PIACENZA, SEX WORKER TRANS RACCONTA: «MINACCE E BOTTE DAI CARABINIERI»

Ulteriori dettagli emergono dalla vicenda dei carabinieri arrestati a Piacenza. Francesca, una sex worker transgender, racconta di essere stata obbligata a collaborare e a soddisfare le richieste dei militari. «Se non collabori, se non mi dai lavoro, in un modo o nell’altro ti frego e ti rimando in Brasile»: sarebbero queste le minacce che le sarebbero state rivolte dal maresciallo Orlando, secondo quanto dichiarato dalla stessa Francesca all’ANSA.

Racconta, poi, di come i carabinieri organizzassero nella caserma Levante dei festini, aiutati da un’altra donna trans chiamata Nikita, in cui vi sarebbe stata moltissima droga e le due donne sarebbero state costrette ad avere rapporti sessuali, venendo pagate in cocaina. In un’altra occasione, un carabiniere si sarebbe presentato a casa sua, con il suo fascicolo in mano, pretendendo sesso gratis.

Infine, come riporta La Stampa, un evento di certo angosciante che racconta Francesca: «Una sera – dice – mi hanno beccato in strada, volevano rompermi le scatole. Mi hanno portato ore in giro per i campi a cercare gli spacciatori e poi siamo finiti in caserma dove mi hanno chiusa dentro. Io ad un certo punto ho risposto in maniera aggressiva perché non avevo fatto nulla e mi tenevano là. Allora uno di loro mi ha dato una spinta e mi ha fatto cadere per terra». Botte che anche altre avrebbero subito. «C’è un’altra donna trans, una mia amica che ora è a Roma, si chiama Flavia, anche lei è stata picchiata dai carabinieri. Molte donne trans sono state minacciate se non facevano quel che dicevano loro».

Francesca spera che i Pm possano ascoltarla per poter raccontare quello che accadeva in quella che è stata ribattezzata dai media la “caserma degli orrori” e poter dare voce alle donne che, come lei, sono state vittime di violenza e abusi in un luogo che doveva tutelarle, ma che invece è diventato una succursale dell’inferno.

 

Fonte:

https://www.neg.zone/2020/07/27/piacenza-carabinieri/?fbclid=IwAR2y2jfuNwMP738TapKgfI0ehNtOXOoOlQ2A8o0jdbJ8VPCzCbuQ3cVlfwQ

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BRASILE: 12 MORTI IN UNA SETTIMANA NELLA FAVELA DI ROCINHA A RIO. UN ANNO FA LA MORTE DI MARIA EDUARDA, 13ENNE DI UNA FAVELA DI RIO

Dal profilo Facebook di Gizele Alves:

Nella favela della Rocinha, a Rio, in una settimana ci sono stati 12 morti.
L’ultimo questo papà, che era nella veranda di casa con suo bebè in braccio, quando viene raggiunto dai proiettili…facendo con che il bambino cadesse per terra, sbatendo la testa.
Tutto questo perche sia polizia militare che governo insistono in questa maledetta politica di “combatte alle droghe”.
Ancora altri neri poveri e favelati sono stati uccisi….senza contare i morti delle altre favelas.(solo nel complexo do alemao 5 raggazzi innocenti uccisi)
E della morte di Mariella non se ne parla più.

QUESTA NON É UNA GUERRA…É UN GENOCIDIO!!!!!

“São pessoas que a gente conhece, que a gente gosta, morrendo a troco de nada. Já chega, né?”, desabafou moradora. https://glo.bo/2GkbsEI #JotnaçExtra

*
Gizele Alves ha condiviso il post di Coletivo Fala Akari.
5 h ·

Un’anno fa Maria Eduarda, 13 anni, fu colpita da 4 proiettili di kalashnikov mentre faceva educazione fisica dentro alla scuola che si trova in una favela di Rio de Janeiro.
I poliziotti che hanno sparato sono ancora in libertà.
La cosa peggiore é che dopo di lei ci sono stati tanti altri……….. E sempre per colpa di questa maledetta politica di “combatte alle droghe”…..che riesci solo a fare vittime innocenti.
I veri trafficanti si trovono nei quartieri benestanti della città…..ma li la polizia militare non fa intervento.
Si sa che sono tutti bianchi.

Maria Eduarda anche presente!!!!

L'immagine può contenere: 1 persona, sMS
Coletivo Fala Akari
Organizzazione

Coletivo Fala Akari

21 h ·

1 ANO DA EXECUÇÃO DE MARIA EDUARDA PELAS MÃOS DO 41º BPM

Hoje (30/03) completa exatamente 1 ano que Maria Eduarda foi morta por policiais do 41º BPM, mais conhe

Altro…

Qui un articolo (con video)  di Ivan Compasso sull’uccisione un anno fa di Maria Eduarda Alves de Conceiçao:

Brasile, immagini choc da Rio de Janeiro. Gli agenti del Bope freddano due giovanissimi in una favela

Impegnati in una delle numerose azioni di questi giorni agenti del Bope hanno provocato la morte di una giovane studentessa, la tredicenne Maria Eduarda Alves de Conceiçao. Nel Complexo do Alemão, nel Morro dá Fé Penha. Come testimoniato dal video, si avvicinano a un muro dove sono stesi, presumibilmente feriti, due giovani e li freddano con due colpi a bruciapelo. Il tutto è avvenuto verso le sette del mattino e si è svolto nelle vicinanze di una scuola dove si trovava Maria Eduarda Alves che è stata colpita dai colpi sparati dai soldati. La gente è immediatamente scesa in strada e ha circondato quelli del Bope, anche per proteggere i tanti ragazzini che si trovavano già nella struttura oltre che a protestare per l’ennesima violenza. Dall’inzio di quest’anno, solo nelle favelas di Rio, sono 180 i casi di morti causati da proiettili del Bope. (di Ivan Compasso)

Fonte:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04/01/brasile-immagini-choc-da-rio-de-janeiro-gli-agenti-del-bope-freddano-due-giovanissimi-in-una-favela/3491095/

Perché nelle carceri brasiliane c’è così tanta violenza

Il carcere Pedrinhas a São Luís, in Brasile, il 27 gennaio 2015. - Mario Tama, Getty Images
Il carcere Pedrinhas a São Luís, in Brasile, il 27 gennaio 2015. (Mario Tama, Getty Images)
  • 10 Gen 2017 17.04

L’ondata di violenza che c’è stata all’inizio dell’anno nelle carceri del Brasile ha puntato i riflettori su un sistema ormai al collasso. Quasi cento detenuti sono morti solo nella prima settimana di gennaio, uccisi mentre le guardie erano apparentemente incapaci di fermare lo spargimento di sangue. Come si è arrivati a questo?

  • Il primo problema è il sovraffollamento, spiega la Bbc. Un giro di vite nei confronti dei reati violenti e legati alla droga ha visto negli ultimi quindici anni la popolazione carceraria del Brasile aumentare. La prigione nello stato di Roraima, dove il 6 gennaio sono stati uccisi 33 detenuti, ospita 1.400 persone, il doppio della sua capacità. Il sovraffollamento rende difficile per le autorità carcerarie mantenere separate le fazioni rivali. E causa l’aumento della tensione all’interno delle celle, con i detenuti che si disputano le limitate risorse, come materassi e cibo.
  • Il secondo problema è la guerra tra bande rivali. Le uccisioni sono comuni tra le mura delle prigioni brasiliane – 372 detenuti sono morti in questo modo nel 2016, secondo la Folha de São Paulo – ma questo aumento è da collegarsi alla rottura di una tregua che vigeva da quasi vent’anni tra due delle più potenti bande del paese. Fino a poco tempo, il Primeiro comando da capital, di São Paulo, e Comando vermelho, di Rio de Janeiro, avevano un rapporto di collaborazione, presumibilmente per garantire il commercio di marijuana, cocaina e armi nelle città e oltre i confini del Brasile. Recentemente la pace è finita, anche se le ragioni sono poco chiare. E vista la repressione del governo nei confronti delle bande criminali, ci sono migliaia di persone appartenenti a entrambe le bande rinchiusi nelle carceri brasiliane.
  • Terzo problema è la mancanza di risorse. Molte carceri brasiliane sono sottofinanziate. In seguito alle ultime rivolte il governatore dello stato ha chiesto al governo federale attrezzature come metal detector, braccialetti elettronici e dispositivi per bloccare il segnale telefonico dentro le carceri. La sua richiesta mostra la mancanza di attrezzature di base anche in carceri molto affollate. Il governatore ha anche chiesto l’invio di forze federali. Male addestrate e mal pagate, le guardie carcerarie devono affrontare spesso detenuti che non solo sono più numerosi, ma inoltre sentono di avere poco da perdere visto che già devono affrontare condanne lunghe. Il governo brasiliano ha annunciato un piano per modernizzare il sistema, ma visto che il paese si trova nella peggiore recessione degli ultimi decenni e la spesa pubblica è bloccata per vent’anni, è difficile vedere come possa finanziarlo.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2017/01/10/brasile-carceri-violenza

Messico, una gigantesca fossa comune

Desaparecidos. Scoperti 4.600 resti ossei. Forse vittime dei Los Zetas

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Una scoperta dantesca. In Messico, una zona desertica di Coahuila potrebbe nascondere una gigantesca fossa clandestina. Su una superficie di 56.000 metri quadrati, sono stati individuati 4.600 frammenti ossei e altri oggetti. Secondo gli inquirenti, potrebbe essere un luogo di discarica del potente cartello dei Los Zetas.

Alla zona si è arrivati grazie al lavoro del gruppo Vida, che si dedica alla ricerca dei desaparecidos ricostruendo le testimonianze della popolazione locale. La drammatica realtà delle fosse comuni clandestine è emersa durante la ricerca dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala dopo essere stati attaccati da polizia e narcotrafficanti tra il 26 e il 27 settembre del 2014. Il mondo si è accorto allora di quanto torture e violazioni dei diritti umani siano prassi comune, nelle caserme e nei commissariati, e quanto poco valga la vita di chi sopravvive a stento nelle campagne, stretto tra il ricatto della miseria e quello delle cosche, ben innervate a un sistema politico violento e diseguale. I movimenti popolari continuano a cercare i 43. Forti dell’appoggio di una voluminosa controinchiesta alternativa che ha evidenziato menzogne e depistaggi, hanno ottenuto dal governo la riapertura dell’inchiesta. E intanto, grazie all’attività di organizzazioni come Vida, si è dato un nome a molte vittime della tratta o delle cosche, dai confini con gli Stati uniti al resto del paese.

Alla fine del 2015, il numero degli scomparsi ammontava a 27.887. Questa nuova, macabra, scoperta potrebbe elevare di molto le cifre. Secondo i periti, i 4.600 resti appartengono a persone scomparse a partire dal 2004, uccise tra il 2007 e il 2012 dagli Zeta. Secondo le testimonianze, in quegli anni, si sono visti uomini armati arrivare nella zona a bordo di furgoni, scaricare corpi e bruciarli. Gli abitanti raccontano anche che altri corpi venivano «dissolti» in grandi recipienti e che le urla dei condannati si udivano per tutto il circondario. I famigliari delle vittime hanno denunciato l’inadempienza delle autorità di Coahuila che hanno minimizzato l’accaduto. Molti componenti degli Zetas provengono dalle forze speciali dell’esercito.

 

Fonti:

http://ilmanifesto.info/messico-una-gigantesca-fossa-comune/

BRASILE: ALMENO OTTO UCCISIONI DI POLIZIA DURANTE LE OLIMPIADI

Forze di sicurezza in Brasile
Forze di sicurezza in Brasile

Il Brasile ha perso la più importante medaglia di Rio 2016: diventare campione dei diritti umani“, ha dichiarato Atila Roque, direttore generale di Amnesty International Brasile.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani, a Rio de Janeiro durante lo svolgimento delle Olimpiadi sono state uccise almeno otto persone nel corso di operazioni di polizia e manifestazioni pacifiche sono state duramente represse.

Le autorità brasiliane hanno perso un’occasione d’oro per dare seguito alla promessa di adottare politiche in materia di sicurezza che avrebbero reso Rio una città sicura per tutti. L’unico modo per rimediare ai molti errori commessi durante le Olimpiadi è quello di assicurare indagini efficaci sulle uccisioni e sulle altre violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia e assicurare i responsabili alla giustizia” – ha aggiunto Roque.

Nel 2016 le uccisioni ad opera della polizia sono aumentate di mese in mese mentre Rio si preparava a dare il benvenuto al mondo.

Secondo l’Istituto per la pubblica sicurezza dello stato di Rio de Janeiro, in città la polizia ha ucciso 35 persone ad aprile, 40 a maggio e 49 a giugno, con una media sempre superiore a un omicidio al giorno.

Operazioni di polizia segnate dalla violenza si sono svolte per tutta la durata delle Olimpiadi in diverse parti di Rio, tra cui Acari, Cidade de Deus, Borel, Manguinhos, Alemão, Maré, Del Castilho e Cantagalo. Tre persone sono state uccise a Del Castilho, quattro a Maré e una a Cantagalo. Il bilancio potrebbe aumentare se arriverà la conferma di ulteriori morti in due altre favelas, Acari e Manguinhos.

Gli abitanti di queste zone hanno denunciato altre violazioni dei diritti umani da parte della polizia, come irruzioni nelle abitazioni, minacce di morte e aggressioni fisiche e verbali.

La “guerra alla droga” e l’uso di armi pesanti nel corso delle operazioni di sicurezza hanno posto a rischio la vita degli stessi agenti di polizia, almeno due dei quali sono stati uccisi nei primi 10 giorni delle Olimpiadi.

Nella prima settimana di svolgimento dei Giochi (5-12 agosto), nella regione metropolitana di Rio hanno avuto luogo 59 scontri a fuoco (in media, quasi otto e mezzo al giorno), rispetto ai 32 della settimana precedente.

Nello stesso periodo, la violenza armata ha causato almeno 12 morti e 32 feriti, secondo Cross-Fire, una app lanciata a luglio da Amnesty International per segnalare episodi di violenza nelle favelas.

Le manifestazioni di protesta sono state durante represse dalle forze di polizia, sia all’interno che all’esterno degli impianti sportivi. Dal 5 al 12 agosto, proteste pacifiche sono state sciolte con violenza, anche mediante l’uso di gas lacrimogeni e granate stordenti. Diverse persone sono state arrestate mentre altre sono state allontanate dagli impianti sportivi per il mero fatto d’indossare magliette su cui erano scritti messaggi di protesta, in violazione del diritto alla libertà d’espressione.

A San Paolo, il 5 agosto, la polizia ha represso una manifestazione con estrema violenza arrestando 100 persone, tra cui almeno 15 minorenni.

Al termine dei Giochi olimpici ci ritroviamo con politiche di pubblica sicurezza ancora più militarizzate, basate su una repressione molto selettiva, sull’uso eccessivo della forza e sull’impiego di agenti di polizia nelle favelas come se fossero in azione da combattimento. Il risultato già si è visto: l’aumento del numero delle uccisioni e di altre violazioni dei diritti umani, soprattutto ai danni di giovani neri” – ha commentato Roque.

Ancora una volta, l’eredità di un grande evento sportivo svolto in Brasile è stata macchiata dalle uccisioni di polizia e dalle violazioni dei diritti umani ai danni di manifestanti pacifici. Il Comitato olimpico internazionale e altri organismi che si occupano di organizzazione di eventi sportivi non devono permettere che questi si svolgano a scapito dei diritti umani delle persone” – ha concluso Roque.

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/Brasile-almeno-otto-uccisioni-polizia-durante-olimpiadi

ActionAid e CONI per le favelas di Rio de Janeiro

ActionAid e CONI per le favelas di Rio de Janeiro

Lavoriamo insieme per dare delle reali opportunità ai bambini che vivono a Cidade de Deus e Rocinha, a due passi da Casa Italia e dal quartiere olimpico.

Per le Olimpiadi di Rio de Janeiro, il Comitato Olimpico Nazionale Italiano ha scelto ActionAid, in Brasile da oltre 20 anni, per finanziare due progetti destinati ai bambini di Cidade de Deus e Rocinha, dove vivono rispettivamente 60.000 e 180.000 persone in condizioni di estrema povertà e senza adeguati servizi e infrastrutture.

Cosa sono le favelas? Immensi slums, presenti in tutto il Sud America, che dagli anni Novanta in poi sono cresciuti a dismisura nei pressi delle città, spesso a pochi passi dai quartieri benestanti. Le case sono costruite con materiali di scarto, spesso dannosi per la salute come nel caso delle lamiere di Eternit e le infrastrutture (fognature, acquedotto per la fornitura di acqua potabile, elettricità) estremamente carenti, così come i servizi essenziali (scuola e sanità).

In queste baraccopoli vivono decine di migliaia di bambini, che spesso costituiscono la maggioranza della popolazione e che vengono, purtroppo, coinvolti nelle attività delle bande di narcotrafficanti come vedette o fattorini.

E’ in queste zone che siamo intervenuti per far sì che le Olimpiadi siano un’opportunità anche per gli abitanti delle favelas. Vogliamo creare spazi sicuri dove i bambini possano imparare, giocare, crescere, e che l’intera comunità riconosca come punti di aggregazione.

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Per questo, collaborando con partner locali e partendo dalle richieste della popolazione locale, abbiamo costruito e ristrutturato asili, biblioteche, sale giochi, campi da calcio, mense e orti biologici. Luoghi dove vengono portate avanti attività educative, ricreative e sportive, con l’obbiettivo finale di crescere e formare i cittadini del futuro.

Scopri di più nella sezione dedicata e aiutaci anche tu a portare avanti questi importanti progetti.

Le Olimpiadi devono essere una grande occasione per tutti.

Fonte:

https://www.actionaid.it/informati/notizie/actionaid-e-coni-per-le-favelas-di-rio-de-janeiro

Road to Rio Ep 16

 

Dal profilo Facebook di Ivan Grozny Compasso:

In questa puntata http://youtu.be/__lKAik4fRY?list=PLs2aunEmkaZRQfvj-GCqOQUY-1o-Q7ZJB L’ipocrisia della cosiddetta “guerra ai narco” combattuta da poveri che uccidono poveri.
Lo sfruttamento delle ragazze che arrivano dai quartieri dove c’è miseria viera. Il sessismo, il machismo che molte donne sono costrette a subire in un Paese che non ha mai affrontato certi temi, sfruttate da maschi che arrivano da luoghi che di certi temi hanno i giornali pieni.

 

Fonte:

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1090169341063659&set=a.674623885951542.1073741834.100002118107000&type=3&theater

L’innocenza perduta dei Giochi

Rio 2016. Olimpiadi amare per gli abitanti delle zone più povere e violente di Rio. Che con il «golpe» hanno perso anche quel poco che avevano. E la cidade maravilhosa appare come impacchettata da teli in pvc che delimitano le pareti delle grandi arterie stradali, così le immagini delle spiagge oscurano quel che c’è dietro

Mural nella favela de Manguinhos: in 2 anni otto ragazzini sono stati uccisi dall’esercito mentre giocavano a pallone

Rio de Janeiro è una città dove l’innocenza si perde in fretta. I poveri perché esclusi, sfruttati e aggrediti, i ricchi perché rinchiusi nelle loro fortezze vivono una Rio tutta loro, intimoriti che qualcuno possa portare loro via ciò che possiedono. Qui la gente si mescola nelle strade e nei luoghi di socialità, ma ricchi e poveri è come fossero le rotaie del treno. Percorrono le stesse strade ma non s’incontrano mai.

La crisi politica, economica e sociale si sente eccome. Le conseguenze più dirette del «golpe» che ha disarcionato la presidente Rousseff sono state la sospensione di tutti quei provvedimenti che aiutavano i più in difficoltà. Lo stato, attraverso la bolsa familia ha prima aiutato queste persone che ora si vedono levare quei pochi aiuti di cui, di diritto, beneficiavano. Potere mandare i figli a scuola, ad esempio, o avere un supporto medico ora non è più possibile.

Tutto costa sempre di più. dai trasporti al cibo. Il costo del latte è cresciuto di sei volte in tre anni. I mezzi pubblici, nonostante le tante proteste, restano un nervo scoperto perché in tantissimi sono costretti a servirsene, ma non sono alla portata di tutti. Così, soprattutto nella zona nord della città, dove vivono essenzialmente i più poveri, non è inusuale vedere coloro che poi troveremo raccogliere lattine sulle spiagge della zona sud, seguire i binari del treno per arrivare fino al centro da dove poi, sempre a piedi, raggiungeranno la loro destinazione. Un viaggio in pratica. Dei migranti in cammino dentro la propria stessa città.

Il casermone della polizia

Arrivando in metropolitana alla favela di Manguinhos è tutto un brulicare di favelas. Arrivati la prima cosa che non si può non vedere è la cosiddetta «città della polizia», una caserma di dimensioni gigantesche che costeggia proprio i binari dove tanti disperati sono in cammino.

Per entrare nella favela bisogna costeggiarla, ma non a piedi. È la zona più pericolosa, dove gli «assalti», come sono chiamati qui, sono all’ordine del giorno. Un paradosso. Percorsi in moto taxi questi settecento metri, una grossa strada, poi la favela. La polizia è all’entrata, come ci fosse una dogana. È una postazione informale, gli agenti chiacchierano, danno uno sguardo allo smartphone ma osservano tutti quelli che transitano. Dentro, tra i vicoli, grossi pezzi di cemento. Sono messi per impedire ai mezzi pesanti dell’esercito di accedervi.

È come in guerra. Perché qui, anche se non dichiarato, c’è un conflitto in corso che va avanti da molti anni e proprio con l’assegnazione dei grandi eventi sportivi ha cominciato un lavoro molto sporco, che ha visto di fatto i più poveri aggrediti con la scusa della guerra al narcotraffico e la sicurezza.

Ma proprio a Manguinhos è evidente la stretta relazione tra chi spaccia e chi dovrebbe impedire quest’attività. Perché non può essere che se c’è un certo gruppo criminale a gestire gli affari, c’è la pace, se invece è un altro si scatena l’inferno. E quando questo si verifica non viene risparmiato proprio nessuno.

Morire su un campo di calcio

Luogo simbolo che sintetizza lo stato delle cose è il campo da calcio di Manguinhos. È in mezzo alla favela, dove c’è una specie di piazza. Ai quattro angoli del campo, all’esterno, su dei tavoli gruppi di tre o quattro ragazzi che fumano maconha e osservano quello che succede. Qualcuno è armato. C’è la pace ora, è tutto tranquillo. Per fare qualche foto del campo bisogna chiedere loro il permesso. Ci arrivo con la madre di Christian, che ha perso la vita proprio mentre stava giocando a pallone.

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La madre di Christian (foto Ivan Grozny Compasso)

Questo campo detiene il triste record di caduti mentre si gioca. Quando l’esercito entra, pesantemente armato e senza accordi con chi controlla il mercato della droga, sceglie volutamente di colpire i civili anche per mettere le persone delle comunità contro i trafficanti e agevolare un passaggio che altrimenti non si sarebbe verificato.

Di storie così ce ne sono tantissime. Molte delle madri che hanno perso i loro figli lottano per avere una giustizia che in partenza sanno che non otterranno ma sono sempre di più e cominciano a farsi sentire anche da quella parte di opinione pubblica che certe cose non le vorrebbe ascoltare.

I grandi eventi sportivi non hanno portato alcun beneficio alle comunità di qui e anzi hanno reso la presenza delle forze militari ancora più pressante. E poi ci sono le grandi opere, come viadotti e le nuove linee della metropolitana. Sono le uniche opere fatte per rimanere, ma non ancora ultimate.

Marlon è figlio di Mateus e Tina. Loro sono nati nella Città di Dio, a pochi km da dove li incontro. Cresciuti poveri e in mezzo alla violenza come tutti quelli che nascono li, si innamorano e decidono di fare un solo figlio in modo da potergli dare tutto il necessario per offrirgli una vita migliore. Riescono addirittura a mandarlo all’Università. Si laurea in pochi anni come ingegnere civile e trova lavora presso un grande cantiere, proprio a Tijuca, dove si trova il villaggio olimpico. Il ritardo delle consegne e la poca sicurezza delle condizioni di lavoro fanno il resto. Marlon oggi è tetraplegico, costretto a letto per tutta la vita a causa di un volo di diversi metri.

Il suo non è un caso sfortunato, non è il fato che ha deciso ma una condizione generale, complessiva, fatta di sfruttamento e corruzione, abusi e ingiustizia. I suoi genitori stanno portando avanti una causa contro lo Stato e la società che aveva (in subappalto) i lavori.

È sempre più difficile per chi ha meno, trovare l’opportunità di migliorare la propria condizione perché anche quando si ottiene l’occasione c’è sempre qualcuno che ricorda da dove si è venuti.

Non ne rimarrà un tubo

La città, come si dice in questi casi, si sta preparando al grande evento. I Giochi a distanza di due anni dalla Coppa del Mondo. Ed è tutto un brulicare di gazebo e strutture mobili montate con tubi innocenti. Da Tijuca, dove si trova il villaggio olimpico, passando per Copacabana, il Maracanà e giungere poi fino a Deodoro, dove c’è un sito, sede dei Giochi, si vedono solo enormi capannoni, transenne e tribune prefabbricate. E soldati.

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Sorveglianza armata nei luoghi dei Giochi (foto LaPresse)

Operai senza sosta lavorano nei punti più visibili della città, che è stata come impacchettata, da teli in pvc che dall’aeroporto fino al centro delimitano le pareti delle grandi arterie autostradali. Le immagini delle grandi spiagge e i loghi dei Giochi in bella mostra impediscono di vedere cosa c’è dietro. Il Compleixo da Marè, ad esempio. O altre piccole e grandi favelas che si arrampicano sui morri della città. Un velo colorato che copre le presunte colpe di quella che resta, nonostante tutto, la cidade maravilhosa.

Ma quando i Giochi saranno finiti, tutto sarà smontato, d’innocente qui non rimarrà neppure un tubo.

 

 

Fonte:

MESSICO: LA POLIZIA UCCIDE I MAESTRI IN LOTTA. APPELLO SOLIDALE CONTRO LA REPRESSIONE.

Notizia scritta il 21/06/16 alle 13:44. Ultimo aggiornamento: 22/06/16 alle: 09:06

MESSICO: LA POLIZIA UCCIDE I MAESTRI IN LOTTA. APPELLO SOLIDALE CONTRO LA REPRESSIONE.

Clb1voSWMAAwcrYSale il bilancio dei maestri uccisi dagli spari della polizia domenica 19 giugno 2016 a Asuncion de Nochixtlan, stato di Oaxaca, Messico. Il bilancio ufficiale delle vittime dell’operazione repressiva per rimuovere le barricate di maestri, studenti e movimenti sociali in lotta è salito a nove maestri, e un giornalista: 10 morti, quindi, che diventano almeno 12 secondo altre fonti, come TeleSur.  Ci sono poi 32 desaparecidos, 28 arrestati e decine di feriti. La protesta non riguarda solo  Oaxaca, teatro, nel 2006, anche della straordinaria esperienza della APPO, l’assemblea popolare dei popoli di Oaxaca, rimasta in piazza con 80mila maestri in lotta sgomberati con violenza nel giugno di dieci anni fa: arresti si segnalano anche nel Chipilango, Michocan e a Città del Messico.

Lavoratrici e lavoratori dell’educazione, assieme alla centrale sindacale CNTE, sono in lotta ormai dallo scorso 15 maggio contro la riforma dell’istruzione voluta dal presidente Enrique Pena Nieto, che prevede – tra molte altre cose, tutte in senso ultraprivatistico – un test governativo unico per gli insegnanti, in base al quale verranno assunti o non assunti, pagati o non pagati, inseriti in organico a pieno orario o per pochi giorni. Per i maestri, gli studenti e i movimenti sociali, non è una riforma educativa, ma una controriforma del lavoro, schiacciata sul servilismo al potere, sul liberismo e sulla ricattabilità perenne. A rischio sarebbe almeno il 60% del corpo docente, senza alcun riferimento a educazione e formazione.

Clicca qui per l’approfondimento sulle motivazioni della lotta di lavoratori/trici dell’educazione in Messico: una protesta che non nasce oggi.

Dopo la mattanza di due giorni fa a Nochixtlan, ora è stato annunciato un incontro domani tra il sindacato e Osorio Chong, il segretario di stato di Pena Nieto. Intanto a Oaxaca le realtà sociali in lotta, con la solidarietà di una larga ClXcJxHVYAA5iqGparte dei movimenti messicani, tra cui il chiapaneco EZLN, hanno diffuso un’ “allerta umanitaria” per le violenze della polizia, sorpresa da numerosi video e immagini a sparare sulla folla, anche con agenti in borghese. Una scena che ricorda da vicino altri massacri, come quella di , del 26 settembre 2014, con l’uccisione e la sparizione, targata polizia, narcos e politici, di 43 studenti normalisti della scuola rurale di .

Un nuovo massacro, quindi, quello di Nochixtlan, che vede per protagonista ancora una volta Enrique Pena Nieto, del PRI, oggi presidente dello Stato ma governatore ai tempi dei massacri di San Salvador Atenco, nello stato di Città del Messico, nel 2006, anche lì con morti, feriti e desaparecidos nelle proteste contro la decisione di ampliare un aeroporto.

Abbiamo raggiunto Federico Mastrogiovanni, giornalista indipendente che vive a Città del Messico, per aggiornamenti. Ascolta o scarica l’intervista [Download

Clicca qui per il nostro articolo su quanto accaduto a Nochixtlan di lunedì 20 giugno 2016.

APPELLO SOLIDALE – Da Mexiconosurge:

‪#‎MexicoNosUrge‬ AL FIANCO DEI MAESTRI E DELLE MAESTRE DELLA CNTE IN MESSICO

“Fondamento dell’accordo. Il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, così come si enunciano nella DichiarazioneUniversale dei Diritti Umani, ispira le politiche interne e internazionali delle parti e costituisce un elemento essenziale del presente Accordo.”
Art. 1 trattato di libero commercio tra il Messico e l’UnioneEuropea

Un anno dopo siamo ancora qui a dire #MexicoNosUrge

Dopo gli omicidi del foto giornalista Rubén Espinosa, dell’attivista Nadia Vera, della studentessa Yesenia Quiroz Alfaro e di altre due donne che si trovavano con loro, Mile Virginia Martin e Alejandra Negrete, avvenuti a Città del Messico venerdì 31 luglio 2015, l’appello ‪#‎MéxicoNosUrge‬ volle rompere il silenzio. Perché non si può rimanere in silenzio di fronte alle violenza nei confronti di chi vuole denunciare la situazione che subiscono milioni di persone in un Paese, il Messico, che l’Italia e l’Unione Europea riconoscono soltanto come importante socio commerciale. Rimanere in silenzio sarebbe una forma di complicità.

Un anno dopo, nel giugno del 2016, torniamo a urlare che #MéxicoNosUrge, dopo che domenica 19 giugno nello Stato di Oaxaca abbiamo assistito al massacro di 10 cittadini. La Polizia Federale è tornata a reprimere la lotta degna dei maestri e delle maestre del sindacato CNTE che lottano contro la riforma educativa. Pistole, fucili di precesione e cecchini hanno operato assieme alla polizia in assetto anti-sommossa, per sgomberare uno dei tanti blocchi stradali che dal 15 maggio batte il tempo della resistenza contro la svendita e la distruzione della scuola pubblica messicana. A maggio avevamo celebrato il decimo anniversario dalla nascita dell’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca, figlia dello sgombero violento di un presidio di maestre e maestri della CNTE nella capitale dello stato di Oaxaca. Negli ultimi mesi sono a decine gli arresti “politici” che colpiscono aderenti della CNTE e simpatizzanti. Già a dicembre 2015, in Chiapas, due maestri sono stati uccisi dalla Polizia durante gli scontri.

Nel maggio del 2016 sono stati ricordati,anche, i dieci anni dal massacro di San Salvador Atenco. Una Commissione Civile di Osservazione dei Diritti Umani -i cui componenti erano cittadini europei- nel giugno del 2006 ha presentato al Parlamento Europeo un rapporto sui fatti e sulle gravi violazioni dei diritti umani in relazione allo sgombero forzato di una comunità per costruire il nuovo aeroporto di Città del Messico in una zona ejidal (cioè di proprietà collettiva) dello Stato del Messico.

La mattanza di Nochixtlan inauguara una nuova fase nello schema repressivo messicano: la polizia spara sulla folla uccidendo e la stessa polizia si rivendica di aver usato armi da fuoco. Non era mai successo prima.

Negli ultimi dieci anni, infatti, la situazione si è fatta se possibile ancora più grave, con decine di migliaia di sparizioni forzate, violenza sistematica contro chi vuole difendere e promuovere i diritti umani, contro attivisti dei movimenti sociali e contro i giornalisti e fotografi che documentano la condizione di violenza strutturale scelta come forma di“politica attiva” dai governi di Felipe Calderón, prima, e di Enrique Peña Nieto (che nel 2006 era governatore dello Stato del Messico durante i fatti di Atenco), ora.

Tra gli attivisti e giornalisti minacciati e perseguitati ci sono anche cittadini italiani ed europei; tra le vittime ci sono anche cittadini italiani ed europei (come il finlandese Jyri Antero Jaakkola,assassinato dai paramilitari nello stato del Oaxaca nel 2010).

In questo panorama di violenza diffusa e repressione contro i civili ricordiamo la sparizione forzata dei 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa,avvenuta la notte del 26 settembre del 2014 nella città di Iguala, stato del Guerrero, in cui sono coinvolti la polizia municipale di Iguala ed elementi dell’esercito messicano.

Il 30 giugno 2014 l’esercito messicano, con un ordine scritto dall’Alto Comando Militare, fucilava 22 ragazzi in un’esecuzione extragiudiziale, una delle tante esecuzioni extragiudiziali portate a termine dall’esercito che ha l’ordine di “abbattere” civili considerati delinquenti senza alcun diritto ad avere un processo.
L’ONU ha recentemente spiegato come in Messico la tortura sia un metodo utilizzato in maniera sistematica negli interrogatori da tutte le forze di sicurezza.

Tutto questo accade nel silenzio della cosiddetta “comunità internazionale” e l’Unione Europea di fatto si disinteressa dei crimini dello stato messicano, continuando a mantenere relazioni commerciali con uno Stato che viola costantemente i diritti umani.

Tra il 2007 e il 2016 in Messico ci sono stati più di 164mila omicidi di civili. Negli stessi anni in Afghanistan e in Iraq si sono contate circa 104mila vittime. Il numero di persone sparite dal 2006 ad oggi, basandosi su dati conservativi del governo messicano, supera le 30mila persone. Organizzazioni dei diritti umani dicono che se oggi venisse fatto un conto di morti e desaparecidos i numeri andrebbero verso il raddopio.

A fronte di tutto questo l’indifferenza dei grandi mezzi di comunicazione internazionali è impressionante e complice.

Per tutto questo, #MexicoNosUrge e non possiamo rimanere in silenzio.

Chiediamo che il Parlamento Europeo esprima la sua preoccupazione rispetto alla grave crisi dei diritti umani che vive il Messico,in particolare per le costanti aggressioni ai giornalisti e difensori dei diritti umani.

Chiediamo all’Italia e all’Unione Europea che si sospendano tutte le relazioni (politiche e commerciali) con il Messico fino a quando non si farà luce sui gravi casi di omicidio, violenza e sparizione forzata di persone. I paesi dell’Unione Europea devono applicare l’embargo agli investimenti in Messico e chiudere le loro Ambasciate, così come si è fatto nel caso di altri paesi che non osservano l’obbligo del rispetto dei diritti umani e del diritto alla vita dei propri cittadini.

Italia, giugno 2016

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Fonte:

MESSICO: UN ANNO SENZA I 43

Messico. Una settimana di mobilitazione per gli studenti scomparsi

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Grande allarme, in Mes­sico, tra i movi­menti e i fami­gliari dei 43 stu­denti scom­parsi il 26 set­tem­bre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repres­sione: annun­ciata dall’intervento vio­lento della poli­zia che mar­tedì ha attac­cato la caro­vana di madri che cer­cava di rag­giun­gere la capi­tale: «Siamo arri­vati al limite della pazienza — ha dichia­rato Roge­lio Ortega, gover­na­tore dello stato del Guer­rero -, da adesso in poi, chiun­que attac­chi le isti­tu­zioni dovrà rispon­derne di fronte alla legge». Si rife­riva alla pro­te­sta dei fami­gliari che hanno fatto irru­zione nei locali della Pro­cura gene­rale per gri­dare slo­gan con­tro l’impunità e il nar­co­stato. Quanto alla lega­lità vigente nel Guer­rero, spec­chio di tutto un paese, val­gono le cifre for­nite dallo stesso pre­si­dente neo­li­be­ri­sta Enri­que Peña Nieto: almeno 25.000 scom­parsi dal 2006, la mag­gio­ranza dei quali durante la sua gestione.

Il 26 set­tem­bre dell’anno scorso, un gruppo di stu­denti delle scuole rurali di Ayo­tzi­napa è stato vio­len­te­mente attac­cato da poli­zia locale e nar­co­traf­fi­canti. Il bilan­cio è stato di sei morti — due stu­denti, due gio­vani cal­cia­tori, un tas­si­sta e una pas­seg­gera -, nume­rosi feriti e 43 desaparecidos.

Gli stu­denti delle com­bat­tive scuole rurali pro­te­sta­vano con­tro le poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione del governo. Erano arri­vati a Iguala per rac­co­gliere fondi per cele­brare un altro mas­sa­cro, com­piuto dall’esercito il 2 otto­bre del 1968: la strage di Tla­te­lolco, una delle tante di cui è costel­lata la sto­ria del Mes­sico. Allora, i reparti spe­ciali dell’esercito e della poli­zia ucci­sero oltre 300 gio­vani, a pochi giorni dalle Olim­piadi di Città del Mes­sico. L’anno scorso, gli stu­denti ave­vano «preso in pre­stito» alcuni auto­bus, com’è loro con­sue­tu­dine durante le mobi­li­ta­zioni. Dopo un primo scon­tro con un gruppo di uomini armati accom­pa­gnati da agenti della poli­zia locale, gli stu­denti hanno cer­cato di rac­con­tare l’episodio ai gior­na­li­sti, ma i loro auto­bus sono stati presi di mira da altri indi­vi­dui armati di fucili mitra­glia­tori. In quel fran­gente è stato attac­cato anche un pull­man di cal­cia­tori che tor­nava da una par­tita. Chi non è riu­scito a fug­gire — all’inizio si è par­lato di 58 scom­parsi — è stato inghiot­tito nel buco nero del Messico.

Secondo la ver­sione uffi­ciale, la poli­zia ha con­se­gnato gli stu­denti ai nar­co­traf­fi­canti, che li hanno uccisi e bru­ciati in una disca­rica del cir­con­da­rio, a Cocula. Un’indagine basata sulle dichia­ra­zioni dei pen­titi, ma subito con­te­stata dalle con­tro­in­chie­ste gior­na­li­sti­che e dalle peri­zie indi­pen­denti. Di recente, il Gruppo Inter­di­sci­pli­nare di Esperti Indi­pen­denti (Giei), isti­tuito dalla Com­mis­sione Inte­ra­me­ri­cana per i Diritti Umani — organo dell’Organizzazione degli stati ame­ri­cani (Osa) -, ha pre­sen­tato un rap­porto di 500 pagine che con­futa i risul­tati uffi­ciali. Per lo stato, quella con­se­gnata ai media e alle fami­glie, è la verità «sto­rica». Così l’aveva defi­nita l’ex Pro­cu­ra­tore gene­rale Murillo Karam. La sua rispo­sta alle domande del pub­blico — «adesso mi sono stu­fato» — è diven­tata lo slo­gan capo­volto dei mani­fe­stanti in piazza, che hanno urlato: «Io mi sono stan­cato» delle false verità di stato.

Il Giei ha invece evi­den­ziato l’impossibilità di bru­ciare un così gran numero di corpi in quella disca­rica. Ha chia­mato in causa le com­pli­cità dell’esercito e della poli­zia fede­rale, ed ha anche avan­zato l’ipotesi che gli stu­denti quel giorno pos­sano aver messo le mani su un grosso carico di droga tra­spor­tata su uno dei pull­man. Finora, sono stati iden­ti­fi­cati i resti cal­ci­fi­cati di due stu­denti. Ma gli esperti indi­pen­denti avan­zano dubbi: intanto, i fram­menti di un dito e di un dente non cer­ti­fi­cano la morte; e poi, nes­suno ha visto il sacco nero con­te­nente i resti nella disca­rica di Cocula; e ancora: se gli stu­denti sono stati ince­ne­riti, dove può esi­stere un forno cre­ma­to­rio così grande? Nelle caserme mili­tari — rispon­dono i fami­gliari — dove si tor­tura e si uccide. Una pra­tica pro­vata in tutti quei paesi — come la Colom­bia e il Mes­sico — dove i para­mi­li­tari fanno scom­pa­rire le loro vit­time con la com­pli­cità dell’esercito.

In Mes­sico e in altre parti del mondo, è ini­ziata una set­ti­mana di mobi­li­ta­zioni. I fami­gliari degli scom­parsi hanno ini­ziato uno scio­pero della fame. Anche quelli dei gio­vani cal­cia­tori, il cui pull­man è stato attac­cato un anno fa, chie­dono giu­sti­zia e un incon­tro urgente con il pre­si­dente Nieto. Chie­dono anche che gli esperti Giei pos­sano inda­gare per altri sei mesi. Nieto ha pro­messo una com­mis­sione d’inchiesta indi­pen­dente a cui nes­suno crede: anche per­ché, al Senato, l’arco dei par­titi non ha tro­vato un accordo per for­marla. Cin­que madri degli scom­parsi hanno intanto rag­giunto gli Stati uniti, dove con­tano di incon­trare il papa e di espor­gli le ragioni dello scio­pero della fame. Hanno già par­te­ci­pato a una veglia per i diritti dei migranti e con­tano di recarsi al Con­gresso a Washing­ton per chie­dere a Obama che ritiri il soste­gno a Nieto e alle sue poli­ti­che narco-militari. Il 27, andranno poi a Fila­del­fia, dove si recherà Ber­go­glio per pre­sen­ziare all’Incontro mon­diale delle fami­glie. Spe­rano dica qual­cosa con­tro le spa­ri­zioni forzate.

Anche in Ita­lia sono annun­ciati dibat­titi e ini­zia­tive. E’ già attiva una cam­pa­gna per ricor­dare il gior­na­li­sta Ruben Espi­nosa, ucciso di recente. Si sono espresse asso­cia­zioni come Amne­sty inter­na­tio­nal, che ha dedi­cato ampio spa­zio al Mes­sico degli scom­parsi nel suo ultimo rap­porto. Sabato a Roma (Cen­tro sociale La Strada) si pro­iet­terà un video a par­tire dal libro-inchiesta di Fede­rico Mastro­gio­vanni, edito da Derive Approdi. Ieri, alla Camera, il gior­na­li­sta — che vive in Mes­sico — ha par­te­ci­pato a una con­fe­renza stampa indetta da Sel, che chie­derà al governo Renzi san­zioni con­tro Peña Nieto.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/un-anno-senza-i-43/