Intervista a Carmen Ferrara, attivista non-binary e ricercatrice in formazione

 

Carmen Ferrara

Io: Ti definisci un’attivista per i diritti LGBTI non-binary. Ti va di spiegarci cosa significa?

C.F.: Certo. Io sono una persona non binaria, non colloco la mia identità di genere in maniera binaria, non sono un mix di maschile e femminile, rifiuto proprio di definirmi in relazione a questi parametri. Per convenzione e per una scelta politica utilizzo i pronomi femminili. Rispetto alla mia identità di attivista, innanzitutto ci tengo a dire che non si fa attivismo, ma si è attiviste. Quando ero al terzo anno di liceo mi sono innamorata della mia compagna di banco. Non ho fatto coming-out come lesbica, perché questo presupponeva che io fossi donna. Ho semplicemente detto di provare dei sentimenti per una ragazza. Provengo da un piccolo paese vesuviano e non avevo internet a casa, ma lo usavo a casa di amici. Tramite un sito di incontri ho scoperto l’esistenza di associazioni e ho iniziato a frequentare Antinoo Arcigay Napoli, ormai quasi dieci anni fa. Ho preso consapevolezza dei miei diritti e delle ingiustizie sociali, per cui è stato naturale iniziare ad impegnarmi attivamente.

Io: Rispetto al tuo percorso di studi, cosa ti ha spinto al punto da voler intraprendere un dottorato di ricerca nell’ambito degli studi di genere?

C.F.: Ho fatto un liceo delle scienze umane, che all’epoca di chiamava socio-psico-pedagogico. Per la mia famiglia era strano che dopo il liceo volessi fare l’Università perché provengo da un contesto umile. La mia famiglia non aveva possibilità economiche e mi sono mantenuta facendo vari lavori: il call center, la cameriera, le pulizie, la badante. Sapevo che studiare era un modo per migliorare la qualità della mia vita, per prendere le distanze da modalità violente che caratterizzavano l’ambiente in cui sono cresciuta e soprattutto per potermi difendere. Sia alla triennale che alla magistrale ho studiato Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, volevo comprendere la società e imparare l’inglese per ampliare le mie opportunità. Durante la stesura della tesi mi sono approcciata alla ricerca e me ne sono appassionata. La prima è stata sui migranti LGBTI, la seconda è stata sulla pianificazione strategica delle politiche di inclusione a Malta. Dopo di che ho iniziato a collaborare con un think tank, spin-off dell’Università di Cambridge che si chiama GenPol- Gender & Policy Insights. Un dottorato in studi di genere mi sembrava la naturale evoluzione del mio percorso e quindi ho fatto domanda per un dottorato transdisciplinare dal titolo “Mind, Gender and Language” sempre alla Federico II di Napoli.

Io: Nel libro che hai pubblicato sottolinei l’importanza dell’intersezionalità, cos’è e perché è importante?

C.F.: L’intersezionalità è un concetto spesso abusato, ma se applicato con criterio consente di rendere visibili forme di oppressione che altrimenti sarebbero neutralizzate. Nel caso delle donne trans nere, ad esempio, è fondamentale adottare un approccio intersezionale per comprendere le discriminazioni che possono subire. Facciamo il caso che in un progetto per l’inclusione lavorativa delle persone trans e delle persone migranti i datori di lavoro accettino di assumere solo persone trans bianche e persone migranti cisgender. Cisgender, per intenderci, è il contrario di transgender. Come ci insegna Kimberlé Crenshaw, che è colei che ha teorizzato questo concetto, se una donna trans nera non viene assunta da nessuna azienda e per leggere l’accaduto si utilizza la lente dell’identità di genere, i datori di lavoro potranno dire che non hanno fatto alcuna discriminazione di genere, perché loro hanno assunto delle persone trans. Se guardiamo alla razza, loro diranno che non sono stati razzisti, perché hanno assunto persone migranti. Però non hanno assunto nessuna donna trans nera e questa discriminazione può essere vista solo se si osservano contestualmente le dimensioni del genere e della razza e il  loro punto di intersezione. Nelle pratiche politiche è importantissimo adottare un approccio intersezionale, perché non ci si può battere per i diritti delle persone LGBTI senza considerare le persone LGBTI migranti e/o disabili e, aggiungo, è controproducente impegnarsi per i diritti di una minoranza senza fare fronte comune.

Io: C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

C.F.: Sì, un altro aspetto importante da considerare è legato alla povertà, alla lotta di classe. E quando parlo di povertà ovviamente parlo di povertà economica, educativa, deprivazione materiale e affettiva. Noi che siamo meridionali lo sappiamo bene. In questo momento, tra le varie cose, mi sto occupando di una particolare forma di violenza di genere, che è la violenza domestica nelle relazioni con partner LGBTI ed è sconvolgente il numero di survivors senza fissa dimora, per cui non esistono servizi, né rifugi. Questo è un dato che come associazione conosciamo bene, ma supportare la ricerca vuol dire raccogliere dati e avere contezza di un fenomeno consente di fare pressione sul legislatore e di porre in essere politiche e servizi che tengano conto dei bisogni specifici.

Raccogliere informazioni è propedeutico alla creazione di una società più giusta. Poi credo sia importante che chiunque lo faccia (come te hai un blog, da poco ne ho aperto uno anch’io) per sensibilizzare in più ambiti possibili.
In conclusione vorrei dire che in questo momento di pandemia, è fondamentale più che mai non dimenticare tutte le persone che vivono ai margini, in spazi senza privacy e senza poter accedere ai paracaduti sociali, pensa alle sex workers senza cittadinanza.
Io sono senza dubbio una persona privilegiata sotto tanti punti di vista e, tra l’altro, posso dirti che oltre ai legami di sangue che lasciano il tempo che trovano se non coltivati, per molte persone queer come me la comunità diventa la tua famiglia. Quando sono stata a Malta per il periodo di ricerca etnografica non conoscevo nessuno, ma il fatto che fossi un’attivista mi ha fatto trovare lì una comunità che mi ha accolta come se mi conoscesse da sempre. Mi ritengo veramente una persona molto fortunata.

RIO 2016 TRA FUOCO DELLE ARMI E TORCIA OLIMPICA

Road to Rio Ep 14

Pubblicato il 06 ago 2016

Una giornata speciale di sicuro quella vissuta a Rio de Janeiro il giorno della cerimonia di apertura dei Giochi. La torcia che diventa fiamma, i controlli passati senza pass o biglietto, le difficoltà di chi vive nelle comunità attorno al Maracanà. Ma anche i fischi a Temer e una Rio ancora ritrosa al lasciarsi andare a questi Giochi.

Fonte:

 

[Ivan Grozny Compasso] Vigilia. Nella favela di Chapadão ieri una dozzina di morti. Per la sicurezza. Lungomare off limits, senza tetto sempre nel mirino e trasporti pubblici sotto pressione. Reportage fra le pieghe della città. Lontano dai riflettori dei Giochi, dalla fiera degli sponsor o dalla passerella delle autorità, si lotta per la vita quotidiana

«Buona notte, famiglia. Sono venuta a tagliarmi i capelli, vicino dove abito, qui nella favela do Chapadão. Non riesco ad andare a casa, è dalle sette che sono qui, ci…
ilmanifesto.info
Fonte:

Oggi su Il Manifesto, un sacco di cose. Ma tante proprio.
Per fortuna, o forse no, Rio le sa tenere insieme.
https://www.youtube.com/watch…

L'immagine può contenere: 1 persona

https://www.youtube.com/watch… la torcia arriva a Copacabana. Al “punto mio libera tutti”. Territorio sicuro, finalmente… Ed è subito carnevale. Super blindata, è stata una fatica portarla fino qui. Però ora se la godono e gli sponsor si sbizzarriscono. Ma alla fine la “rua”, la strada, è della gente.

La torcia è arrivata a Copacabana. Se nella periferia Nord la fiamma olimpica è passata di tutta fretta, per le strade di Copacabana tutta un’altra musica. Q…
youtube.com
Fonte:

Road to Rio Ep 10 e 11

 

Road to Rio Ep 11

Pubblicato il 02 ago 2016

Il racconto in tempo reale di donna Irone. Da una favela del compleixo da Maré, chiusa in un negozio non può uscire perché il Bope è nella favela e stanno sparando. Moriranno più di dieci persone quella notte del 25 luglio 2016.

Fonte:

 

 

Road to Rio Ep 10

Pubblicato il 02 ago 2016

In questo decimo episodio, il “ripulisti” del lungomare, soprattutto, ma anche di tutte quelle zone che sono potenzialmente più turistiche. Spariti, come d’incanto, centinaia di senza dimora. Così, in una notte. Problemi anche per gli artigiani che vendono i loro prodotti sulle spiagge. Sequestrata la merce, manufatti, denunciati i lavoratori. Questa è gente che vive sulla spiaggia, ci lavora da anni ed è la loro unica forma di rendita con la quale mantengono le famiglie.
La colonna sonora ci conferma che i musicisti brasiliani possono suonare davvero qualsiasi cosa.

Fonte:

 

BLACK LIVES UNITED A RIO

Reportage. Davanti alla celebre chiesa della Candelaria nel giorno in cui si ricorda la strage di senza tetto avvenuta qui nel 1983. Nel paese che detiene il triste record di innocenti morti ammazzati dalla polizia, attivisti afroamericani e movimenti delle favelas hanno unito le loro voci per dire basta alla violenza razzista delle forze dell’ordine. Negli Usa come in Brasile, «è genocidio dei neri». Il 6 e il 7 agosto si replica, sfidando le Olimpiadi

La protesta che a Rio ha unito le associazioni che lottano nelle favelas contro le uccisioni della polizia e il movimento Usa «Black Lives Matter»

23 luglio, Chiesa de La Candelaria, Rio da Janeiro. Si è scelta non a caso questa data e questo luogo per sancire un nuovo percorso tra diverse associazioni brasiliane contro le uccisioni della polizia nelle favelas (Maes de Maio, Candelaria Nunca Mais e Brazil Police Watch tra le altre) e il movimento statunitense Black Lives Matter. Gli attivisti statunitensi sono da qualche giorno in città e ci resteranno fino a inizio dei Giochi quando, insieme ai brasiliani, il 6 e il 7 agosto, saranno per le strade di Rio contro quello che chiamano apertamente il genocidio dei neri. Sono previsti una serie di appuntamenti dal giorno successivo alla cerimonia d’apertura.

27ultima foto grozny compasso brasile
foto Ivan Grozny Compasso

Una lotta unica

Dal nord al sud dell’America, un’unica voce. È significativo farlo in Brasile, durante i Giochi, nel Paese che detiene il triste record di morti ammazzati durante operazioni di polizia. Super militarizzato sempre, ancora di più in questi giorni. «Negli Stati uniti non crediate che sia così diverso. Come azione di monitoraggio abbiamo riscontrato, quest’anno, seicento afro americani colpiti da proiettili sparati dalla polizia», ricorda Daunasia Yancey, voce riconosciuta di Black Lives Matter. «Quello che sta accadendo negli Stati uniti e in Brasile è figlio di una politica razzista molto chiara», rincara la dose.

Elizabet Martin è una donna del Massachusetts, ha perso suo figlio che in Brasile c’era venuto in vacanza, anche lui ucciso dalla polizia di qui. Lei ha fondato il Brazil Police Watch: «Sono molto preoccupata per quello che può succedere con i Giochi. Ci sarà ancora più esercito, controllo del territorio, violenza. Se, per preparare e garantire una Olimpiade bisogna uccidere i propri cittadini, bisogna gridarlo al mondo che c’è qualcosa di molto sbagliato».

Nella Chiesa de La Candelaria, risalente al 1710, opera neo classica, grande orgoglio non solo della cultura carioca ma brasiliana, il 23 luglio 1983 più di quaranta senza dimora si trovavano proprio qui. Quattro agenti aprirono il fuoco contro di loro e otto morirono trucidati. Da allora casi come questo sono accaduti altre volte, con la differenza che si sono scelti luoghi più periferici vista l’eco addirittura internazionale che ebbe la vicenda.

L’impunità è garantita poiché di fronte all’insistenza di associazioni dei familiari delle vittime e altre organizzazioni come Amnesty International Brasil, le autorità di polizia replicano di essere stati costretti a rispondere al fuoco per legittima difesa. «Dal 2012, dal 5 al 20% dei casi sono stati indagati. L’impunità è garantita, in pratica. Il 77% dei morti, parliamo dunque di cifre molto significative, 5600 persone solo nel 2012, anno della Coppa del Mondo, erano neri abitanti delle favelas. Vere e proprie esecuzioni». E sono state davvero tante.

Quest’anomala messa, perché di questo si dovrebbe trattare, è celebrata da padre Renato Chiera, fondatore della Casa do Menor, che si scaglia contro il razzismo usato come incudine contro i più poveri. Accusa i politici, non risparmiando nessuno. Fa i conti dei Giochi scherzando amaramente sul fatto che il municipio è fallito per organizzarli e non ha pensato all’istruzione, ai servizi, a ciò di cui la gente ha maggiormente bisogno.

Centoundici colpi

Ogni tanto l’omelia si interrompe per ricordare non solo i caduti de La Candelaria ma anche quelli di molti altri episodi, non solo brasiliani. Quelli statunitensi, ad esempio. Tra gli altri Alton Sterling ucciso a Baton Rouge in Louisiana, Philando Castiglia nel Minnesota e Michael Brown a Ferguson. Si è ricordato poi il caso della favela di Costa Barros, qui a Rio de Janeiro, quando cinque ragazzi morirono sotto centoundici colpi sparati da poliziotti militari: Wesley Castro di 20 anni, Cleiton Correa del Souza di 18, Wilton Estevs Jr. di 20, Carlo Eduardo da Silva Souza e Roberto Souza Penha di soli sedici anni. Tornavano da un compleanno quando l’auto su cui viaggiavano è stata investita da una pioggia di colpi. Centoundici appunto. Tra i banchi anche le madri di questi ragazzi, alcune davvero giovanissime. Si fanno coraggio l’una con l’altra. Tra le organizzatrici c’è l’esperta Debora Silva Maria, fondatrice del Movimento Maes de Maio. Molto disponibile, dispensa una parola per tutti. Ha tempo pure di rilasciare qualche intervista. Ci sono televisioni tedesche e francesi oltre che brasiliane e l’inviato del New York Times. Lei risponde anche per quelle che hanno meno voglia di esporsi. Anche Debora ha perso un figlio di 29 anni, a São Paulo. Rimase celebre una sua frase pronunciata direttamente alla presidente Dilma Roussef, qualche mese dopo la sua prima elezione: «Non possiamo ancora festeggiare la fine della dittatura, perché vi siete dimenticati di avvertire le forze armate».

Anche di Patricia Olivera, la sorella di uno degli scampati alla tragedia del 23 luglio 1983, si ricordano duri attacchi verso chi fa di tutto per insabbiare cosa è accaduto da allora e cosa è successo dopo. Da anni lotta per vedere incriminati i veri mandanti, sa che i quattro sono solo degli esecutori, visto che quello non è rimasto affatto un caso isolato. Solo il più visibile.

C’è anche Fatinha, una delle storiche fondatrici del Movimento Candelaria Nunca Mais, fondato una settimana dopo il massacro. Con l’arcivescovo di allora, Dom Eugenio Sales, intimò di non smettere mai di ricordare «fino a che saranno uccisi bambini nelle strade di Rio». Dopo 27 anni non solo ci sono i brasiliani ma pure statunitensi uniti nella stessa convinzione. Fatinha è molto provata, non solo dal tempo, che evidentemente non ha cancellato quella notte. Ci sono molti ragazzini attorno a lei, indossano delle magliette azzurrine e fanno parte di uno dei progetti che queste donne hanno realizzato nella favelas.

«È un genocidio»

«È in atto, nelle Americhe, in diverse forme, un vero e proprio genocidio. Non è una questione che riguarda solo i neri – lo dice con impeto il reverendo e attivista John Selders – è una questione che riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso. I poveri e la comunità nera sono le vittime, americane, ma negli altri continenti siamo sicuri che non stia avvenendo la stessa cosa contro altri popoli che si vogliono esclusi?». Un lungo applauso chiude il suo intervento. Un’attivista di Black Lives Matter, la cugina di un’altra vittima, Waltrina Middleton, fa partire un coro gospel. Lo seguono tutti e uno dopo l’altro alzano il pugno chiuso. Madri, fratelli, preti, brasiliani, statunitensi. Tutti. A pugno chiuso.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/black-lives-united-a-rio/

2 SETTEMBRE: PRESIDIO AL TRIBUNALE DI MESSINA IN SOLIDARIETA’ CON UNA COMPAGNA E UN COMPAGNO ARRESTATI

Martedì 1 settembre 2015

Dopo i vergognosi arresti di ieri, i centri sociali messinesi si mobilitano. Inoltriamo il comunicato dei compagni del Pinelli

Sui fatti di ieri, sulla repressione e sull’urgenza di aprire nuovi spazi di libertà

La sequenza dei fatti accaduti ieri e l’arresto di due compagni, attualmente ai domiciliari, mostrano con chiarezza quale sia il quadro securitario dentro cui ci muoviamo. Al massimo controllo sui deboli (migranti, sfrattati, disoccupati,”pazzi”) e su chiunque si opponga allo stato di cose presenti, corrisponde la totale deregolamentazione per imprese, lobby e speculatori.

Con la questione del decoro urbano, in questa vicenda, si vorrebbe celare un’incapacità di fondo ad affrontare questioni sostanziali come ad esempio il problema abitativo, quello degli abusi psichiatrici e più in generale quello di un’opposizione sociale sempre più slegata dai dispositivi istituzionali.

Al netto delle falsità raccontate sulla dinamica dei fatti, le misure sproporzionate adottate verso chi partecipava ad un presidio contro la criminalizzazione della miseria e del disagio, sono chiaramente un atto di repressione nei confronti di militanti impegnati in un percorso di mobilitazione contro una “governance autoritaria” non certo confinata nella città dello stretto.

Le paranoie di un consigliere comunale, nostalgico del ventennio, ingastrito alla vista di una tenda, diventano scenario di criminalizzazione e repressione di tutte le forme di dissenso e di conflittualità eccedenti lo spazio – sempre più asfittico e sclerotico – del discorso politico dominante. Non a caso la compagna arrestata è anche una militante del Movimento NOMUOS.

Complici e solidali con Irene e Sergio ne pretendiamo la immediata liberazione.

Per questo chiediamo a tutte e tutti di essere al Tribunale Mercoledì 2 settembre alle 9, per dire ancora una volta che rifiutiamo una organizzazione della società che produce solo povertà, paure e solitudini.

TEATRO PINELLI

Qui le circostanze degli arresti di ieri

Leggi anche

 

 

Fonte:

http://www.officinarebelde.org/spip.php?article1119

 

Qui l’evento su Facebook:

https://www.facebook.com/events/118460885171475/

 

Settimana contro il razzismo/ Reggio Calabria, inaugurato Help Center

 Settimana contro il razzismo/ Reggio Calabria, inaugurato Help Center

 

Lena si fidava solo dei suoi cani, 12 amici da sfamare e da coccolare e per loro è morta in una giornata di freddo cercando cibo tra i rifiuti. Una vita ai margini la sua, ma negli ultimi anni ha incontrato i volontari che le portavano cibo e la facevano sentire meno sola.

A lei è dedicato il Centro d’accoglienza “La casa di Lena”, un Help Center, voluto dalle Ferrovie dello Stato, Caritas diocesana ed associazioni di volontariato,

36 metri quadrati, dentro la Stazione centrale di Reggio Calabria per i senza tetto e per tutti coloro, poveri e gente in difficoltà, che ruotano attorno alla stazione. Per offrire ascolto, accoglienza, ma anche laboratori di formazione, un internet-point, attività di doposcuola per i bambini che presentano particolari disagi.

La nostra intenzione – spiega Bruna Mangiola, responsabile del settore promozione umana e Welfare della Caritas diocesana impegnata da anni in questo settore con don Nico Pangallo, direttore della Caritas–, è quella di tenerlo aperto almeno tre giorni di mattina e due volte di pomeriggio. Offriremo un pasto caldo, come pure per tutti i migranti che dovranno partire”.

 

 

 

Nella Giornata mondiale contro le discriminazioni razziali, dunque, l’Help Center è stato inaugurato ufficialmente alla presenza dei vertici delle Ferrovie, dell’Unar e della Chiesa.

Due distinti appuntamenti artistici hanno allietato il pomeriggio: I “Don Cosciotti senza mancia” attori teatrali, hanno coinvolto direttamente i minori non accompagnati ospiti dell’Unitas Catholica, sollecitando il pubblico con un “raid teatrale” finalizzato a mettere in evidenza la similarità tra l’emigrazione italiana e l’immigrazione in Italia. Ed inoltre lo spettacolo di artisti di strada “Dal Cairo con furore”.

L’Orchestra giovanile dello Stretto “Vincenzo Leotta”, formata da circa 50 bambini e ragazzi coinvolti in un progetto di integrazione sociale, si è esibita con una coinvolgente performance strumentale.

Fonte:

http://www.immezcla.it/inchieste-immigrazione/cultura/item/880-casa-di-lena-ferrovie-dello-stato-caritas-unar-giornata-mondiale-21marzo.html

Milano, picchiarono a morte un clochard. Condannati a 12 anni due agenti Polfer

La Cassazione ha confermato la condanna dei due poliziotti che uccisero Giuseppe Turrisi negli uffici della stazione Centrale. Il procuratore generale: “Fu un pestaggio selvaggio”. Letale un calcio al costato “sferrato con gli anfibi, che gli ha provocato emorragie interne”. Colpevoli di omicidio preterintenzionale Emiliano D’Aguanno e Domenico Romitaggio

stazione centrale milano

“Fu un pestaggio selvaggio”. La Cassazione rende definitive le condanne a 12 anni di reclusione per i due agenti della Polfer di Milano che, il 6 settembre del 2008, picchiarono fino ad ucciderlo Giuseppe Turrisi, un clochard che dormiva nella stazione Centrale di Milano. I due agenti sono stati ritenuti colpevoli di omicidio preterintenzionale. “Si è trattato di un pestaggio debordante e violento”, ha ricordato il Sostituto Procuratore generale della Cassazione Pasquale Fimiani.

“C’è un fotogramma che inquadra il povero Turrisi mentre entra, vivo e con i suoi piedi, nell’ufficio della Polfer dal quale uscirà portato via in ambulanza”, ha detto il procuratore Fimiani. L’uomo è stato ucciso a furia di botte e “mortale” è stato “un calcio al costato sferrato con gli anfibi che gli ha provocato emorragie interne”, ha aggiunto il Pg ripercorrendo le conclusioni della sentenza di Appello. Turrisi morì poco dopo in ospedale.

In primo grado, i due agenti della Polfer responsabili del pestaggio, Emiliano D’Aguanno e Domenico Romitaggio, erano stati condannati a pene più lievi: il primo a 10 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale, e il secondo a tre anni per falso. In secondo grado, invece, la Corte d’Assise d’appello ha inasprito le pene e ha giudicato responsabile dell’omicidio anche Romitaggio. Il Collegio della V Sezione Penale è stato presieduto da Giuliana Ferrua.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/02/picchiarono-a-morte-clochard-condannati-a-12-anni-a-due-agenti-polfer/1140747/

Un anno fa l’uccisione di Andrea a Termini, una morte senza colpevoli

bannerHead

La trans colombiana fu trovata ammazzata di botte al binario 10 la mattina del 29 luglio. “Le indagini continuano”, ma nessuna telecamera ha ripreso l’aggressione, nessuno ha visto nulla. Restò 5 mesi all’obitorio, poi in tanti si ritrovarono al suo funerale

 

29 luglio 2014

ROMA – Un anno fa Andrea, una trans colombiana di 30 anni, veniva uccisa a bastonate alla stazione Termini di Roma. Ammazzata di botte, colpo dopo colpo. La mattina del 29 luglio 2013 il suo corpo gonfio per le percosse è stato trovato lungo il binario 10.

Sono passati 365 giorni e ancora non si sa chi ha interrotto la vita di Andrea. La polizia continua le indagini, ma non ci sono indagati. Nessuna telecamera ha ripreso le immagini dell’aggressione, nessuno ha visto nulla, nessun colpevole sta pagando per la sua morte.

Andrea era arrivata in Italia quattro anni fa, piena di sogni. Invece, era finita a vivere per strada, la stazione Termini era diventata la sua casa. Portava sul corpo i segni delle violenze subite: era stata aggredita ad Ostia, aveva trascorso sette mesi in coma e al suo risveglio non aveva potuto più muovere un braccio e trascinava a fatica una gamba.

Dopo la sua morte, per cinque mesi è rimasta nell’obitorio del Verano di Roma in attesa che l’ambasciata rintracciasse qualche parente in Colombia. Ma Andrea era sola al mondo. Non lo è stata però il giorno del suo funerale: il 27 dicembre 2013 centinaia di persone si sono strette a lei per darle l’ultimo saluto nella Chiesa del Gesù a Roma, addobbata di fiori bianchi. Erano presenti il sindaco Ignazio Marino, l’ex ministro per l’integrazione Cecile Kyenge, i volontari delle associazioni, i senzatetto della stazione Termini e tante persone comuni accorse anche se non la conoscevano. Francesca Danese, presidente del Cesv, insieme alla Caritas Italiana ha organizzato il suo funerale: “Andrea resterà sempre nel nostro cuore. Purtroppo sono ancora tante le persone che vivono come lei. L’intera città l’ha abbracciata per darle un ultimo saluto, ma il nostro impegno deve essere quello di non ricordarci degli ultimi quando ormai è troppo tardi”.

Se Andrea fosse ancora viva vedrebbe che poco è cambiato. I senzatetto, che continuano a dormire davanti all’ingresso principale della stazione Termini e lungo via Marsala, sono 3.200.Vedrebbe che solo lo scorso anno sono stati 260 i corpi dimenticati rimasti nell’obitorio di Roma aspettando che qualcuno si offrisse di pagare il funerale. Una attesa inutile: a seppellirli in questo caso è l’Ama, l’azienda municipale per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, che con il Comune si fa carico della sepoltura. Vedrebbe che il suo assassino è ancora libero. Ma vedrebbe anche che sono tante le persone che non l’hanno dimenticata.

“Quello che è successo ad Andrea ci ha molto rattristato, ma ci ha insegnato a reagire come comunità”, afferma Padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli di Roma che insieme a Don Enrico Feroci della Caritas Italiana ha celebrato il funerale. “Realtà diverse e lontane si sono unite per pregare per lei. La sua vicenda ci obbliga ad avere più attenzione per tutte le trans che ogni giorno sono esposte ad aggressioni e soprusi. Non le dobbiamo lasciare sole nel momento del bisogno. Andrea è scappata dalla violenza e ha trovato altra violenza. Questo non deve più succedere. E’ morta una nostra sorella ma rimarrà sempre viva nella memoria di tutti noi”.

Di Andrea restano le sue ultime parole, le speranze, le paure che poco prima di morire ci aveva confidato: temeva che qualcuno potesse farle del male, voleva trovare un fidanzato con tanti soldi, cambiare vita perché la strada è “troppo brutta”. Restano pochi minuti di un video in cui sorrideva alla telecamera e si sistemava i capelli tinti di biondo raccolti in due codini. Resta il suo sguardo pieno di fiducia, nonostante tutto. (Maria Gabriella Lanza)

© Copyright Redattore Sociale

 

 

Fonte:

http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/465519/Un-anno-fa-l-uccisione-di-Andrea-a-Termini-una-morte-senza-colpevoli