Due prigionieri egiziani morti in quattro giorni

Egitto. Abdallah ucciso da un infarto, Ahmed dalle torture. La polizia: è caduto dalla camionetta, anzi da un palazzo. In carcere i detenuti sono vittime di abusi e mancanza di cure. Centro Al Nadeem: nel 2016 71 casi, 137 nel 2015

Secondo le associazioni per i diritti umani, sarebbero 60mila i prigionieri politici egiziani

Due morti in quattro giorni dietro le sbarre di una prigione egiziana. Il conto delle vittime della brutalità della polizia o dell’assenza di cure mediche nelle carceri va aggiornato di giorno in giorno.

Ieri Abdallah M. E., 58 anni, è morto in una stazione di polizia di Alessandria. Secondo la procura, ha avuto un attacco di cuore. La polizia dice di aver subito chiamato i soccorsi, ma il detenuto è spirato prima dell’arrivo dell’ambulanza.

Non certo un caso isolato: il 17 agosto a morire in una stazione di polizia a Fayoum era stato Abdel Halim Abdel Hayy, arrestato venti giorni prima con l’accusa di aver dato alle fiamme una caserma nel 2013, durante una protesta anti-golpe dei Fratelli Musulmani. Condannato a 15 anni, godeva di cattive condizioni di salute legate all’età, 71 anni. La famiglia chiedeva il ricovero in ospedale, ma le autorità carcerarie l’hanno negato.

Il 13 agosto era morto Ibrahim Saleh Hashish, insegnante di arabo di 58 anni, stavolta in un ospedale di Damietta dove era stato portato qualche giorno prima dalla polizia carceraria perché le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate. Era affetto da tumore ai reni che in prigione, dove si trovava dal luglio 2015 (anche lui con l’accusa di aver partecipato a scontri nel 2013 accanto alla Fratellanza), nessuno ha curato. La famiglia aveva chiesto che venisse rilasciato per ragioni mediche.

E se in carcere non si muore di mancanza di cure, si muore di pestaggi. L’ultima vittima accertata è uno studente di medicina di 28 anni, Ahmed Kamal. Era stato arrestato lunedì mattina. Su di lui pendeva una condanna a due anni, comminata a febbraio, per aver preso parte lo scorso anno a proteste non autorizzate.

Un reato comune in Egitto dal novembre 2013 quando il generale al-Sisi, a pochi mesi dal golpe e dalla strage di manifestanti islamisti a Rabaa (tra 1.000 e 1.500 morti), emanò una legge che vieta manifestazioni che le autorità non abbiano prima avallato.

La sera stessa, alle 23,30 di lunedì, Ahmed è morto. Il giorno dopo la famiglia ha identificato il corpo, mentre l’autopsia preliminare indica in una grave fattura alla testa e la conseguente emorragia le cause del decesso. Il legale della famiglia ha già chiesto l’apertura di un’inchiesta contro i poliziotti che lo avevano in custodia.

La polizia, da parte sua, dà la sua versione. Anzi, due. Ahmed, dicono, è morto cadendo mentre cercava di fuggire da una camionetta. È anche morto cadendo dal secondo piano di un edificio a Nasr City, dal quale si è lanciato per sfuggire ad una retata in una casa di prostituzione. Peccato che – spiega l’avvocato Ahmed Saad Sabah – non ci siano intorno alla ferita abrasioni tipiche di una caduta. Parla anche il fratello, Mohamed: il volto di Ahmed era pieno di ematomi.

Secondo il Nadeem Center, organizzazione che da vent’anni segue i casi di torture e abusi da parte delle forze di sicurezza, solo a luglio almeno 10 prigionieri sono morti per mancanza di assistenza sanitaria o torture. Fuori, in strada, le vittime di polizia e esercito sono state 99. In un mese soltanto.

Da gennaio a fine luglio 2016 i morti in custodia sono stati almeno 71; nel 2015 137 (a cui vanno aggiunti 328 morti in scontri con la polizia); nel 2014 almeno 90 solo nei governatorati di Giza e del Cairo. E, calcola Al Nadeem, nei primi 100 giorni di governo al-Sisi (da luglio a settembre 2013) i deceduti in carcere sono stati per lo meno 35.

Le giustificazioni che la polizia adduce a certe morti sono più o meno le stesse: le origini della morte di Regeni sarebbero da cercare in ambienti omosessuali, dissero; Khaled Said, ucciso nel 2010, era un trafficante di droga. Per molti si tratta di meri insabbiamenti, punta dell’iceberg di una macchina repressiva ben collaudata. Tra i suoi ingranaggi c’è la legge anti-terrorismo voluta da al-Sisi. Normativa controversa, che soffoca la libertà di espressione e manifestazione, ora è sul tavolo della corte costituzionale.

Nel mirino c’è proprio l’articolo che vieta le proteste non autorizzate dalle autorità. Il primo ottobre l’Alta Corte dovrà rivedere (su appello di avvocati per i diritti umani) la disposizione che ha permesso in tre anni l’arresto di decine di migliaia di persone, portando a 60mila il numero – presunto – di prigionieri politici.

 

 

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/due-prigionieri-egiziani-morti-in-quattro-giorni/

LA FAVOLA DEI PALESTINESI TERRORISTI E DEGLI ISRAELIANI VITTIME

Lo sospettavamo già. Quella storia del rapimento dei tre coloni da parte di Hamas faceva acqua da tutte le parti: un rapimento senza rivendicazione e di conseguenza alcun tipo di richiesta, come un possibile scambio di prigionieri, che scopo poteva avere?  A che pro rapire tre coloni a caso per poi farli ritrovare cadaveri in campagna dopo diversi giorni? Non aveva senso appunto. Il boia Netanyahu da subito sapeva della morte già avvenuta dei tre giovani e l’ha tenuta nascosta per colpire la popolazione palestinese fingendo di cercarli: le “prove generali” dell’attuale attacco. Ma anche gli altri governi e  i media ci hanno raccontato questa storia senza avanzare dubbio alcuno perchè la favola dei palestinesi terroristi e degli israliani vittime continuasse a diffondersi. Tutto era stato preparato perchè si potesse giustificare l’ennessimo attacco genocida d’Israele con la scusa della “guerra” al terrorismo di Hamas. Ma questa volta l’inganno è palese. La storia non vi assolverà.

D. Q.

 

Qui un articolo pubblicato su  il manifesto di ieri e su Nena News:

 

27 lug 2014
by Redazione

La BBC riporta le dichiarazione del portavoce della polizia Rosenfeld: “Hamas non era coinvolta”. Così Tel Aviv ha giustificato un attacco preparato da tempo.

 

Netanyahu pointing both fingers in front of microphone

 

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Gerusalemme, 27 luglio 2014, Nena News – Crolla il castello di carte di Benjamin Netanyahu. A soffiarci su è la sua stessa polizia. Due giorni fa il portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, avrebbe rivelato alla BBC che la leadership di Hamas non è stata in alcun modo coinvolta nel rapimento e l’uccisione dei tre coloni, Naftali Fraenkel, Gilad Shaer e Eyal Yifrah,il 12 giugno scorso. Dietro l’azione, una cellula separata che ha agito da sola.

A rivelarlo è Jon Donnison in una serie di tweet in cui il corrispondente della BBC riporta le dichiarazioni di Rosenfeld: «Il portavoce mi ha detto che gli uomini che hanno ucciso i tre coloni israeliani sono una cellula separata, affiliata ad Hamas, ma non operante sotto la sua leadership. Ha anche detto che se il rapimento fosse stato ordinato dai leader di Hamas, lo avrebbero saputo prima».

Dichiarazioni che minano alla base la campagna punitiva lanciata dal governo israeliano e l’offensiva contro Gaza. «Sono stati rapiti e uccisi a sangue freddo da animali – disse dopo il ritrovamento dei tre corpi il premier – Hamas è responsabile e Hamas pagherà». Ben prima era cominciata una durissima operazione militare contro Cisgiordania e Gaza, subito dopo la scomparsa dei tre nei pressi di una colonia vicino al villaggio palestinese di Halhul, alle porte di Hebron. Il governo di Tel Aviv accusò immediatamente Hamas, nonostante il movimento abbia da subito negato qualsiasi coinvolgimento. In due settimane, fino al 30 giugno, giorno del ritrovamento dei tre corpi a poca distanza dal luogo del rapimento, 7 palestinesi sono stati uccisi, oltre 550 sono finiti in manette (molti dei quali rilasciati nell’autunno 2011 con l’accordo Shalit), perquisizioni, permessi di lavoro ritirati, raid nei villaggi. E bombardamenti, i primi, isolati, contro la Striscia. 

Un’operazione che Israele giustificò con la necessità di ritrovare vivi i tre coloni. Eppure il governo israeliano, lo Shin Bet (i servizi segreti) e l’esercito sapevano – dicono diversi giornalisti – fin dal primo giorno che i tre erano già stati uccisi. La sera del rapimento uno di loro chiamò il numero di emergenza della polizia chiedendo aiuto. Durante la telefonata, registrata, si sentono degli spari e qualcuno gridare «ne abbiamo tre». I tre coloni erano già morti. E Israele ne era conoscenza. Subito il governo ha imposto il silenzio stampa ai media israeliani e lanciato una brutale campagna di propaganda, sia all’estero che in casa, contro il movimento islamista. Nei giornali e le tv non sono passate notizie fondamentali, come il ritrovamento dell’auto con cui i tre coloni erano stati portati via e all’interno della quale erano state trovate tracce di sangue. Intanto, fuori dalle stanze dei bottoni, si infiammava la rabbia della società israeliana e si innalzavano a livelli incontrollabili i tassi di violenza e razzismo anti-arabo, contemporaneamente al grado di consenso del premier Netanyahu.

Impossibile per Tel Aviv lasciarsi scappare una simile occasione: liberarsi di Hamas, giustificandola con un atto tanto brutale, e scaricare la colpa per il fallimento dei negoziati di pace sulla controparte palestinese. In realtà, hanno rivelato fonti militari dopo il lancio dell’operazione Barriera Protettivacontro Gaza, i generali dell’esercito avevano sul tavolo da almeno due mesi il piano di attacco contro la Striscia. E Hamas? Difficile credere che abbia ordito una simile operazione, consapevole che avrebbe provocato una reazione in grado di far crollare il processo di riconciliazione nazionale con Fatah. Al momento del rapimento, il movimento islamista viveva una profonda crisi politica ed economica: isolato dal resto del mondo arabo, privo dei finanziamenti e della legittimità politica che gli garantiva l’Egitto del presidente islamista Morsi, incapace perfino di pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza, Hamas aveva estremo bisogno del governo di unità nazionale con il rivale Fatah. A livello politico, il rapimento dei tre coloni sarebbe stato un suicidio.

Se l’opinione pubblica israeliana non ha mai voluto mettere in discussione le scelte del proprio governo, bevendosi bugie e omissioni, una piccolissima fetta della società israeliana non è rimasta in silenzio. Nei giorni scorsi sono state tante le manifestazioni di protesta a Tel Aviv, Jaffa e Haifa contro i massacri in corso a Gaza. Migliaia di persone in strada, fino a ieri: il movimento pacifista israeliano ha organizzato una grande protesta a Tel Aviv che la polizia ha tentato di impedire. «Le forze di sicurezza hanno bloccato i bus da Hiafa e Gerusalemme, chiuso le strade e minacciato di arrestare chiunque vi prenda parte – ci dice al telefono uno degli attivisti israeliani – Andremo comunque, vediamo cosa succede. La giustificazione che hanno dato è il pericolo di missili». Alle 20, ieri sera, erano già 3.000 i pacifisti in marcia.

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