In preghiera a Garissa

  • 05 Apr 2015 15.32
In una chiesa di Garissa, in Kenya, durante le celebrazioni di Pasqua. Il 2 aprile un gruppo di uomini armati affiliati al gruppo terroristico Al Shabaab ha ucciso almeno 148 studenti cristiani in un attacco contro l’università della città, a 150 chilometri dal confine con la Somalia. Il governo ha rafforzato le misure di sicurezza per proteggere le chiese del paese. - Goran Tomasevic, Reuters/Contrasto
In una chiesa di Garissa, in Kenya, durante le celebrazioni di Pasqua. Il 2 aprile un gruppo di uomini armati affiliati al gruppo terroristico Al Shabaab ha ucciso almeno 148 studenti cristiani in un attacco contro l’università della città, a 150 chilometri dal confine con la Somalia. Il governo ha rafforzato le misure di sicurezza per proteggere le chiese del paese. Goran Tomasevic, Reuters/Contrasto

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2015/04/05/in-preghiera-a-garissa

Il massacro di Sharpeville

Giornata mondiale contro il razzismo, 52 anni dal massacro di Sharpeville

21 marzo 1960. A Sharpeville, sobborgo di Johannesburg, dei poliziotti Afrikaner sparano su un gruppo di manifestanti africani disarmati, uccidendo 69 persone e ferendone 180. I dimostranti erano scesi in piazza contro le restrizioni imposte dal governo sudafricano alla libertà di movimento della popolazione non appartenente alla razza bianca. In ricordo del massacro il 21 marzo è stato dichiarato dall’Onu “Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale”.

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2012/03/giornata-mondiale-contro-il-razzismo-52-anni-dal-massacro-di-sharpeville/

QUANDOIL TERRORE E’ “IN NOME DI CRISTO”: ALLA CORTE PENALE DELL’ AJA EX COMANDANTE DELL’ESERCITO DI RESISTENZA DEL SIGNORE

24 GENNAIO 2015 | di

 

Dominic Ongwen, ex comandante dell’Esercito di resistenza del Signore, il gruppo armato di matrice cristiana che ha terrorizzato l’Uganda dal 1987 e, negli ultimi 10 anni, anche i paesi circostanti, è arrivato all’Aja, dove dovrà rispondere alla Corte penale internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

I tempi della giustizia internazionale non sono particolarmente veloci: il governo dell’Uganda chiese l’intervento della Corte oltre 11 anni fa. Nel 2005 il procuratore della Corte spiccò un mandato di cattura per Ongwen e altri quattro leader dell’Esercito di resistenza del Signore.

Dieci anni dopo, il 5 gennaio 2015, Ongwen si è arreso alle forze speciali statunitensi che dal 2011 collaborano in Africa centrale con una task force dell’Unione africana. Nei giorni successivi, è stato trasferito all’esercito ugandese e da questo alla Corte penale internazionale, che il 17 gennaio lo ha preso in carico a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana.

Ongwen è accusato di quattro fattispecie di crimini contro l’umanità (omicidio, riduzione in schiavitù, atti inumani e sofferenza) e di tre fattispecie di crimini di guerra (omicidio, crudeltà contro le popolazioni civili, attacchi intenzionali contro le popolazioni civili e saccheggio).

Degli altri quattro leader dell’Esercito di resistenza del Signore, tre si ritiene siano morti mentre rimane ancora latitante, e apparentemente inafferrabile, Joseph Kony, fondatore del gruppo armato, colui che diceva di lottare in nome di Cristo e dei 10 comandamenti e che voleva essere il leader di una nazione basata sul rispetto integrale dei precetti biblici.

L’Esercito di resistenza del Signore ha seminato il terrore per oltre 20 anni nel nord dell’Uganda (qui, una testimonianza risalente al 2004) causando oltre 100.000 morti e rapendo migliaia di bambine e bambini: le prime per ridurle in schiavitù sessuale, i secondi per farne futuri combattenti. Prova d’iniziazione: mutilare o uccidere i genitori.

Lo stesso Ongwen venne rapito dall’Esercito di resistenza del Signore, all’età di 10 anni e, dopo il consueto lavaggio del cervello a colpi di droghe e versi della Bibbia, iniziò una rapida carriera criminale: brigadiere a 18 anni, maggiore dopo i 20, presente nei massacri compiuti oltre confine, in Sud Sudan e soprattutto nella Repubblica Centrafricana.

Il fatto che sia stato tanto carnefice quanto vittima dell’Esercito di resistenza del Signore potrà far parte della strategia difensiva, quando inizierà il processo.

Intanto, questo sviluppo segna un passo avanti verso la giustizia per le innumerevoli vittime del terrore seminato in Africa “in nome di Cristo”.

 

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2015/01/24/quando-il-terrore-e-in-nome-di-cristo-verso-il-tribunale-dellaja-ex-comandante-dellesercito-di-resistenza-del-signore/

17 Gennaio 1961: Patrice Lumumba

17 Gennaio 1961: Patrice Lumumba

Sabato 17 Gennaio 2015 07:03
Il 17 gennaio 1961 Patrice Émery Lumumba, insieme a due suoi fedeli (Mpolo e Okito), fu trasferito in aereo a Elisabethville (l’attuale Lubumbashi), in Katanga, e consegnato nelle mani di Moïse Kapenda Tshombé. Era stato catturato il 2 dicembre 1960 dai soldati di Joseph-Desiré Mobutu mentre, dopo essere evaso dalla sua prigione domiciliare vigilata dai caschi blu dell’Onu, stava per riparare a Stanleyville, al di là del fiume Sankuru. Verso le 10 di sera di quello stesso giorno, lungo di viaggi e torture, un plotone al comando di un ufficiale belga fa fuoco su di lui e sui due suoi compagni. La mattina successiva i resti di Lumumba, Mpolo e Okito vengono fatti sparire nell’acido e molti dei sostenitori dell’indipendenza congolese giustiziati nei giorni seguenti con la partecipazione di mercenari belgi.
Tshombé è presente all’esecuzione. Lui, che appena sei mesi prima aveva promosso le sommosse nel Katanga, una regione meridionale del Congo belga scandalosamente ricca di minerali preziosi, decretandone la secessione al soldo del governo belga, della CIA e nel silenzio frastornante delle Nazioni Unite. Perché Patrice Lumumba, divenuto primo Primo Ministro del Congo indipendente il 23 giugno 1960 a capo del MCN (poi diventato MNCL, Movimento Nazionale Congolese di Liberazione), aveva creato più di un fastidio alle politiche imperialiste dell’Occidente cosiddetto “democratico”. Se le autorità belghe (e soprattutto le compagnie minerarie) non pensavano ad un’indipendenza piena ed intera (una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi), Lumumba sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito e rendendo il popolo congolese il vero motore di questa storica indipendenza (a dispetto del re del Belgio, Baldovino, che con stile paternalistico aveva annunciato «Noi vi abbiamo aiutato a raggiungere l’indipendenza… »). Le parole di questo leader carismatico suonavano come un monito alle orecchie degli sfruttatori, dei coloni parassiti e dei politicanti ambigui del Congo indipendente (come ad esempio il Presidente Kasa-Vubu, che nel settembre non esiterà a revocare gli incarichi di Lumumba e degli altri ministri nazionalisti, salvo poi essere destituito dal parlamento poco dopo): «Noi abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti, le sferzate, e dovevamo soffrire da mattina a sera perché eravamo negri. Chi dimenticherà le celle dove furono gettati quanti non volevano sottomettersi a un regime di ingiustizia, di sfruttamento e di oppressione?».
Lumumba fu per questo molto rimpianto da tutta la comunità dei paesi non allineati e da numerosi esponenti politici (quali ad esempio Che Guevara che protestò vibrantemente contro il suo assassinio). In Lumumba, però, non individuiamo il profilo del classico rivoluzionario, non possiamo nemmeno arruolarlo tra le fila dei tanti intellettuali filosovietici di quegli anni, poiché egli non si definiva comunista: Lumumba era un’idealista profondamente convinto dei suoi principi, capace di radicalizzarsi nei discorsi e nei metodi quando le contingenze lo richiedevano.

La lettera scritta per la moglie poco prima di morire ci lascia il profilo più autentico di Patrice Lumumba, con tutti gli accenti che solitamente infiammavano i suoi discorsi: “Mia cara compagna, ti scrivo queste righe senza sapere se e quando ti arriveranno e se sarò ancora in vita quando le leggerai. Durante tutta la lotta per l’indipendenza del mio paese, non ho mai dubitato un solo istante del trionfo finale della causa sacra alla quale i miei compagni ed io abbiamo dedicato la vita. Ma quel che volevamo per il nostro paese, il suo diritto a una vita onorevole, a una dignità senza macchia, a un’indipendenza senza restrizioni, il colonialismo belga e i suoi alleati occidentali – che hanno trovato sostegni diretti e indiretti, deliberati e non, fra certi alti funzionari delle Nazioni Unite, quest’organismo nel quale avevamo riposto tutta la nostra fiducia quando abbiamo fatto appello al suo aiuto – non lo hanno mai voluto. Hanno corrotto dei nostri compatrioti, hanno contribuito a deformare la verità e a macchiare la nostra indipendenza… Morto, vivo, libero o in prigione per ordine dei colonialisti, non è la mia persona che conta. E’ il Congo, il nostro povero popolo… Ma la mia fede resterà incrollabile. So e sento in fondo a me stesso che presto o tardi il mio popolo si solleverà come un sol uomo per dire no al capitalismo degradante e vergognoso e per riprendere la sua dignità sotto un sole puro… Ai miei figli, che lascio e forse non rivedrò più, voglio che si dica che il futuro del Congo è bello e che aspetta da loro, come da ogni congolese, che completino il compito sacro della ricostruzione della nostra indipendenza e della nostra sovranità, poiché senza dignità non c’è libertà, senza giustizia non c’è dignità e senza indipendenza non ci sono uomini liberi. Né le brutalità, né le sevizie né le torture mi hanno mai spinto a domandare la grazia, perché preferisco morire a testa alta, con la mia fede incrollabile e la fiducia profonda nel destino del mio paese, piuttosto che vivere nella sottomissione e nel disprezzo dei sacri principi. La storia si pronuncerà un giorno, ma non sarà la storia che si insegnerà a Bruxelles, a Washington, a Parigi o alle Nazioni Unite, ma quella che si insegnerà nei paesi liberati dal colonialismo e dai suoi fantocci. L’Africa scriverà la sua storia, una storia di gloria e di dignità a nord e a sud del Sahara. Non piangermi, compagna mia. Io so che il mio paese, che tanto soffre, saprà difendere la sua indipendenza e la sua libertà”.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/164-17-gennaio-patrice-lumumba

Sudan, Corte penale internazionale sospende inchiesta su Bashir per il genocidio in Darfur

Di

Darfur, la verità nascosta dello stupro di massa a Tabit

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DARFUR

Amina ha 11 anni, nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre era sola nella capanna di fango a Tabit, cittadina a 45 chilomentri dalla capitale del Nord Darfur, el-Fasher. Tre uomini sono entrati, l”hanno picchiata e violentata a sangue, a turno, più e più volte. Una guarnigione dell’esercito del Sudan, supportata da milizie filo-governative, era arrivata nel villaggio con i kalashnikov spianati. I militari hanno radunato e immobilizzato gli uomini e, minacciandoli di morte, gli hanno impedito di reagire e di proteggere le loro donne. In duecentodieci, tra cui 79 adolescenti e 8 bambine, sono state stuprate in poche ore. All’origine di tale inconcepibile violenza il presunto coinvolgimento di alcuni residenti nella scomparsa di un militare. Il brutale atto sessuale è stato usato come arma di guerra.

Il due novembre Italians for Darfur ha raccontato sul proprio blog quello che era avvenuto, in contemporanea ad altre organizzazioni per i diritti umani che hanno diffuso testimonianze sulla vicenda. Mentre in gran parte del mondo anglosassone i media hanno rilanciato la notizia, nel nostro paese è stata totalmente ignorata.

Venerdì 21 novembre Unamid, la missione Onu dispiegata in Darfur, ha annunciato che presto avvierà una nuova indagine, a distanza di una settimana dal report con cui affermava che non era possibile accertare l’accaduto. La realtà è che i testimoni avvicinati erano stati intimiditi dalle forze governative e nessuno ha avuto il coraggio di parlare. Dopo l’ondata di indignazione sui social media che da subito ha travolto la rete, il team di peacekeepers che aveva indagato sulle accuse rivolte ai militari sudanesi – concludendo che non ci fossero elementi per appurare le responsabilità dello stupro – tornerà presto nel villaggio per ascoltare le vittime dirette delle violenze. Le stesse che sono state intervistate da Radio Dabanga e che hanno raccontato i dettagli di ciò che è accaduto in quella terribile notte.

Per tenere alta l’attenzione sulla vicenda, venerdì 28 novembre, in tutto il mondo, i profughi sudanesi manifesteranno davanti ai parlamenti dei paesi in cui sono rifugiati insieme agli attivisti della coalizione di organizzazioni internazionali ‘Sudan365’, tra cui Italians for Darfur, Amnesty International e United to end genocide. Se il mondo punterà lo sguardo su Tabit forse questa volta sarà possibile raccogliere le testimonianze di ciò che li è avvenuto e che il governo continua a negare, nonostante il comandante della guarnigione abbia confermato che alcuni suoi uomini quegli stupri li hanno compiuti. Per impedire che episodi del genere possano essere ancora perpetrati impunemente è necessario sottrarre la regione del Sudan dal cono d’ombra in cui è precipitata da quando Khartoum, nel giorno in cui al presidente Omar Al Bashir venne notificato il mandato di arresto della Corte penale internazionale per i crimini in Darfur compiuti dalle milizie janjaweed tra il 2003 e il 2006, espulse le maggiori ong internazionali, sentinelle di quanto quotidianamente avveniva nella regione sudanese che in undici anni di conflitto ha superato le 300 mila vittime e conta oltre due milioni di sfollati.

 

Fonte:

http://www.huffingtonpost.it/antonella-napoli/darfur-verita-nacosta-stupro-massa-tabit_b_6191826.html

 

10 Novembre 1995: muore il poeta Ken Saro Wiwa

Lunedì 10 Novembre 2014 08:42

altKenule ”Ken” Beeson Saro Wiwa, scrittore, poeta e attivista nigeriano, nacque il 10 ottobre 1941 a Bori, una cittadina nel delta del fiume Niger.

Membro dell’etnia degli Ogoni, fin dagli anni ottanta Saro Wiwa ne diventò il portavoce, conducendo una feroce e determinata campagna contro le multinazionali (Shell in primo luogo) responsabili di continue perdite di petrolio e conseguenti danni alle colture e all’ecosistema della zona.

Wiwa fu inoltre molto critico nei confronti del governo nigeriano che vedeva riluttante ad avvalorare delle regolamentazioni ambientali per le compagnie petrolifere operanti nell’aerea del delta del fiume.

Presidente del movimento per la sopravvivenza della popolazione Ogoni (MOSOP), Saro Wiwa continuò la sua battaglia per i diritti culturali, ambientali e per dare maggiore autonomia all’etnia della sua famiglia e dei suoi concittadini: nel gennaio 1993, a seguito della sua scarcerazione ottenuta dopo l’arresto e la detenzione avvenuti senza che si fosse svolto alcun processo, il MOSOP organizzò infatti una grandissima manifestazione a cui parteciparono 300.000 Ogoni – più di metà degli abitanti di Ogoniland – attirando l’attenzione di tutto il mondo sull’impegno di questa popolazione.

Lo stesso anno il governo occupò e militarizzò l’intera regione.

Il 21 maggio 1994, quattro oppositori del MOSOP furono brutalmente assassinati; a Saro Wiwa fu negato l’accesso alla città di Ogoniland e venne arrestato e accusato di incitamento alla violenza: egli smentì le accuse che lo vedevano complice dell’omicidio, ma ciò nonostante venne imprigionato per più di un anno prima di essere dichiarato colpevole e condannato a morte da un tribunale speciale.

Il 10 novembre 1995, Ken Saro Wiwa venne impiccato insieme ad altri 8 attivisti del MOSOP.

Nel 1996 Jenny Green, avvocato del Centre for Constitutional Rights di New York avviò una causa contro la Shell per dimostrare il coinvolgimento della multinazionale petrolifera nell’esecuzione di Saro-Wiwa.

Il processo ebbe poi inizio nel maggio 2009 e la Shell subito patteggiò accettando di pagare un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari. La Shell però precisò che aveva accettato di pagare il risarcimento non perché colpevole del fatto ma per aiutare il “processo di riconciliazione”.

 

Non è il tetto che perde

Non sono nemmeno le zanzare che ronzano

Nella umida, misera cella.

Non è il rumore metallico della chiave

Mentre il secondino ti chiude dentro.

Non sono le meschine razioni

Insufficienti per uomo o bestia

Neanche il nulla del giorno

Che sprofonda nel vuoto della notte

Non è

Non è

Non è.

Sono le bugie che ti hanno martellato

Le orecchie per un’intera generazione

È il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida

Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari

In cambio di un misero pasto al giorno.

Il magistrato che scrive sul suo libro

La punizione, lei lo sa, è ingiusta

La decrepitezza morale

L’inettitudine mentale

Che concede alla dittatura una falsa legittimazione

La vigliaccheria travestita da obbedienza

In agguato nelle nostre anime denigrate

È la paura di calzoni inumiditi

Non osiamo eliminare la nostra urina

È questo

È questo

È questo

Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero

In una cupa prigione.

 

La vera prigione” – Ken Saro Wiwa

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3153-10-novembre-1995-muore-il-poeta-ken-saro-wiwa

Burkina Faso, il futuro nella memoria di Sankara

Data 22 August 2014 di e

[Traduzione a cura di Benedetta Monti e Davide Galati dall’articolo originale di Brian Peterson, pubblicato sul sito ThinkAfricaPress.]

Trent’anni fa, il 4 agosto del 1984, l’ex colonia francese dell’Alto Volta venne ribattezzata ‘Burkina Faso’ nel corso di un evento rivoluzionario che ha rappresentato uno degli episodi più memorabili della storia africana moderna, sebbene conclusosi tragicamente.

Nel 1983, il giovane capitano Thomas Sankara, che era salito al potere attraverso un colpo di Stato sostenuto dal popolo – con un ampio sostegno dai partiti politici di sinistra, studenti, donne e contadini – avviò un insieme di progetti ambiziosi, incluso il cambiamento del nome dello Stato, che miravano a rendere il Paese più autosufficiente e libero dalla corruzione. Sankara cercò anche di decentralizzare e rendere più democratico il potere per facilitare le forme di governo più partecipative.

Questo progetto visionario stava godendo una serie di successi quando, il 15 ottobre del 1987, l’esperimento e la vita di Sankara furono interrotti da un gruppo di commilitoni, guidati dal suo ex alleato Blaise Compaoré e sostenuti da potenze straniere, che lo uccise. Compaoré prese immediatamente le redini del Governo mettendo così fine alla rivoluzione.

Durante i ventisette anni trascorsi dalla caduta di Sankara, Compaoré è riuscito a mantenere il potere e ha amministrato il Paese nell’impunità, sebbene ci siano stati periodici movimenti di protesta. In particolare, si assistette a diffuse manifestazioni nel 1998, in seguito all’uccisione del giornalista Norbert Zongo, mentre nel 2011 le proteste e le rivolte sono aumentate notevolmente.

E ora, nel corso dell’anno passato, l’opposizione politica è tornata ad organizzarsi e ha intensificato il proprio messaggio in attesa delle elezioni presidenziali che avranno luogo nel novembre del 2015. Finora, la discussione più accesa riguarda il tema dei limiti della carica. Nel 2000, il nuovo articolo 37 della Costituzione ha ridotto i termini presidenziali da 7 a 5 anni imponendo anche un limite di due mandati. Da allora, Compaorè è stato rieletto due volte, quindi non sarà autorizzato a partecipare nuovamente nel 2015, ma il partito al governo sta richiedendo un referendum sull’articolo.

In questo difficile contesto, le strade della capitale Ouagadougou sono oggi in agitazione, e le immagini e le parole di Thomas Sankara hanno ripreso vita – le sue citazioni affermate durante le manifestazioni, il suo volto stampato su manifesti e magliette, i suoi slogan rivoluzionari come “Homeland or Death, We will Overcome” [“Patria o Morte, Ce la faremo”] ricordati e declamati. Con uno nuovo spirito rivoluzionario, il popolo ha ripreso dal punto lasciato in sospeso da Sankara, riportando in vita la sua dichiarazione del 1987, quando erano cominciate a girare le voci di un colpo di Stato, che “Anche se mi ucciderete, nasceranno altre migliaia di Sankara.”

A capo del movimento – chiamato That’s Enough [‘Ora Basta’] – si trova il gruppo Balai Citoyen (in inglese “Citizen Broom”) e i leader principali sono il musicista reggae e conduttore radiofonico Sams’k Le Jah e il rapper Smockey. Il simbolo della “broom” [scopa] rappresenta sia i gruppi di pulizia dei quartieri che Sankara aveva promosso sia la necessità di ripulire il Paese dal malgoverno e dalla corruzione. I manifestanti vogliono che Compaorè se ne vada, e si avverte molto chiaramente la sensazione che non smetteranno fino a che ciò non accadrà. Il movimento è pacifico e festoso ed ispirato dal movimento giovanile del Senegal conosciuto come Y’en a marre [“We’re fed up” – “Siamo stufi”] che ha avuto un ruolo nel rimuovere dal potere il presidente Abdoulaye Wade nel 2012.

La caduta di Sankara

Come molti sanno, il nome ‘Burkina Faso’ è traducibile come “Il Paese delle Persone Oneste” oppure “Il Paese delle Persone Incorruttibili”, e questo soprannome sembra catturare ciò che significa essere burkinabé (abitanti del Burkina Faso) – onesti, lavoratori, orgogliosi e liberi. Questo nome inoltre riflette la visione multietnica e l’aspirazione a costituire una nazione di Sankara perché unisce la parola mooré che significa ‘onesto’ (Burkina) con la parola jula che sta per ‘Patria’ (Faso).

Ma il cambiamento del nome era anche una dichiarazione contro l’imperialismo. Parlando di questo argomento a Harlem, New York, il 2 ottobre del 1984, Sankara ha spiegato: “Vogliamo distruggere l’Alto Volta per permettere al Burkina Faso di rinascere. Per noi, il nome Alto Volta simboleggia il colonialismo”. Durante un’altra occasione, alla televisione francese Sankara ha continuato affermando: “L’Alto Volta non significa più niente per nessuno, in particolare per noi, i Burkinabés… al contrario, Burkina Faso è un nome che ha origine dalla terra stessa, che nella nostra lingua ha un significato – il ‘Paese degli Uomini Onesti.”

In sostanza, il cambiamento del nome voleva decolonizzare le menti e liberare il Burkina Faso dal dominio culturale ed economico straniero, e molti Burkinabé che hanno vissuto negli anni della rivoluzione ricordano di aver provato un senso di orgoglio nell’essere cittadini del Burkina Faso e di avere come presidente Thomas Sankara, un uomo dinamico e coraggioso. Al di fuori del Paese, Sankara era diventato un eroe rivoluzionario, etichettato come il “Che Africano”, particolarmente tra i giovani. Il suo famoso adagio “L’uomo è capace di creare tutto ciò che può immaginare” ha iniettato una dose di ottimismo e speranza nelle vite di molte persone.

Fedele al significato del nuovo nome del Paese, Sankara è vissuto in modo incorruttibile. In un’epoca in cui molti capi di Stato africani utilizzavano il potere per arricchirsi, Sankara si prefiggeva di porre fine alla pratica dell’impiego del potere politico per il vantaggio personale e ha vissuto una vita frugale e semplice, morendo con pochi averi e pochi soldi o proprietà. Sankara cercava anche di porre fine ai decenni di dominio coloniale e neo-coloniale francese mettendosi in relazione con le Nazioni non allineate. La sua rivoluzione aveva restituito la dignità alle persone conferendo loro una voce politica e attraverso riforme sociali ed agrarie. Aveva trattato molti problemi con energia, dal degrado ambientale ai diritti delle donne, dall’educazione alla produzione locale di cotone e alla salute pubblica. E se c’erano stati degli errori nel corso dell suo cammino, come Sankara stesso ammetteva, aveva sempre cercato di correggerli.

In seguito al suo assassinio, tuttavia, Compaoré fece del suo meglio per prendersene i meriti, attribuendo alle politiche di Sankara tutti i problemi del Paese, promettendo di “correggere” la rivoluzione, e usando i media per diffamarlo. E adesso, da decenni, Compaoré e il suo partito al governo, il Congresso per la Democrazia e il Progresso (CDP), sono riusciti a tenere a bada l’opposizione, in parte grazie all’utilizzo di reti clientelari, anche se è stata la natura frammentaria dell’opposizione e la proliferazione dei partiti politici a fare in modo che il CDP potesse continuare a governare.

Nel frattempo, i partiti di Sankara hanno perso da tempo la loro incisività rivoluzionaria. Il leader più importante all’interno di questi gruppi, Bénéwendé Sankara (senza legami di parentela con Thomas), nelle elezioni presidenziali del 2005 è arrivato secondo (anche se con meno del 5% dei voti), ma da allora ha visto calare la sua influenza politica. Inoltre, il movimento sociale che sta attualmente diffondendosi nel Burkina Faso ha cercato di distanziarsi dai vecchi partiti collegati a Sankara in quanto li considerano responsabili di aver infangato l’immagine di Sankara con il loro opportunismo.

Sabbie mobili?

Anche se i rapporti di forze all’interno del Burkina Faso sono stati saldamente in mano a Compaoré sin dal 1987, questo potrebbe ora cambiare in favore di vari fronti. Un importante segnale si è notato all’inizio del gennaio scorso, quando 75 figure politiche chiave del partito di Compaoré si sono dimesse. Un paio di settimane più tardi, a seguito di una manifestazione di protesta contro la proposta di referendum sull’articolo 37, questi ex funzionari hanno dato vita al Movimento popolare per il Progresso (MPP).

Questo nuovo partito di opposizione è guidato da alcuni degli ex alleati più stretti di Compaoré – tra cui Roch Marc Christian Kaboré, Salif Diallo e Simon Compaoré (nessuna parentela con Blaise) – i quali sono tutti politici di grande esperienza. Kaboré, per esempio, è stato presidente dell’Assemblea Nazionale nel decennio 2002-2012 ed era stato presidente del partito CDP in carica prima della sua defezione. L’opposizione del nuovo movimento politico contro i tentativi di cambiare l’articolo 37 può essere considerata una mossa a proprio favore, ma lo stringe in un’alleanza con un movimento sociale che pone saldamente al centro della scena una governance democratica e trasparente, e il rispetto dello Stato di diritto.

Compaoré ha risposto rapidamente a questi eventi stabilendo il Fronte repubblicano, una coalizione di partiti per lo più pro-CDP che sta cercando di convincere la gente che è meglio tenere un referendum sull’articolo 37 piuttosto che lanciare il Paese nel caos.

Quest’anno, dunque, si sono tenute manifestazioni e contro-manifestazioni organizzate dall’opposizione e dal Fronte repubblicano nel corso delle loro visite nel Paese. Nei dintorni di Bobo-Dioulasso, la seconda città del Burkina Faso, i partiti di opposizione si sono uniti per formare un locale Comitato contro il referendum (CCR) al fine di coordinare le loro tattiche con i leader a Ouagadougou. Nel frattempo Compaoré ha portato il suo Fronte repubblicano nelle piazze, organizzando manifestazioni nella capitale e, nel tentativo di ostacolare i suoi avversari il più possibile, si è spinto fino ad annullare i passaporti dei leader del MPP.

Mille piccoli Sankara

Può essere che Compaoré abbia diversi assi nella manica, ma uno dei suoi problemi in tutto questo è che il fantasma di Thomas Sankara non è mai scomparso. Nonostante gli sforzi di Compaoré, le idee del suo predecessore e la sua ispirazione non potevano essere facilmente cancellati dalla storia, e per molti Burkinabé è stato soprattutto doloroso il modo poco cerimonioso in cui l’amato leader è stato gettato in una tomba anonima, e il suo nome infangato. Combattere per la verità sulla sua morte è una questione di dignità e di rispetto per l’uomo che sanno aver dato la propria vita per il loro Paese. Per anni, la questione è stata discussa in primo luogo nel contesto del movimento “Giustizia per Sankara” in Francia e su reti attive nei social media, ma ora si sta riversando nelle piazze con rinnovato vigore.

Nel 2013, dopo anni di pressioni da parte dei membri dell’opposizione, un membro francese del Parlamento ha invitato il suo Governo ad aprire gli archivi e a indagare sulla morte di Sankara. Nello scorso aprile, tuttavia, il giudice a Ouagadougou ha stabilito, dopo anni di ritardo, che non avrebbe permesso agli esperti di DNA di accedere alla tomba di Sankara al fine di verificare l’identità del suo corpo. Nelle ultime settimane, durante un’intervista, Compaoré ha finalmente confermato che “Thomas è sepolto nel cimitero Dagnoën a Ouaga,” ma nulla di più è stato rivelato.

Nel frattempo, i “piccoli” Sankara hanno raggiunto la maggiore età. Come ha detto il rapper Smockey, citando Sankara: “Una gioventù mobilitata e determinata non ha paura di nulla, nemmeno di una bomba atomica.“ E dopo anni di paura e silenzio intorno alla sua morte, il tempo è maturo per i giovani per raccogliere la sua eredità. Giovani Burkinabé ascoltano i discorsi di Sankara su cassette, guardano video su di lui su Internet, e stanno usando questa storia come arma nella loro odierna lotta. Nonostante gli sforzi dello Stato per sopprimere la memoria di Sankara nel corso degli ultimi tre decenni, le persone hanno riscoperto il santo patrono rivoluzionario che ha portato orgoglio e dignità al Burkina Faso. Questa figura simbolica potrebbe essere proprio ciò di cui hanno appunto bisogno i Burkinabé per affrontare le future sfide politiche, sapendo molto bene, come Sankara dichiarò presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel mese di ottobre del 1984, che, alla fine, “La libertà può essere ottenuta solo attraverso la lotta.”

 

 

Fonte:

http://vociglobali.it/2014/08/22/burkina-faso-il-futuro-nella-memoria-di-sankara/

 

Testimonianza di un dottore di Msf: il dramma Darfur è più grave che mai

martedì, ottobre 07, 2014

di Antonella Napoli per Italians for Darfur ONLUS

 

Dieci anni di guerra, metà popolazione tra sfollati, rifugiati e morti. Dopo la tregua del 2011, in Darfur sono ricominciati gli scontri tra l’esercito sudanese, le milizie paramilitari alleate e i gruppi indipendentisti “neri”: dall’inizio del 2014, sono 385mila i civili che hanno perso la casa, raggiungendo i due milioni di profughi già nei campi.
Tutto ciò che denunciamo da mesi, come fatto negli ultimi otto anni, lo conferma la testimonianza di uno psicologo di Medici senza Frontiere, il dottore Fabio Gianfortuna.
Prosegue il conflitto in Darfur, dove la minoranza araba detentrice del potere a Khartoum è opposta ai gruppi indipendentisti (Slm, Sla, Jem) delle etnie “nere” di questa zona occidentale del Sudan. L’ultimo scontro, il 6 ottobre, quando sono stati uccisi 16 militari in un attacco dei ribelli alla guarnigione di Guldo. Nel frattempo, nel Nord Darfur è stato proclamato lo Stato di Emergenza, vietando tra l’altro il kadamool, il turbante locale che copre gran parte della faccia.
Ma lo stillicidio è costante e quotidiano: secondo le Nazioni Unite, solo dall’inizio dell’anno 385mila civili hanno dovuto lasciare le loro case, soprattutto per gli attacchi delle forze paramilitari nella zona di Nyala. In un paese di 6 milioni di abitanti, dal 2003, anno in cui iniziò la guerra civile, si contano 400mila morti, più di 2 milioni di sfollati interni e 300mila rifugiati all’estero. In Darfur, oggi tutta la popolazione è divisa in sfollati, comunità di accoglienza e popolazioni rurali tagliate fuori dagli aiuti. Non ci sono alternative a queste tre categorie di vita. È una sorta di prigione a cielo aperto, perché è vietata la libertà di movimento al di fuori della propria area di insediamento.
Così fa il punto Fabio Gianfortuna, psicologo di Medici senza Frontiere che ha coordinato un progetto di salute mentale nel campo di Shanguil Tobaya: “In Darfur, la situazione è sempre incerta, si alternano tregue più o meno ufficiali a periodi di conflitto aperto. Dopo la firma del trattato di Doha del 2011 e la costituzione del Comitato misto Nazioni Unite/Unione Africana per il cessate il fuoco, la situazione sembrava più calma, ma nel 2013 il Governo ha intensificato i bombardamenti e le milizie arabe (Janjaweed) hanno ripreso ad attaccare campi di sfollati e villaggi, proteste pacifiche sono state soppresse nel sangue e sono ripresi gli arresti sistematici, mentre i vari gruppi ribelli si son nuovamente mobilitati”. Human Rights Watch e un report di Foreign Policy hanno recentemente accusato di totale inefficacia la missione internazionale di peacekeeping, forte di 20mila soldati. Il segretario dell’Onu Ban Ki-moon si è detto “preoccupato” e ha aperto un’inchiesta. In ogni caso, oggi la situazione non è quella del 2004, con centinaia di migliaia di morti, ma le speranze del 2011 sono tornate a essere solo speranze.
Gianfortuna racconta come gli abitanti del Darfur vivano da un decennio in uno stato di pericolo costante e di violazione dei diritti umani. Shanguil Tobaya, nel pieno del Sahara, è solo uno delle decine di campi sorti nel Paese: “È vicino all’incrocio tra le due principali strade del Nord; dieci anni fa, la popolazione in fuga si è fermata lì per stanchezza, dopo un cammino di settimane. E negli anni successivi i profughi sono continuati ad arrivare, con alle spalle storie di violenza nei villaggi di origine e lungo il cammino”. Tutto dipende da aiuti esterni: il Pam delle Nazioni Unite per il cibo, Oxfam per l’acqua, Medici senza Frontiere per la salute. Shanguil è stato completamente distrutto tre volte. Racconta Gianfortuna, che era là durante un bombardamento: “Le milizie girano intorno al campo, uccidendo gli uomini che escono e violentando le donne che cercano di raggiungere una misera fonte d’acqua distante un chilometro”.
A fine settembre, nel campo di Nierteti e Nyala, piogge torrenziali hanno distrutto 3.700 abitazioni di fortuna e bloccato le strade. Gli sfollati, senza più nulla, si proteggono ora da pioggia e sole con sacchi di plastica. Nei campi, la stragrande maggioranza dei profughi sono bambini e ragazzi di meno di 12 anni, talvolta separati dalle loro famiglie. Non ci sono scuole, né spazi di incontro, niente che possa aiutarli a crescere. Spiega lo psicologo di Msf: “I genitori, se ci sono, sono spesso bloccati psicologicamente”. Molte donne sono vittime di violenza, in Darfur lo stupro è usato come arma di guerra.
Nei campi, dove la salute non è un diritto, Medici senza Frontiere ha costruito dei presidi sanitari. Gianfortuna si è occupato dell’aspetto psicologico, tentare di alleviare i traumi e disturbi derivanti dallo stress e dalle violenze subite da un lato, provare a salvaguardare un minimo di strutture comunitarie e familiari dall’altro. “Mi ricordo – racconta – una bambina di sette anni che non dormiva da mesi perché il suo villaggio era stato attaccato da truppe appartenenti ad un’altra etnia che parlavano un dialetto estremamente riconoscibile. Nel campo c’erano molti appartenenti alla stessa etnia e lei, ogni volta che sentiva il dialetto degli assalitori, cominciava a piangere e gridare di paura. Purtroppo questo succedeva di continuo, di giorno e di notte, e la bambina era veramente allo stremo delle sue energie psichiche. Sei mesi di lavoro quotidiano con lei, sono stati premiati da un sorriso e da un pupazzetto costruito con la sabbia che ho ancora in camera mia”.
Accanto alla sofferenza delle persone, c’è anche un dato economico che spiega l’assurdità di questa guerra. Secondo Hamed El Tijani, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università americana del Cairo, il conflitto in Darfur costa 23 volte di più rispetto alle spese sanitarie dell’intero Sudan. Il professore ha calcolato che la guerra decennale è costata 50 miliardi di dollari, 5 all’anno, cioè il 23% del Pil a fronte dell’1% rappresentato dagli investimenti nella sanità.

Fonte:
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