Secondo quanto riportano le testimonianze, fra 6 aprile e il 20 aprile 1994, Seromba fece abbattere a colpi d’artiglieria la propria chiesa al fine di uccidere circa 2000 Tutsi che visi erano rifugiati attirati dallo stesso sacerdote. Poi, partecipò attivamente anche al successivo massacro dei pochi superstiti. Per sfuggire alla giustizia, Seromba fuggì prima nella Repubblica Democratica del Congo, poi in Toscana sotto falso nome. In Italia, fu accolto nella parrocchia dell’Immacolata e S. Martino in Montugni di Firenze. Solo nel 2002 si consegnò alla giustizia internazionale che nel 2008 lo condannò all’ergastolo.
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Usate armi chimiche in Darfur
giovedì, settembre 29, 2016
Sudafrica, quattro anni fa la strage alla miniera di Marikana
15 AGOSTO 2016 | di Riccardo Noury
Domani sarà il quarto anniversario della strage alla miniera di platino sudafricana di Marikana.
Il 16 agosto 2012 la polizia sudafricana aprì il fuoco (nella foto Reuters) contro i minatori in sciopero. Si contarono 34 morti e 70 feriti in modo grave, 10 dei quali decederono nei giorni successivi.
I minatori chiedevano l’aumento del salario e alloggi migliori.
Lavoravano per conto di Lonmin, il terzo produttore di platino al mondo, di proprietà britannica dal 1909 e che da Marikana, nella provincia del Nord-ovest, estrae il 95 per cento del suo prodotto. Il Sudafrica possiede quattro quinti delle riserve mondiali di platino.
Nel 2012 migliaia di minatori vivevano in condizioni di puro squallore intorno a Marikana.
Lonmin lo sapeva bene tanto che, nel 2006, si era assunta l’onere di legge di costruire 5500 nuovi alloggi e trasformare entro il 2011 gli ostelli per soli uomini in strutture abitative per famiglie.
Alla fine di quell’anno, tuttavia, Lonmin aveva costruito unicamente tre case-tipo da mostrare a eventuali acquirenti e aveva modificato solo 60 dei 114 ostelli.
Per quanto riguarda l’esito delle indagini sulla strage dei minatori, siamo lontanissimi dall’accertamento delle responsabilità. Solo nel 2015 si è arrivati alla sospensione dall’incarico di Riah Phiyega, commissaria nazionale della polizia sudafricana.
I motivi che diedero luogo alle proteste, stroncate nel sangue, stanno ancora tutti là.
La Commissione d’inchiesta presieduta dall’ex giudice Jacob Farlam, istituita dal governo per fare luce su quanto accadde il 16 agosto 2012, lo ha scritto nero su bianco nelle sue conclusioni: le condizioni abitative erano estremamente misere e ciò fece esplodere la tensione (nei giorni precedenti vi erano stati altri 10 morti, tra cui agenti di polizia e guardie di sicurezza).
Del resto, che gli alloggi fossero “veramente terribili” e che ciò avesse contribuito a pregiudicare le relazioni e il rapporto di fiducia tra i minatori e l’impresa, non lo ha negato neppure Lonmin, audita dalla Commissione.
Anche se nel 2014 è stata completata la modifica degli ostelli, la maggior parte dei 20.000 minatori vive ancora in tuguri, come l’insediamento informale di Nkaneng. L’acqua e l’elettricità possono mancare anche per molti giorni.
In uno scambio di lettere con Amnesty International, Lonmin ha ammesso che 13.500 minatori sono ancora privi di un alloggio che possa chiamarsi tale ma ha ribadito di non avere intenzione di onorare l’impegno a costruire 5500 alloggi assunto nel 2006.
Per questo motivo, Amnesty International ha ufficialmente chiesto al ministero sudafricano delle Risorse minerarie di approfondire la questione e, nel caso, sanzionare Lonmin per il mancato rispetto degli impegni.
Fonte:
Sud Sudan: fragile coprifuoco dopo giorni di scontri
Dopo cinque giorni di combattimenti nella capitale del Sud Sudan, Juba, ieri sera è stato raggiunto un nuovo, fragile cessate-il-fuoco.
Lo ha decretato ieri pomeriggio il presidente Salva Kiir e, poco dopo, lo ha condiviso il suo rivale, il vicepresidente Riek Machar.
Dal 7 luglio, quando sono ripresi gli scontri tra le forze armate rivali, centinaia di persone sono morte e migliaia hanno lasciato Juba, diretti verso le chiese e i campi allestiti dall’Onu per gli sfollati, a loro volta sotto i colpi d’artiglieria. Per chi è rimasto in città, ora il pericolo è costituito dalle insufficienti forniture di cibo e di acqua.
Il 10 e l’11 luglio colpi d’artiglieria hanno colpito le aree residenziali a ridosso del quartiere di Jebel, dove ha sede la base del vicepresidente Riek Machar. Diversi civili sono rimasti feriti e varie abitazioni hanno subito danni.
Dall’esplosione del conflitto, risalente ormai al dicembre 2013, i due leader rivali – uniti nella lotta per l’indipendenza dal Sudan e in seguito acerrimi nemici – si fanno beffe del diritto internazionale, secondo il quale è illegale tanto attaccare obiettivi civili (per non parlare dei centri profughi dell’Onu) quanto nascondere obiettivi militari all’interno di centri abitati. Per non parlare di veri e propri crimini di guerra contro le donne.
Il peggio è che, a quanto pare, i due leader non controllano più le forze a loro fedeli. Venerdì scorso i combattimenti sono ripresi proprio mentre Salva Kiir e Riek Machar erano a colloquio nel palazzo presidenziale. Inutile l’appello congiunto alla moderazione, fatto poco dopo nel corso di una conferenza stampa.
Per evitare ulteriori ostilità, sarebbe necessario un embargo completo sulle armi dirette in Sud Sudan, decretato dal Consiglio di sicurezza, cosa di cui al momento non si parla, nonostante venga sollecitato da quasi due anni. Difficile del resto, quando tra i membri permanenti siedono alcuni tra i principali fornitori globali di armi.
Fonte:
/http://lepersoneeladignita.corriere.it/2016/07/12/sud-sudan-fragile-coprifuoco-dopo-giorni-di-scontri/
Fermo, Emmanuel sta morendo. L’ha ucciso la violenza razzista
06 luglio 2016
Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche.
Nigeriano picchiato a sangue a Fermo da un giovane, che secondo le ricostruzioni avrebbe insultato pesantemente e strattonato la compagna. I due giovani sono accolti dalla Fondazione Caritas in veritate, guidata da don Vinicio Albanesi. Che afferma: “Ci costituiremo parte civile. Sono gli stessi che hanno messo le bombe davanti alle nostre chiese”
Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche. Emmanuel, insieme, alla compagna Chimiary, sono ospiti da otto mesi del seminario arcivescovile di Fermo, nel progetto gestito dalla Fondazione Caritas in veritate di don Vinicio Albanesi. Accolti dopo esser sfuggiti a Boko Haram, dopo aver attraversato il Niger, superato le terribili violenze della Libia e sbarcati nel nostro paese.
Nel gennaio scorso era stato lo stesso don Albanesi ad unirli informalmente in matrimonio, presso la Chiesa di San marco alle Paludi. Un sogno che si era avverato per i due giovani, visto che proprio per sfuggire alle violenze non erano riusciti a coronare il loro sogno di amore in Nigeria.
Scrive Massimo Rossi, ex presidente della Provincia di Ascoli, esponente molto conosciuto di Rifondazione comunista
Chimiary é stremata, distrutta, inconsolabile. Qui nel reparto rianimazione dell’ospedale, le stanno proponendo la donazione degli organi di Emanuel, per dare la vita, magari, a quattro nostri connazionali… Lui, Emanuel, che era scampato agli orrori di Boko Haram nella sua Nigeria; con lei, la sua amata compagna, era sopravvissuto alla traversata del deserto, alle indicibili violenze della Libia, alla tragica lotteria della traversata del mare. Da noi si aspettava finalmente umanità, protezione ed asilo. A Fermo, nella mia “tranquilla” provincia, ha invece incontrato la barbarie razzista che cresce nell’indifferenza, nell’indulgenza e nella compiacenza di larghi settori della comunità, della politica, delle istituzioni. L’hanno ammazzato di botte dopo averlo provocato, paragonandolo ad una scimmia, due picchiatori, figli della città, cresciuti nell’umus del fascistume infiltrato ampiamente nella tifoseria ultras. Loro, che paragonarli alle bestie offende l’intera specie animale. Le mie lacrime, le nostre lacrime e la nostra vergogna per questo orrore che si é nutrito della putrefazione della nostra insensibilità, del nostro egoismo e delle nostre paure non basta affatto. Cosa dobbiamo attendere ancora per mettere al bando con ogni mezzo, tutti noi, cittadini e Istituzioni, il razzismo e fascismo che si annida nella nostra vita sociale e politica?
Da sinistra: Letizia Astori, Don Vinicio Albanesi, Suor Rita Pimpinicchi. Foto Zeppilli | ||||
La vicenda. Era il primissimo pomeriggio di ieri quando Emmanuel e Chimiary stavano passeggiando in centro città, diretti verso la piazza principale per acquistare una crema. I due si sono imbattuti in due giovani italiani, già conosciuti per la loro appartenenza al tifo organizzato della locale squadra di calcio. Secondo la ricostruzione della compagna di Emanuel, uno dei due avrebbe iniziato a insultare con epiteti razzisti la giovane, cominciando a strattonarla, tanto da suscitare la reazione di Emmanuel. Ne sarebbe scaturita una rissa, con un paletto della segnaletica estratto dalla strada, violenti fendenti e un colpo probbailmente decisivo che ha raggiunto il giovane Nigeriano alla nuca. Una volta a terra, sempre secondo il racconto di Chimiary, il giovane sarebbe stato colpito ripetutamente. Soccorso dai vigili, dagli agenti di polizia e dai sanitari, dopo lunga attesa, le condizioni del giovane sono sembrate disperate. Alla ragazza, invece, sono stati concessi cinque giorni di prognosi.
La Fondazione si costituisce parte civile. “Una provocazione gratuita, a freddo – ha ricostruito oggi in conferenza stampa don Vinicio Albanesi -. Ci costituiremo parte civile, nella veste di realtà a cui i due ragazzi sono stati affidati”. Sono 124 i profughi accolti nella struttura del seminario di Fermo, tra cui 19 nigeriani. Non solo: “Per questa sera abbiamo già organizzato una veglia di preghiera. Vogliamo pregare e chiedere perdono per non aver saputo proteggere e accogliere una giovane vita, sfuggita al terrore per trovare poi la morte in Italia”. Ora il pericolo da scongiurare è una escalation di nervosismo tra i profughi o in città: “Non accettiamo vendette. C’è un ragazzo in condizioni disperate e un altro che ha rovinato la sua vita e quella della sua famiglia”. Linciaggio e bombe: stessa mano? Nel corso della conferenza stampa, don Albanesi ha anche lasciato trapelare una indiscrezione importante: “Ci sono piccoli gruppi, di persone che si sentono di appartenere evidentemente alla razza ariana! Fanno capo anche alla tifoseria locale e secondo me si tratta dello stesso giro che ha posto le bombe davanti alle nostre chiese! E se lo dico, significa che non è una semplice impressione…”. Una dichiarazione che sembra imprimere una svolta importante anche alle indagini sui diversi attentati di cui sono stati fatte oggetto quattro chiese fermane nei primi mesi dell’anno.
Una storia d’amore finita tragicamente. Quella di Chimiary ed Emmanuel è una storia d’amore iniziata in Nigeria, che aveva superato le terribili violenze in Libia (per le botte ricevute, la giovane in stato di gravidanza si era sentita male durante il viaggio in mare, tanto da abortire al suo arrivo in Italia), le difficoltà nel nostro Paese. Emanuel aveva avuto problemi di salute, tanto che per lui la Commissione territoriale aveva chiesto un supplemento di istruttoria nella richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari. “Ci sono ottime possibilità che il permesso venga concesso”, ha sottolineato l’avvocato Letizia Astorri. Lo scorso mese di gennaio, come ricordato, era stato lo stesso don Vinicio Albanesi a unirli in matrimonio, seppur in maniera “non regolare” vista la mancanza di documenti dei due giovani. La liturgia cristiana, celebrata da don Albanesi nella veste di parroco e di presidente della Fondazione che li ha accolti, è stato infatti un matrimonio privo di effetti civili poiche i due ragazzi non avevano i documenti necessari. Questo però non aveva impedito ai due di realizzare il sogno maturato nella terra di origine. © Copyright Redattore Sociale Fonte: http://popoffquotidiano.it/2016/07/06/fermo-emmanuel-sta-morendo-lha-ucciso-la-violenza-razzista/ |
Burkina Faso, Al Qaida attacca Ouagadougou: 29 morti tra cui un bimbo italiano
La moglie ucraina e il figlio di 9 anni del proprietario italiano del Cappuccino Café di Ouagadougou sono morti. Lo ha annunciato il ministero degli Esteri di Kiev, precisando che tra le vittime figurano anche la madre e la sorella ucraine della moglie di Gaetano Santomenna. La Farnesina in precedenza aveva fatto sapere che tra le vittime ci sarebbe potuto essere il bambino, precisando tuttavia che verifiche erano in corso.
Intanto è salito a 29 il numero dei morti nell’attacco di venerdì sera a Ouagadougou, secondo un nuovo bilancio fornito dal governo del Burkina Faso, citato dai media locali. Nel Paese cominciano intanto oggi i tre giorni di lutto nazionale per le vittime della strage jihadista.
Il terrorismo jihadista ha colpito il Burkina Faso trasformando un hotel di lusso e un ristorante per stranieri in un inferno di morte, piombo e fiamme che hanno squarciato la notte nel centro della capitale Ouagadougou per oltre 12 ore. L’azione, rivendicata da Al Qaida per il Maghreb Islamico (Aqmi), si è conclusa quando l’Hotel Splendid e il vicino hotel Yibi sono stati “liberati” dalle forze speciali francesi e locali: a fronte di 126 persone – fra cui un ministro burkinabè – portate in salvo, 33 delle quali ferite, i quattro terroristi, fra i quali due donne, si sono lasciati dietro un bilancio di 29 persone trucidate di almeno 18 nazionalità (almeno due delle quali francesi, secondo Parigi, una americana e sei canadesi secondo il premier Justin Trudeau) prima di venire abbattuti uno ad uno.
L’ultimo dei terroristi, che si era asserragliato allo Yibi, è stato ucciso dai militari francesi a mattinata inoltrata. Ed è stata proprio la massiccia presenza militare francese nel Sahel a indirizzare la mano dell’Aqmi: “Una vendetta contro la Francia e i miscredenti occidentali”, ha dichiarato il ramo nordafricano di Al Qaida, captato dal Site, che ha precisato che l’assalto è stato compiuto da “combattenti del battaglione Morabitoun” (le Sentinelle) facente capo a Moktar Belmoktar, già autore dell’assalto all’impianto del gas in Algeria e lo stesso che a novembre, in un’impresa simile pochi giorni dopo l’azione dell’Isis a Parigi, compì un analogo massacro all’hotel Radisson Blu di Bamako, nel vicino Mali: bilancio 20 morti.
Mattarella, terroristi distruggono senso umanità – “La mano violenta dei terroristi non si ferma nemmeno di fronte a un bambino di nove anni”. Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “L’esecrabile attentato compiuto in Burkina Faso, nel quale è rimasto ucciso il piccolo Michel Santomenna, dimostra, una volta di più – osserva Mattarella – che l’obiettivo del terrorismo fondamentalista è distruggere ogni regola di civiltà e il senso stesso di umanità. L’Italia perde un suo bambino e si stringe attorno al padre Gaetano Santomenna”
Renzi, dolore per bimbo ucciso da odio – “Da padre, prima ancora che da premier, non ci sono parole per dire il dolore e il cordoglio di tutta l’Italia per questa morte, quella di una giovane vita recisa dall’odio”. Lo dichiara il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Secondo quanto di apprende, il premier ha sentito al telefono Gaetano Santomenna, il padre del piccolo Michel ucciso assieme alla madre in Burkina Faso in un attacco terroristico.
Burkina Faso: Gentiloni, bimbo ucciso crimine orrendo – “Anche Michel, bambino italiano di nove anni, tra le vittime dei terroristi in #BurkinaFaso. Crimine orrendo. Italia vicina al padre Gaetano”. Lo scrive su Twitter il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
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Le cose importanti da sapere sul Mali
(Foto su http://www.rainews.it/ )
20 novembre 2015
Ci sono alcune cose importanti da sapere, grande paese dell’Africa occidentale nel mirino dei jihadisti.
Nel gennaio 2013, la Francia ha inviato truppe in Mali per la lotta contro gli islamisti radicali, che avevano catturato vaste aree di territorio nel nord del Paese. Una delle città occupate da al- Qaeda, legata agli islamisti, era l’antica città del deserto di Timbuctu, un centro storico di cultura islamica, 1.000 km a nord della capitale Bamako. La parola Timbuctu è spesso utilizzata nel mondo occidentale per indicare un luogo che è molto, molto lontano.
Tra il 1200 e il 1600, il Mali è stato il più grande impero in Africa occidentale. Fino al 14° secolo, arrivava da lì il 50% dell’oro circolante nel mondo. Rimane oggi il terzo produttore di oro in Africa. Il Mali è conosciuto per aver prodotto alcune delle stelle della musica africana, come Salif Keita, Ali Farka Touré e Toumani Diabate. Il suo famoso festival nel deserto è stato sospeso tre anni fa proprio per la minaccia del terrorismo islamico.
Fonte:
12 settembre 1977: muore Steve Biko
Sabato 12 Settembre 2015 05:24
Steve Biko nacque il 18 dicembre 1946 e fu un noto militante nella lotta contro l’apartheid e lo sfruttamento della popolazione nera sudafricana e appartenete al Black Consciousness Movement (BCM).
Nel 1972 fu espulso dall’università di Natal a causa della sua militanza. Fu costretto quindi a rimanere nel distretto di King William’s Town, gli fu vietato di parlare in pubblico, scrivere o parlare con i giornalisti e frequentare più di una persona alla volta. In più fu vietato a chiunque di citare qualsiasi suo scritto.
Durante il suo soggiorno coatto nel distretto di King William’s Town iniziò a coinvolgere la popolazione nera e le altre minoranze etniche in collettivi autorganizzati
Nonostante la repressione Biko e il BCM ebbero un ruolo fondamentale nell’organizzazione della rivolta di Soweto del giugno 1976, durante la quale studenti neri erano scesi in piazza contro la politica segregazionista del National Party, per essere poi duramente repressi dalla polizia, che uccise diverse centinaia di persone durante i dieci giorni di scontri. Dopo la rivolta, per i funzionari razzisti sudafricani, divvenne fondamentale l’eliminazione fisica di Biko.
L’occasione venne quando Biko fu fermato in un posto di blocco della polizia e arrestato con l’accusa di terrorismo il 18 agosto 1977. In caserma fu interrogato per ventidue ore di fila, picchiato e torturato dagli ufficiali di polizia Harold Snyman e Gideon Nieuwoudt nella stanza interrogatori 619.A causa del vile pestaggio Biko entrò in coma.
A questo punto i due sbirri lo ammanettarono e caricarono nudo nel bagagliaio della loro Land Rover per portarlo al carcere di Pretoria distante 1100 Km. Morì il 12 settembre 1977 a causa di una vasta emorragia cerebrale appena arrivato a Pretoria.
La polizia subito spiegò la morte come la conseguenza di un ipotetico sciopero della fame, ma l’autopsia rivelò le ferite del pestaggio tra cui quella mortale alla testa. Nonostante le prove evidenti del brutale omicidio la polizia riuscì ad insabbiare la storia.
Solo i giornalisti Helen Zille e Donald Woods, molto amici di Biko, qualche tempo dopo, riuscirono con un costante lavoro di controinchiesta a far emergere la verità sull’assassinio del loro amico.
Data la popolarità di Biko la notizia della sua morte si diffuse rapidamente aprendo molti occhi sulla brutalità del regime Sud Africano.
Al suo funerale parteciparono decine di migliaia di persone.
I giornalisti che indagarono su questa storia furono costretti a scappare dal Sud Africa a causa delle persecuzioni della polizia e nessuno dei due poliziotti omicidi fu mai processato dal governo razziata bianco nè dal successivo governo “democratico”.
Fonte:
http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/2561-12-settembre-1977-muore-steve-biko
MIGRANTI, A REGGIO LA “NAVE DEI BAMBINI”
Sono 113 i minori arrivati a bordo della Phoenix dei coniugi Catrambone. Solo quelli non accompagnati rimarranno in Calabria. «La gente deve sapere cosa succede in mare»
REGGIO CALABRIA Scendono dalla passerella in braccio alle madri o quasi aggrappati alle loro mani. Gli occhi sono pozzi di paura che quasi divorano visi scavati da fame, sole, salsedine, da una vita che – da subito – non è stata generosa. Alcuni sono stati desiderati, voluti da coppie che hanno scelto di guardare a un futuro al di là del mare, altri sono frutto delle violenze che durante il lungo viaggio dal cuore dell’Africa all’Europa, tante, troppe donne hanno subìto. Figli dell’amore, figli della violenza, ma soprattutto sopravvissuti e figli di sopravvissute.
LA NAVE DEI BAMBINI Un piccolo miracolo nei mesi in cui il Mediterraneo si è trasformato in un gigantesco cimitero di tombe senza nome. I 113 bambini accompagnati al porto di Reggio Calabria insieme a 107 donne e 124 uomini dalla Phoenix – il sogno solidale dei coniugi Catrambone, divenuta la prima nave di privati inquadrata nel dispositivo di soccorso migranti nel Mediterraneo – ce l’hanno fatta. Portano addosso i segni di un viaggio complesso e lungo e di una traversata complicata. In molti, appena sbarcati, hanno avuto bisogno dell’assistenza dei medici del Viminale che sul molo si occupano di controllo, assistenza e soccorso. Ma per i più sono bastati una merendina e un succo di frutta per reintegrare velocemente gli zuccheri, vestiti asciutti, un guanto di lattice che gonfiato si trasforma in un palloncino e le coccole dei volontari per recuperare forze e sorriso. «I bambini erano molto provati, molto tristi e molto spaventati», dicono gli operatori che però, su quei volti stanchi e ancora terrorizzati, con il passare delle ore hanno visto disegnarsi la serenità di essersi lasciati alle spalle – forse- la parte più difficile.
IL SOGNO SOLIDALE DEI CONIUGI CATRAMBONE «Il centro di coordinamento di Roma ieri ci ha segnalato due barconi di legno al largo delle coste libiche – dice Regina Catrambone – ma non abbiamo potuto prendere tutti a bordo perché erano più di settecento. Oltre alle duecento, duecentocinquanta persone che viaggiavano sul ponte ce n’erano altrettante che viaggiavano in stiva, vicino ai motori. Abbiamo distribuito a tutti i giubbotti di salvataggio ma per il recupero del secondo barcone abbiamo dovuto attendere la nave Dattilo della Guardia Costiera». Non è la prima volta che la Phoenix approda a Reggio Calabria. Da due anni i coniugi Christofer Catrambone e Regina Egle Liotta – statunitense lui, reggina lei, ma entrambi residenti a Malta – hanno deciso di fare qualcosa di concreto per arginare la strage che si consuma quotidianamente sulla rotta fra Libia e Italia. Per questo hanno trasformato la Phoenix – un’ex imbarcazione di ricerca della Marina degli Stati Uniti – in una “nave della solidarietà” al servizio del dispositivo di soccorso e recupero che opera nel Mediterraneo. Dal 2 maggio scorso, insieme a loro è imbarcata anche un’equipe di Medici senza frontiere in grado di affrontare le prime emergenze a bordo: ustioni, disidratazione, ipotermia, complicanze di patologie croniche dovute a condizioni di viaggio proibitive o a violenze e torture che i rifugiati hanno subito in Libia. Un lavoro che sembra non avere mai fine.
«LA GENTE DEVE SAPERE COSA SUCCEDE IN MARE» Accompagnato al porto di destinazione un gruppo di migranti, c’è un nuovo barcone da intercettare, un gommone da recuperare, nuovi disperati da soccorrere. Ma nonostante la fatica, i risultati concreti ci sono e sono misurabili. Oltre undicimila persone sono state tratte in salvo e accompagnate sulla terraferma dalla Phoenix. «A me non è mai capitato di vedere bambini affogati nel corso delle traversate, ma penso che in mare ci siano tantissimi Aylin. Questa è la mia grande disperazione. Foto come quella del bambino curdo ritrovato senza vita su una spiaggia in Turchia vanno diffuse e viste, perché la gente si deve rendere conto di cosa succeda in mare. Famiglie che muoiono, bambini che muoiono. Non possiamo rimanere indifferenti, dobbiamo aiutarli». Anche perché chi mette a rischio la propria vita per mare, lo fa – spiega la Catrambone – perché nel suo Paese non può più stare. Perché è dilaniato da una guerra, come la Siria, o perché messo in ginocchio da regimi paradittatoriali che fondano la propria esistenza sulla repressione, come Etiopia ed Eritrea. Ed è da qui che la stragrande maggioranza dei profughi arrivati oggi a Reggio Calabria ha iniziato un viaggio che non può dirsi concluso. Solo i minori non accompagnati e chi ha bisogno di ospedalizzazione rimarrà a Reggio Calabria. Gli altri – ha deciso il ministero dell’Interno – appena concluse le procedure di identificazione dovranno salire sui pullman che li porteranno in Toscana, Veneto, Puglia ed Emilia. E per i più non si tratta che di una tappa.
MIOPIA EUROPEA In molti sognano il Nord europa dove nella maggior parte dei casi hanno familiari, amici o conoscenti che li hanno preceduti. Ma nonostante le dichiarazioni di pubblico cordoglio seguite alla pubblicazione delle immagini delle vittime più piccole delle stragi nel Mediterraneo, la fortezza Europa sembra essere ancora imbrigliata da una discussione viziata da troppe gelosie e poche soluzioni. Anche la proposta di aumentare le quote di migranti che i vari paesi dell’Ue sono tenuti ad accogliere – pena sanzioni – appare del tutto insufficiente di fronte a un’ondata migratoria di portata epocale, provocata in larga parte dalla scellerata politica estera delle varie potenze europee negli ultimi decenni. Nel frattempo, in mare si continua a morire.
Alessia Candito
[email protected]
L’ignavia colpevole del mondo ha spento i riflettori sul Darfur
Quando il Segretario di Stato americano Colin Powell nell’agosto del 2004, tornando da una missione in Sudan, definì per la prima volta ciò che stava avvenendo in Darfur come “il primo genocidio del 21esimo secolo” si accesero all’istante i riflettori sul conflitto che dal febbraio del 2003 stava dilaniando la regione occidentale sudanese.
La presa di posizione statunitense apparve come il banco di prova per la comunità internazionale di essere in grado di fermare, compattamente, le atrocità di massa. Ma ben presto emerse l’ineluttabilità del fallimento dell’azione contro il regime del presidente Omar Hassan al-Bashir, ex generale giunto al potere nall’89 grazie a un colpo di stato.
Oggi, 11 anni dopo il viaggio di Powell, quei riflettori sono spenti e l’attenzione mediatica sul dramma del Darfur è finita da tempo. Non sono però finiti i massacri che in questo caldo agosto, alternato a piogge devastanti, in tutto il Darfur stanno stremando un popolo provato da anni di soprusi e di ogni genere di violazioni dei diritti umani.
Tutto ciò a fronte del dispiegamento nella regione di una forza di pace delle Nazioni Unite, composta da oltre 20mila cachi blu, che si è rivelata sin dal primo momento costosa e inefficace. Per non parlare della beffa di un presidente in carica, considerato dalla Corte penale dell’Aja un criminale di guerra e genocida, in grado di viaggiare con relativa libertà in Africa, come dimostra il recente viaggio in Sudafrica, e non solo nonostante un mandato di arresto internazionale.
E intanto in Darfur si continua a vivere nella paura e nella miseria. Gran parte della popolazione ormai è in condizioni al limite della sopravvivenza. A 12 anni dall’inizio del conflitto le stime Onu parlano di oltre 300mila vittime e di circa 6 milioni di persone bisognose di aiuti di ogni genere, di cui oltre il 30% ospitate nei campi gestiti dall’agenzia Ocha’ (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs). Nel primo semestre del 2015 ben 385mila sono stati i nuovi profughi a causa della recrudescenza del conflitto in molte aree della regione, che ha registrato il flusso di sfollati più consistente dal 2006 a oggi.
Dall’inizio dell’anno le possibilità di assistenza delle centinaia di migliaia di nuovi rifugiati, per lo più donne e bambini, e a rischio in tutto il Darfur. Le minacce sono sempre le stesse: insufficiente disponibilità d’acqua e di cibo, condizioni igienico-sanitarie e sicurezza inadeguate. La mortalità continua a essere molto alta. In pochi superano i 50 anni mentre tra i bambini molti non raggiungono il sesto anno di vita. Malnutrizione e infezioni le principali cause di morte per i più piccoli. Il settore sanità è quello che registra la maggiore criticità ed è considerato addirittura cronico dagli operatori umanitari sul campo che continuano a operare in un contesto difficile come testimoniano le continue espulsioni.
La protezione della missione di peacekeeping è del tutto insufficiente. Continuano a registrarsi scontri armati che coinvolgono i civili soprattutto nel Nord Darfur ed episodi di crimini di massa, in particolare stupri, usati come arma di guerra.
Il 2 novembre del 2014, su segnalazione di alcuni rifugiati sudanesi in Italia, Italians for Darfur è stata la prima organizzazione a denunciare sul proprio blog lo stupro di massa a Tabit, un villaggio a nord di al-Fasher. Oltre 200 tra donne, adolescenti e bambine erano state violentate nella notte tra giovedì 30 ottobre e il primo novembre da militari governativi e milizie arabe, gli ex janjaweed.
Secondo i testimoni, il raid punitivo sarebbe stato conseguenza della scomparsa di un militare della guarnigione dell’esercito del Sudan di pattuglia nell’area. La forza Onu dispiegata in Darfur non ha potuto effettuare nell’immediato un sopralluogo e confermare, in un primo momento, l’episodio. Dopo aver parlato nuovamente con abitanti del posto, senza la presenza di militari governativi, i caschi blu hanno invece raccolto elementi che non hanno più lasciato dubbi su quanto fosse avvenuto a Tabit.
Human Rights Watch ha poi pubblicato l’11 febbraio di quest’anno una approfondita ricerca che ha evidenziato le responsabilità delle truppe dell’esercito del Sudan che avevano eseguito una serie di attacchi contro la popolazione civile della cittadina vicino al-Fasher, arbitrarie detenzioni, pestaggi e maltrattamenti di decine di persone oltre allo stupro di massa di donne e ragazze. I militari hanno giustificato gli abusi dichiarando che le vittime fornivano aiuti ai guerriglieri coinvolti nelle operazioni contro il governo.
Il mondo, nonostante le prove di questa come di altre atrocità perpetrate in Darfur, è rimasto e resta a guardare nel silenzio più colpevole e sconcertante che l’ignavia internazionale abbia mai manifestato.
Fonte: