BRASILE: ALMENO OTTO UCCISIONI DI POLIZIA DURANTE LE OLIMPIADI

Forze di sicurezza in Brasile
Forze di sicurezza in Brasile

Il Brasile ha perso la più importante medaglia di Rio 2016: diventare campione dei diritti umani“, ha dichiarato Atila Roque, direttore generale di Amnesty International Brasile.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani, a Rio de Janeiro durante lo svolgimento delle Olimpiadi sono state uccise almeno otto persone nel corso di operazioni di polizia e manifestazioni pacifiche sono state duramente represse.

Le autorità brasiliane hanno perso un’occasione d’oro per dare seguito alla promessa di adottare politiche in materia di sicurezza che avrebbero reso Rio una città sicura per tutti. L’unico modo per rimediare ai molti errori commessi durante le Olimpiadi è quello di assicurare indagini efficaci sulle uccisioni e sulle altre violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia e assicurare i responsabili alla giustizia” – ha aggiunto Roque.

Nel 2016 le uccisioni ad opera della polizia sono aumentate di mese in mese mentre Rio si preparava a dare il benvenuto al mondo.

Secondo l’Istituto per la pubblica sicurezza dello stato di Rio de Janeiro, in città la polizia ha ucciso 35 persone ad aprile, 40 a maggio e 49 a giugno, con una media sempre superiore a un omicidio al giorno.

Operazioni di polizia segnate dalla violenza si sono svolte per tutta la durata delle Olimpiadi in diverse parti di Rio, tra cui Acari, Cidade de Deus, Borel, Manguinhos, Alemão, Maré, Del Castilho e Cantagalo. Tre persone sono state uccise a Del Castilho, quattro a Maré e una a Cantagalo. Il bilancio potrebbe aumentare se arriverà la conferma di ulteriori morti in due altre favelas, Acari e Manguinhos.

Gli abitanti di queste zone hanno denunciato altre violazioni dei diritti umani da parte della polizia, come irruzioni nelle abitazioni, minacce di morte e aggressioni fisiche e verbali.

La “guerra alla droga” e l’uso di armi pesanti nel corso delle operazioni di sicurezza hanno posto a rischio la vita degli stessi agenti di polizia, almeno due dei quali sono stati uccisi nei primi 10 giorni delle Olimpiadi.

Nella prima settimana di svolgimento dei Giochi (5-12 agosto), nella regione metropolitana di Rio hanno avuto luogo 59 scontri a fuoco (in media, quasi otto e mezzo al giorno), rispetto ai 32 della settimana precedente.

Nello stesso periodo, la violenza armata ha causato almeno 12 morti e 32 feriti, secondo Cross-Fire, una app lanciata a luglio da Amnesty International per segnalare episodi di violenza nelle favelas.

Le manifestazioni di protesta sono state durante represse dalle forze di polizia, sia all’interno che all’esterno degli impianti sportivi. Dal 5 al 12 agosto, proteste pacifiche sono state sciolte con violenza, anche mediante l’uso di gas lacrimogeni e granate stordenti. Diverse persone sono state arrestate mentre altre sono state allontanate dagli impianti sportivi per il mero fatto d’indossare magliette su cui erano scritti messaggi di protesta, in violazione del diritto alla libertà d’espressione.

A San Paolo, il 5 agosto, la polizia ha represso una manifestazione con estrema violenza arrestando 100 persone, tra cui almeno 15 minorenni.

Al termine dei Giochi olimpici ci ritroviamo con politiche di pubblica sicurezza ancora più militarizzate, basate su una repressione molto selettiva, sull’uso eccessivo della forza e sull’impiego di agenti di polizia nelle favelas come se fossero in azione da combattimento. Il risultato già si è visto: l’aumento del numero delle uccisioni e di altre violazioni dei diritti umani, soprattutto ai danni di giovani neri” – ha commentato Roque.

Ancora una volta, l’eredità di un grande evento sportivo svolto in Brasile è stata macchiata dalle uccisioni di polizia e dalle violazioni dei diritti umani ai danni di manifestanti pacifici. Il Comitato olimpico internazionale e altri organismi che si occupano di organizzazione di eventi sportivi non devono permettere che questi si svolgano a scapito dei diritti umani delle persone” – ha concluso Roque.

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/Brasile-almeno-otto-uccisioni-polizia-durante-olimpiadi

DENTRO SAYDNAYA: CARCERE DELLE TORTURE DELLA SIRIA

Un video molto importante prodotto con enormi sforzi da ‪#‎Amnesty‬ International, che ha collaborato con Forensic Architecture, un’agenzia di ricerca con sede presso la Goldsmiths, University of London, per ricreare gli orrori di #Saydnaya attraverso un modello 3D interattivo.
#Saydnaya è un Carcere siriano di tortura vicino ‪#‎Damasco‬.
Il video contiene un esempio delle torture sistematiche che il regime di Assad pratica fino ad uccidere i detenuti, uno scorcio di inferno sulla terra.

 

Fonte:

https://www.facebook.com/NomeInCodiceCaesar/posts/931379510339575

TORTURE, CONDIZIONI DETENTIVE INUMANE E DECESSI DI MASSA NELLE PRIGIONI SIRIANE

Torture, condizioni detentive inumane e decessi di massa nelle prigioni siriane

Comunicato stampa 18 agosto 2016

Siria, una immagine dal rapporto di Amnesty International

Le terribili esperienze dei detenuti sottoposti a una tortura dilagante sono state rese note oggi da Amnesty International, in un rapporto che stima in 17.723 il numero delle persone morte in carcere in Siria dal marzo 2011, l’inizio della crisi: una media di oltre 300 morti al mese.

Il rapporto di Amnesty International, intitolato “Ti spezza l’umanità. Tortura, malattie e morte nelle prigioni della Siria“, denuncia crimini contro l’umanità commessi dalle forze governative di Damasco e ricostruisce l’esperienza provata da migliaia di detenuti attraverso i casi di 65 sopravvissuti alla tortura.

Da questi racconti, emergono le agghiaccianti e inumane condizioni delle strutture detentive gestite dai vari servizi di sicurezza siriani e nel carcere militare di Saydnaya, alla periferia della capitale. La maggior parte dei testimoni ha riferito di aver assistito alla morte di compagni di prigionia e alcuni hanno raccontato di essere stati tenuti in celle insieme a cadaveri.

Il campionario di orrori contenuti in questo rapporto ricostruisce in raccapriccianti dettagli le violenze da incubo inflitte ai detenuti sin dal momento dell’arresto e poi durante gli interrogatori, svolti a porte chiuse all’interno dei famigerati centri di detenzione dei servizi di sicurezza siriani: un incubo che spesso termina con la morte, che può arrivare in ogni fase della detenzione” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Da decenni le forze governative siriane usano la tortura per stroncare gli oppositori. Oggi viene usata nell’ambito di attacchi sistematici contro chiunque, nella popolazione civile, sia sospettato di non stare dalla parte del governo. Siamo di fronte a crimini contro l’umanità, i cui responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia” – ha aggiunto Luther.
I paesi della comunità internazionale, soprattutto Russia e Stati Uniti che condividono la direzione dei colloqui di pace sulla Siria, devono mettere questo tema in cima all’agenda delle discussioni tanto col governo quanto coi gruppi armati e sollecitare gli uni e gli altri a porre fine alla tortura” – ha proseguito Luther.

Amnesty International chiede inoltre il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza. Tutti gli altri detenuti dovrebbero essere sottoposti a un giusto processo in linea con gli standard internazionali oppure rilasciati. Osservatori indipendenti dovrebbero poter visitare immediatamente e senza ostacoli tutti i centri di detenzione.

Il rapporto di Amnesty International contiene nuove statistiche del Gruppo di analisi sui dati relativi ai diritti umani (Hrdag), un’organizzazione che usa un approccio scientifico per analizzare le violazioni dei diritti umani. Sulla base delle sue analisi, l’Hrdag ha concluso che tra marzo 2011 e dicembre 2015 nelle prigioni siriane sono morte 17.723 persone, oltre 300 al mese. Nei decenni precedenti il 2011, Amnesty International aveva riscontrato una media di 45 decessi in carcere all’anno, ossia tre o quattro al mese.

Si tratta, in ogni caso, di stime prudenti. Secondo l’Hrdag e Amnesty International, considerando le decine di migliaia di persone sottoposte a sparizione forzata nei centri di detenzione di tutta la Siria, il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.

In occasione del lancio del suo rapporto, Amnesty International ha anche collaborato con un team di specialisti di Architettura forense per creare una ricostruzione virtuale in 3D della prigione militare di Saydnaya. Utilizzando modelli architettonici e acustici e le testimonianze degli ex detenuti, il modello ricostruisce il terrore quotidiano vissuto all’interno della prigione e le agghiaccianti condizioni detentive.

Per la prima volta, mettendo insieme le tecniche tridimensionali e la memoria dei sopravvissuti, siamo in grado di entrare dentro uno dei più famigerati centri di tortura della Siria” – ha spiegato Luther.

La violenza in ogni momento

La maggior parte dei sopravvissuti, le cui testimonianze hanno contribuito al rapporto di Amnesty International, ha raccontato ad Amnesty International che le torture iniziano al momento stesso dell’arresto e durante il trasferimento nei luoghi di detenzione.

Qui, all’arrivo, i detenuti sono sottoposti al cosiddetto haflet al-istiqbal (“festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici).

Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” – ha raccontato Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama.

Alla “festa di benvenuto”, spesso seguono i “controlli di sicurezza” durante i quali le donne vengono sottoposte ad aggressioni sessuali e a stupri da parte di personale di sesso maschile.

All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subiscono costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, oppure semplicemente come punizione.

I metodi di tortura descritti dagli ex detenuti comprendono il dulab (“pneumatico”: il corpo della vittima viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico) e la falaqa (“bastonatura”, pestaggi sulle piante dei piedi), ma anche le scariche elettriche, lo stupro, l’estirpazione delle unghie delle mani o dei piedi, le ustioni con acqua bollente e le bruciature con sigarette.

Ali, detenuto presso la sede dei servizi di sicurezza militari di Homs, ha raccontato di essere stato sottoposto alla tortura dello shabeh (“impiccato”: il detenuto viene tenuto appeso per i polsi, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente per parecchie ore).

La combinazione tra sovraffollamento, mancanza di cibo e di cure mediche e insufficienza di servizi igienico-sanitari costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante, vietato dal diritto internazionale.

Le celle, hanno raccontato gli ex detenuti, erano così sovraffollate da rendere necessario fare i turni per dormire o, in alternativa, dormire rannicchiati.
Era come stare in una stanza di morti. Cercavano di farci fare quella fine” – ha raccontato un altro ex detenuto, Jalal.

“Ziad” (il nome è stato cambiato per proteggere la sua identità) ha denunciato che un giorno, nella sezione 235 dei servizi di sicurezza militari di Damasco, l’impianto di aerazione si è rotto e sette detenuti sono morti soffocati.

Ci prendevano a calci per vedere chi era morto e chi no. Ad alcuni di noi hanno ordinato di alzarci in piedi. In quel momento mi sono reso conto che c’erano sette morti, che avevo dormito accanto a sette cadaveri. Poi nel corridoio ho visto gli altri, circa 25 cadaveri“.

Gli ex detenuti hanno raccontato che l’accesso al cibo, all’acqua e ai servizi igienico-sanitari viene spesso limitato. La maggior parte di loro ha riferito di non aver mai potuto lavarsi adeguatamente. In questo ambiente, scabbia, pidocchi e altre infezioni proliferano. Poiché alla maggior parte dei detenuti vengono negate cure mediche adeguate, in molti casi i detenuti ricorrono a medicamenti rudimentali, ciò che ha contribuito al drammatico aumento dei decessi in carcere dal 2011.

In generale, i detenuti non hanno contatti con medici, familiari o avvocati: una condizione che in molti casi equivale a una sparizione forzata.

Il carcere militare di Saydnaya
I detenuti spesso trascorrono mesi se non anni nelle strutture detentive dei vari servizi di sicurezza siriani. Alcuni alla fine vengono portati di fronte a un tribunale militare, che li condanna nel giro di qualche minuto, per poi essere trasferiti nel carcere militare di Saydnaya, dove le condizioni sono particolarmente atroci.
[Nelle strutture dei servizi di sicurezza] ti torturano per farti ‘confessare’. A Saydnaya, l’obiettivo è la morte, una sorta di selezione naturale per liberarsi dei più deboli appena vengono trasferiti lì” – ha dichiarato Omar S., un ex detenuto.

La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Salam, un avvocato di Aleppo che vi ha trascorso due anni, ha raccontato: “Quando mi hanno portato dentro la prigione, ho sentito l’odore della tortura: un odore
specifico, un misto di umidità, sangue e sudore. Lo riconosci: è l’odore della tortura
“.

Salam ha descritto un caso in cui le guardie hanno picchiato a morte un istruttore di arti marziali dopo aver scoperto che allenava i compagni di cella: “Hanno picchiato a morte l’istruttore e altri cinque detenuti, poi hanno proseguito con gli altri 14. Nel giro di una settimana erano tutti morti. Vedevamo il sangue scorrere via dalla cella“.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, i detenuti cui viene negato il cibo si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Omar S. ha raccontato di una volta in cui una guardia ha obbligato due uomini a denudarsi e poi ha obbligato uno a stuprare l’altro, minacciandolo di morte se non l’avesse fatto.

La deliberata e sistematica natura della tortura nel carcere di Saydnaya rappresenta la forma più manifesta di crudeltà e di abietta mancanza di umanità” – ha commentato Luther.

Fonte:

Bloccato con pistola taser: muore Dalian Atkinson, ex bomber dell’Aston Villa

Il tragico episodio a Telford, a ovest di Birmingham: gli agenti intervengono vicino casa del padre e in strada con la scarica che paralizza i movimenti immobilizzano il 48enne ex calciatore, che però va in arresto cardiaco. Aveva giocato anche con Ipswich Town, Sheffield, Real Sociedad, Fenerbahce, Metz e Manchester City

LONDRA – Lutto nel mondo del calcio britannico. L’ex attaccante Dalian Atkinson, 48 anni, è morto nella notte nello Shropshire, dopo essere stato colpito dalla scarica di una pistola taser utilizzata dalla polizia per immobilizzarlo. E’ accaduto a Telford, nelle Midlands Occidentali, a ovest di Birmingham, dove secondo quanto riporta la Bbc in seguito a una segnalazione la polizia del West Mercia è intervenuta alle due di notte nei pressi dell’abitazione del padre di Atkinson, l’85enne Ernest, dopo che l’ex calciatore in stato confusionale andava bussando alle case dei vicini lamentandosi di essere un “senzatetto”.

Il padre lo ha descritto come “molto agitato”, probabilmente sotto l’effetto di droghe o alcol. Gli agenti hanno bloccato l’ex calciatore in strada sparandogli con il Taser, la pistola elettrica che paralizza i movimenti facendo contrarre i muscoli. Qualcosa, però, deve essere andato storto, perché nonostante i soccorsi prestatigli dai sanitari l’uomo è morto per arresto cardiaco durante il tragitto in ambulanza verso l’ospedale. Una commissione indipendente indagherà ora sul caso, destinato a riaprire le polemiche sull’arma in uso alla polizia che dovrebbe essere meno letale delle pistole ma che ha già causato numerosi decessi. Secondo uno studio di Amnesty International, tra il 2001 e il 2012 negli Stati Uniti ci sono stati più di 500 decessi dovuti all’uso di Taser. Alcuni stati stanno prendendo in considerazione la possibilità di introdurre criteri normativi più restrittivi, in risposta alla crescente preoccupazione per la scarsa sicurezza degli strumenti.

ATTACCANTE MAI DIMENTICATO DAI TIFOSI DELL’ASTON VILLA – Atkinson in carriera aveva segnato 38 gol in 114 partite con l’Aston Villa ed è ricordato dai tifosi dei Villains per la rete del 1994 che valse la conquista la Coppa di Lega nella finale contro il Manchester Utd (3-1) e per aver firmato il ‘Match of the Day gol’nel campionato 1992-93 sul terreno del Wimbledon. Tra le sue squadre in sedici stagioni da professionista, con una convocazione nella Nazionale B inglese, anche Ipswich Town, dove aveva cominciato, Sheffield Wednesday, Real Sociedad, Fenerbahce, Metz e Manchester City, prima di chiudere l’esperienza da calciatore fuori dall’Europa con Al-Ittihad, Daejeon Citizen e Jeonbuk Hyunday Motors.
I MESSAGGI DI CORDOGLIO DI CLUB ED EX COMPAGNI  – “Riposa in pace Dalian Atkinson.Non sarai mai dimenticato!”, il tweet che gli ha dedticato proprio l’Aston Villa. Anche Paul McGrath, leggenda del club di Birmigham, ha commentato la scomparsa di Atkinson definendo il suo ex compagno di squadra come “grande parte della famiglia Aston Villa”. Dal canto suo l’Ipswich Town, dove l’ex calciatore aveva iniziato la carriera, sempre su twitter ha scrito che la sua morte è “una notizia terribilmente triste”.

Fonte:

Sudafrica, quattro anni fa la strage alla miniera di Marikana

15 AGOSTO 2016 | di

Policemen fire at striking miners outside a South African mine in Rustenburg, 100 km (62 miles) northwest of Johannesburg, August 16, 2012. South African police opened fire on Thursday against thousands of striking miners armed with machetes and sticks at Lonmin's Marikana platinum mine, leaving several bloodied corpses lying on the ground. A Reuters cameraman said he saw at least seven bodies after the shooting, which occurred when police laying out barricades of barbed wire were outflanked by some of an estimated 3,000 miners massed on a rocky outcrop near the mine, 100 km (60 miles) northwest of Johannesburg. REUTERS/Siphiwe Sibeko (SOUTH AFRICA - Tags: CIVIL UNREST CRIME LAW BUSINESS EMPLOYMENT)
Policemen fire at striking miners outside a South African mine in Rustenburg, 100 km (62 miles) …

Domani sarà il quarto anniversario della strage alla miniera di platino sudafricana di Marikana.

Il 16 agosto 2012 la polizia sudafricana aprì il fuoco (nella foto Reuters) contro i minatori in sciopero. Si contarono 34 morti e 70 feriti in modo grave, 10 dei quali decederono nei giorni successivi.

I minatori chiedevano l’aumento del salario e alloggi migliori.

Lavoravano per conto di Lonmin, il terzo produttore di platino al mondo, di proprietà britannica dal 1909 e che da Marikana, nella provincia del Nord-ovest, estrae il 95 per cento del suo prodotto. Il Sudafrica possiede quattro quinti delle riserve mondiali di platino.

Nel 2012 migliaia di minatori vivevano in condizioni di puro squallore intorno a Marikana.

Lonmin lo sapeva bene tanto che, nel 2006, si era assunta l’onere di legge di costruire 5500 nuovi alloggi e trasformare entro il 2011 gli ostelli per soli uomini in strutture abitative per famiglie.

Alla fine di quell’anno, tuttavia, Lonmin aveva costruito unicamente tre case-tipo da mostrare a eventuali acquirenti e aveva modificato solo 60 dei 114 ostelli.

Per quanto riguarda l’esito delle indagini sulla strage dei minatori, siamo lontanissimi dall’accertamento delle responsabilità. Solo nel 2015 si è arrivati alla sospensione dall’incarico di Riah Phiyega, commissaria nazionale della polizia sudafricana.

I motivi che diedero luogo alle proteste, stroncate nel sangue, stanno ancora tutti là.

La Commissione d’inchiesta presieduta dall’ex giudice Jacob Farlam, istituita dal governo per fare luce su quanto accadde il 16 agosto 2012, lo ha scritto nero su bianco nelle sue conclusioni: le condizioni abitative erano estremamente misere e ciò fece esplodere la tensione (nei giorni precedenti vi erano stati altri 10 morti, tra cui agenti di polizia e guardie di sicurezza).

Del resto, che gli alloggi fossero “veramente terribili” e che ciò avesse contribuito a pregiudicare le relazioni e il rapporto di fiducia tra i minatori e l’impresa, non lo ha negato neppure Lonmin, audita dalla Commissione.

Anche se nel 2014 è stata completata la modifica degli ostelli, la maggior parte dei 20.000 minatori vive ancora in tuguri, come l’insediamento informale di Nkaneng. L’acqua e l’elettricità possono mancare anche per molti giorni.

In uno scambio di lettere con Amnesty International, Lonmin ha ammesso che 13.500 minatori sono ancora privi di un alloggio che possa chiamarsi tale ma ha ribadito di non avere intenzione di onorare l’impegno a costruire 5500 alloggi assunto nel 2006.

Per questo motivo, Amnesty International ha ufficialmente chiesto al ministero sudafricano delle Risorse minerarie di approfondire la questione e, nel caso, sanzionare Lonmin per il mancato rispetto degli impegni.

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2016/08/15/sudafrica-quattro-anni-fa-la-strage-alla-miniera-di-marikana/

Quei 900mila detenuti negli ex gulag di Stalin

di Damiano Aliprandi 12 ago 2016 14:35

Costretti ai lavori coatti nelle colonie penali siberiane. Nadja Tolokno, attivista e cantante russa del gruppo punk rock Pussy Riot ha creato la piattaforma ?Justice Zone? per una mobilitazione contro il sistema carcerario russo

Gelide oasi in cui sono costretti migliaia di alienati, obbligati ai lavori coatti con orari massacranti, paghe da fame e senza il permesso di coprirsi, a 30-40 gradi sotto zero, con indumenti caldi che non siano il cappotto poco imbottito fornito dai carcerieri. Parliamo delle famigerate colonie penali sparse in Siberia. Nella Russia di Putin, formalmente esistono solo sette carceri ordinarie, il resto dei detenuti – che sono oltre 900 mila – vengono dislocati in queste strutture ereditate dai Gulag staliniani.
La condizione delle detenute.
Sono circa 750 le colonie penali e le donne, secondo i dati dell’autorità penitenziaria di Mosca, rappresentano una minoranza di oltre 47 mila detenute, spedite in 46 colonie femminili. E le donne subiscono delle torture che ricordano descrizioni non molto diverse dai quadri dei gulag tratteggiati dal grande romanziere Aleksandr Sol?enicyn, rinchiuso nel 1950. Una delle testimoni è Nade?da Andreevna Tolokonnikova, anche nota come “Nadja Tolokno”, un’attivista e cantante russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, finita in galera per aver cantato per mezzo minuto un inno contro Putin sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Quando è uscita dalla colonia ha deciso di intraprendere una battaglia di mobilitazione per il sistema carcerario russo. Con altre attiviste ha creato la piattaforma “Justice Zone”: la base per l’azione collettiva di persone accomunate dall’interesse per il destino di quelle detenute le cui vite si stanno sgretolando sotto il sistema penale russo. Molte sono le testimonianze. Una è di Kira Sagaydarova, attivista di Justice Zone che nel passato aveva vissuto il dramma dei gulag “moderni”. Questi sono solo alcuni degli episodi che Kira ha vissuto: “Per i primi sei mesi ti uccidono lentamente. Rizhov, direttore della zona industriale, vuole che i supervisori dei laboratori di cucito raggiungano una certa quota di produzione, ma i supervisori non raggiungono la quota finché le nuove ragazze non imparano a cucire. Perciò i supervisori le picchiano. Una volta ti picchiano, poi magari ti strappano i capelli, ti sbattono la testa contro la macchina per cucire o ti portano in una cella punitiva, dove ti prendono a botte e calci usando mani e piedi, oppure tolgono la cinghia dalla macchina per cucire e ti colpiscono con quella”. Dice, ancora: “I supervisori sono i responsabili della maggior parte delle violenze che avvengono nella colonia penale. Fanno quello che vogliono e dispongono a loro piacimento della vita delle persone. Mi hanno colpito sulla schiena con tutta la loro forza, o sulla testa, non fa differenza. Più volte sono crollata e ho pianto, e non riesco nemmeno a elencare tutte le cose che succedevano lì. A loro non importa nulla. C’è stato un periodo in cui ci versavano addosso acqua gelida in una cella punitiva ghiacciata in pieno inverno! ”
Le condizioni maschili e la famigerata “Aquila nera”.
Ma per gli uomini è ancora peggio. Una delle peggiori colonie penali, la numero 56, viene chiamata anche Aquila Nera: è una delle carceri di massima sicurezza per i condannati all’ergastolo. Per un quarto di secolo i detenuti non hanno mai messo piede fuori da questo luogo. Per il rifornimento d’acqua, il carcere è collegato con tubature ad un lago, mentre l’energia nelle celle e nei recinti elettrificati è garantita da una serie di generatori. Non esistendo il sistema fognario, gli ergastolani devono svuotare il loro secchio nell’ora d’aria giornaliera in un fosso su cui si affacciano tutti i cortili. I reclusi trascorrono 23 ore al giorno dentro la cella, e hanno diritto a trascorrere solo un’ora fuori ma all’interno di una sala scoperta, senza tetto. Sono costretti a dormire con la luce accesa e durante il giorno è proibito restare a letto. Nel resto delle colonie, formalmente, l’obiettivo della reclusione nei campi è quello di abbinare la rieducazione allo sconto della pena, secondo il principio – travisato dai nazisti – per cui il “lavoro rende liberi”. La realtà è che i detenuti sono costretti a turni asfissianti di lavoro e pulizie, in strutture che sono le stesse dai tempi di Stalin. E con salari miseri di 20 rubli al giorno, non più di 70 euro al mese. Il compenso serve a coprire i costi delle uniformi e del rancio quotidiano.
Il sistema giudiziario senza alcuna garanzia per l’imputato.
E se il sistema penitenziario russo è devastante, non è da meno nemmeno quello giudiziario. Secondo la denuncia di Amnesty International, diversi processi di alto profilo hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario penale della Russia, tra cui la mancanza di parità tra le parti, l’uso della tortura e altri maltrattamenti nel corso delle indagini, nonché l’incapacità di escludere in aula le prove inquinate dalla tortura, l’uso di testimoni segreti e di altre prove segrete, che la difesa non può contestare, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato di propria scelta. Il dato parla chiaro: meno dello 0,5 per cento dei processi si è concluso con l’assoluzione. Il caso di Svetlana Davydova è stato uno dei sempre più diffusi casi di presunto alto tradimento e spionaggio, categorie di reato definite in modo vago, introdotte da Putin nel 2012. Svetlana Davydova era stata arrestata il 21 gennaio dell’anno scorso per una telefonata fatta otto mesi prima all’ambasciata ucraina, in cui aveva avanzato il sospetto che alcuni soldati della sua città, Vjaz’ma, nella regione di Smolensk, fossero stati inviati a combattere in Ucraina orientale. L’avvocato nominato d’ufficio aveva dichiarato ai mezzi d’informazione che la donna aveva “confessato tutto” e si era rifiutata di ricorrere in appello contro la sua detenzione perché “tutte queste udienze e il clamore sui media [creavano] un inutile trauma psicologico ai suoi figli”. Il 1° febbraio 2015, due nuovi avvocati hanno preso il caso. Svetlana Davydova ha denunciato che il primo avvocato l’aveva convinta a dichiararsi colpevole per ridurre la sua probabile condanna da 20 a 12 anni. Il 3 febbraio è stata rilasciata; il 13 marzo, in contrasto con tutti gli altri casi di tradimento, il procedimento penale nei suoi confronti è stato archiviato. A settembre dell’anno scorso è iniziato il processo contro Nade?da Savcenko, cittadina ucraina e appartenente al battaglione volontario Aidar. È stata accusata di aver deliberatamente diretto il fuoco dell’artiglieria per uccidere due giornalisti russi durante il conflitto in Ucraina, nel giugno 2014. La donna ha insistito sul fatto che il caso era stato inventato e che le testimonianze contro di lei, tra cui quelle di diversi testimoni segreti, erano false. Il suo processo è stato caratterizzato da moltissimi vizi procedurali. Il 15 dicembre del 2016, il presidente Putin ha approvato una nuova legge in base alla quale la Corte costituzionale poteva dichiarare “inattuabili” le decisioni della Corte europea dei diritti umani e di altri tribunali internazionali, qualora “violassero” la “supremazia” della costituzione russa.

 

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/giustizia_e_carcere/28760_quei_900mila_detenuti_negli_ex_gulag_di_stalin/

BLACK LIVES UNITED A RIO

Reportage. Davanti alla celebre chiesa della Candelaria nel giorno in cui si ricorda la strage di senza tetto avvenuta qui nel 1983. Nel paese che detiene il triste record di innocenti morti ammazzati dalla polizia, attivisti afroamericani e movimenti delle favelas hanno unito le loro voci per dire basta alla violenza razzista delle forze dell’ordine. Negli Usa come in Brasile, «è genocidio dei neri». Il 6 e il 7 agosto si replica, sfidando le Olimpiadi

La protesta che a Rio ha unito le associazioni che lottano nelle favelas contro le uccisioni della polizia e il movimento Usa «Black Lives Matter»

23 luglio, Chiesa de La Candelaria, Rio da Janeiro. Si è scelta non a caso questa data e questo luogo per sancire un nuovo percorso tra diverse associazioni brasiliane contro le uccisioni della polizia nelle favelas (Maes de Maio, Candelaria Nunca Mais e Brazil Police Watch tra le altre) e il movimento statunitense Black Lives Matter. Gli attivisti statunitensi sono da qualche giorno in città e ci resteranno fino a inizio dei Giochi quando, insieme ai brasiliani, il 6 e il 7 agosto, saranno per le strade di Rio contro quello che chiamano apertamente il genocidio dei neri. Sono previsti una serie di appuntamenti dal giorno successivo alla cerimonia d’apertura.

27ultima foto grozny compasso brasile
foto Ivan Grozny Compasso

Una lotta unica

Dal nord al sud dell’America, un’unica voce. È significativo farlo in Brasile, durante i Giochi, nel Paese che detiene il triste record di morti ammazzati durante operazioni di polizia. Super militarizzato sempre, ancora di più in questi giorni. «Negli Stati uniti non crediate che sia così diverso. Come azione di monitoraggio abbiamo riscontrato, quest’anno, seicento afro americani colpiti da proiettili sparati dalla polizia», ricorda Daunasia Yancey, voce riconosciuta di Black Lives Matter. «Quello che sta accadendo negli Stati uniti e in Brasile è figlio di una politica razzista molto chiara», rincara la dose.

Elizabet Martin è una donna del Massachusetts, ha perso suo figlio che in Brasile c’era venuto in vacanza, anche lui ucciso dalla polizia di qui. Lei ha fondato il Brazil Police Watch: «Sono molto preoccupata per quello che può succedere con i Giochi. Ci sarà ancora più esercito, controllo del territorio, violenza. Se, per preparare e garantire una Olimpiade bisogna uccidere i propri cittadini, bisogna gridarlo al mondo che c’è qualcosa di molto sbagliato».

Nella Chiesa de La Candelaria, risalente al 1710, opera neo classica, grande orgoglio non solo della cultura carioca ma brasiliana, il 23 luglio 1983 più di quaranta senza dimora si trovavano proprio qui. Quattro agenti aprirono il fuoco contro di loro e otto morirono trucidati. Da allora casi come questo sono accaduti altre volte, con la differenza che si sono scelti luoghi più periferici vista l’eco addirittura internazionale che ebbe la vicenda.

L’impunità è garantita poiché di fronte all’insistenza di associazioni dei familiari delle vittime e altre organizzazioni come Amnesty International Brasil, le autorità di polizia replicano di essere stati costretti a rispondere al fuoco per legittima difesa. «Dal 2012, dal 5 al 20% dei casi sono stati indagati. L’impunità è garantita, in pratica. Il 77% dei morti, parliamo dunque di cifre molto significative, 5600 persone solo nel 2012, anno della Coppa del Mondo, erano neri abitanti delle favelas. Vere e proprie esecuzioni». E sono state davvero tante.

Quest’anomala messa, perché di questo si dovrebbe trattare, è celebrata da padre Renato Chiera, fondatore della Casa do Menor, che si scaglia contro il razzismo usato come incudine contro i più poveri. Accusa i politici, non risparmiando nessuno. Fa i conti dei Giochi scherzando amaramente sul fatto che il municipio è fallito per organizzarli e non ha pensato all’istruzione, ai servizi, a ciò di cui la gente ha maggiormente bisogno.

Centoundici colpi

Ogni tanto l’omelia si interrompe per ricordare non solo i caduti de La Candelaria ma anche quelli di molti altri episodi, non solo brasiliani. Quelli statunitensi, ad esempio. Tra gli altri Alton Sterling ucciso a Baton Rouge in Louisiana, Philando Castiglia nel Minnesota e Michael Brown a Ferguson. Si è ricordato poi il caso della favela di Costa Barros, qui a Rio de Janeiro, quando cinque ragazzi morirono sotto centoundici colpi sparati da poliziotti militari: Wesley Castro di 20 anni, Cleiton Correa del Souza di 18, Wilton Estevs Jr. di 20, Carlo Eduardo da Silva Souza e Roberto Souza Penha di soli sedici anni. Tornavano da un compleanno quando l’auto su cui viaggiavano è stata investita da una pioggia di colpi. Centoundici appunto. Tra i banchi anche le madri di questi ragazzi, alcune davvero giovanissime. Si fanno coraggio l’una con l’altra. Tra le organizzatrici c’è l’esperta Debora Silva Maria, fondatrice del Movimento Maes de Maio. Molto disponibile, dispensa una parola per tutti. Ha tempo pure di rilasciare qualche intervista. Ci sono televisioni tedesche e francesi oltre che brasiliane e l’inviato del New York Times. Lei risponde anche per quelle che hanno meno voglia di esporsi. Anche Debora ha perso un figlio di 29 anni, a São Paulo. Rimase celebre una sua frase pronunciata direttamente alla presidente Dilma Roussef, qualche mese dopo la sua prima elezione: «Non possiamo ancora festeggiare la fine della dittatura, perché vi siete dimenticati di avvertire le forze armate».

Anche di Patricia Olivera, la sorella di uno degli scampati alla tragedia del 23 luglio 1983, si ricordano duri attacchi verso chi fa di tutto per insabbiare cosa è accaduto da allora e cosa è successo dopo. Da anni lotta per vedere incriminati i veri mandanti, sa che i quattro sono solo degli esecutori, visto che quello non è rimasto affatto un caso isolato. Solo il più visibile.

C’è anche Fatinha, una delle storiche fondatrici del Movimento Candelaria Nunca Mais, fondato una settimana dopo il massacro. Con l’arcivescovo di allora, Dom Eugenio Sales, intimò di non smettere mai di ricordare «fino a che saranno uccisi bambini nelle strade di Rio». Dopo 27 anni non solo ci sono i brasiliani ma pure statunitensi uniti nella stessa convinzione. Fatinha è molto provata, non solo dal tempo, che evidentemente non ha cancellato quella notte. Ci sono molti ragazzini attorno a lei, indossano delle magliette azzurrine e fanno parte di uno dei progetti che queste donne hanno realizzato nella favelas.

«È un genocidio»

«È in atto, nelle Americhe, in diverse forme, un vero e proprio genocidio. Non è una questione che riguarda solo i neri – lo dice con impeto il reverendo e attivista John Selders – è una questione che riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso. I poveri e la comunità nera sono le vittime, americane, ma negli altri continenti siamo sicuri che non stia avvenendo la stessa cosa contro altri popoli che si vogliono esclusi?». Un lungo applauso chiude il suo intervento. Un’attivista di Black Lives Matter, la cugina di un’altra vittima, Waltrina Middleton, fa partire un coro gospel. Lo seguono tutti e uno dopo l’altro alzano il pugno chiuso. Madri, fratelli, preti, brasiliani, statunitensi. Tutti. A pugno chiuso.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/black-lives-united-a-rio/

Sei mesi dopo: mobilitazione a Roma per Giulio Regeni

Verità per Giulio Regeni. Il 25 luglio, a sei mesi dalla scomparsa al Cairo, Amnesty international italia, Antigone e Cild promuovono una mobilitazione per Giulio Regeni

Lunedì 25 luglio saranno trascorsi sei mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo. Nonostante siano passati 180 giorni, la verità su quanto accaduto al giovane ricercatore italiano è ancora lontana.

Per continuare a chiedere “Verità per Giulio Regeni” Amnesty International Italia, Antigone e la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili hanno organizzato una mobilitazione in piazza della Rotonda, a Roma, di fronte al Pantheon.

“Il 25 luglio alle 19.41, orario della scomparsa di Giulio Regeni, tante fiaccole saranno accese per ribadire la necessità di fare luce sulla sua terribile morte” hanno dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone
e CILD e Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia.

L’appuntamento per chi vorrà partecipare è alle 19.00 in piazza della Rotonda.

Alla mobilitazione hanno finora aderito: A Buon Diritto, Articolo 21, Cittadinanzattiva, FNSI, Iran Human Rights
Italia, Italians for Darfur, LasciateCIEntrare, Premio Roberto Morrione, Un Ponte per, Usigrai, il manifesto

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/sei-mesi-dopo-mobilitazione-a-roma-per-giulio-regeni/

ATTIVISTI DEL MOVIMENTO BLACK LIVES MATTER IN BRASILE

NEW YORK TIMES:
ATTIVISTI DEL MOVIMENTO BLACK LIVES MATTER IN BRASILE
articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio 2016*

I giochi olimpici de Janeiro Rio potrebbero rivelarsi mortali per i neri poveri della città. A lanciare l’allarme, giovedì (20.07), una delegazione di attivisti americani del movimento Black Lives Matter e gruppi di attivisti brasiliani.

Gli attivisti americani si trovano a Rio per una visita di quattro giorni volta ad evidenziare i rischi che il gigantesco apparato di sicurezza olimpica costituisce, in un paese in cui un rapporto delle Nazioni Unite ha indicato gli agenti delle forze dell’ordine come responsabili di una “parte significativa” delle quasi 60.000 morti violente all’anno.

Durante i giochi, ch si svolgeranno tra il 5 ed il 21 agosto, circa 85.000 tra soldati e poliziotti saranno di pattuglia nel tentativo di rendere sicura questa città notoriamente pericolosa per i 10.000 atleti e per gli spettatori stranieri, che si calcola saranno tra i 350.000 ed i 500.000. Si tratta di più del doppio del contingente di sicurezza ai Giochi Olimpici di Londra del 2012.

Ma mentre il gigantesco apparato di sicurezza può aiutare a proteggere i visitatori stranieri da scippi e rapine a mano armata, furti d’auto e sparatorie dei narcotrafficanti che fanno regolarmente parte della vita di Rio, gli attivisti degli Stati Uniti e le loro controparti locali hanno avvertito che la maggiore presenza di forze dell’ordine potrebbe causare un picco di omicidi da parte della polizia.

“Si parla dei costi per la costruzione delle strutture olimpiche, dell’acqua sporca, dello Zika e della criminalità, ma io voglio che il mondo conosca l’orrore della polizia che uccide i cittadini come parte della preparazione delle Olimpiadi”, ha detto Elizabeth Martin, una donna del Massachusetts il cui nipote Joseph è stato ucciso nel 2007 da un agente di polizia fuori servizio, mentre festeggiava il suo 30° compleanno a Rio.

Il Brazil Police Watch (Osservatorio sulla Polizia Brasiliana), gruppo fondato dalla Martin dopo la morte di Joseph, ha organizzato il viaggio.

I sei attivisti americani hanno iniziato la loro visita a Rio con un incontro carico di emozioni con le famiglie delle vittime della violenza della polizia locale, leader di comunità e attivisti anti-razzisti. I due gruppi hanno condiviso le loro storie personali e discusso sulle analogie tra la situazione dei neri in Brasile e negli Stati Uniti, denunciando il profilo razziale degli omicidi della polizia e la criminalizzazione delle comunità povere.

“È importante trovarsi e stare insieme, perché sappiamo che questa violenza è collegata”, ha detto Daunasia Yancey, attivista nera dei Black Lives Matter che arriva da Boston. “La violenza contro i neri è globale e la nostra resistenza è globale.”

Secondo la Yancey, sia negli Stati Uniti che in Brasile, le uccisioni di giovani neri da parte della polizia sono un problema sistemico. “Non si tratta solo di singoli casi di cattivi poliziotti. Si tratta del sistema di polizia, questo è il modo in cui la polizia lavora”, ha detto.

Monica Cunha, di Rio de Janeiro, il cui figlio Rafael è stato ucciso dalla polizia nel 2006, annuisce e dice: “Essere neri oggi in Brasile vuol dire essere marchiati per morire, spesso per mano della polizia”.

L’esatta misura della quantità degli omicidi commessi della polizia in Brasile rimane oscura e attivisti per i diritti umani e organizzazioni internazionali accusano da tempo la polizia della nazione sudamericana della pratica abituale di esecuzioni sommarie, normalmente giustificate come uccisioni a seguito di presunte “resistenze all’arresto” (ndt. i ben noti “autos de resistencia” ossia “atti di resistenza” detti anche “atti di resistenza seguiti da morte”. Si tratta di un sistema legale ereditato dalla dittatura militare ed ancor oggi in vigore, che, non prevedendo alcuna indagine nel caso in cui si certifichi che una morte è avvenuta in un confronto a fuoco, copre di fatto gli omicidi commessi dai poliziotti garantendo loro l’impunità)

Secondo le stime di Amnesty International, la polizia di Rio è responsabile di uno ogni cinque omicidi occorsi nel 2015 e che il numero degli omicidi per mano della polizia è aumentato nello stato di Rio di circa il 40 per cento durante la Coppa del di calcio del 2014.

Gli attivisti del Black Lives Matter hanno detto che più di 600 persone sono state uccise dalla polizia negli Stati Uniti finora nel corso di quest’anno.

Durante l’incontro, sono state ricordati alcuni dei più eclatanti omicidi commessi dalla polizia sia negli Stati Uniti che in Brasile: Alton Sterling a Baton Rouge, in Louisiana; Philando Castiglia nel Minnesota; Michael Brown a Ferguson, Missouri; il massacro nel 1993 di otto bambini di strada al di fuori della chiesa della Candelaria di Rio; l’uccisione nel dicembre dello scorso anno di cinque giovani nella periferia di Rio, con la polizia che aprì il fuoco contro di loro mentre si trovavano dentro la loro auto (ndt. il caso del quartiere Costa Barros, dove cinque ragazzi tra i 16 ed i 20 anni che tornavano a casa dopo aver festeggiato in un parco pubblico il primo stipendio di uno di loro, vennero massacrati senza alcun motivo da 111 colpi di fucile sparati da poliziotti militari. Per approfondire: http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews…).

John Selders, un pastore di Hartford, Connecticut, ha detto che i punti in comune tra la situazione dei neri in Brasile e negli Stati Uniti creano un legame che trascende barriere linguistiche e culturali.

“Voi non siete soli qui in Brasile,” ha detto Selders, mentre l’interprete faceva eco alle sue parole in portoghese. “Noi siamo voi. Voi siete noi. Noi siamo un solo popolo.”

guarda anche il video:
https://www.facebook.com/RestoDelCarlinhoUtopia/videos/831491776950263/

*fonte: http://www.nytimes.com/…/ap-lt-brazil-black-lives-matter.ht…

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