliano l’unica certezza dei cinquemila lavoratori consiste nella lettera di altri due anni di cassa integrazione speciale per cessazione di attività di Fiat Group Automobiles nella consapevolezza che buona parte di loro non saranno assunti da Fabbrica Italia.

 

Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta dell’iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori.

 

Anche per questo la lotta dei lavoratori Fiat contro il piano Marchionne ed a tutela dei diritti e dell’occupazione rappresenta un forte presidio di tenuta democratica per l’intera società”. Maria Baratto

 

 

 

Mercoledì prossimo, in occasione del presidio alla Regione Campania commemoreremo Maria, Giuseppe e gli altri lavoratori vittime degli “omicidi bianchi da speculazione e sfruttamento della Fiat” perché, come ha scritto Maria: la lotta dei lavoratori Fiat contro il piano Marchionne ed a tutela dei diritti e dell’occupazione rappresenta un forte presidio di tenuta democratica per l’intera società!

 

 

 

Slai cobas Fiat Alfa Romeo e terziarizzate – Pomigliano d’Arco, 25 maggio 2014

Fonte:

http://www.ilpasquino.net/comunicato-stampa-slai-cobas-sul-suicidio-delloperaia-maria-baratto/