“Il Cara e la Misericordia erano bancomat della ‘ndrangheta”

caracrotone“Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia”. Così il comandante del Ros Giuseppe Governale ha sintetizzato l’operazione Jonny che ha portato in carcere il governatore della Misericordia di Isola Leonardo Sacco ed il parroco don Edoardo Scordio, sottoposti a fermo insieme ad altre 66 persone, perché accusate di avere collaborato con la cosca Arena a lucrare sui finanziamenti destinati all’assistenza dei migranti. “La ‘ndrangheta – ha detto Governale – presceglie i suoi uomini e li fa lavorare per i proprie interessi. E tra questi c’erano Sacco e Scordio. Quest’ultimo ha infangato la Misericordia che fa tanto bene. Sacco, a cui lo Stato affida la tutela di persone in difficoltà, nel 2020 denunciò un reddito di 800 euro al fisco. Stamani, nel corso della perquisizione a lui ed a persone a lui vicine, abbiamo trovato 200 mila euro”. “Edoardo Scordio – ha aggiunto il comandante del Ros – è un parroco di provincia antitesi di quello che il Santo Padre descrive come uno dei più grandi pericoli della Chiesa. La Chiesa, ha detto il Papa, ha bisogno di persone con una sola vita, di servire il prossimo e le persone in difficoltà. In questo caso questo parroco ha dato indicazione di una doppia vita, di una vita al servizio di chi per tanti anni, per troppo tempo, ha messo sotto i propri piedi la gente di questa terra”. Un sacerdote, ha spiegato Governale, che nel 2007 risulta avere preso 650 mila euro dalla Misericordia di Isola Capo Rizzuto. Il comandante del Ros ha anche spiegato il nome dato all’operazione, Jonny: “Era in nome di battaglia di un maresciallo del reparto morto per una grave malattia mentre stava indagando sul Cara di Isola”.

“In Calabria è mancato il controllo dello Stato sul gioco online. Un business milionario su cui la cosca Arena ha sbaragliato la concorrenza con una rete gestita da una società maltese”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto nel corso della conferenza stampa tenutasi questa mattina per illustrare i particolari dell’operazione Jonny. “Grazie alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia – ha aggiunto – abbiamo scoperto come la cosca potesse contare su un software neanche tanto sofisticato che consentiva di eludere il prelievo fiscale”. In un anno e mezzo, ha reso noto il colonnello Pantaleo Cozzoli comandante provinciale della Guardia di finanza di Crotone, il clan, grazie al gioco online, avrebbe “incamerato circa un milione e 300mila euro. Oggi abbiamo sequestrato beni per 12 milioni di euro e durante le perquisizioni abbiamo rinvenuto migliaia di euro in contanti”. Gli uomini del clan Arena avevano anche il monopolio sul traffico di reperti archeologici. “La cosca – ha spiegato il capo della Mobile di Crotone Nicola Lelario – aveva la prelazione sugli oggetti che se non interessavano agli uomini della ‘ndrina venivano venduti sul mercato nero grazie anche all’intermediazioni di consulenti ed esperti, anche molto conosciuti, del settore”. Ma, come spiegato dal direttore dello Sco Alessandro Giuliano, “la cosca aveva un alto grado di pervasività in ogni settore della vita economica della provincia di Crotone e Catanzaro”. Le indagini hanno svelato la penetrazione della cosca Arena nel capoluogo calabrese: “Catanzaro – ha sottolineato Luberto – non è una isola felice. Le cosche sono radicate e si impongono con intimidazioni violenti e drammaticamente simbolici”. Il questore di Catanzaro Amalia Di Ruocco e il comandante provinciale dei carabinieri Marco Pecci hanno rivolto un accorato appello ai cittadini affinché denuncino i loro aguzzini e facciano “squadra con le forze dell’ordine”.

Forse allertati da qualche articolo di giornale, alcuni degli indagati finiti nella rete tesa dalla Dda di Catanzaro con l’operazione “Jonny” sulla gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto temevano di essere intercettati. Lo ha rivelato il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto, riferendo il contenuto di alcune riprese video effettuate dagli inquirenti. “L’aspetto piu’ inquietante del centro di accoglienza – ha detto – e’ che abbiamo notato articoli che praticamente avvisavano gli interessati delle indagini. Ho visto Poerio e Sacco (due dei fermati), ndr mettere i cellulari su una siepe e allontanarsi e li’ ho capito che tutti sapevano e temevo che non saremmo riusciti a carpire i segreti piu’ intimi della cosca, come invece accaduto con fotogrammi della consegna del denaro”.

Creato Lunedì, 15 Maggio 2017 15:28

 

Fonte:

http://ildispaccio.it/crotone/144610-il-cara-e-la-misericordia-erano-bancomat-della-ndrangheta

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JONNY | Poerio, recordman di voti e uomo del clan

Il ruolo del consigliere comunale di Isola nel meccanismo che allontanava i soldi dai servizi del Cara per portarli nelle casse della ‘ndrangheta Lunedì, 15 Maggio 2017 14:58 Pubblicato in Cronaca

CATANZARO Consigliere comunale, recordman di preferenze, sempre in prima fila nelle manifestazioni antindrangheta. In realtà, secondo le Dda, cosciente prestanome di uno dei principali ingranaggi societari che hanno permesso ai feroci clan di Isola Capo Rizzuto di mettere le mani sull’accoglienza. Un business per la ‘ndrangheta, un quotidiano inferno per gli ospiti del Cara, le cui condizioni sono finite più volte sotto i riflettori. È per questo che il consigliere comunale Pasquale Poerio è finito in carcere con la pesante accusa di essere uno dei partecipi all’associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetistico, con il compito precipuo di collaborare nella «distrazione dei capitali serventi la gestione del catering per il Cara, apprestando all’uopo falsi documenti contabili e utilizzando, quali soggetti contabili emittenti, le imprese commerciali dalle stesse gerite», ma anche di «acquisire quote sociali di imprese appositamente costituite per veicolare il danaro provento delle illecite condotte di distrazione, sì da ripulire lo stesso per essere destinato in parte ad incrementare la c.d. bacinella della cosca». Traduzione, il politico era uno degli ingranaggi del sistema di scatole cinesi che ha permesso al clan di rubare i soldi dell’accoglienza per finanziare nuove imprese criminali. Rubava ai poveri (e senza diritti) per dare ai ricchi (e presunti ‘ndranghetisti). E al parroco, don Scordio, che grazie al business dell’accoglienza ha incamerato milioni. Poerio – spiegano gli investigatori –  «non conduce alcuna strategia aziendale, sia essa di natura meramente amministrativa sia di natura organizzativa, che invece risulta condotta, per il tramite di Poerio Antonio, da quest’ultimo, da Poerio Fernando e da Sacco Leonardo». Lo conferma la segretaria della società, che interrogata dai finanzieri assicura di aver avuto a che fare con Pasquale Poerio, ma di essere stata assunta e di aver sempre trattato con Leonardo Sacco e Antonio Poerio. Ma lo ammette – intercettato – anche quest’ultimo, che a Salvatore De Furia raccomanda: «Tu evita di farti vedere, io qua manco li faccio entrare». E a maggior chiarezza spiega: «Io non mi trovo il nome mio qua, che è a nome di altri perché apposta, perché mi vedono con quello, mi vedono con quell’altro … non va bene!». “Qua” è la società Quadrifoglio. Ma di fortuna oggi sembra avergliene portata poca.

Alessia Candito

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/cronaca/item/57822-jonny-poerio,-recordman-di-voti-e-uomo-del-clan

Grosso guaio al canile di Reggio Calabria

La struttura assegnata nonostante non fosse a norma. Il Comune cerca di metterci una pezza. Ma i volontari di “Dacci una zampa” si rivolgono alla magistratura

Martedì, 20 Dicembre 2016 20:06 Pubblicato in Cronaca

REGGIO CALABRIA È possibile dare in gestione una struttura pur sapendola non a norma? E ricordarsene circa nove mesi dopo, annunciando lavori che ci mettano una pezza, ma che senza che una gara al riguardo sia stata bandita? A quanto pare, a Reggio Calabria sì.

IMPEGNO A TEMPO DETERMINATO A svelarlo è l’ultimo episodio dell’ormai guerra aperta fra l’amministrazione e i volontari di “Dacci una zampa”, l’associazione animalista che per prima ha rimesso in funzione il canile municipale di Mortara di Pellaro, per anni lasciato a marcire nonostante fosse da tempo completato. Una struttura all’epoca frequentata anche dall’allora aspirante sindaco Giuseppe Falcomatà, che in piena campagna elettorale non ha esitato a “metterci la faccia” insieme alla futura consorte, immortalando il suo impegno «per i cani di Mortara» con il consueto selfie.

CANILE ASSEGNATO Ma l’idillio con i volontari è durato poco. Dopo che Tar e Consiglio di Stato hanno confermato l’assegnazione dell’appalto per la gestione del canile all’associazione Aratea, il sindaco ha usato la mano dura. Nonostante le diverse irregolarità da più parti segnalate – dall’agibilità solo parziale della struttura, al mancato accatastamento, come alla non conformità di spazi e box alla nuova normativa regionale di riferimento, entrambe confermate dagli annunciati lavori – Falcomatà ha deciso di procedere comunque con l’assegnazione del canile.

ASSEGNAZIONE Scortata dalla polizia municipale, ad aprile l’associazione Aratea fa il suo ingresso a Mortara. Dopo un po’ di parapiglia con i volontari di “Dacci una zampa” si trova – almeno sulla carta – un accordo. Loro escono dalla gestione, ma dentro rimangono i cani che nel tempo cittadini, Asp, vigili urbani e forze dell’ordine hanno portato alla struttura, affidandoli ai volontari. Gli animali – si stabilisce – saranno ospiti della struttura dietro pagamento di 0,68 centesimi a cane, cioè la diaria che ha permesso all’associazione Aratea di imporsi sulle altre che hanno concorso per l’assegnazione del canile. Dal punto di vista sanitario invece, con un verbale della dirigente del settore ambiente, Loredana Pace, l’intero canile – sia la parte adibita rifugio, sia quella destinata al “sanitario”– è stata invece affidata al dottore Mario Marroni, responsabile dell’area A dei servizi veterinari dell’Asp. Entrambe, sono ordinariamente gestite dall’associazione Aratea con il proprio personale.

LE PRIME ANOMALIE E qui ci si trova di fronte alla prima anomalia. Anzi, ad una prima serie di anomalie. A metterlo nero su bianco, in una nota ufficiale, otto mesi dopo è il direttore dell’Area C dell’Asp, dottor Giuseppe Giugno, che con una nota sollecita il sindaco Falcomatà «a voler con la massima urgenza nell’ottica di una fattiva cooperazione tra le parti, convocare una riunione per porre fine a questa situazione che ormai si protae da molto tempo e che inevitabilmente oltre a determinare responsabilità di natura economica, amministrativa e penale, crea confusione nei ruoli e nelle competenze istituzionali».

LA DURA LEGGE DEL DCA Perché? Semplice. Il Dca di riferimento, emanato il 31 maggio 2015 dal commissario ad acta alla Sanità, Massimo Scura, stabilisce criteri molto precisi per i canili in regione. In generale, recita il documento, nella stessa struttura non possono esistere canile sanitario e canile rifugio, a meno che non si tratti di strutture municipali in cui le due sezioni siano nettamente divise e delimitate. Diversi sono anche gestione, personale e mantenimento, così come le aree dell’Asp che vigilano su di essi.

LA MUNIFICITÀ DI PALAZZO SAN GIORGIO Secondo la normativa regionale di riferimento, se le spese dei rifugi municipali sono a carico del Comune che li ospita, quelle del sanitario invece competono alla conferenza dei sindaci della provincia per cui il sanitario è riferimento, chiamata anche ad assistere gli animali con proprio personale. Dal punto di vista veterinario invece, se l’Area A è chiamata a vigilare sul sanitario, il canile rifugio compete all’area C. Sottigliezze burocratiche? Non proprio. Ignorandole, l’amministrazione comunale reggina ha dovuto sborsare (quanto meno sulla carta) anche i soldi necessari al mantenimento degli animali per i quali altri sindaci avrebbero dovuto versare il proprio obolo.

ACCREDITAMENTO SÌ O NO? In più, se l’area C non è mai stata coinvolta nella supervisione del canile, come fa la struttura ad essere accreditata, dunque come può operare? Ecco perché Giugno parla di «responsabilità di natura economica, amministrativa e penale». Ed ecco perché la medesima comunicazione è stata mandata per conoscenza anche a Questura, Prefettura, Nas e Nirda (Nucleo investigativo per i reati in danno agli animali della Guardia forestale).

TRA CHIUSURE E ORDINANZE Tutti soggetti che nel corso degli ultimi otto mesi sono stati più volte chiamati a occuparsi del canile di Mortara. E non solo per la chiusura della struttura a causa di un’epidemia, disposta con ordinanza del sindaco del 14 luglio e preceduta di circa un mese da una comunicazione della dirigente Pace. O per i consueti battibecchi – legali e no – tra l’associazione Aratea, che gestisce il canile, e i volontari di Dacci una zampa, che lì hanno ospiti i propri cani.

MESI COMPLICATI Da aprile a oggi, carabinieri e municipale più volte sono dovuti piombare di fronte ai cancelli, su sollecitazione di cittadini e volontari cui è stato interdetto l’ingresso, al canile si è presentata persino una delegazione di Lav e parlamentari del Movimento 5 stelle arrivati a Mortara per un’ispezione conclusasi con un nulla di fatto, mentre più problematica per l’associazione sembra essere stata quella dei Nirda che durante un blitz hanno rinvenuto medicinali ad uso umano, escrementi non smaltiti correttamente e altre criticità strutturali, in tutto e per tutto simili a quelle messe in luce da più parti ancor prima dell’assegnazione del canile. Circostanze alla base di una serie di denunce per maltrattamenti, come in una serie di querele per diffamazione, seguite a battibecchi – dai toni spesso aspri – sui social.

ARRIVANO I NAS Per destare l’amministrazione però ci sono voluti i Nas, che ad agosto – in piena emergenza cimurro – piombano in canile e riscontrano una serie di anomalie, a partire dall’inesistente divisione fra canile sanitario e canile rifugio. Ragion per cui chiedono chiarimenti alla dirigente responsabile, Loredana Pace, ordinando contestualmente immediati lavori di adeguamento. Richieste che il Comune non ha potuto ignorare.

SGOMBERATE TUTTO Ecco perché a novembre, il sindaco Falcomatà ordina lo svuotamento del settore rifugio, in attesa dei lavori di adeguamento, inibendo contestualmente l’ingresso di altri animali. Alla dirigente Pace – prevede l’ordinanza del sindaco – toccherà inoltre individuare altre strutture del territorio in grado di ospitare i cani in attesa del completamento dei lavori di adeguamento. Intimazioni che comportano una serie di problemi.

QUALCHE PROBLEMA Primo, l’ingresso degli animali nella sezione “sanitaria” è regolamentato da rigide norme e – quanto meno sulla carta – non possono transitarci senza specifica motivazione. Secondo, tutte le altre strutture della provincia sono private – dunque lì i cani potrebbero essere trasferiti solo a caro prezzo – e negli anni scorsi più volte sono emerse criticità al riguardo. Ma ad amministrazione e gestori del canile la cosa sembra poco importare. E il meccanismo si mette in moto. O almeno così pare. Ai volontari di “Dacci una zampa”, che in questi mesi hanno lavorato alla costruzione di un’oasi canina su un terreno donato dalla Provincia, è stato ordinato di portar via i cani ospiti di Mortara entro 15 giorni, pena il sequestro. Un provvedimento “abnorme” per i legali dell’associazione e “insensato”.

QUALE URGENZA? Perché – banalmente – il sequestro presuppone un’urgenza che allo stato non è rintracciabile in alcun dove. Sugli albi online, non c’è infatti notizie di gare o manifestazioni di interesse. Che si sappia, mai il consiglio comunale ha discusso della questione. Eppure in ballo rischiano di esserci un bel po’ di soldi. Stando al Dca, per l’adeguamento o la creazione di canili sanitari nella provincia di Reggio ci sarebbero 270mila euro. Se e in che misura il Comune di Reggio Calabria abbia intenzione di contare su questi soldi non è dato sapere, tantomeno se la probabile mancanza di accreditamento possa influire sulla fruizione di questo denaro. Quel che si sa è che – al momento – non c’è documento o albo ufficiale che rechi traccia di questi lavori. E allora perché tanta fretta?

LE DOMANDE DI DACCI UNA ZAMPA «C’è qualcosa che non va e non ha senso in tutta questa storia – dicono dall’associazione – e non si tratta solo dell’ostinazione con cui il Comune ignora le nostre istanze, inoltrate anche via pec, all’ufficio dirigenziale competente e al sindaco. Come mai si scoprono solo adesso le criticità strutturali che noi segnaliamo da anni? Come hanno fatto ad assegnare la gestione del canile pur essendone a conoscenza? Perché tanta fretta di trasferire i cani? E com’è possibile che oggi si organizzino “feste di natale” in una struttura non adeguata e con gran parte degli animali trasferiti nel settore sanitario?». Domande rimaste senza risposta. Ma di fronte al silenzio dell’amministrazione, i volontari hanno deciso di rivolgersi alla magistratura.

Alessia Candito

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/52997-grosso-guaio-al-canile-di-reggio-calabria

La mano nera dietro la manifestazione di Archi

di Alessia Candito

Lunedì, 10 Ottobre 2016 11:18

C’è una doppia tragedia nella squallida manifestazione che un centinaio di abitanti di Archi hanno inscenato ieri nei pressi dell’ex facoltà di Giurisprudenza, oggi mal riconvertita in un centro di accoglienza. Non si tratta solo di una manifestazione razzista. Non si tratta solo dell’ennesimo sconcertante episodio di una stupida e fratricida guerra fra poveri. Quella manifestazione è soprattutto la conferma di un giogo da cui il quartiere non si sa e non si vuole emancipare.

Schiavo di silenzio ed omertà, per decenni durante i quali nelle sue strade senza nome si è consumata una guerra da ottocento morti ammazzati, schiavo di un degrado tutto uguale a se stesso, voluto e ricercato come condizione ideale per creare un esercito che ogni giorno necessita di carne da cannone, oggi il quartiere porge il collo a un nuovo giogo. E sempre schiavo rimane.

Quella di domenica ad Archi non è stata una manifestazione spontanea. C’è una mano nera dietro il gruppetto di leoni, riuniti per ore nei pressi del centro di accoglienza, per insultare trecento ragazzini sopravvissuti a stento al viaggio devastante che li ha portati in Italia. A svelarlo, è il simbolo che con arrogante noncuranza è stato tracciato a mo’ di firma sotto gli striscioni esposti nel corso della manifestazione. Si tratta di una Odal ed è da sempre uno dei più noti segni distintivi di Avanguardia Nazionale, di cui più di uno fra i manifestanti è un orgoglioso esponente.

 

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Sciolto più volte come movimento eversivo, Avanguardia si è ripresentato più volte sotto molti nomi e molte forme. Ma non ha mai cambiato natura. È lo stesso movimento che negli anni Settanta vedeva fra i propri entusiasti sostenitori Paolo e Giorgio De Stefano e quel Paolo Romeo, che oggi per missiva giura e spergiura la propria fede democratica, nonostante decine di pentiti, neri e di ‘ndrangheta, raccontino la sua storica vicinanza a Stefano “Er caccola” Delle Chiaie.
È lo stesso movimento che reclutava carne da cannone nelle periferie grazie ai danari versati da fin troppi nomi noti della grande borghesia reggina, che orfani di un golpe abortito, hanno giocato la propria partita tessendo le fila dei Moti di Reggio. È lo stesso movimento, che ha portato per mano la ‘ndrangheta nei grandi giochi della strategia della tensione, accompagnandola a fare il lavoro sporco nelle strade e nelle piazze, fra omicidi politici e bombe “dimenticate” nei cestini.

Oggi Avanguardia Nazionale si ripresenta ad Archi, con i propri simboli e i propri militanti. Ancora una volta, gioca con gli istinti più sordidi e malpancisti di un quartiere che alla propria condanna non si è mai saputo ribellare. Come negli anni Settanta, ancora una volta indica un nemico facile – e inerme – come responsabile del degrado cui i veri padroni di Archi hanno condannato il quartiere. Ancora una volta la rabbia sociale è stata convogliata contro un bersaglio facile, prima che si dirigesse contro il reale nemico. E se oggi come quarant’anni fa, ci fossero i clan dietro chi si veste di nero e urla “prima gli italiani”? Né Archi, né il resto della città si possono permettere il lusso di attendere di scoprirlo.

Per l’ennesima volta, il quartiere si è dimostrato uno schiavo, sciocco e felice. Per l’ennesima volta, si è fatto abbindolare da chi gli ha raccontato che le sue strade senza nome, i suoi servizi inesistenti, i suoi palazzoni dimenticati siano colpa di chi è arrivato per ultimo e solo per chiedere aiuto. Per l’ennesima volta, proprio quando i clan sono in ginocchio, quando le loro storiche menti sono confinate dietro le sbarre, qualcuno gioca a innescare una bomba sociale che non c’è. Per l’ennesima volta, ha avuto gioco facile, grazie ad amministrazioni che hanno cambiato nome e volto, ma allo stesso modo hanno continuato a servire il culto di una città che nasconde il degrado in periferia come polvere sotto il tappeto.
Per l’ennesima volta, Archi ha reso omaggio al culto dell’omertà che diventa connivenza, dell’indifferenza che diventa giustificazione. Ma in questo modo non ha perso solo Archi. Ieri, per l’ennesima volta, è stata sconfitta tutta la città.

 

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/l-altro-corriere/il-blog-della-redazione/item/50513-la-mano-nera-dietro-la-manifestazione-di-archi

Saline, blitz di Greenpeace contro la centrale a carbone

Iniziata questa mattina presto la scalata alle pareti della fabbrica, sulle quali gli ambientalisti progettano di dipingere un gigantesco “Stop Carbone”

Venerdì, 07 Ottobre 2016 09:43 

L'ex Liquichimica dopo il blitz di Greenpeace (le foto nel servizio sono di Marco Costantino) L’ex Liquichimica dopo il blitz di Greenpeace (le foto nel servizio sono di Marco Costantino)

SALINE JONICHE Greenpeace si schiera contro il progetto di centrale a carbone che la multinazionale elvetica Sei-Repower progetta di costruire sulle ceneri della Liquichimica di Saline Joniche. Gli attivisti hanno iniziato questa mattina presto la scalata alle pareti della fabbrica, sulle quali progettano di dipingere un gigantesco “Stop Carbone”. «È un messaggio per la Sei come per Renzi-Repower – scrivono dal desk internazionale dell’organizzazione ambientalista –. Il governo deve fissare una data chiara per mettere fine alla produzione di energia da carbone in Italia».

Da anni, la multinazionale elvetica tenta di impiantare una fabbrica a carbone, nonostante l’opposizione della popolazione locale. Il progetto, che ha ottenuto una Valutazione di impatto ambientale positiva dal governo Monti nonostante la presenza di una riserva naturale protetta nell’area di costruzione della centrale, è stato bloccato da una sentenza del Tar del Lazio, che ha accolto il ricorso presentato da Regione, Comuni e associazioni ambientaliste dell’Area grecanica. Una decisione ribaltata dal Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso avanzato dalla Sei (la multinazionale svizzera che intende realizzare la megaopera sul litorale jonico reggino) e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dando nuovamente il via libera alle autorizzazioni per la costruzione dell’impianto.

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La centrale dovrebbe nascere sui ruderi dell’ex Liquichimica, il mostro creato nel 1974 con i finanziamenti del pacchetto Colombo. Costata all’epoca 300 milioni, avrebbe dovuto finanziare lo sviluppo industriale di una delle province più depresse d’Italia. Da più parti però, quell’investimento è stato interpretato come il prezzo che il governo è stato costretto a pagare per comprare la pace a Reggio Calabria, dove i Boia chi molla, guidati dal sindacalista della Cisnal e senatore missino, Ciccio Franco, si erano messi alla testa della rivolta popolare, scoppiata dopo l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro.

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La Liquichimica è figlia di quel baratto. Dopo avere speso quel fiume di denaro pubblico, le istituzioni hanno bollato la produzione – bioproteine per mangimi animali – come «altamente inquinante». E l’impianto è stato bloccato e chiuso due mesi dopo l’apertura dei battenti. Trecento milioni di lire dell’epoca andati in fumo, seicento lavoratori assunti, finiti in cassa integrazione.
 A Saline è rimasta solo una struttura divenuta simbolo delle cattedrali nel deserto.

Alessia Candito

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/50406-saline,-greenpeace-in-azione-contro-il-progetto-di-centrale-a-carbone

 

 

Reggio, protesta al centro di accoglienza di Archi

Circa duecento ragazzini, tutti arrivati nella città calabrese dello Stretto con gli ultimi sbarchi, si sono barricati all’interno della struttura in cui sono ospitati per chiedere una sistemazione più dignitosa

Lunedì, 18 Luglio 2016 10:44

REGGIO CALABRIA Proteste al centro di prima accoglienza di Archi, a Reggio Calabria. Circa duecento ragazzini, tutti arrivati nella città calabrese dello Stretto con gli ultimi sbarchi, si sono barricati all’interno della struttura in cui sono ospitati per chiedere una sistemazione più dignitosa. I minori chiedono vestiti puliti, cibo migliore, la possibilità di chiamare casa, prospettive. La maggior parte vorrebbe andare via, in altre strutture, in altre città, magari a Milano, da dove il Nord Europa – meta ultima per la maggior parte di loro – sembra più vicino. Ma il sistema in Italia è al collasso, dal Viminale alzano le spalle e così duecento ragazzi finiscono per rimanere in un’ex facoltà, più o meno riconvertita in centro d’accoglienza. Non ci sono letti per loro, ma brande della protezione civile. I bagni invece sono quelli previsti per gli ex studenti, più un’unità mobile che insieme ai sanitari contiene anche qualche doccia. Troppo poco comunque per una struttura arrangiata solo per l’accoglienza temporanea e divenuta centro di permanenza fino a data da destinarsi. Secondo quanto previsto dalla legge, i minori migranti sbarcati in Italia sono da considerare “in stato di abbandono” e sottoposti a tutela. Tocca infatti alla procura dei minori competente per territorio emettere una serie di provvedimenti di tutela per il minore – primo fra tutti la nomina di un tutore legale – come a dichiararne lo stato di adottabilità qualora non abbia parenti in vita. In più, sempre alla procura, di concerto con la Prefettura e le istituzioni locali, compete l’inserimento dei ragazzi in una struttura di accoglienza, tenuta non solo all’immediata assistenza – un tetto, un letto e il necessario per mangiare e vestirsi – ma anche a fornire al minore tutte le possibilità di inserirsi, lavorare, imparare, la lingua italiana, istruirsi. Un’enorme responsabilità, ma soprattutto un carico quasi impossibile da sostenere per un Ufficio come quello reggino, che ha risorse risicate – ci lavorano solo due magistrati – e incombenze molteplici, che vanno dal fronte criminalità organizzata all’ordinaria gestione. Un problema che diventa quasi impossibile da risolvere in mancanza di disponibilità presso strutture dedicate all’assistenza minori, in città o in Regione. Da tempo, Reggio lancia segnali di allarme al Viminale. Ma a Roma – per adesso – nessuno risponde.

Alessia Candito
[email protected]

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/48100-reggio,-protesta-al-centro-di-accoglienza-di-archi

Rosarno, migrante ucciso da un carabiniere nella tendopoli: versioni contrastanti sulla dinamica

Secondo la ricostruzione ufficiale il giovane maliano ha aggredito un militare che gli ha sparato colpendolo mortalmente. Ma alcuni braccianti raccontano l’accaduto in modo diverso. L’episodio in ogni caso conferma la situazione insostenibile in cui vivono i braccianti stranieri che lavorano negli agrumeti

di ALESSIA CANDITO

SAN FERDINANDO (Reggio Calabria) – Una lite scoppiata per motivi futili che non si riesce a sedare, animi surriscaldati, troppo nervosismo, un coltello di troppo, una pistola che spara. Sono questi gli ingredienti del dramma che si è consumato oggi alla tendopoli di Rosarno, dove un bracciante straniero è stato ucciso con un colpo di pistola da un carabiniere.

Secondo la ricostruzione ufficiale, la vittima, Sekine Triore in mattinata avrebbe aggredito con un coltello un altro ospite del campo per motivi futili, quindi si sarebbe scagliato contro un altro uomo tentando di strappargli il borsello. Preoccupati dal comportamento di Triore, già a metà mattina visibilmente ubriaco, gli altri ospiti del campo avrebbero tentato invano di calmarlo, mentre qualcuno allertava le forze dell’ordine. Ma l’intervento dei militari non ha fatto che innervosire ulteriormente Triore, che si è scagliato contro di loro. A farne le spese è stato uno dei carabinieri, ferito vicino all’occhio da un fendente del bracciante. Terrorizzato, il milite avrebbe sparato, colpendo il migrante maliano all’addome.

Tutto è successo di fronte a molti degli abitanti della Tendopoli. Ma alcuni danno versioni diverse dell’accaduto. Parlano con i pochi volontari che continuano a lavorare in zona, insieme ai sanitari di Medici per i diritti umani (Medu) che cercano di fornire l’assistenza minima ai braccianti “fantasma” che lavorano tra San Ferdinando e Rosarno. Sì, ammettono, è vero, c’è stata una lite in mattinata. Ma nessuno di quelli che hanno assistito a quello scontro è certo di aver visto “un fratello” scagliarsi contro il militare. La colluttazione – affermano – sarebbe avvenuta quando i carabinieri hanno tentato di avvicinarsi. Altri sostengono che uno dei due uomini avrebbe sì puntato il coltello contro il carabiniere, ma solo a grande distanza. Altri ancora che i due militari avrebbero raggiunto Triore all’interno della tenda, lì sarebbe avvenuto lo scontro e il giovane maliano sarebbe stato ucciso da un colpo di pistola all’addome. Il carabiniere che ha sparato è stato iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario, ma il procuratore capo di Palmi, Ottavio Sferlazza, sembra orientato a considerare la reazione del militare legittima difesa.

Nella tendopoli adesso tutti hanno paura. Una condizione permanente nel ghetto che ospita i braccianti che lavorano nei campi circostanti. Sei anni dopo la rivolta che ha rivelato all’opinione pubblica le disumane condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti che permettono alla arance di Rosarno di arrivare nei mercati di tutta Italia, per loro poco o nulla è cambiato. Usciti dalla “Cartiera”, lo stabile fatiscente in cui hanno trovato per anni alloggio e riparo, abbattuta dopo la rivolta, solo in pochi hanno trovato affitti accessibili in paese, o un casolare diroccato in cui trovare riparo, mentre la tendopoli messa in piedi dalla Protezione civile per ordine della Prefettura si è rapidamente gonfiata a dismisura, rendendo assolutamente insufficienti docce e servizi. Lì era previsto che vivessero non più di 350 persone. Oggi sarebbero 1.000. Senza un contratto che ne regolarizzi la posizione, ma spesso anche senza documenti che ne certifichino l’esistenza, sottopagati, privi di assistenza e tagliati fuori dai servizi, i braccianti di Rosarno non vivono, ma sopravvivono nella Piana, durante la stagione della raccolta delle arance.

Qualche mese fa, a richiamare l’attenzione sulla loro tragica condizione, è stata l’organizzazione Medici per i diritti umani che ha denunciato le terribili condizioni di vita e lavoro dei braccianti, identificate come principale causa delle patologie più comunemente riscontrate. Ma soprattutto ha squarciato il velo sulle aggressioni che negli ultimi mesi i migranti subiscono ormai regolarmente, sempre di notte e sempre senza colpevoli. Colpa dei caporali stranieri? O degli agricoltorirosarnesi? Non è dato saperlo. Le indagini non sono ancora arrivate a nulla, mentre molti casi sono stati archiviati. La comunità ha continuato a subire, rassegnata. Adesso però, dopo l’assassinio di un “fratello”, esige risposte. E punizioni immediate.

Fonte:

ORRORE AGLI OSPEDALI RIUNITI DI REGGIO CALABRIA. INCHIESTA “MALA SANITAS”

Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate

ospedaliriunitiinterno

di Claudio Cordova – Il colore bianco del camice dovrebbe essere simbolo di pulizia, di purezza, di candore. Sotto il profilo materiale e morale. Chi lo indossa, invece, dovrebbe rappresentare un baluardo, una difesa contro i mali della vita: un’ancora di luce cui aggrapparsi nel dramma della malattia. L’ospedale dovrebbe essere un luogo in cui poter alleviare le proprie sofferenze, un presidio di diritti sanciti dalla Costituzione.

Tutto questo non esiste a Reggio Calabria.

Le condotte che l’indagine “Mala Sanitas” consegna alla popolazione fanno emergere uno spaccato agghiacciante degli Ospedali Riuniti, vero e proprio luogo di orrore, quasi di torture ai pazienti che, dopo i danni irreparabili causati dall’imperizia del personale medico venivano persino convinti della bontà del trattamento subito.

Oltre al danno la beffa.

Non c’è centimetro di Reggio Calabria che conservi ancora un che di buono, un che di puro. Dove non arriva (in maniera diretta) la ‘ndrangheta, arrivano corruzione, clientele e squallore. Una città priva di punti di riferimento, in cui sono ormai definitivamente spezzati quei vincoli fiduciari su cui una società dovrebbe fondarsi: dalla politica alla giustizia, arrivando ora alla sanità, non ci si può fidare più di nessuno.

Così una città muore. Resta da capire solo la velocità con cui verrà dichiarato il decesso.

La collocazione del dott. Alessandro Tripodi, uno dei personaggi principali dell’inchiesta curata dai pm Gaetano Paci, Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci, è l’emblema di come vanno le cose in città: Tripodi, nipote di Giorgio De Stefano, l’avvocato-eminenza grigia considerato uno delle menti più sopraffine che la ‘ndrangheta abbia mai avuto, avrà per anni un peso assai significativo all’interno del reparto di Ginecologia dei “Riuniti”, fino a diventarne addirittura il primario. E’ ascoltando lui – partendo da un’indagine sulla cosca De Stefano – che agli uomini della Guardia di Finanza viene aperto un mondo fatto di imperizia medica, di falsità ideologica, di aborti obbligati e di indicibili sofferenze per moltissime famiglie, che subiranno danni irreparabili per i propri neonati e, talvolta, la morte degli stessi.

Ecco la sanità reggina, lottizzata da ‘ndrangheta e sistemi di potere che non lasciano alcuno spazio alla meritocrazia. Concorsi truffa in cui a vincere sono quasi sempre gli “amici degli amici” o le “amiche” dei potenti di turno. Perché la carriera ospedaliera, con la possibilità del primariato, rappresenta ancora un elemento di prestigio sociale e di potere.

Tutte caratteristiche che il “sistema” – che nelle sue varie articolazioni quali politica, imprenditoria, massoneria, ‘ndrangheta, ecc. – possiede per sua stessa caratteristica ontologica.

Proprio quel “sistema” che l’inchiesta ha svelato all’interno degli Ospedali Riuniti. Un mutuo, omertoso, silenzio, così granitico da far impallidire quello di matrice mafiosa. Tutto per celare all’esterno le malefatte compiute sicuramente nel 2010 e che – sospettano gli inquirenti – sarebbero potute certamente proseguire anche negli anni successivi.

Una melassa nauseabonda che tanto somiglia alla fluidità di rapporti che regolano la vita reggina.

E sconcerta che nessuno possa essersi accorto di nulla in tutti questi anni. Che la Direzione Sanitaria pro tempore non abbia assunto alcun tipo di decisione. Così come inimmaginabile credere che gli artifizi messi in atto dagli indagati siano potuti accadere all’oscuro del personale infermieristico. Ecco nuovamente la melassa in cui una mano lava l’altra e in cui nessuno vede alcunché.

E allora non può che diventare fondamentale l’indagine di natura tecnica.

Un’indagine che non avrebbe mai potuto portare a galla tali circostanze senza il preziosissimo strumento delle intercettazioni telefoniche. Quelle stesse intercettazioni telefoniche che qualcuno – evidentemente complice, almeno moralmente, del malaffare – vorrebbe limitare o, addirittura, in alcuni casi, vietare. Che vorrebbe, sicuramente, impedire ai giornalisti di pubblicare, perché vorrebbe il popolo all’oscuro di fatti così gravi e incapace, quindi, di indignarsi, di formare una coscienza sociale che è alla base di quei vincoli di cui si parlava poco fa e che per Reggio Calabria sono ormai solo un lontano ricordo del passato. Ed eccoli lì, con vicende così gravi sul piatto della bilancia a spaccare il capello in quattro, circa la rilevanza o meno della pubblicazione, all’insegna di un garantismo becero che puzza di mafiosità.

E invece noi saremo qui a pubblicare, ancora e ancora e ancora qualsiasi testo non coperto dal segreto istruttorio che possa contribuire a informare i cittadini e ricostruire una società disgregata e ormai alla mercé di ‘ndrangheta, politicanti, affaristi e professionisti inadeguati o piegati ad altre logiche.

L’inchiesta “Mala Sanitas” ha indignato la città. E attraverso la conoscenza delle squallide dinamiche scoperte dalla Procura di Reggio Calabria ora la cittadinanza conosce la strada verso la porta della denuncia. Un uscio che però deve essere varcato con convinzione per poter incidere su quelle sacche di malaffare che talvolta distruggono e impoveriscono, ma che, in molti casi, uccidono.

Al netto dei reati che la Procura contesta agli indagati, il tratto caratteristico dell’inchiesta è rappresentato dall’assoluta mancanza di professionalità e di empatia che il personale medico di reparti così significativi sotto il profilo morale e sociale – Ginecologia e Ostetricia – avrebbero dimostrato nel corso della propria attività lavorativa. Pazienti che non solo non venivano considerati esseri umani, ma che, probabilmente non assumevano nemmeno la dignità di “numeri” da salvaguardare nel proprio ordine. Bastava infatti falsificare le cartelle cliniche – diventate a tutti gli effetti carta straccia – per ricreare una realtà fittizia di quanto accaduto in quell’inferno degli Ospedali Riuniti, che non lascia spazio ad alcuna aspettativa positiva, ad alcuna speranza.

Ciò che annichilisce, infatti, è la naturalezza con cui i protagonisti dell’inchiesta “Mala Sanitas” avrebbero messo in atto alcuni dei comportamenti più squallidi di cui l’essere umano possa essere capace. Talvolta anche col sorriso sulle labbra. Tripodi – stando all’accusa – avrebbe sostanzialmente causato farmacologicamente un aborto alla sorella per il solo sospetto che dal parto potesse nascere un bambino con delle gravi patologie.

Fatti del 2010. I protagonisti sono riusciti a dormire ogni notte per circa sei anni, senza provare il minimo cenno di pentimento o rimorso.

Siamo umani, non può andare così.

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L’indagine: http://ildispaccio.it/primo-piano/106439-aborti-bimbi-morti-e-cartelle-cliniche-falsificate-orrore-infinito-ai-riuniti

I nomi delle persone coinvolte: http://ildispaccio.it/primo-piano/106411-operazione-mala-sanitas-agli-ospedali-riuniti-i-nomi-dei-soggetti-coinvolti

Il dottor Tripodi, il nipote di Giorgio De Stefano: http://ildispaccio.it/primo-piano/106484-orrore-ai-riuniti-il-dottor-tripodi-nipote-di-giorgio-de-stefano

Le intercettazioni: http://ildispaccio.it/primo-piano/106451-organizza-l-aborto-della-sorella-a-sua-insaputa-le-intercettazioni-agghiaccianti

 

 

Fonte:

http://ildispaccio.it/primo-piano/106541-lasciate-ogni-speranza-voi-ch-entrate

 

 

Leggi anche gli articoli di Alessia Candito:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/45497-un-colpo-di-bianchetto-contro-gli-orrori-in-corsia

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/45457-errori-in-ospedale,-arrestati-4-medici

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/04/21/news/reggio_calabria_aborti_senza_consenso_in_ospedale_11_misure_cautelari-138092702/

 

MIGRANTI, A REGGIO LA “NAVE DEI BAMBINI”

Sono 113 i minori arrivati a bordo della Phoenix dei coniugi Catrambone. Solo quelli non accompagnati rimarranno in Calabria. «La gente deve sapere cosa succede in mare»

Migranti, a Reggio la “nave dei bambini”

REGGIO CALABRIA Scendono dalla passerella in braccio alle madri o quasi aggrappati alle loro mani. Gli occhi sono pozzi di paura che quasi divorano visi scavati da fame, sole, salsedine, da una vita che – da subito – non è stata generosa. Alcuni sono stati desiderati, voluti da coppie che hanno scelto di guardare a un futuro al di là del mare, altri sono frutto delle violenze che durante il lungo viaggio dal cuore dell’Africa all’Europa, tante, troppe donne hanno subìto. Figli dell’amore, figli della violenza, ma soprattutto sopravvissuti e figli di sopravvissute.

 

LA NAVE DEI BAMBINI Un piccolo miracolo nei mesi in cui il Mediterraneo si è trasformato in un gigantesco cimitero di tombe senza nome. I 113 bambini accompagnati al porto di Reggio Calabria insieme a 107 donne e 124 uomini dalla Phoenix – il sogno solidale dei coniugi Catrambone, divenuta la prima nave di privati inquadrata nel dispositivo di soccorso migranti nel Mediterraneo – ce l’hanno fatta. Portano addosso i segni di un viaggio complesso e lungo e di una traversata complicata. In molti, appena sbarcati, hanno avuto bisogno dell’assistenza dei medici del Viminale che sul molo si occupano di controllo, assistenza e soccorso. Ma per i più sono bastati una merendina e un succo di frutta per reintegrare velocemente gli zuccheri, vestiti asciutti, un guanto di lattice che gonfiato si trasforma in un palloncino e le coccole dei volontari per recuperare forze e sorriso. «I bambini erano molto provati, molto tristi e molto spaventati», dicono gli operatori che però, su quei volti stanchi e ancora terrorizzati, con il passare delle ore hanno visto disegnarsi la serenità di essersi lasciati alle spalle – forse- la parte più difficile.

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IL SOGNO SOLIDALE DEI CONIUGI CATRAMBONE «Il centro di coordinamento di Roma ieri ci ha segnalato due barconi di legno al largo delle coste libiche – dice Regina Catrambone – ma non abbiamo potuto prendere tutti a bordo perché erano più di settecento. Oltre alle duecento, duecentocinquanta persone che viaggiavano sul ponte ce n’erano altrettante che viaggiavano in stiva, vicino ai motori. Abbiamo distribuito a tutti i giubbotti di salvataggio ma per il recupero del secondo barcone abbiamo dovuto attendere la nave Dattilo della Guardia Costiera». Non è la prima volta che la Phoenix approda a Reggio Calabria. Da due anni i coniugi Christofer Catrambone e Regina Egle Liotta – statunitense lui, reggina lei, ma entrambi residenti a Malta – hanno deciso di fare qualcosa di concreto per arginare la strage che si consuma quotidianamente sulla rotta fra Libia e Italia. Per questo hanno trasformato la Phoenix – un’ex imbarcazione di ricerca della Marina degli Stati Uniti – in una “nave della solidarietà” al servizio del dispositivo di soccorso e recupero che opera nel Mediterraneo. Dal 2 maggio scorso, insieme a loro è imbarcata anche un’equipe di Medici senza frontiere in grado di affrontare le prime emergenze a bordo: ustioni, disidratazione, ipotermia, complicanze di patologie croniche dovute a condizioni di viaggio proibitive o a violenze e torture che i rifugiati hanno subito in Libia. Un lavoro che sembra non avere mai fine.

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«LA GENTE DEVE SAPERE COSA SUCCEDE IN MARE» Accompagnato al porto di destinazione un gruppo di migranti, c’è un nuovo barcone da intercettare, un gommone da recuperare, nuovi disperati da soccorrere. Ma nonostante la fatica, i risultati concreti ci sono e sono misurabili. Oltre undicimila persone sono state tratte in salvo e accompagnate sulla terraferma dalla Phoenix. «A me non è mai capitato di vedere bambini affogati nel corso delle traversate, ma penso che in mare ci siano tantissimi Aylin. Questa è la mia grande disperazione. Foto come quella del bambino curdo ritrovato senza vita su una spiaggia in Turchia vanno diffuse e viste, perché la gente si deve rendere conto di cosa succeda in mare. Famiglie che muoiono, bambini che muoiono. Non possiamo rimanere indifferenti, dobbiamo aiutarli». Anche perché chi mette a rischio la propria vita per mare, lo fa – spiega la Catrambone – perché nel suo Paese non può più stare. Perché è dilaniato da una guerra, come la Siria, o perché messo in ginocchio da regimi paradittatoriali che fondano la propria esistenza sulla repressione, come Etiopia ed Eritrea. Ed è da qui che la stragrande maggioranza dei profughi arrivati oggi a Reggio Calabria ha iniziato un viaggio che non può dirsi concluso. Solo i minori non accompagnati e chi ha bisogno di ospedalizzazione rimarrà a Reggio Calabria. Gli altri – ha deciso il ministero dell’Interno – appena concluse le procedure di identificazione dovranno salire sui pullman che li porteranno in Toscana, Veneto, Puglia ed Emilia. E per i più non si tratta che di una tappa.

 

MIOPIA EUROPEA In molti sognano il Nord europa dove nella maggior parte dei casi hanno familiari, amici o conoscenti che li hanno preceduti. Ma nonostante le dichiarazioni di pubblico cordoglio seguite alla pubblicazione delle immagini delle vittime più piccole delle stragi nel Mediterraneo, la fortezza Europa sembra essere ancora imbrigliata da una discussione viziata da troppe gelosie e poche soluzioni. Anche la proposta di aumentare le quote di migranti che i vari paesi dell’Ue sono tenuti ad accogliere – pena sanzioni – appare del tutto insufficiente di fronte a un’ondata migratoria di portata epocale, provocata in larga parte dalla scellerata politica estera delle varie potenze europee negli ultimi decenni. Nel frattempo, in mare si continua a morire.

 

Alessia Candito
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Reggio, contestate le “sentinelle in piedi”

Formalmente si tratterebbe di una rete civica, ma molti riferimenti rimandano a organizzazioni legate all’estrema destra

Reggio, contestate le “sentinelle in piedi”

REGGIO CALABRIA La preparavano da tempo. In tandem con altre “sentinelle” d’Italia da settimana lavoravano all’ennesimo silente appuntamento in piazza, sperando di aumentare di una o due unità lo sparuto seguito che li sostiene a forza di lumini e libri letti al buio e in silenzio in piazza. Quello che probabilmente non si aspettava la delegazione reggina delle “sentinelle in piedi”, è che anche nella sonnolenta Reggio Calabria ci sarebbe stato chi sarebbe sceso in piazza a contestarle. Mentre una sessantina di persone tentano di leggere al buio i libri che hanno portato da casa o sono stati loro forniti dalla solerte organizzazione, una colorata delegazione con cartelli e bandiere ha voluto gridare a una città – sostanzialmente perplessa di fronte al presidio silente – che «la famiglia sono due persone che si amano». A piazza Italia non ci sono bandiere di partito né candidati, ma le donne della Collettiva autonomia, qualche attivista storico della sinistra reggina e qualcuno dell’arcigay, ma soprattutto persone non organizzate sotto sigle o bandiere che si fermano, chiedono, si informano, si arrabbiano. Perché forse nella propria propaganda le “sentinelle” non sono del tutto sincere.
Formalmente, o almeno così recita il volantino diffuso da solerti militanti, si tratterebbe di una rete civica che spontaneamente «ha deciso di reagire e di dare pubblicamente ragione alla speranza in un futuro che ancora si possa reggere sul ruolo sociale della famiglia naturale». Altrettanto formalmente, non sarebbe un’organizzazione omofoba ma aperta «alla partecipazione e al contributo di tutti, di tutte le religioni e di tutti gli orientamenti sessuali e di tutte le religioni». Peccato però che quello delle “Sentinelle in Piedi®” sia un marchio depositato presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi dal signor Emanuele Rivadossi, che ha eletto domicilio presso la società Jacobacci & Partners di Torino, il cui “main partner” è – casualmente – Massimo Introvigne, reggente nazionale vicario di Alleanza Cattolica, organizzazione cristiana storicamente vicina all’estrema destra.
Ancora, nelle dichiarazioni delle “sentinelle”, la rete non avrebbe alcun riferimento politico o partitico, ma si richiamerebbe ai “Veilleurs debout” francesi, scesi l’anno scorso in piazza in Francia contro la legge Toubira, che ha istituzionalizzato il matrimonio omosessuale. Ma se le sentinelle d’oltralpe non sono che l’informale costola civica della destra neofascista francese oggi innamorata di Marine Le Pen, anche quelle italiane non sembrano disdegnare i più “neri” riferimenti. Promossa dal Forum provinciale delle associazioni familiari, forse non a caso, a Reggio la rete ha scelto come portavoce Luigi Iacopino, lo stesso soggetto che, nelle vesti di responsabile dei giovani del Msi Fiamma Tricolore, nel dicembre 2012 spiegava alla città cosa significasse l’esercito di manichini che avevano impiccato ai lampioni «per protestare contro la crisi» e il cui nome tuttora campeggia fra i responsabili di Area Briganti, organizzazione di fronte con cui l’estrema destra reggina tenta di far breccia tra i giovani all’insegna del “meridionalismo”.
Tutti riferimenti ideologici, anche se negati pubblicamente, tornano in maniera prepotente nelle parole d’ordine portate avanti dalla rete. «Stiamo manifestando perché vorremmo che la gente prendesse posizione su temi che consideriamo importanti – ha detto Iacopino al Corriere della Calabria in occasione della prima manifestazione pubblica delle sentinelle qualche settimana fa – il relativismo dilagante sta mettendo in discussione principi che reputiamo sacri e vorremmo ridefinire con più precisione». Minacce che per il portavoce delle sentinelle risiederebbero nella «teoria del gender che è piuttosto discutibile, nell’appiattimento culturale, nell’appiattimento anche sessuale, nel superamento delle differenze uomo donna, nel rifiuto della gravidanza da parte della donna per non essere asservita all’uomo, come sostengono le teorie più estreme. Noi reputiamo le differenze sessuali importanti perché definiscono la società, difendiamo la famiglia tradizionale, fondata da uomo e donna che devono procreare, fare figli, istruirli, educarli».
Una teoria che per le sentinelle avrebbe ispirato il ddl Scalfarotto, la proposta di legge che prevede solo un allargamento a omofobia e transfobia della legge Mancino che dal ’93 condanna l’istigazione alla violenza per motivi religiosi, etnici e razziali, ma per le sentinelle si mischia con il tema dei matrimoni e delle adozioni gay. Peccato però che la proposta di legge elaborata dal sottosegretario dempcrat si limiti a perseguire per legge la discriminazione omofobica e transfobica e non affronti neanche da lontano il tema delle unioni civili. Quella è una grana che il governo Renzi promette di affrontare in futuro sulla base del testo elaborato dalla senatrice dem Monica Cirinnà, che prevede l’istituzione della cosiddetta civil partnership che permetterebbe alle coppie omosessuali di usufruire degli stessi diritti e doveri delle coppie etero. Niente adozioni – sul punto il centrodestra ha fatto muro – ma un partner potrà adottare il figlio dell’altro per garantire una continuità relazionale. Nella propaganda delle Sentinelle tuttavia, tutto questo finisce in un minestrone dai toni quasi apocalittici e quasi surreali di chi, in uno dei pasi dell’Ue in cui più frequenti sono le aggressioni agli omosessuali, si sente «vittima di questi eterofobi, perché stanno per mettere il bavaglio alla stragrande maggioranza degli italiani che sono per il matrimonio fra uomo e donna».

Alessia Candito
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Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/25952-reggio,-contestate-le-%E2%80%9Csentinelle-in-piedi%E2%80%9D

Mille sopravvissuti al mare sbarcano a Reggio Calabria

Siriani, sudanesi, eritrei e palestinesi sul molo. I dialetti si mescolano alla speranza dopo un viaggio in condizioni disumane. Saranno smistati in tutta la Calabria. Ci sono undici minori

Mille sopravvissuti al mare sbarcano a Reggio Calabria

REGGIO CALABRIA I primi a scendere sono stati i cinque migranti che più hanno sofferto le difficoltà del lungo viaggio per mare e hanno avuto necessità di urgente ricovero in ospedale. Poco dopo l’attracco della nave, cinque ambulanze sono partite a sirene spiegate verso gli ospedali Riuniti di Reggio Calabria, dove i cinque – fra cui una donna in procinto di partorire – riceveranno l’assistenza del caso. Nel frattempo, sul molo di Ponente del porto di Reggio Calabria continuano lentamente le operazioni di sbarco dei 1003 migranti arrivati questa mattina attorno alle 8 sulla nave della Guardia costiera Diciotti. Fra loro ci sono 943 uomini, 49 donne e 11 minori, dei più diversi Paesi d’origine.

 

sbarco 2

 

Sul molo reggino, questa mattina i dialetti di Sudan, Eritrea e dell’Africa subsahariana si mischiano all’arabo più formale dei siriani e dei palestinesi, spezzato di tanto in tanto da frasi, domande e richieste in srilankese e bangladese. Ma per quanto lingue e accenti siano diversi, identiche sono le richieste. Scampati a carrette del mare diverse, ma ugualmente malmesse, tutti chiedono cibo, acqua, un posto per riposare – almeno qualche giorno – prima di continuare il viaggio. Pochi – se non nessuno – ipotizzano di rimanere a Reggio o in Calabria. I più sognano il Nord Europa, l’asilo politico in paesi diversi dall’Italia e la possibilità di ricostruire un’esistenza oggi spezzata da fame e miseria. Per adesso però, verranno ospitati nelle strutture messe a disposizione in città, nella regione e non solo. Solo in 400 rimarranno in a Reggio, 28 andranno a Riace, 100 a Gioia Tauro, 60 a Roccella, 22 a Bianco, 40 a Montebello, 8 Camini, 12 a Vibo Valentia, 80 a Cosenza, mentre altri 80 dovrebbero essere trasferiti con volo a Cagliari.

 

sbarco 3

 

Nel giro di poche ore, la macchina dei soccorsi coordinata dalla Prefettura dovrebbe comunicare dove troveranno assistenza e riparo i restanti 200 migranti, che al momento è impossibile alloggiare nelle sature strutture regionali.
Come di consueto, i primi a salire sui bus messi a disposizione dall’Atam e da diverse aziende di trasporto regionale su gomma, sono i minori e le famiglie con bambini. Le operazioni procedono a rilento perché tutti devono superare i primi controlli sanitari a terra, oggi forse anche più accurati del solito perché fra i migranti sono stati segnalati diversi casi di tubercolosi e scabbia.

 

sbarco 4

 

«Le malattie della miseria», commenta uno dei medici presenti sul molo, ormai abituato a veder sfilare di fronte a sé i sopravvissuti del mare. «Sbaglia sapendo di sbagliare chi oggi agita il fantasma di inesistenti epidemie presuntamente portate dai migranti. Queste malattie sono solo dettate da povertà e dalle terrificanti condizioni in cui queste persone sono costrette a vivere prima di imbarcarsi sulle carrette del mare e durante il viaggio». (0020)

 

Alessia Candito

[email protected]

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/24183-mille-sopravvissuti-al-mare-sbarcano-a-reggio-calabria