OSCAR E LA FIGLIA DI DUE ANNI MORTI ABBRACCIATI AL CONFINE TRA MESSICO E USA

La foto simbolo del dramma dei migranti che tentano di attraversare il confine delimitato dal muro voluto da Trump

messico foto shock padre e figlia morti nel fiume

I corpi senza vita di tre bambini e una donna sono stati trovati dalle guardie di frontiera nella valle del Rio Grande, vicino al confine tra Usa e Messico, dove le autorità americane stanno costruendo una parte del Muro anti-migranti voluto dal presidente, Donald Trump. È l’ennesima tragedia dei migranti, mentre sta facendo il giro del mondo la foto di un padre salvadoregno, Oscar Alberto Martinez Ramirez e della sua figlioletta di 23 mesi morti nello stesso fiume, nel disperato tentativo di attraversare il confine tra Messico e Usa. Funzionari salvadoregni hanno detto che padre e figlia sono annegati domenica scorsa.

Nella foto, che ricorda quella Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni annegato morto sulla spiaggia, simbolo della crisi dei migranti in Europa, padre e figlia giacciono a faccia in giù nell’acqua fangosa lungo le rive del Rio Grande, con la testa della piccola infilata sotto la maglietta del padre e il braccio intorno al collo del genitore, al quale è rimasta attaccata fino all’ultimo. Un ritratto della disperazione catturato lunedì dalla giornalista Julia Le Duc e pubblicato da un giornale messicano.

Nella stessa zona, nelle ultime ore, riferisce l’Associated Press, il ritrovamento dei cadaveri di una donna e dei suoi tre figli, i cui nomi non sono stati ancora resi noti. Le vittime sarebbero decedute per il caldo torrido. Secondo alcuni media la giovane madre aveva una ventina di anni e i tre figli erano due bambini e un neonato. Dall’inizio del 2019 quasi 500 mila migranti sono stati fermati nel tentativo di attraversare il confine statunitense. Nel 2018 i migranti morti al confine tra Usa e Messico furono 283.

Il migrante salvadoregno e la figlia di 23 mesi sono morti nei pressi della cittadina di Matamoros, nello Stato settentrionale messicano di Tamaulipas. I due sono morti sotto gli occhi della madre della piccola. Ramirez lavorava come cuoco nel suo Paese. La famiglia era arrivata la settimana scorsa a Tapachula, nello Stato del Chiapas, e domenica sera, esasperata dall’attesa e dall’impossibilità di chiedere asilo, ha deciso di cercare di attraversare il confine con gli Usa.

Secondo la ricostruzione di diversi media, padre e figlia erano riusciti ad attraversare il fiume, a differenza della donna, Tania Vanessa valos, 21 anni, la quale ha provato invano con il sostegno di un amico, ed era tornata indietro. A quel punto Ramirez ha deciso di andare a prendere la moglie e tentare nuovamente la traversata con lei, ma la piccola Valeria, probabilmente spaventata nel vedere il padre allontanarsi, si è gettata di nuovo in acqua per raggiungerlo. Il giovane si è quindi tuffato per riacciuffare la figlia ma i due sono stati scaraventati via dalla corrente e sono annegati.

Fonte:

https://www.agi.it/estero/messico_foto_shock_padre_e_figlia_morti_nel_fiume-5722578/news/2019-06-26/?fbclid=IwAR3dn6k_Ksay2O1LbZ2NzldERM7ytS5T-IRajJPjPonIgDPuhqmDDpFW_xo

SIRIA, OMRAN E’ IL VOLTO DELL’IDIGNAZIONE A RATE DELL’OPINIONE PUBBLICA

Siria, Omran è il volto dell’indignazione a rate dell’opinione pubblica

 

di Shady Hamadi | 18 agosto 2016

 

Omran si tocca il viso, incredulo. Ha cinque anni e forse non ha capito cosa è successo. E’ stato estratto dalle macerie di casa sua, ad Aleppo, distrutta da un ennesimo bombardamento aereo russo, uno di quei bombardamenti che qui, in Europa, in Italia, non vogliamo vedere, né condannare. Aleppo, la Siria intera, è il metro della schizofrenia occidentale: non si vede altro che l’Isis, si invoca il rispetto dei diritti umani ma si sta silenti su tutto. Si ha paura, qui, in Europa, di condannare i bombardamenti aerei che mietono più vittime del fondamentalismo; che distruggono ospedali, infrastrutture e… vite. Si ha paura – perché non bisogna schierarsi sui giornali o si perde di oggettività – di condannare i russi, il governo siriano per crimini contro l’umanità.

Con il suo sguardo incredulo, spaesato, che riassume l’abbandono e l’incomprensione che assediano i siriani, schiacciati da un regime brutale e da un fondamentalismo che si nutre di questa repressione, Omran è il simbolo dell’impunità: chiunque tu sia, puoi bombardare ospedali, usare le armi chimiche, fare fosse comuni e compiere pulizia confessionale o etnica ma sei consapevole che nessuno ti punirà, non verrai chiamato in giudizio da nessun tribunale. La Siria è diventata, suo malgrado, il simbolo del fallimento del mondo. “L’umanità – dichiarava in una conversazione telefonica Assad Younes, un giovane aleppino che ho intervistato settimana scorsa – è finita ad Aleppo”.

In ordine di tempo, Omran è l’ultimo bambino che risveglia l’indignazione a rate dell’opinione pubblica. Era cominciato tutto con Hamza ali Al Khateeb, torturato, evirato e infine ucciso nel maggio 2011. La Clinton e altri leader, che oggi hanno fatto un cambio di rotta clamoroso sulla Siria, dichiararono che “Assad doveva andarsene”. Poi, venne la strage di bambini di Houla, tagliati a pezzi dalle milizie fedeli al governo siriano. E ancora, Houda, la bambina che alzava le mani al cielo scambiando la macchina fotografica per un’arma; Aylan, il bambino morto fotografato su una spiaggia che cambiò, per un momento, le politiche dell’accoglienza per i siriani.

Ora è il turno di Omran, e ci chiediamo se questo bambino, il suo sguardo, può destare l’attenzione sul dramma di Aleppo, facendo sì che venga alla luce l’enorme tragedia che sta avvenendo in Siria, una tragedia che viene coperta dal clamore dell’Isis, dai curdi – diventati nuovi eroi per una sinistra, anche italiana, incapace di guardare al Medioriente nella sua complessità.

Ma Omran è anche il simbolo di un giornalismo che cerca il sensazionalismo per parlare di un tema: c’è bisogno di un fatto clamoroso, come la foto di un bambino sopravvissuto alla morte, per riaccendere i riflettori su una catastrofe che dovrebbe essere raccontata ogni giorno perché è il centro di tante questioni che toccano le nostre società. Sui giornali, dovremmo parlare continuamente della Siria, quella oltre il fondamentalismo e il regime, perché ha pagato mezzo milione di morti e undici milioni di sfollati esterni e interni. Dovremmo far sì che la voce dei siriani, quelli a Aleppo o Idlib, emerga nel marasma di cose dette su di loro ma senza di loro.

Ma, consapevole che così non sarà e che lo sguardo di Omran, il suo destino, è destinato a spegnersi nei prossimi giorni, sotto un mare di indifferenza e di disimpegno generale, ci rivediamo alla prossima notizia clamorosa: al prossimo bambino siriano che susciterà l’indignazione part-time di qualcuno.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/18/siria-omran-e-il-volto-dellindignazione-a-rate-dellopinione-pubblica/2981515/

Perchè non sarò più Charlie

Quando ci fu la strage al giornale satirico francese Charlie Hebdo, poco più di un anno fa, avevo scritto due post a riguardo. Potete rileggerli qui:
https://www.peruninformazionelibera.blog/matita-charlie/
https://www.peruninformazionelibera.blog/la-satira-perdona-o-forse-

Oggi ho rivisto le mie posizioni su quel giornale. Sta girando una vignetta di Laurent Sourisseau, in arte Riss, in cui si raffigura in un angolo il piccolo Aylan Kurdi (bimbo curdo-siriano annegato a settembre su una spiaggia sull’isola di Kos mentre, con la sua famiglia, scappava dalla guerra) e sotto si vedono due uomini con sembianze animalesche e con i palmi delle mani  rivolti verso l’alto che rincorrono due  donne. La didascalia dice: ” Migranti. Cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto? Un palpeggiatore di sederi in Germania”.

http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2016/01/13/aylan-sarebbe-stato-molestatore-bufera-per-vignetta-charlie-hebdo_WEBHj2JYeVPVL0gPu5BQWK.html

'Aylan sarebbe stato un molestatore', bufera per vignetta di Charlie Hebdo

Il corpo del piccolo Aylan recuperato da un agente turco (Afp)

 

La satira in sè non è nè buona nè divertente. Può essere pungente, fastidiosa, scioccante, anche blasfema in quanto libera. Ma perde il suo intento se diventa ambigua. Questa vignetta è ambigua. Non solo mette in relazione episodi diversi (la tragica morte del piccolo Aylan e le aggressioni  della notte di capodanno a Colonia) ma lancia un messaggio fuorviante dove l’ironia cercata in realtà si perde. C’è odore di razzismo nei volti animaleschi e nei gesti  dei due migranti. Non è detto che fosse questo  l’intento dell’autore. Può essere che volesse rappresentare il razzismo di chi crede che tutti coloro che vengono da un altro paese siano potenziali stupratori. Tuttavia l’accostamento tra  la drammatica figura del piccolo Aylan – morto in quel modo così terribile – e l’immagine dei due migranti adulti – falsata e deformata al punto da far perdere almeno in parte l’umanità degli stessi, oltre a considerarli molestatori a prescindere – fa perdere il fine satirico alla vignetta stessa. Se lo scopo della satira è quello di prendere in giro ( vuoi questa o quella religione, questa o quella istituzione, questo o quel vizio) in questa vignetta è completamente fallito. Qui non si prende in giro il razzismo perchè l’ambiguità della rappresentazione fa sì che questa assuma la forma stessa del razzismo, a prescindere dalle reali intenzioni dell’autore. Una siffatta ambiguità fa sì che si trasmetta un pessimo, in quanto fuorviante, messaggio. Quella figura così come è fatta incita all’odio verso chiunque sia straniero, profugo o migrante che dir si voglia. Un odio tale non solo da calpestare la memoria del piccolo Aylan ma che va ancora oltre, rischiando di suscitare, in chi è predisposto al razzismo, perfino l’augurarsi che tutti i profughi facciano la sua stessa fine.
La satira, piaccia o no, può offendere ma non dovrebbe spingersi fino a incitare all’odio. L’incitamento all’odio trascende la libertà d’espressione.

D. Q.

NEI GIORNI DELLA MISERICORDIA I BIMBI ANNEGATI NON FANNO PIU’ NOTIZIA

Nella notte di ieri in un naufragio sulle coste turche sono morti sei bambini tra cui un neonato. E’ stato trovato anche il cadavere di un’altra bimba di cinque anni annegata in un altro naufragio di qualche giorno fa, identificata come Sajida Ali. L’immagine diffusa dai media locali richiama alla mente quella di Aylan Kurdi, anche lui bimbo profugo annegato su una spiaggia turca tre mesi fa. Se ne parlò tanto allora, scattò l’indignazione generale sul web come va di moda adesso, quando succedono tragedie che, per qualche giorno, scuotono coscienze da troppo tempo sopite. E che troppo presto tornano a dormire. Si scatenarono polemiche chiedendosi se fosse giusto o no diffondere l’immagine di quel corpicino esanime. Dibattiti su dibattiti, commenti su commenti com’ è normale che sia per la libertà d’opinione e informazione, ancor di più nell’era digitale. Solo che poi l’indignazione va dove porta il vento, si sposta su nuove “emergenze” e paure di volta in volta indotte. C’è il terrorismo di cui preoccuparsi adesso. La “sicurezza” è la sola cosa che conta, di cui si può parlare  e su cui si deve investire. Ma non è che non abbiamo altri valori e interessi oltre a questo. No, a modo nostro c’è ne abbiamo e le guide non ci mancano: ci sono i grandi della terra che si riuniscono a Parigi (divenuta simbolo della lotta al terrorismo, che ci ha fatto diventare tutti francesi, fino all’ascesa del Fronte Nazionale di Marine Le Pen, ma questo è un altro discorso) per una conferenza sul clima e, soprattutto, c’è un papa che ama tanto la misericordia da decidere un giubileo straordinario. Proprio oggi papa Bergoglio ha inaugurato quest’anno santo nel bel mezzo del delirio securitario, che schiera truppe di uomini armati a difendere la città eterna da eventuali attacchi di terrorismo.
Ma cos’è la misericordia se non (come dice la parola stessa) aprire il proprio cuore a chi è misero? La nostra smania dei grandi eventi di portata mediatica dirige tutta la nostra attenzione all’apertura della Porta Santa. Siamo ormai capaci solo di guardare quello che ci inducono a guardare, di sentire (non ascoltare, che questo presuppone una profondità d’animo sempre più rara) quello che ci vogliono far sentire e di parlare. Amiamo ormai nella stragrande maggiornaza dei casi solo a  parole. Staremo un anno a parlare di misericordia senza sapere di cosa stiamo parlando.

Fortunatamente c’è ancora chi non si livella, chi resiste,come i No Tav in una valle stuprata da un’idea di progresso che (a dispetto delle conferenze sul clima) se ne sbatte della natura o come i movimenti per il diritto all’abitare che inaugurano il loro “giubileo dei poveri” con due occupazioni di stabili del Vaticano  (eppure in tempi di presepi dovremmo ricordarci che Gesù è nato in una stalla occupata e che le prime persone a averci insegnato che abitare è un diritto sono state proprio la Sacra Famiglia). Ma il resto del mondo è occupato a preoccuparsi ora del terrorismo, della sicurezza, dell’evento Giubileo e del Natale vicino. E’ così la piccola Sajida Ali e gli altri sei bimbi annegati non fanno notizia. Nessun Je suis per loro, nessuna lacrima, nessuna indignazione e nessun dibattito sul web o in Tv.
Buon anno santo, dunque, e amen.

 

D. Q.

 

Qui gli articoli sui naufragi tratti dal sito dell’Ansa:

Migranti, la strage senza fine degli innocenti

Le drammatica immagine del corpo di una bimba sulla spiaggia di Pirlanta, ricorda quella del piccolo Aylan

 – Il corpo di una bimba siriana di 5 anni è stato ritrovato sulla spiaggia di Pirlanta a Cesme, nella provincia turca di Smirne sul mar Egeo. La piccola, identificata come Sajida Ali, sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa.

La drammatica immagine del corpo della bimba sulla spiaggia, diffusa dai media locali, ricorda quella del ritrovamento del piccolo Aylan Kurdi, il bambino curdo-siriano di 3 anni annegato a inizio settembre con la madre e il fratellino di 5 anni. La scorsa notte in un naufragio sempre al largo di Cesme sono annegati altri 6 bambini.

– Sono tutti bambini, tra cui un neonato, i 6 morti nel naufragio avvenuto intorno alle 2:30 della scorsa notte di un gommone di profughi afghani al largo di Cesme, nella provincia di Smirne, sulla costa egea della Turchia. Lo sostiene l’agenzia di stampa statale Anadolu. La Guardia costiera di Ankara ha salvato altre 8 persone.

 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
Fonte:

Naufragio in Turchia, 6 bambini morti. Tra le vittime anche un neonato

Altre otto persone salvate da Guardia costiera, proseguono ricerche in mare

Almeno sei bambini sono annegati la scorsa notte nel naufragio di un barcone di migranti al largo di Cesme, nella provincia di Smirne, sulla costa egea della Turchia. Lo riportano media locali, secondo cui la Guardia costiera di Ankara ha tratto in salvo 8 persone. Proseguono le ricerche di altri possibili dispersi.  Tra le vittime anche un neonato. Lo sostiene l’agenzia di stampa statale Anadolu. La Guardia costiera di Ankara ha salvato altre otto persone.

Il corpo di una bimba siriana di 5 anni è stato ritrovato sulla spiaggia di Pirlanta a Cesme. La piccola, identificata come Sajida Ali, sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa.

 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Fonte:

E ora chi si commuoverà per Cristian? Chi si indignerà per l’ennesima morte di un bambino nero di appena 12 anni di una favela carioca?

E ORA CHI SI COMMUOVERÀ PER CRISTIAN? CHI SI INDIGNERÀ PER L’ENNESIMA MORTE DI UN BAMBINO NERO DI APPENA 12 ANNI DI UNA FAVELA CARIOCA? [Guarda il video: https://www.facebook.com/RestoDelCarlinhoUtopia/videos/701979596568149/?video_source=pages_finch_main_video]
Un bambino che stava giocando a pallone nel campetto della favela di Manguinhos, che è scappato quando la polizia ha cominciato a sparare, ma si è fermato per aiutare una donna che era caduta ed in quel momento è stato colpito alla schiena dallo sparo di un poliziotto. Anche in Brasile c’è stata commozione per la foto del corpicino senza vita di Aylan sulla spiaggia di Bodrun. Ma la commozione, così come l’indignazione, è ormai selettiva. Nelle favelas si puo’ morire, anzi, se si muore è meglio… tanto sono tutti banditi e poi bisogna far la guerra alla droga, pensa la gente perbene di un paese ormai assuefatto alla barbarie quotidiana, allo sterminio.

Il Brasile è il paese al mondo con il maggior numero di omicidi, solo nel 2012 le vittime sono state 56.000, 30 mila delle quali giovani tra i 15 ed i 29 anni. Di questo totale di giovani, oltre il 90% erano di sesso maschile ed il 77% neri. La polizia brasiliana è quella che più uccide al mondo: ci sono voluti 30 anni alla polizia degli Stati Uniti per uccidere lo stesso numero di persone che quella brasiliana ha ucciso negli ultimi cinque! Nella sola Rio de Janeiro, la polizia è responsabile di quasi il 16% di tutti gli omicidi commessi in città… e si tratta “solo” dei dati ufficiali. L’impunità, per i poliziotti è la regola.

Lo sterminio della popolazione povera, nera, delle favelas e delle periferie prosegue. Non fa notizia. “Siamo solo gente delle favelas, per loro dobbiamo morire tutti!” Dice la nonna di Cristian nel video realizzato da Patrick Granja del Jornal A Nova Democracia. E forse tra poco meno di un anno, quando la fiaccola dei giochi olimpici si accenderà a Rio de Janeiro, la città delle spiagge, del samba e del futebol… di Cristian non vi ricorderete più nemmeno voi che state leggendo.
[credit video: Jornal A Nova Democracia – https://youtu.be/VSXgfuFUWO8]

Comunicato del Forum Sociale della favela di Manguinhos:
Noi del Fórum Social de Manguinhos – FSM. comunichiamo con dolore, ma principalmente con molto odio, che un altro bambino è stato assassinato dallo stato brasiliano, per mano della polizia dello Stato di Rio de Janeiro.
Intorno alle 10 della mattina di oggi, a seguito di un’incursione delle forze speciali della polizia militare, CORE, BOPE, si sono sentiti i primi spari nella favela di Manguinhos.
Cristian Soares da Silva, di 12 anni, un bambino, nero, come potete immaginare, è stato ucciso dai poliziotti nel corso dell’operazione. Giocava a pallone, attività quotidiana di qualunque bambino, tanto nelle favelas come nelle zone bene della città. La differenza è che nelle zone bene i bambini bianchi non devono scappare per proteggersi dalla polizia, tanto meno dalle pallottole che vengono dai loro fucili.
Christian ha cercato di mettersi in salvo, ma è stato ucciso alle 11.30, vicino al campetto in cui stava giocando a pallone.
Gli abitanti della favela di Manguinhos, conoscendo bene il modus operandi della polizia carioca, hanno tentato di proteggere il corpo e la dignità di Christian (è quello che resta ai favelados quando vengono colpiti).
La difesa del corpo e pertanto della dignità di quel bambino, che non potrà mai più giocare a pallone e crescere, è stata difesa a costo di molta violenza, lacrimogeni e fucili impugnati di fronte a quelli che lì vivono e non sopportano più il massacro di questo maledetto stato genocida.
(ndt. per protezione del corpo si intende l’evitare che i poliziotti, come d’abitudine, rimuovano il cadavere per eliminare prove e per alterare la scena del delitto)
Noi del Forum Sociale di Manguinhos siamo mobilitati insieme agli abitanti della favela perché la favela non resti in silenzio davanti all’ennesima morte.
Cristian, come Matheus, Paulo Roberto, Mauricio Afonso, Johnatha, non sarà dimenticato, come tanti altri che sono caduti per mano di questo maledetto stato genocida.
Continueremo a lottare, in mezzo alle granate e ai fucili puntati sulle nostre facce, e le tante minacce che il nostro popolo soffre ogni giorno.

“Il Resto del Carlinho (Utopia)”
Il Brasile che NON vi raccontano.
Articoli, reportages, video e film raccolti in ordine sparso e tradotti in italiano
http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews
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https://www.facebook.com/RestoDelCarlinhoUtopia

"E ORA CHI SI COMMUOVERÀ PER CRISTIAN? CHI SI INDIGNERÀ PER L'ENNESIMA MORTE DI UN BAMBINO NERO DI APPENA 12 ANNI DI UNA FAVELA CARIOCA? [Guarda il video: https://www.facebook.com/RestoDelCarlinhoUtopia/videos/701979596568149/?video_source=pages_finch_main_video] Un bambino che stava giocando a pallone nel campetto della favela di Manguinhos, che è scappato quando la polizia ha cominciato a sparare, ma si è fermato per aiutare una donna che era caduta ed in quel momento è stato colpito alla schiena dallo sparo di un poliziotto. Anche in Brasile c'è stata commozione per la foto del corpicino senza vita di Aylan sulla spiaggia di Bodrun. Ma la commozione, così come l'indignazione, è ormai selettiva. Nelle favelas si puo' morire, anzi, se si muore è meglio... tanto sono tutti banditi e poi bisogna far la guerra alla droga, pensa la gente perbene di un paese ormai assuefatto alla barbarie quotidiana, allo sterminio. Il Brasile è il paese al mondo con il maggior numero di omicidi, solo nel 2012 le vittime sono state 56.000, 30 mila delle quali giovani tra i 15 ed i 29 anni. Di questo totale di giovani, oltre il 90% erano di sesso maschile ed il 77% neri. La polizia brasiliana è quella che più uccide al mondo: ci sono voluti 30 anni alla polizia degli Stati Uniti per uccidere lo stesso numero di persone che quella brasiliana ha ucciso negli ultimi cinque! Nella sola Rio de Janeiro, la polizia è responsabile di quasi il 16% di tutti gli omicidi commessi in città... e si tratta "solo" dei dati ufficiali. L'impunità, per i poliziotti è la regola. Lo sterminio della popolazione povera, nera, delle favelas e delle periferie prosegue. Non fa notizia. "Siamo solo gente delle favelas, per loro dobbiamo morire tutti!" Dice la nonna di Cristian nel video realizzato da Patrick Granja del Jornal A Nova Democracia. E forse tra poco meno di un anno, quando la fiaccola dei giochi olimpici si accenderà a Rio de Janeiro, la città delle spiagge, del samba e del futebol... di Cristian non vi ricorderete più nemmeno voi che state leggendo. [credit video: Jornal A Nova Democracia - https://youtu.be/VSXgfuFUWO8] Comunicato del Forum Sociale della favela di Manguinhos: Noi del Fórum Social de Manguinhos - FSM. comunichiamo con dolore, ma principalmente con molto odio, che un altro bambino è stato assassinato dallo stato brasiliano, per mano della polizia dello Stato di Rio de Janeiro. Intorno alle 10 della mattina di oggi, a seguito di un'incursione delle forze speciali della polizia militare, CORE, BOPE, si sono sentiti i primi spari nella favela di Manguinhos. Cristian Soares da Silva, di 12 anni, un bambino, nero, come potete immaginare, è stato ucciso dai poliziotti nel corso dell'operazione. Giocava a pallone, attività quotidiana di qualunque bambino, tanto nelle favelas come nelle zone bene della città. La differenza è che nelle zone bene i bambini bianchi non devono scappare per proteggersi dalla polizia, tanto meno dalle pallottole che vengono dai loro fucili. Christian ha cercato di mettersi in salvo, ma è stato ucciso alle 11.30, vicino al campetto in cui stava giocando a pallone. Gli abitanti della favela di Manguinhos, conoscendo bene il modus operandi della polizia carioca, hanno tentato di proteggere il corpo e la dignità di Christian (è quello che resta ai favelados quando vengono colpiti). La difesa del corpo e pertanto della dignità di quel bambino, che non potrà mai più giocare a pallone e crescere, è stata difesa a costo di molta violenza, lacrimogeni e fucili impugnati di fronte a quelli che lì vivono e non sopportano più il massacro di questo maledetto stato genocida. (ndt. per protezione del corpo si intende l'evitare che i poliziotti, come d'abitudine, rimuovano il cadavere per eliminare prove e per alterare la scena del delitto) Noi del Forum Sociale di Manguinhos siamo mobilitati insieme agli abitanti della favela perché la favela non resti in silenzio davanti all'ennesima morte. Cristian, come Matheus, Paulo Roberto, Mauricio Afonso, Johnatha, non sarà dimenticato, come tanti altri che sono caduti per mano di questo maledetto stato genocida. Continueremo a lottare, in mezzo alle granate e ai fucili puntati sulle nostre facce, e le tante minacce che il nostro popolo soffre ogni giorno. "Il Resto del Carlinho (Utopia)" Il Brasile che NON vi raccontano. Articoli, reportages, video e film raccolti in ordine sparso e tradotti in italiano http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews seguici anche sulla pagina Facebook: https://www.facebook.com/RestoDelCarlinhoUtopia"

MIGRANTI, A REGGIO LA “NAVE DEI BAMBINI”

Sono 113 i minori arrivati a bordo della Phoenix dei coniugi Catrambone. Solo quelli non accompagnati rimarranno in Calabria. «La gente deve sapere cosa succede in mare»

Migranti, a Reggio la “nave dei bambini”

REGGIO CALABRIA Scendono dalla passerella in braccio alle madri o quasi aggrappati alle loro mani. Gli occhi sono pozzi di paura che quasi divorano visi scavati da fame, sole, salsedine, da una vita che – da subito – non è stata generosa. Alcuni sono stati desiderati, voluti da coppie che hanno scelto di guardare a un futuro al di là del mare, altri sono frutto delle violenze che durante il lungo viaggio dal cuore dell’Africa all’Europa, tante, troppe donne hanno subìto. Figli dell’amore, figli della violenza, ma soprattutto sopravvissuti e figli di sopravvissute.

 

LA NAVE DEI BAMBINI Un piccolo miracolo nei mesi in cui il Mediterraneo si è trasformato in un gigantesco cimitero di tombe senza nome. I 113 bambini accompagnati al porto di Reggio Calabria insieme a 107 donne e 124 uomini dalla Phoenix – il sogno solidale dei coniugi Catrambone, divenuta la prima nave di privati inquadrata nel dispositivo di soccorso migranti nel Mediterraneo – ce l’hanno fatta. Portano addosso i segni di un viaggio complesso e lungo e di una traversata complicata. In molti, appena sbarcati, hanno avuto bisogno dell’assistenza dei medici del Viminale che sul molo si occupano di controllo, assistenza e soccorso. Ma per i più sono bastati una merendina e un succo di frutta per reintegrare velocemente gli zuccheri, vestiti asciutti, un guanto di lattice che gonfiato si trasforma in un palloncino e le coccole dei volontari per recuperare forze e sorriso. «I bambini erano molto provati, molto tristi e molto spaventati», dicono gli operatori che però, su quei volti stanchi e ancora terrorizzati, con il passare delle ore hanno visto disegnarsi la serenità di essersi lasciati alle spalle – forse- la parte più difficile.

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IL SOGNO SOLIDALE DEI CONIUGI CATRAMBONE «Il centro di coordinamento di Roma ieri ci ha segnalato due barconi di legno al largo delle coste libiche – dice Regina Catrambone – ma non abbiamo potuto prendere tutti a bordo perché erano più di settecento. Oltre alle duecento, duecentocinquanta persone che viaggiavano sul ponte ce n’erano altrettante che viaggiavano in stiva, vicino ai motori. Abbiamo distribuito a tutti i giubbotti di salvataggio ma per il recupero del secondo barcone abbiamo dovuto attendere la nave Dattilo della Guardia Costiera». Non è la prima volta che la Phoenix approda a Reggio Calabria. Da due anni i coniugi Christofer Catrambone e Regina Egle Liotta – statunitense lui, reggina lei, ma entrambi residenti a Malta – hanno deciso di fare qualcosa di concreto per arginare la strage che si consuma quotidianamente sulla rotta fra Libia e Italia. Per questo hanno trasformato la Phoenix – un’ex imbarcazione di ricerca della Marina degli Stati Uniti – in una “nave della solidarietà” al servizio del dispositivo di soccorso e recupero che opera nel Mediterraneo. Dal 2 maggio scorso, insieme a loro è imbarcata anche un’equipe di Medici senza frontiere in grado di affrontare le prime emergenze a bordo: ustioni, disidratazione, ipotermia, complicanze di patologie croniche dovute a condizioni di viaggio proibitive o a violenze e torture che i rifugiati hanno subito in Libia. Un lavoro che sembra non avere mai fine.

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«LA GENTE DEVE SAPERE COSA SUCCEDE IN MARE» Accompagnato al porto di destinazione un gruppo di migranti, c’è un nuovo barcone da intercettare, un gommone da recuperare, nuovi disperati da soccorrere. Ma nonostante la fatica, i risultati concreti ci sono e sono misurabili. Oltre undicimila persone sono state tratte in salvo e accompagnate sulla terraferma dalla Phoenix. «A me non è mai capitato di vedere bambini affogati nel corso delle traversate, ma penso che in mare ci siano tantissimi Aylin. Questa è la mia grande disperazione. Foto come quella del bambino curdo ritrovato senza vita su una spiaggia in Turchia vanno diffuse e viste, perché la gente si deve rendere conto di cosa succeda in mare. Famiglie che muoiono, bambini che muoiono. Non possiamo rimanere indifferenti, dobbiamo aiutarli». Anche perché chi mette a rischio la propria vita per mare, lo fa – spiega la Catrambone – perché nel suo Paese non può più stare. Perché è dilaniato da una guerra, come la Siria, o perché messo in ginocchio da regimi paradittatoriali che fondano la propria esistenza sulla repressione, come Etiopia ed Eritrea. Ed è da qui che la stragrande maggioranza dei profughi arrivati oggi a Reggio Calabria ha iniziato un viaggio che non può dirsi concluso. Solo i minori non accompagnati e chi ha bisogno di ospedalizzazione rimarrà a Reggio Calabria. Gli altri – ha deciso il ministero dell’Interno – appena concluse le procedure di identificazione dovranno salire sui pullman che li porteranno in Toscana, Veneto, Puglia ed Emilia. E per i più non si tratta che di una tappa.

 

MIOPIA EUROPEA In molti sognano il Nord europa dove nella maggior parte dei casi hanno familiari, amici o conoscenti che li hanno preceduti. Ma nonostante le dichiarazioni di pubblico cordoglio seguite alla pubblicazione delle immagini delle vittime più piccole delle stragi nel Mediterraneo, la fortezza Europa sembra essere ancora imbrigliata da una discussione viziata da troppe gelosie e poche soluzioni. Anche la proposta di aumentare le quote di migranti che i vari paesi dell’Ue sono tenuti ad accogliere – pena sanzioni – appare del tutto insufficiente di fronte a un’ondata migratoria di portata epocale, provocata in larga parte dalla scellerata politica estera delle varie potenze europee negli ultimi decenni. Nel frattempo, in mare si continua a morire.

 

Alessia Candito
[email protected]

Fonte:

LA FOTO DI AYLAN KURDI RISCHIA DI ESSERE PRESTO DIMENTICATA

  • 04 Set 2015 16.38
Di

Johan Hufnagel, direttore di Libération, fornisce una “spiegazione” disarmante sul perché il quotidiano francese non ha pubblicato la foto di Aylan Kurdi, il bambino siriano trovato morto sulle spiagge della Turchia: “Non l’abbiamo vista”. La cecità di Libération, che per molto tempo è stato un punto di riferimento nell’uso della fotografia e che non può essere sospettato di aver sottovalutato la gravità della situazione dei profughi e dei flussi migratori, spiega forse come mai nessun giornale francese – a parte le Dernières Nouvelles d’Alsace e Le Monde (che l’ha inserita in ritardo) – ha pubblicato le fotografie che, dopo aver circolato sui social network, sono finite sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo?

Questa sgradevole sorpresa non deve però impedire di riflettere a mente fredda su questo momento di emozione collettiva provocata dalle immagini. Dodici persone in fuga dalla Siria sono morte mentre la barca con la quale cercavano di arrivare in Grecia è affondata vicino all’isola di Kos. Sulla spiaggia sono stati ritrovati i corpi di Aylan Kurdi, 3 anni, e di suo fratello Galip, 5 anni, e della loro madre Rehan.

Negli ultimi mesi e durante tutta l’estate abbiamo purtroppo visto migliaia di fotografie di questi naufraghi dei tempi moderni. Spesso abbiamo dimenticato le foto molto simili che, solo qualche anno fa, erano state scattate sulle coste spagnole di fronte al Marocco. Perché allora l’immagine, le immagini, di Aylan hanno avuto un impatto diverso, perché l’emozione sembra improvvisamente aumentata?

Queste immagini hanno qualcosa di commovente per la loro distanza rispettosa e l’assenza di spettacolarizzazione.

Si possono avanzare numerose spiegazioni, come per esempio il fatto che si tratti di un bambino, ma purtroppo non è il primo e molto probabilmente non sarà neanche l’ultimo. Il modo in cui sono state pubblicate le immagini fornisce forse qualche elemento in più per capire l’intensità di questa reazione emotiva.

Una reazione che si manifesta nel momento in cui sempre più europei si rendono conto che non si può più parlare di migranti – anche se le situazioni sono spesso simili, le condizioni non sono esattamente le stesse – e che è tempo di affrontare la questione politica dell’accoglienza dei profughi.

L’immagine più ripresa mostra in primo piano, in orizzontale, un bambino con i pantaloni corti e la maglietta rossa, la faccia contro la sabbia, il volto bagnato dalla risacca. Un uomo in uniforme di schiena gli si avvicina. In molte pubblicazioni in prima pagina è stato scelto uno scatto con solo il corpo del bambino. Non si può non pensare a come questa immagine rimandi alle radici della nostra cultura, ai racconti magici dell’oceano che porta a riva i sopravvissuti “provenienti dal ventre del mare” o che dà loro la vita. Ma in questo caso il mare ha restituito un corpo inanimato, come fa quotidianamente con i rifiuti di cui si sbarazza.

Un’immagine quindi violenta. L’immagine successiva, anch’essa molto pubblicata, mostra il militare che trasporta con delicatezza il cadavere del bambino. In questo caso proiettiamo la nostra percezione dell’orrore nella speranza che questa immagine si trasformi in metafora della compassione attiva di un’Europa che tergiversa da mesi – da anni – di fronte a una situazione insopportabile.

Attenzione, nessuna di queste foto che sono state rapidamente diffuse, pubblicate e condivise, è violenta. Al contrario, hanno qualcosa di commovente, sia per la loro distanza rispettosa sia per l’assenza totale di spettacolarizzazione che anima l’inquadratura. Quello che è violento, molto violento, intollerabile, è la situazione alla quale ci rimandano e sulla quale ci avvertono.

Questa osservazione ha anche lo scopo di evitare nuove polemiche sterili sull’opportunità o meno di pubblicare queste immagini. Certo che lo si doveva fare. In nome dell’informazione, in nome dell’indispensabile segnale di allarme e rispettando – come non è sempre stato fatto – il pudore della fotografa, Nilüfer Demir, che ha saputo mantenere una delicata distanza da quello che vedeva.

Ho paura che queste fotografie saranno presto dimenticate

Di solito è impossibile – e ancora meno a caldo – determinare perché e come delle fotografie diventino delle icone, dei catalizzatori di gruppi che si proiettano e si riconoscono in esse. Questo è ancora più vero oggi, sommersi come siamo da sollecitazioni visive e dalle migliaia di immagini che cancellano quelle che le hanno precedute.

Se i politici, che si sono detti sconvolti dalle immagini che mostrano il cadavere del piccolo Aylan sulla spiaggia, prenderanno delle decisioni affinché questi fatti non si ripetano, allora queste fotografie diventeranno impossibili da fare e saranno servite a qualcosa.

Ma in questi tempi dalla velocità incontrollata, con le migliaia di immagini che sono arrivate dopo quelle drammatiche del bambino siriano, ho paura che queste fotografie saranno presto dimenticate. In modo vergognoso e inquietante. Ancora una volta questo probabile oblio ci deve far riflettere sulla nostra relazione con la memoria e quindi con la storia. Una riflessione terribile.

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/opinione/christian-caujolle/2015/09/04/foto-bambino-migranti-aylan-kurdi

 

Leggi anche qui:

http://www.internazionale.it/notizie/2015/09/04/aylan-kurdi-funerali-kobane

Abdullah Kurdi, padre di Aylan Kurd davanti alla camera mortuaria di Mugla, nel sud della Turchia il 3 settembre. (Ozan Kose, Afp)

 

COSì MUOINO IN MARE I BAMBINI SIRIANI

L’immagine urta le coscienze ma rappresenta quello che ora non si può più ignorare: servono risposte concrete e urgenti al genocidio in atto nel Mediterraneo. Questo è troppo, sveglia, ci ha scritto gli attivisti che hanno rilanciato, invano, il sos alle Guardie costiere come si è consumata la scorsa notte l’ultima strage nel mare tra Grecia e Turchia: dodici morti, tra cui il piccolo nella foto

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Niente scuse: questo è troppo. Continuare a voltarsi dall’altra parte? Non ce l’hanno fatta, in dodici persone, tra cui tre bambini – il più piccolo lo potete vedere con i vostri occhi, in un immagine che urta le coscienze ma che, a questo punto, serve come baluardo per restare umani e soprattutto obbligare i decisori politici europei ad agire per fermare questo genocidio – sono morte tentando di attraversare i miseri quattro chilometri che separano la località costiera turca di Bodrum dall’isola greca di Kos. I quattro superstiti? Salvati da alcuni pescatori.

Donne, uomini e bambini che ora sono morti ma che potevano essere salvati: questa è la verità che fa più male. Perché questi profughi, che avevano diritto all’asilo non appena usciti dal loro Paese in guerra, la Siria, quando il motore della sbarca si è spento lasciandoli in balia delle onde hanno lanciato l’allarme con i loro cellulari. L’hanno lanciato alla rete di attivisti volontari che da mesi, se non anni, vivono con l’orecchio incollato al telefono tentando di salvare più persone possibili: “appena raccolta la chiamata di sos e quindi le loro coordinate, è stata chiamata più volte la Guardia costiera greca, anche grazie all’aiuto dell’ong Watch the med. Ma non c’è stato nulla da fare, un giorno e una notte di chiamate ma nessuno è andato a salvarli, e stanotte sono naufragati, e sono sopravvissuti meno della metà dei presenti sulla barca. Un orrore”, racconta la volontaria italiana Simona Pisani.

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Il recupero del corpo del bambino siriano

 

Ecco come muoiono dodici innocenti, quindi. Tra queste righe potete vedere lo screenshot con la localizzazione dell’imbarcazione e il lancio del sos al Comando centrale di Roma della Guardia Costiera, “tentativo in questo caso inutile, perché mi è stato detto che la prassi era quella di chiamare direttamente i greci. Contrariamente a molte altre volte in cui l’autorità italiana aveva avviato il protocollo per avvertire d’urgenza i colleghi greci, che si erano poi immediatamente mossi, com’è avvenuto nella precedente telefonata in cui hanno recuperato 100 persone sbarcate da più di 24 ore – tra esse una donna quasi a termine di gravidanza – tra le rocce dell’isola di Samos”.

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Le chiamate degli attivisti non sono quindi bastate per convincere i greci a far uscire le loro navi: “ci hanno risposto che erano molto occupati con altre emergenze”. A livello ufficiale, si parla di problemi di fondi e di mancanza di personale (un ultimo stanziamento di fondi Ue per la Grecia è ancora in stand by senza un perché, come ha denunciato nei giorni scorsi l’europarlamentare Barbara Spinelli in una lettera sottoscritta da 40 colleghi, ndr), “il risultato concreto è che i profughi continuano a morire”, sottolinea Pisani.

Le chiamate degli attivisti non sono quindi bastate per convincere i greci a far uscire le loro navi: “ci hanno risposto che erano molto occupati con altre emergenze”.

Ma c’è anche un breve video, che ancora di più lascia senza parole (è stato caricato su youtube nella notte da un altro attivista e tradotto in inglese, invano perché il salvataggio di fortuna è stato operato da pescatori di passaggio): si vedono le persone sulla barca, i bambini estenuati da sete e sole, la paura di non farcela nel volto di una donna e nella voce di chi parla: alcuni di loro, in effetti, non ce l’hanno fatta. “Il loro sacrificio merita giustizia, senza più indugi: si attivino al più presto le cancellerie europee. Servono corridoi umanitari”. Ora.

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