Honduras, doppio omicidio di attivisti per la terra

20 ottobre 2016

Protesta per la terra e l’acqua – Guatemala, 22 aprile 2016

Il pomeriggio del 18 ottobre José Angel Flores, 64 anni, presidente del Movimento unito dei contadini, è stato ucciso da uomini non identificati nella provincia di Colón. Un altro leader comunitario, Silmer Dionisio George, rimasto gravemente ferito nell’attentato, è morto poche ore dopo il ricovero in ospedale.

Da anni, Flores denunciava le minacce ricevute. Nel 2014, la Commissione interamericana dei diritti umani aveva sollecitato il governo onduregno a fornirgli protezione.

Questo ennesimo attacco mortale contro gli attivisti per la terra, a sette mesi di distanza dall’omicidio di Berta Cáceres conferma che l’Honduras è una “zona vietata” per chi difende l’ambiente.

La mancanza di indagini approfondite sugli attacchi e sulle minacce e l’assenza di misure di protezione efficaci da parte delle autorità lasciano gli attivisti per la terra indifesi e alimentano il clima di violenza.

Una settimana prima, il presidente onduregno Juan Orlando Hernández aveva rifiutato d’incontrare il segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty.

FIRMA L’APPELLO GIUSTIZIA PER BERTA CACERES

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/honduras-doppio-omicidio-di-attivisti-per-la-terra

Australia: Nauru, una prigione a cielo aperto per i rifugiati

L’isola di Nauru

 17 ottobre 2016

In un rapporto diffuso oggi, dal titolo “L’isola della disperazione: come l’Australia tratta i rifugiati a Nauru”, Amnesty International ha accusato il governo australiano di sottoporre richiedenti asilo e rifugiati a un complesso e crudele sistema di abusi, contrario al diritto internazionale, allo scopo di tenere queste persone lontano dalle coste del paese.

Il rapporto, basato su mesi di ricerche e di interviste a oltre 100 persone sull’isola di Nauru e in Australia, chiama le procedure adottate dal governo australiano in materia di rifugiati col loro vero nome: un deliberato e sistematico regime di crudeltà e diniego.

A Nauru, il governo australiano gestisce una prigione a cielo aperto il cui scopo è di infliggere la sofferenza ritenuta necessaria per scoraggiare alcune delle persone più vulnerabili del mondo a cercare riparo in Australia” – ha dichiarato Anna Neistat, direttrice delle ricerche di Amnesty International, una delle poche persone che è riuscita a mettere piede sull’isola, remota e impenetrabile, per svolgere ricerche sulle violazioni dei diritti umani.

“Il governo australiano isola donne, uomini e bambini vulnerabili in un luogo remoto da cui non possono fuggire, con la specifica intenzione di farli soffrire. Quella sofferenza produce effetti devastanti e, in alcuni casi, irreparabili” – ha denunciato Neistat.

Appena poche settimane dopo che, al Summit delle Nazioni Unite sui rifugiati, il primo ministro Malcolm Turnbull aveva descritto la politica del suo governo come un modello da imitare, il rapporto di Amnesty International mostra che quella politica, basata solo sulla deterrenza, è direttamente responsabile di uno sconvolgente campionario di violazioni dei diritti umani.

“Quella politica è esattamente l’opposto di quello che i paesi dovrebbero fare. È un modello che minimizza la protezione e massimizza il danno fisico. L’unica direzione verso cui l’Australia sta dirigendo il mondo in materia di rifugiati è un precipizio” – ha commentato Neistat.

Sei decenni fa, fu la firma dell’Australia a far entrare in vigore la Convenzione sui rifugiati. Ora, per terribile ironia, è quello stesso paese a violare clamorosamente il diritto internazionale e a incoraggiare altri paesi a fare altrettanto” – ha aggiunto Neistat.

L’Australia ha speso miliardi di dollari australiani per creare e mantenere un sistema offshore intrinsecamente abusivo per esaminare le posizioni dei richiedenti asilo. Secondo fonti ufficiali, ogni anno questo sistema – vigente, oltre che a Nauru, sull’isola di Manus, che appartiene a Papua Nuova Guinea – è costato 573.000 dollari australiani (poco meno di 400.000 euro) a persona.

Buona parte di questo denaro è stato speso in contratti con aziende, molte delle quali hanno annunciato che cesseranno di lavorare a Nauru. Non pochi loro dipendenti hanno deciso di rivelare la disperata situazione sull’isola e per questo rischiano procedimenti penali.

“Le autorità australiane dovrebbero arrivare alla stessa conclusione: chiudere il centro di Nauru e fare un uso migliore delle tasse dei loro cittadini riconoscendo che i richiedenti asilo e i rifugiati che si trovano a Nauru hanno il diritto di fare ingresso in Australia immediatamente. Queste persone non possono aspettare un momento di più che si trovi una soluzione umana” – ha commentato Neistat.

Punire le vittime

I richiedenti asilo e i rifugiati che si trovano a Nauru sono diventati il bersaglio delle angherie e della violenza di parte della popolazione locale e anche di persone che sono in posizione di potere. Nonostante le attendibili prove emerse su decine e decine di aggressioni, anche di natura sessuale, a quanto risulta ad Amnesty International nessun cittadino nauruano è stato incriminato.

Al contrario, a essere arrestati arbitrariamente e imprigionati sono i richiedenti asilo e i rifugiati. Nelle parole di un fornitore locale, “si tratta di una prassi intimidatoria comune sull’isola”.

Hamid Reza Nadaf, un rifugiato iraniano con un figlio di otto anni, ha raccontato di essere stato imprigionato dal 3 giugno al 7 settembre 2016, sulla base di prove chiaramente fabbricate, con ogni probabilità come punizione per aver scattato delle foto all’interno del Centro per l’esame dei richiedenti asilo. Per buona parte dei tre mesi di prigione suo figlio, che è malato di tubercolosi, è stato lasciato completamente da solo.

Le autorità di Nauru hanno anche arrestato richiedenti asilo e rifugiati per atti di autolesionismo, ponendoli esattamente in quella condizione di reclusione a tempo indeterminato che è causa del profondo deterioramento della salute mentale di una persona.

“È un circolo vizioso: persone che cercano di porre fine alla loro vita per fuggire alla disperazione vanno a finire dietro le sbarre, in una prigione costruita dentro una prigione a cielo aperto” – ha spiegato Neistat.

Salute mentale in deterioramento

Quasi tutte le persone incontrate da Amnesty International, bambini compresi, sono in cattive condizioni di salute mentale. Secondo l’Ordine degli psichiatri di Australia e Nuova Zelanda, è innegabile che la detenzione a tempo prolungato o indeterminato abbia un effetto diretto e negativo sulla salute mentale.

A Nauru, le persone che hanno problemi di salute mentale o di altro genere non ricevono le cure di cui hanno bisogno. “Laleh” (nome di fantasia), una donna iraniana fuggita col marito e la loro figlia di tre anni, ha riferito ad Amnesty International di soffrire di depressione ma che “a quelli non interessa”.

Anche “Nahal”, la figlia di “Laleh”, ha sviluppato problemi di salute mentale durante i 18 mesi trascorsi in una tenda. Il medico che l’ha visitata ha prescritto farmaci inadatti ai bambini. Quando i genitori hanno protestato, ha risposto: “Se non vi sta bene, tornatevene al vostro paese”.

Permettere che la salute mentale peggiori senza fornire cure mediche adeguate pare far parte volutamente della politica di deterrenza adottata dal governo australiano.

Peter Young, ex direttore del reparto di Salute mentale dell’International Health and Medical Services, ha detto ad Amnesty International che nei contesti offshore di esame dei richiedenti asilo “ogni cosa diventa strumentale all’obiettivo di ‘fermare le imbarcazioni'”.

Un trattamento che costituisce tortura

Amnesty International è giunta alla conclusione che il sistema cui sono sottoposti i richiedenti asilo e i rifugiati a Nauru equivalga a tortura.

La combinazione tra la profonda sofferenza mentale dei rifugiati, il fatto che questa sia prodotta intenzionalmente e il ricorso all’esame offshore come mezzo d’intimidazione e coercizione allo scopo di raggiungere un obiettivo, significa che il sistema offshore australiano di esame dei richiedenti asilo rientra nella definizione che della tortura dà il diritto internazionale.

Il primo ministro australiano, Malcolm Turnbull, rivendica il fatto che il governo deve assicurare che il sistema deve rimanere “duro”.

Quando era ministro delle Comunicazioni, nel 2014, dichiarò: “Abbiamo posto in essere misure dure, qualcuno potrebbe anche chiamarle crudeli… Ma se vuoi fermare questo lucroso traffico di esseri umani devi essere duro, molto duro”. Nel settembre 2015, pur dicendosi preoccupato per la situazione sull’isola di Nauru, disse: “Ok, so che è duro ma dobbiamo avere una severa politica di protezione dei confini. Può anche essere dura ma funziona”.

Sebbene l’Australia non desideri che la reale dimensione degli abusi a Nauru sia resa pubblica e abbia adottato misure straordinarie per tenerla nascosta, i potenziali richiedenti devono sapere che se cercheranno di chiedere protezione via mare subiranno una punizione. Il “successo” dei controlli di frontiera dipende dunque dalla sofferenza umana.

“Il governo australiano sta vendendo al mondo come un successo una politica di cui ha riconosciuto la crudeltà. Ma una politica che legittima gli abusi sistematici è un punto morto, non solo per i rifugiati ma anche per l’Australia. È una politica che ha fatto conoscere questo paese come quello che fa di tutto per assicurare che i rifugiati non raggiungano le sue coste e per punire coloro che ci hanno provato” – ha concluso Neistat.

Fatti e cifre

Nauru ha una popolazione di 10.000 abitanti. Con la presenza di 1159 richiedenti asilo e rifugiati, è il terzo paese al mondo per il rapporto tra rifugiati e abitanti.

La superficie totale dell’isola è di soli 21 chilometri quadrati.

Il costo della politica di deterrenza (respingimenti, valutazioni offshore e detenzione obbligatoria) per il periodo 2013-2016 è stimato in 9,6 miliardi di dollari australiani (oltre 6,64 miliardi di euro), non tenendo conto delle spese legali a seguito di denunce, delle revisioni in appello e delle inchieste da parte di ispettori e agenzie nominati dal governo.

Secondo l’Ufficio studi del parlamento australiano, il sistema di valutazione offshore in vigore a Nauru e sull’isola di Manus costa ogni anno 573.000 dollari australiani a persona (quasi 396.000 euro).

Attualmente a Nauru si trovano 1159 richiedenti asilo e rifugiati: 410 all’interno del Centro per l’esame dei richiedenti asilo e 749 fuori da questa struttura.

Di queste 1159 persone, 173 sono bambini (134 dei quali rifugiati e 39 richiedenti asilo). A Nauru, il sistema di protezione dei minorenni è praticamente inesistente.

La maggior parte dei richiedenti asilo e dei rifugiati viene dall’Iran. Molti altri sono apolidi o provengono da Afghanistan, Iraq, Myanmar, Pakistan e Sri Lanka. Secondo un padre che si trova nel Centro per l’esame dei richiedenti asilo, la maggior parte dei quasi 40 bambini che si trovano in questa struttura – compreso suo figlio – ha la tubercolosi.

FINE DEL COMUNICATO                                                     Roma, 17 ottobre 2016

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/australia-nauru-una-prigione-a-cielo-aperto-per-i-rifugiati

Iraq, iniziata la battaglia per Mosul. Timori per i civili

Bandiera Isis a Mosul – giugno 2014

17 ottobre 2016

Con l’inizio delle operazioni militari per riprendere la città irachena di Mosul dalle mani dello Stato islamico, Amnesty International ha chiesto che sia fatto ogni sforzo per proteggere i civili dalle conseguenze dei combattimenti e da possibili rappresaglie.

Domani, 18 ottobre, Amnesty International renderà noto un nuovo rapporto, intitolato “Uccisi per i crimini di Daesh: violazioni dei diritti umani contro gli sfollati iracheni ad opera delle milizie e delle forze governative”, nel quale documenta le gravi violazioni dei diritti umani – compresi crimini di guerra – commesse dalle milizie e dalle forze governative irachene contro i civili sfollati durante precedenti operazioni militari. Il rapporto evidenzia il rischio che violazioni del genere, persino su scala più ampia, possano aver luogo durante l’offensiva su Mosul.

“Le autorità irachene devono adottare misure concrete per evitare che si ripetano le gravi violazioni dei diritti umani commesse a Falluja e in altre parti dell’Iraq durante gli scontri tra le forze governative e lo Stato islamico” – ha dichiarato Philip Luther, del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

“Le istruzioni del primo ministro iracheno Haydar al-Abadi circa la ‘cautela’ e la ‘vigilanza’ da usare per proteggere i civili devono essere più che semplici parole. Le autorità irachene dovranno esercitare comando e controllo effettivi sulle milizie e assicurare che chi è stato implicato in passate violazioni dei diritti umani non prenda parte alle operazioni di Mosul. Tutte le parti in conflitto dovranno prendere ogni misura possibile per evitare vittime civili” – ha aggiunto Luther.

Le autorità irachene e curde che stanno coordinando le operazioni militari dovranno assicurare vie d’uscita sicure per i civili in fuga dai combattimenti.

“I civili in fuga dovranno anche essere protetti da attacchi per rappresaglia e ricevere riparo e assistenza umanitaria. Di fronte allo scenario che un milione di civili lasci Mosul e le zone limitrofe, la situazione potrebbe rapidamente trasformarsi in una catastrofe umanitaria. Lo Stato islamico dovrà lasciare i civili liberi di abbandonare la città, evitando di usarli come scudi umani” – ha concluso Luther.

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/iraq-iniziata-la-battaglia-per-mosul-timori-per-i-civili

Usate armi chimiche in Darfur

giovedì, settembre 29, 2016

Come avevamo anticipato sul nostro blog lo scorso 30 aprile, in Darfur sono state usate armi chimiche. A confermare oggi le notizie che ci erano arrivate dai nostri contatti in Sudan e che avevamo tentato di verificare riscontrando grande ostracismo,  è stato anche impedito alla nostra presidente, nonché giornalista, Antonella Napoli di tornare in Sudan è un rapporto di Amnesty International che riportiamo di seguito.
Post sul Corriere di Riccardo Noury, portavoce Amnesty Italia
Le prime denunce le aveva fatte circolare Italians for Darfur, l’associazione che nel silenzio generale cerca da 13 anni di mantenere alta l’attenzione sui crimini di guerra del regime del presidente-latitante (ricercato dalla Corte penale internazionale) Omar al-Bashir, col quale l’Italia non disdegna di fare accordi per i rimpatri.
Oggi arriva la conferma da parte di Amnesty International: da gennaio al 9 settembre 2016 sono stati condotti con ogni probabilità almeno 30 attacchi con armi chimiche nella zona del Jebel Marra. A questa sconvolgente conclusione, l’organizzazione per i diritti umani è giunta attraverso riprese satellitari, oltre 200 approfondite interviste con sopravvissuti e l’analisi da parte di esperti di decine di immagini agghiaccianti di bambini e neonati con terribili ferite. (Non mostriamo alcuna di quelle foto; questo post si apre con un’immagine di archivio sulle devastazioni dei villaggi del Darfur).
Le vittime da esposizione ad agenti chimici tra i civili darfuriani sarebbero dalle 200 alle 250. Molte, se non la maggior parte di loro, erano bambini.
Centinaia di altre persone sono inizialmente sopravvissute agli attacchi ma nelle ore e nei giorni successivi hanno sviluppato gravi disturbi gastrointestinali, tra cui diarrea e vomito di sangue; la loro pelle si è riempita di vesciche, hanno cambiato colorito, sono svenute, hanno perso completamente la vista e hanno sviluppato problemi respiratori che sono descritti come la principale causa di morte.
Molte delle vittime hanno dichiarato ad Amnesty International di non aver potuto accedere alle medicine e di essere state curate con sale, frutti ed erbe.
Un uomo che ha aiutato molte persone del suo villaggio e di quelli circostanti e che si prendeva cura delle vittime del conflitto nel Jebel Marra sin dal 2003, ha detto di non aver mai assistito a niente del genere: nel giro di un mese 19 delle persone che aveva curato, compresi dei bambini, sono morte. Tutte avevano sviluppato profondi cambiamenti sulla pelle: la metà delle ferite era diventata di colore verde e sull’altra metà si erano composte vesciche purulente.
Gli agenti chimici erano contenuti in bombe aeree e in razzi. La maggior parte dei sopravvissuti ha raccontato che il fumo rilasciato a seguito dell’esplosione cambiava colore nel giro di cinque, al massimo 20 minuti. Inizialmente era scuro, poi tendeva a diventare più chiaro. Tutti i sopravvissuti hanno descritto la puzza del fumo come estremamente nociva.
Amnesty International ha sottoposto le sue conclusioni a due esperti indipendenti in materia di armi chimiche. Secondo entrambi, vi è il forte sospetto che siano stati usati agenti chimici vescicanti, come mostarda solforosa, mostarda al nitrogeno o lewisite.
Gli attacchi con armi chimiche sono avvenuti durante l’offensiva su vasta scala lanciata a gennaio nel Jebel Marra dalle forze armate sudanesi contro l’Esercito di liberazione del Sudan/Abdul Wahid (Sla/Aw), accusato di imboscate contro convogli militari e attacchi contro i civili.
Negli otto mesi successivi al lancio dell’operazione militare Amnesty International ha documentato numerosi attacchi contro i civili e le loro proprietà. Le immagini satellitari hanno confermato che sono stati distrutti o danneggiati 171 villaggi, nella maggior parte dei quali non vi era presenza di oppositori armati al momento dell’attacco. In 250.000 hanno dovuto lasciare la zona.
Terra bruciata, stupro di massa, uccisioni e bombardamenti. Sono esattamente gli stessi crimini di guerra che vengono commessi dal 2004, quando il mondo si accorse per la prima volta che esisteva un luogo sulla terra chiamato Darfur: un luogo sprofondato da 13 anni in un catastrofico ciclo di violenza. Nulla è cambiato da allora, se non che il mondo ha cessato di occuparsene. Nonostante la presenza di una missione di peacekeeping congiunta delle Nazioni Unite e dell’Unione africana, la popolazione civile del Darfur continua a vivere nel terrore.
Fonte:

SIRIA: ATTACCO AL CONVOGLIO DI AIUTI DELLE NAZIONI UNITE

Siria: l'”orribile” attacco al convoglio di aiuti delle Nazioni Unite é una flagrante violazione del diritto internazionale

Urum al-Kubra – 20 settembre 2016 © OMAR HAJ KADOUR/AFP/Getty Images

 20 settembre 2016

L’attacco di lunedì sera a un convoglio di aiuti delle Nazioni Unite e della Mezzaluna Rossa siriana, destinati a 78.000 persone ad Aleppo, è una flagrante violazione dei principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, ha dichiarato Amnesty International.

Testimoni in Siria hanno riferito all’organizzazione che il convoglio, insieme al magazzino della Mezzaluna Rossa siriana in cui erano stoccati gli aiuti, sono stati bombardati intensamente per due ore lunedì sera, aumentando il sospetto che le forze governative siriane abbiano deliberatamente preso di mira l’operazione di soccorso.

“Un prolungato attacco contro un convoglio umanitario e i suoi operatori, sufficientemente orribile in ogni circostanza, in questo caso avrà anche un impatto disastroso non solo per i civili disperati ai quali era destinata l’assistenza, ma per le operazioni umanitarie che salvano vite in tutta la Siria” ha dichiarato Philip Luther, direttore della ricerca e dell’advocacy per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.

“Se il convoglio è stato – come sembra – deliberatamente attaccato, questo sarebbe un ulteriore crimine di guerra commesso dal governo siriano. Mostra come i civili in Siria stanno pagando con la loro vita cinque anni di totale impunità per i crimini di guerra sistematici e i crimini contro l’umanità. Fino a quando la comunità internazionale non si impegnerà seriamente nel portare i responsabili davanti alla giustizia, questi crimini spaventosi continueranno ogni giorno”.

Il capo delle operazioni umanitarie dell’Onu, Stephen O’Brien, aveva dichiarato in precedenza che il convoglio era in viaggio con tutti i permessi necessari e che a tutte le parti coinvolte nel conflitto era stato notificato il suo percorso.

Dopo l’attacco, l‘Onu ha annunciato una sospensione temporanea di tutti i convogli di aiuti in Siria.

Almeno 20 civili sono stati uccisi durante l’attacco, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa.

I testimoni intervistati da Amnesty International hanno riferito che una serie di aeromobili, compresi elicotteri e aerei da combattimento di fabbricazione russa, hanno preso parte al bombardamento, nel comune di Urum al-Kubra nella zona ovest del governatorato di Aleppo. Ventuno dei 31 camion del convoglio sono stati parzialmente o completamente distrutti.

“Le esplosioni si sono concentrate solo sulle vicinanze del centro della Mezzaluna Rossa, che è lontano da qualsiasi presenza militare. Non ho potuto avviare un’operazione di ricerca e soccorso fino a che il bombardamento non si è fermato … è continuato per almeno due ore” un soccorritore a Urum al-Kubra ha raccontato ad Amnesty International.

Abu Haytham, un attivista, ha riferito di aver sentito un aereo da guerra nella zona, ma non avrebbe mai immaginato che l’edificio siriano della Mezzaluna Rossa sarebbe stato preso di mira. Quando è arrivato sul luogo dopo il bombardamento, molti camion erano in fiamme e l’edificio era stato distrutto.

“Ho visto corpi di uomini a terra” ha dichiarato. “Mi è stato detto che erano camionisti e volontari che avevano scaricato i camion. I camion avevano il logo dell’UNHCR. Gli aiuti includevano farmaci, cibo e altri generi disperatamente necessari.

FINE DEL COMUNICATO

 

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/siria-orribile-attacco-al-convoglio-di-aiuti-delle-nazioni-unite-e-una-flagrante-violazione-del-diritto-internazionale

UN POETA NELLE CARCERI DI ASSAD

 

Faraj Bayrakdar è stato torturato per quasi 14 anni in quanto scrittore dissidente. Oggi, pluripremiato e libero, sente che le sue sofferenze sono niente rispetto al dolore del popolo siriano

di Joshua Evangelista*

Dalla “festa di benvenuto”, la haflet al-istiqbal, inizia una lenta agonia che molto spesso porta alla morte. Il rapporto di Amnesty International racconta come si vive, e si muore, nelle carceri di Assad. Da decenni il regime siriano usa la tortura per stroncare gli oppositori, o presunti tali. Come è successo al poeta Faraj Bayrakdar, che ha passato quasi 14 anni dietro le sbarre, dal 1987 al 2000. «Tra un anno o due, dieci o venti la libertà si metterà la minigonna e mi accoglierà», scriveva in cella sul cartoncino delle sigarette, sperando di non essere visto dalle guardie. Oggi, rifugiato politico in Svezia, gira il mondo raccontando l’efferatezza del regime baathista, prima che la spettacolarizzazione della violenza plastica dei militanti dell’Isis renda definitivamente sopportabile le ingiustizie della dittatura all’opinione pubblica. «La memoria collettiva degli occidentali è piena di buchi e il regime è riuscito a trovare qualcuno peggiore per ripulirsi l’immagine. Così si dimenticano i passaggi che hanno portato a questa tragedia e si insiste con la retorica del male minore. È come se a un killer togli il pugnale insanguinato, gli dai una pacca sulla spalla e gli chiedi gentilmente di non farlo più».

Non ritiene inevitabile che l’attenzione sia concentrata sulla minaccia dell’Isis, soprattutto dopo gli ultimi attentati in Europa?

Nessuno può battere Isis, Jabhat al Nusra o le altre fazioni di matrice fondamentalista. Almeno finché non si rovescia Assad, che è l’altra faccia della medaglia. Mentre il mondo chiude gli occhi e sotto banco tratta con i terroristi, i media dimenticano che i massacri non vengono perpetuati solo dall’Isis.

Nel frattempo la guerra contro Isis sembra ben lontana dalla fine.

Potrebbero toglierli di mezzo subito, ma non conviene. Costa troppo. E chi paga? Arabia Saudita o Qatar? Prima che la guerra finisca si arriverà a un collasso totale. A quel punto il popolo tornerà alla vita di tutti i giorni, ma sarà una calma apparente. Non si dimenticherà cosa ha fatto il regime per mezzo secolo e come si è arrivati a questa spirale di fanatismo. Milioni di persone ogni notte incontrano nei loro incubi i propri morti e questo non è un problema che risolvi in venti anni. Gli incubi si tramandano di generazione in generazione.

Incubi che accompagnano i siriani anche nei disperati tentativi di raggiungere l’Europa.

L’Europa sta totalmente perdendo il controllo dei flussi migratori. Eppure tutti sapevano che rimuovendo il regime di Assad nel 2011 ciò non sarebbe accaduto. Ma evidentemente è più conveniente tenere milioni di disperati alle porte del continente.

Come siamo arrivati a questo?

Due settimane prima delle rivolte del 2011 ho scritto una lettera aperta all’Europa in cui criticavo Bruxelles per aver deciso di sostenere i “nostri” dittatori a discapito dei diritti umani. Erano le premesse per un’invasione di persone disperate, dissi.

Così è stato.

Non posso non ricordare i silenzi che hanno accompagnato i primi mesi della rivoluzione, quando centinaia di migliaia di persone laiche marciavano nelle strade chiedendo più diritti. Poi sono arrivate le bombe. E cosa hanno fatto gli occidentali? Invece di sostenere i giovani che sognavano una Siria libera, hanno destinato i propri soldi ai movimenti fondamentalisti: armi, cibo e medicine solo per loro.

Eppure molti di quei giovani hanno deciso di unirsi proprio ai quei movimenti.

È normale: sono i movimenti più ricchi. A Idlib conosco persone totalmente laiche che hanno deciso di combattere per l’Isis. Succede quando devi provvedere alla tua famiglia e gli altri non hanno nemmeno i soldi per darti un po’ di pane. E le potenze cosa fanno? Sostengono coloro che sono funzionali ai loro interessi, a occhi chiusi.

Non pensa che sia colpa anche di alleanze e scelte strategiche quanto meno discutibili da parte del fronte anti-assadiano?

Anche se i nostri rivoluzionari non fossero incappati in così tanti errori strategici, il risultato non sarebbe cambiato. Era stato già tutto deciso. Del resto anche il regime ha fatto tanti errori, eppure è lì, sempre forte.

Dalle sue parole traspare molto pessimismo.

Eppure non ho paura del futuro. Prima o poi i siriani ricostruiranno la Siria. Ma la soluzione inizia con la fine del regime. La storia insegna che siamo diversi da come veniamo dipinti dai media europei: non siamo mai stati paurosi delle minoranze. Faccio un esempio: da chi è stata gestita la transizione post francese? Da Fares al-Khoury, un cristiano, che è stato ministro, presidente e molto altro ancora. E per essere rappresentati nelle assemblee, i musulmani si rivolgevano a lui.

Se non ha paura del futuro, avrà immaginato come sarà ricostruzione. Quale sarà il ruolo della diaspora?

La diaspora tornerà in Siria, sosterrà la rinascita con soldi, training, con il know how appreso all’estero. Ma sarà chi è rimasto a costruire la nuova Siria. Ma, come per le crisi degli anni passati, dipenderà tutto dagli accordi che la nuova classe dirigente prenderanno con le potenze internazionali e dal “conto” economico e di persone che queste chiederanno. Noi, da fuori, faremo lobby, manderemo soldi: se necessario lavoreremo 14 ore al giorno e la metà del salario la destineremo alla ricostruzione.

A proposito di superpotenze impegnate in Siria, avrà sicuramente seguito il tentato golpe in Turchia. Le purghe che sono seguite hanno ricordato, a qualcuno, quelle che Hafez perpetrò nel 1982 nei confronti degli insorti della Fratellanza musulmana. 

Due cose sopra tutte le altre mi preoccupano della Turchia. La libertà d’espressione e la questione curda. Ma i paragoni non reggono: il regime turco non ha ancora perpetrato crimini di un livello equiparabile a quello siriano. Nel 1982 Assad bombardava Hama e faceva almeno 14000 morti. L’Erdogan del post golpe non ha ancora fatto nulla di simile, sebbene abbia arrestato migliaia di persone, ma è presto per farsi un’idea completa. Lo tengo d’occhio, può diventare una feroce dittatura.

Cosa ne pensa dell’accoglienza turca verso i migranti siriani?

A passarsela peggio sono i siriani in Libano. Dovremmo prima di tutto preoccuparci per le loro condizioni. I turchi sono stati accoglienti, anzi: il popolo ha dato più di quello che ha ricevuto. Sappiamo bene che un’Europa così attenta ai soldi e che non vuole spendere nell’accoglienza conviene mantenere i rifugiati in Turchia, questo è ovvio. Ma allora io lancio una provocazione: se è chiaro che nella società turca i siriani hanno maggiori possibilità di integrazione, i soldi europei per l’accoglienza ai rifugiati dovrebbero essere molti di più.

Nel frattempo però, la Turchia è scesa prepotentemente in campo contro i curdi del Rojava. Che idea si è fatto del confederalismo democratico curdo e, più in generale, del ruolo dei curdi nel conflitto?

Li stanno usando e quando la guerra sarà finita il mondo si dimenticherà di loro. Ha sempre fatto così. I curdi sono utopici, hanno grandi sogni. Eppure in tutto il corso della storia qualcuno li ha sfruttato. Li usano e poi li abbandonano. Io sono sempre stato, in Siria, un attivista per i diritti dei curdi. Lo ero quando Assad impediva di parlare la loro lingua, di preservare la loro cultura. Molti in Siria mi considerano un poeta curdo, addirittura. Lo dico, non stimo Saleh (co-presidente del PYD, ndr), non mi piace la sua ambiguità verso Assad. Ma penso che quando la guerra finirà la Siria dovrà fare i conti con la voglia d’indipendenza dei curdi. Andrà fatto un referendum per capire cosa vuole la popolazione delle regioni a prevalenza curda. Ma sono sincero, non credo che le super potenze permetteranno la creazione di uno stato del Kurdistan. Indipendenza o meno, io sarò sempre dalla loro parte e mi batterò affinché abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.

A Stoccolma lei è un punto di riferimento per i migranti che riescono a raggiungere la Svezia. Vede in loro lo stesso popolo che ha dovuto lasciare dodici anni fa?

Quasi tutti i siriano che arrivano qui hanno il mio numero e ricevo molte chiamate da chi è stato in prigione, hanno bisogno di parlare con qualcuno che ha vissuto lo stesso dramma. Non sono più gli stessi. Vedo nei loro occhi solo dolore e sofferenza, fatico a identificarli come siriani. Ma non vale solo per loro, dopo il 2011 tutti siamo cambiati in peggio. Anche la Svezia non è più la stessa rispetto a quando sono arrivato io.

E lei come è cambiato dopo 13 anni di segregazione e torture?

In carcere ero stato annullato e per questo motivo avevo dimenticato molte abitudini del vivere in comunità. Una volta uscito non sapevo più vestirmi, mi dimenticavo di salutare. Soprattutto: non sapevo più ridere. Non mi riesce bene nemmeno ora. Quando lo faccio mi sento graffiare la gola.

C’è un filo conduttore tra la sofferenza di allora e quella che prova ogni giorno vedendo il suo popolo sotto assedio?

No. È come se avessi sofferto per niente. Tutte le umiliazioni e le torture che ho subito sono nulla rispetto a quello che vive oggi il mio popolo. Mentre i miei aguzzini volevano vedermi agonizzante, sapevo che fuori da quelle mura c’era una famiglia che nonostante tutto sarebbe sopravvissuta. Oggi non è così. Tutti sanno che da un momento all’altro chiunque potrà ammazzarli.

Ha ancora senso fare poesia di fronte a una tragedia di queste dimensioni?

Alcuni miei colleghi riescono a produrre sulla Siria anche tre poesie al giorno. Io no. Negli ultimi cinque anni ho scritto pochi versi. E tra questi solo alcuni sulla Siria. In prigione avevo 24 ore al giorno per comporre. Ho pubblicato sette antologie, per intenderci. Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza.

E oggi come dà senso all’esistenza?

Dopo il 2011 la mia situazione è diventata ben più complicata. Perché la rivoluzione “impegna”. Passo le giornate sui social network per capire come sta il mio popolo. Inoltre ritengo che il mio ruolo di autore sia cambiato. In carcere scrivevo per me, cercavo la forma, una qualità di scrittura che appagasse la mia tribolazione. Oggi invece serve una dialettica semplice, devo raggiungere il popolo. Meglio fare video, postare foto sui social e rinunciare a un arabo ricercato. Ho scritto una canzone nel dialetto di Homs, su YouTube ha avuto tantissime visualizzazioni e al Jazeera ha fatto un documentario su di me che ha raggiunto milioni di persone. La gente è disinformata, il mio nuovo ruolo è creare consapevolezza. È un modo per non rendere vano il sacrificio dei 400 mila sognatori che nel 2011 erano scesi in piazza a Homs. O dei 600 mila di Hama. A questo punto della mia vita non ho più pretese personali. Mi basta sapere che sto facendo qualcosa per aiutare il mio popolo.


*Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata su “Il Dubbio” del 20 agosto 2016.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/09/siria-faraj-bayrakdar-poeta-carceri-assad/

VADEMECUM PER SOPRAVVIVERE ALLE PRIGIONI SIRIANE

Da:

http://frontierenews.it/2016/09/vademecum-sopravvivere-prigioni-siriane/

 

 

Dal 2011, anno in cui sono iniziate le sollevazioni popolari che hanno portato all’attuale rivoluzione siriana,  sono morte oltre 17mila persone nelle prigioni governative, molte delle quali dopo aver subito torture di ogni tipo (dalle scariche elettriche agli stupri). Un documento di Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 65 sopravvissuti, in cui vengono raccontate le agghiaccianti e inumane condizioni in cui vivono i detenuti nelle strutture detentive dei servizi di sicurezza siriani e nella prigione militare di Saydnaya, nei sobborghi di Damasco.


La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Molti detenuti hanno sviluppato gravi problemi di salute mentale a causa del sovraffollamento e della mancanza di luce solare.

‘It breaks the human’: Torture, disease and death in Syria’s prisons – Amnesty International, agosto 2016


Le testimonianze raccolte, oltre a mostrare il sadismo istituzionalizzato che prende di mira chiunque sfidi l’autorità costituita in Siria (oppositori, attivisti per i diritti umani, giornalisti, etc.), hanno tracciato un percorso mentale comune a cui i detenuti sopravvissuti sono dovuti ricorrere per superare l’orrore delle torture e della prigionia.

8 modi per sopravvivere ai lager siriani

1. Non rivelare le proprie condizioni mediche

“Nella ‘festa di benvenuto’, venne chiesto a ognuno di noi se fossimo in qualche modo malati o meno. Pensavo che avrei dovuto dire loro della mia insufficienza renale, così mi avrebbero trattato bene. Chiesero prima al mio amico, che rispose: ‘Sì, ho problemi respiratori. Ho l’asma’. La guardia disse ‘Va bene, il tuo è un caso particolare’. Iniziarono a picchiarlo, fino a lasciarlo senza vita, lì, di fronte a me. Quando arrivò il mio turno dissi che ero in perfetta salute, che stavo bene”.

La "festa di benvenuto". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “festa di benvenuto”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
2. Rimanere neutrali

“Le guardie mi costrinsero a guardare i loro colleghi picchiare i detenuti, per un ora. Usarono diversi oggetti, tubi, pali, persino una sbarra in ferro con dei chiodi all’estremità. Le prime tre volte piansi, ma quando lo feci le guardie iniziarono a picchiare anche me. Per il resto dell’ora dovetti rimanere completamente neutrale. Ripetevo a me stesso che non era reale, che era solo un film dell’orrore e che dopo quindici minuti sarebbe tutto finito”.

Il "tappeto volante". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
“Bisat al-Rish”, il “tappeto volante”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun

LA TRAGEDIA SIRIANA IN NUMERI

Oltre 17mila                        65mila                        Oltre 11 milioni

detenuti morti                                detenuti scomparsi                               sfollati e profughi

3. Stare al caldo

“D’inverno faceva molto freddo. Per non disperdere il calore dovemmo unire le lenzuola e avvolgerci in una sorta di bozzolo. Avevamo a nostra disposizione soltanto i vestiti che indossavamo durante l’arresto. Chi veniva arrestato d’estate soffriva tantissimo durante l’inverno”.

Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
4. Diventare una famiglia

“Gli altri prigionieri diventano molto più che fratelli. Si ottiene una vicinanza che nella vita normale non si può mai raggiungere. Persone con cui si era in contrasto, persone prima che si odiavano, in carcere diventano la propria famiglia. Atei e sunniti devoti diventano migliori amici. Abbiamo condiviso ogni cosa, anche i vestiti, e ci siamo sostenuti a vicenda quando uno piangeva o l’altro usciva fuori di testa”.

La "ruota". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “ruota”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
5. Dimenticare

“L’unico modo per fermare il tempo in prigione è pensare alla propria famiglia e ai propri amici. Ma poi si impara a lasciar perdere anche loro. Ho iniziato a dimenticare. Ho perso ogni memoria dei volti dei miei amici dell’università. Poi ho dimenticato ogni volto incontrato negli ultimi anni. Sono andato a ritroso, fino a quando riuscii a ricordare soltanto il viso di mia madre, quando ero piccolo”.

6. Mangiare qualsiasi cosa

“All’inizio ci diedero una scatola di arance e una di cetrioli. Iniziammo a mangiare le arance, gettando a terra le bucce, e gli altri prigionieri corsero ad addentarle. Per loro le bucce d’arancia erano così gustose. Una sorta di premio! Anche noi saremmo diventati come loro, fu uno shock tremendo. Iniziammo a mangiare persino i gusci d’uovo, per assumere il calcio. Mettevamo insieme riso, zuppo, bucce d’arancia e gusci d’uovo, il tutto avvolto in un pezzo di pane. In quel modo avevamo l’impressione di consumare un pasto vero. Era disgustoso mettere insieme tutte quelle cose, ma in qualche modo fu d’aiuto”.


Il governo italiano deve usare la propria influenza per assicurare che osservatori indipendenti siano autorizzati ad avviare indagini sulle condizioni di detenzione in Siria.

FIRMA L’APPELLO DI AMNESTY


7. Farsi torturare a turno

“La guardia ci chiedeva continuamente di mandare cinque persone da torturare. Ci organizzammo in modo da risparmiare i più giovani e i più anziani. Facemmo un gruppo di circa 20 persone, tra le più forti. Tre di noi andavano quasi sempre. Io andavo, perché avevo bisogno di urlare. Ero terrorizzato, perché ero diventato insensibili e non provavo più dolore, non avevo più alcuna emozione. Può sembrare strano, ma mi facevo avanti per essere picchiato in modo da poter sentire nuovamente qualcosa”.

Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
8. Barattare il cibo

“Iniziò tutto con un tizio che se ne stava seduto, in cella, e non faceva che piangere di continuo. Mi disse che aveva person ogni speranza di lasciare quel posto. ‘Non sono arrabbiato, sto solo morendo di fame. Penso soltanto al cibo’. Provai a pensare a come aiutarlo, ma eravamo in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Se gli avessi dato il mio cibo, sarei potuto morire; se lui ne avesse dato a me, sarebbe potuto morire lui.

Alla fine gli diedi il mio pezzo di pane e metà della mia porzione di riso. È lì che iniziò l’idea del baratto. Gli dissi che il prezzo per la mia mezza pagnotta era una pagnotta intera, ma che mi avrebbe potuto pagare un po’ alla volta, nell’arco di quattro giorni. Eravamo tutti senza cibo, nella miseria più totale, ma questo stratagemma ci aiutò a sopravvivere. Potemmo infatti condividere il cibo con chi soffriva di più e mantenere attiva la nostra mente. Stavamo sempre a pianificare qualcosa, a reagire, a restare umani. Prima i nostri cervelli poterono soltanto pensare ad una cosa: mangiare, mangiare, mangiare, mangiare. Ma nel tempo riuscimmo a unire le nostre menti per cooperare, per agire insieme”.

Gli stupri, un'arma quotidiana per annullare l'identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Gli stupri, un’arma quotidiana per annullare l’identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun

 

“Regeni marchiato e seviziato per giorni dai suoi aguzzini”

I risultati dell’autopsia sul ricercatore italiano ucciso in Egitto: sul corpo incise cinque lettere. I genitori: “Nostro figlio vittima di professionisti della tortura”

di CARLO BONINI e GIULIANO FOSCHINI

ROMA – Il corpo di Giulio Regeni è stato usato come una lavagna dell’orrore. Quattro, forse cinque lettere, tracciate da una lama in cinque punti diversi documentano incontrovertibilmente quello che a tutti era apparso da subito evidente. Nessun incidente. Per giorni, più mani di boia hanno torturato e marchiato, con sadismo e reminiscenze di altri secoli, il ricercatore italiano. Per poi, dopo giorni di sevizie, finirlo, ruotando il suo volto sfigurato su se stesso, fino a spezzargli il collo. Con quel corpo, con le fotografie contenute nelle 221 pagine di relazione del professor Vittorio Fineschi, da mesi a disposizione anche delle autorità del Cairo, torneranno da oggi a fare i conti i cinque investigatori egiziani che nelle prossime 48 ore incontreranno il procuratore Giuseppe Pignatone e il team di inquirenti italiani. Perché – come ora dicono i genitori di Giulio – “è stato il suo corpo, riconoscibile solo dalla punta del naso, a rimandare indietro ogni depistaggio. A stroncare il tentativo di accreditare che fosse drogato o vittima di un incidente stradale”.

IL MISTERO DELLE LETTERE
Nelle 225 pagine di esame autoptico il professor Fineschi fa un lungo esame delle torture subite da Giulio: ossa rotte, denti spezzati, tumefazioni ovunque. Segnala però alcuni particolari decisivi: qualcuno ha tracciato alcune lettere sul suo corpo. “Sulla regione dorsale – scrive Fineschi – a sinistra della linea si trovano un complesso di soluzioni disposte a confermare una lettera”. Stessa cosa all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. E poi sulla mano sinistra dove c’era una X. Lettera presente anche sulla fronte. Nessun incidente quindi. Ma torturatori professionisti. Ma chi ha voluto segnare il corpo di Giulio e perché lo ha fatto?

COLPITO CON PUGNI E BASTONI
Chiunque sia stato ha infierito sul corpo del ragazzo per giorni e in tempi diversi. Cinque i denti fratturati. Rotte anche le due scapole, l’omero destro, il polso, le dite delle due mani e dei due piedi, con entrambi i peroni ridotti in poltiglia. Ovunque ci sono segni di tagli e bruciature. “Si possono ipotizzare – si legge ancora nell’autopsia – che lo abbiano colpito con calci, pugni, bastoni, mazze” per poi scagliarlo ripetutamente a terra o contro alcuni muri. “Alcune lesioni cutanee – concludono i medici legali – hanno caratteristiche che depongono per una differente epoca di produzione avendo un timing differenziato”. Tradotto: Giulio è stato torturato ripetutamente, a distanza di giorni.

L’IRA DELLA FAMIGLIA
“Ci sembra chiaro che le torture che gli sono state inflitte, i tempi e le modalità dei supplizi che nostro figlio ha dovuto sopportare non possono che essere l’opera perversa di qualche professionista della tortura” dicono Paola e Claudio Regeni. “È evidente che non possiamo parlare di incidente ma non riusciamo ancora a capire come si possa dubitare che Giulio sia stato torturato; c’è un’azione mirata e sistematica sul corpo del povero Giulio. Azioni che possiamo ricondurre alle modalità già variamente e riccamente illustrate da vari rapporti internazionali, come quelli di Amnesty. So che per chi vive in Italia non esiste sistema cognitivo ed emotivo per anche solo riuscire ad immaginare cosa sia successo a Giulio. Ma il suo corpo parla”. Eppure l’Egitto continua a respingere ogni responsabilità.

L’INCONTRO
La famiglia di Giulio spera che da oggi qualcosa possa cambiare. Del resto, dopo il disastro della prima missione, il secondo viaggio degli investigatori egiziani a Roma è un punto segnato dal Governo nel tentativo di tenere inchiodato il Cairo a una cooperazione giudiziaria sin qui priva di risultati. Ma, in qualche modo, può anche trasformarsi in un’ultima chiamata. Per questo, il procuratore Giuseppe Pignatone, il sostituto Sergio Colaiocco, i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco che da febbraio lavorano al caso aspettano risposte precise dal procuratore generale egiziano, Nabil Ahmed Sadek. A cominciare dal famigerato traffico delle celle telefoniche della zona in cui Giulio venne sequestrato. Ieri – ed è un altro timido segnale positivo –sono arrivati alcuni documenti da Cambridge. Altri sono attesi nei prossimi giorni. “Siamo così abituati ai depistaggi – dicono Paola e Claudio – che siamo in una sorta di sospensione. Ma attendiamo. E non rinunceremo mai alla verità”.

© Riproduzione riservata
Fonte:

È «passatrice», arrestata deputata socialista svizzera

Lisa Bosia Mirra, deputata del partito Socialista Svizzero e presidentessa dell’associazione Firdaus, da anni attiva nel campo dei diritti dei migranti e in primissima linea per tutta l’estate nella gestione della situazione creatasi tra Como e Chiasso è stata arrestata ieri mattina. Il Pubblico ministero, la Polizia cantonale e le Guardie di confine del Canton Ticino hanno reso noto che a Stabio, frontiera al confine tra Svizzera e provincia di Varese, è stata fermata la deputata, assieme ad un uomo anche lui elvetico, mentre stava facendo transitare illegalmente quattro migranti minorenni. L’accusa è di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Secondo la polizia la donna faceva da apri pista, al volante di un’auto con targa ticinese, ad un un furgone, guidato da un uomo cinquantenne, con a bordo quattro migranti africani minorenni.

Il giorno precedente, mercoledì, a Chiasso si era svolta una conferenza stampa convocata da Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, e proprio dall’Associazione svizzera Firdaus, di cui Mirra è appunto presidentessa, dove sono state denunciate le violenze e le numerose violazioni delle normative vigenti state riscontrate nell’ambito dei respingimenti di cittadini stranieri effettuati negli ultimi mesi alla frontiera italo-elvetica. Alla conferenza stampa era presente anche Amnesty International Svizzera. Tra luglio e agosto, le autorità svizzere hanno effettuato quasi 7.000 riammissioni in Italia di cittadini stranieri, delle quali almeno 600 hanno riguardato minori non accompagnati. Lisa Bosia Mirra, presente alla conferenza stampa ha dichiarato: «Dal nostro punto di vista, il diritto di chiedere asilo non è stato e non sarà garantito se ciascuna delle persone respinte dal confine svizzero non potrà nuovamente esprimersi sulla propria volontà di chiedere protezione internazionale alla Svizzera. Oggi è impossibile determinare chi tra loro avrebbe voluto chiedere asilo al nostro Paese e chi invece voleva semplicemente attraversarlo per raggiungere altre destinazioni».

Così, il giorno seguente la dura denuncia dell’operato delle polizie di frontiera, una delle voci più attive e critiche sulla gestione di uomini e donne che cercavano di attraversare il confine italo-svizzero venga fermata in frontiera e consegnata all’opinione pubblica come “passatrice” illegale di migranti.

Molte le reazioni politiche ai due lati del confine. Deputati della Lega del Ticino e della Lega Nord attaccano la deputata, e in Svizzera chiedono a gran voce le sue dimissioni. Diverse voci di solidarietà si sono però alzate. «Lisa è una persona che stimo e ammiro molto, per il cuore, per la forza e il coraggio. E la stimo molto per quello che ha fatto e quello che fa. Gli ostacoli nel rendere pubbliche delle violazioni che lei ha potuto osservare da vicino, parlando con le persone sono in certi momenti delle montagne insormontabili. E i mezzi per arrivare a far luce su questi casi peggio ancora. Le sono vicina e sono certa che le risposte non tarderanno ad arrivare» scrive su Facebook, Nadia Pittà dei Verdi. E Tamara Funiciello, presidentessa della Gioventù Socialista, scrive su Twitter: «Lisa Bosia Mirra è un’eroina!». Per l’articolo 116 della Legge sugli stranieri «chi in Svizzera o all’estero, facilita o aiuta a preparare l’entrata, la partenza o il soggiorno illegali di uno straniero rischia di essere punito con una pena detentiva sino a un anno o con una pena pecuniaria».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/e-passatrice-arrestata-deputata-socialista-svizzera/

La manifestazione di venerdì 2 settembre è un atto di grande valore morale e politico

siria2

La manifestazione di venerdì 2 settembre per denunciare quello che sta avvenendo in Siria e chiedere un cessate il fuoco generalizzato e l’apertura di corridoi sicuri per gli aiuti umanitari alla popolazione civile è un atto di grande valore morale e politico. L’auspicio è che questa iniziativa possa contribuire a scuotere un’opinione pubblica italiana che appare indifferente di fronte alla tragedia più catastrofica di questo secolo, della quale ci si accorge solo quando arrivano le migliaia di fuggitivi che sono il prodotto di quella catastrofe. Oltre l’auspicio e l’adesione, mi sembra ineludibile una riflessione sull’anomalia rappresentata da questa manifestazione, come da altre che, nei mesi scorsi, l’hanno preceduta. L’anomalia che vedo è costituita dal fatto che manifestazioni come quella del 2 settembre debbano essere promosse da associazioni categoriali e da organizzazioni per i diritti umani, nella più totale latitanza di forze politiche e di “movimenti”, a partire da quello che una volta si definiva pacifista.

Il silenzio delle forze politiche e dei movimenti sulla Siria è più che sconcertante, è indecente. In cinque e passa anni di brutale repressione, di torture, di esecuzioni extragiudiziarie, di sparizioni forzate, di distruzione di intere città, non si è vista una sola mobilitazione da parte di quelle forze – politiche, associative e “di movimento” – che manifestasse solidarietà verso le vittime, prima ancora che condanna verso i carnefici. Una assenza che pesa come un macigno sulla loro credibilità.

Altrettanto latitante la sinistra politica, sociale e associativa si è mostrata nella vicenda di Giulio Regeni, giovane ricercatore appassionato di Gramsci, assassinato – dopo indicibili torture – dal regime egiziano del generale Al Sisi. A sette mesi di distanza dall’assassinio di Giulio, le sole iniziative volte a non farlo dimenticare (e a mettere sotto pressione il governo italiano affinchè non ceda nella richiesta di verità e giustizia) sono state promosse da Amnesty International o dagli oppositori egiziani in esilio.

E’ difficile comprendere le motivazioni della latitanza della sinistra rispetto a vicende che, in tutta evidenza, rivestono un’importanza cruciale per il presente e il futuro del nostro Paese e dell’intero Mediterraneo. Nel caso della dittatura egiziana, così come in quello siriano, una possibile chiave di lettura risiede nel doppio pregiudizio che permane (a vari livelli e con diverse declinazioni) nelle menti e nei cuori della sinistra intesa nel senso più ampio, dai partiti residui ai centri sociali e dai sindacati all’associazionismo.

Un doppio pregiudizio che, da un lato, vive ancora nella dimensione di un mondo bipolare, dove al circuito delle potenze capitaliste e dominato dall’imperialismo nordamericano si oppone un campo sistemico differente, imperniato sull’Unione Sovietica, sui Paesi del Patto di Varsavia e su quelli liberatisi dal colonialismo. In questa visione, schierarsi con chi appare avverso al circuito imperialista è un riflesso pavloviano, indifferente al fatto che quel mondo bipolare non esista più, come non esiste più un campo “socialista” che si differenzi sistemicamente da quello capitalista. Sembra roba da psichiatri, ma è tuttora il retropensiero di grandissima parte del ceto politico “di sinistra”.

Il secondo corno del pregiudizio è costituito dall’ostilità e dall’incomprensione verso il mondo arabo e islamico, del quale si individuano le caratteristiche negative (che non mancano di certo), ma al quale non si riconoscono gli enormi sforzi fatti per avanzare sul terreno della democrazia e della dignità, senza nemmeno rendersi conto di quanto questo atteggiamento sia intriso di razzismo e suprematismo.

Nei confronti della dittatura egiziana, non ci si mobilita in solidarietà con le vittime perchè si pensa che gli oppositori del generale Al Sisi sono i Fratelli Musulmani e, quindi, in fondo è meglio che al potere rimanga un farabutto, però “laico”, con buona pace di quel movimento dei lavoratori e del sindacalismo indipendente sul quale lavorava Giulio Regeni e che – a detta di tutti gli osservatori più competenti – rappresenta la vera minaccia per il regime dei Pinochet e dei Videla del Cairo.

Verso la tragedia siriana, l’atteggiamento della “sinistra” è analogo: impossibile negare che il regime di Assad sia una dittatura feroce e mafiosa ma, anche qui, dall’altra parte si vedono solo barbuti fanatici integralisti, dunque il dittatore è il “male minore”, anche qui con buona pace delle migliaia di intellettuali, avvocati, giornalisti, attivisti di sinistra e per i diritti umani perseguitati e sterminati dallo stesso regime che, con l’amnistia del 2011, rimetteva in libertà i militanti fondamentalisti e che per oltre un anno si è coordinato sul terreno con le bande dell’Isis per annientare i ribelli. In questo quadro, va collocato anche il vergognoso silenzio dei movimenti solidali con il popolo palestinese, che non hanno proferito parola di fronte al massacro dei rifugiati palestinesi in Siria e alla distruzione di Yarmouk e degli altri campi, con il prevedibile risultato che in Italia anche l’attenzione verso la questione palestinese ha toccato il suo punto più basso.

Credo che una riflessione su questi elementi – che ho trattato molto sommariamente – sia opportuna e necessaria, perchè il generoso impegno di alcuni intellettuali, delle associazioni categoriali e delle organizzazioni per i diritti umani non può sostituire a lungo quello delle forze politiche e sociali, per le quali dovrebbe essere di richiamo e di stimolo.

Germano Monti – Comitato Khaled Bakrawi

 

 

Fonte:

http://www.articolo21.org/2016/08/la-manifestazione-di-venerdi-2-settembre-e-un-atto-di-grande-valore-morale-e-politico/

 

Leggi anche qui: http://www.articolo21.org/2016/08/siria-sit-in-a-piazza-santi-apostoli-2-settembre-per-sostenere-lappello-alla-tregua/