“Morire di maggio… Ci vuole tanto… troppo coraggio”. Ciao, Eva!

Eva, mia carissima amica e sorella! Avrei voluto non ricevere mai una notizia del genere! Te ne sei andata in silenzio, senza dire una parola… In realtà di parole ne avevi dette tante e chissà quante ne avresti avute ancora da dire… Una breve ma intensa vita spesa con amore verso il genere umano e verso la scienza. Ma non solo: tu amavi anche l’arte in tutte le sue forme, la filosofia, lo sport, tutto ciò che è umano. Parafrasando Terenzio, nulla di ciò che è umano ti era estraneo. Per questo più volte ti ho ripetuto che eri una delle persone più umane che conoscessi. Amavi anche la natura e gli animali. Ma l’essere umano era il tuo grande Amore. Quel grande amore che hai cercato per tutta la vita, pochissime volte trovato e poi perso in diversi modi. Avresti potuto dare tanto al mondo con i tuoi studi di psicologia e di neuroscienze ( il tuo amato cervello!) perché sapevi ascoltare e amavi gli altri. E avresti potuto dare molto anche con i tuoi reportage con tutti i viaggi che avevi fatto intorno al mondo. Ma poi tornavi a casa con i problemi della vita quotidiana, le angosce per un passato tormentato e tutto il male che ti era toccato di subire nella tua breve vita, le difficoltà nel trovare la tua strada e l’enorme sofferenza della tua anima grande ma sempre ferita. Quando ti “invidiavo” la tua libertà e la tua vita piena di avventure mi dicevi che anche una vita come la tua non dà la felicità. Non ho mai capito che cosa più di tutto ti mancasse e me ne rammarico. Tante erano le cose che amavi da non riuscire a farle tutte. La vita quotidiana ti assorbiva. E questo da una parte era una tua caratteristica perché, per coloro che ti hanno avuto vicina, sarai stata speciale non solo in ciò che riuscivi a fare ma anche nel quotidiano. Dall’altra ti impediva forse di vivere come volevi. Tante persone avresti voluto aiutare con i tuoi studi e me lo raccontavi. Ma le difficoltà nel terminare gli studi, il dover sempre ricominciare daccapo non te lo permettevano per come volevi. Tante cose avresti voluto raccontare dei tuoi viaggi ma non avevi tempo e me lo dicevi. Forse eri troppo sensibile. Forse il tuo cuore e la tua anima erano troppo grandi per questo mondo e per questo te ne sei andata. E ora vegli su tutti coloro che hai amato e ti hanno amata. Mi piace pensare che ovunque ti trovi adesso stai già conversando con fratelli e sorelle uccisi da qualche guerra disumana (perché la guerra è sempre disumana e tu ce lo insegnavi) bevendo una birra e fumando una sigaretta.
Ciao, paguro metafisico! Non ti dimenticherò mai!
Mi piace ricordarti con gli articoli del tuo blog  (a cui so che avresti voluto dedicare molto più tempo) perché penso sia uno dei segni visibili più belli che ci hai lasciato.

D. Q.

Qui di seguito gli articoli tratti dal blog di Eva Menossi:

http://silenceinchains.blogspot.it/

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Genocidio Ruanda, Chiesa Cattolica: “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi”

Genocidio Ruanda, Chiesa Cattolica: “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi”
 
La Chiesa Cattolica del Ruanda chiede pubblicamente scusa per il ruolo svolto nel genocidio del 1994, dove quasi un milione di persone vennero brutalmente uccise. “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi. Siamo costernati dal fatto che appartenenti alla chiesa abbiano violato il proprio giuramento con Dio”, recita un comunicato dei vescovi ruandesi.Nel documento si ammette che elementi della chiesa hanno pianificato, aiutato e posto in essere il genocidio, nel quale oltre 800.000 persone di etnia Tutsi e alcuni moderati Hutu vennero massacrati dagli estremisti Hutu. Molte delle vittime vennero uccise nelle chiese dove avevano trovato rifugio, con la complicità di alcuni preti. Come Athanase Seromba, presbitero della chiesa cattolica, condannato all’ergastolo dal Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda.

Secondo quanto riportano le testimonianze, fra 6 aprile e il 20 aprile 1994, Seromba fece abbattere a colpi d’artiglieria la propria chiesa al fine di uccidere circa 2000 Tutsi che visi erano rifugiati attirati dallo stesso sacerdote. Poi, partecipò attivamente anche al successivo massacro dei pochi superstiti. Per sfuggire alla giustizia, Seromba fuggì prima nella Repubblica Democratica del Congo, poi in Toscana sotto falso nome. In Italia, fu accolto nella  parrocchia dell’Immacolata e S. Martino in Montugni di Firenze. Solo nel 2002 si consegnò alla giustizia internazionale che nel 2008 lo condannò all’ergastolo.

Fonte:

Ruanda, vent’anni dopo

mukasonga

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Intervista di Maria Teresa Carbone a Scholastique Mukasonga

Esattamente vent’anni fa, nei primi giorni di aprile del 1994, ebbe inizio in Ruanda un massacro che portò, nell’arco di tre mesi, all’uccisione di oltre ottocentomila persone, per lo più di etnia tutsi. Fu un genocidio dal quale “nessun ruandese – superstite, corresponsabile o esule – emerse indenne, mentre il mondo stava a guardare senza fare nulla”, come ha scritto giorni fa Agnes Binagwaho, ministra per la salute del paese africano in uno studio sul “Lancet” che descrive gli incredibili progressi raggiunti dal governo di Kigali in campo sanitario dal 1994 a oggi.

In questi vent’anni il Ruanda ha dovuto fare fronte a un duplice enorme sforzo: da un lato ricucire un tessuto sociale così tragicamente sconvolto, dall’altro non coprire di silenzio quanto era accaduto. Uno sforzo cui non possono essere indifferenti tutti gli scrittori che hanno provato a raccontare cosa vuol dire vivere in un paese che ha nel suo passato prossimo un simile bagno di sangue: ne sono prova, tra l’altro, testi come L’ombra di Imana, della franco-ivoriana Véronique Tadjo (Ilisso 2005) o Il grande orfano, del guineano Tierno Monénembo (Feltrinelli 2003).

Ruandese, esule in Francia al momento del massacro, Scholastique Mukasonga ha assistito da lontano allo sterminio quasi totale della sua famiglia e solo nel 2004 è rientrata nel paese. Proprio per questo nella sua opera gli avvenimenti del ’94 non compaiono se non di riverbero, e tuttavia non cessano di proiettare la loro ombra, anche retrospettivamente, in un passato solo superficialmente tranquillo. Era così nel suo libro d’esordio, l’autobiografico Inyenzi, ou les Cafards (Gallimard 2006), dove Mukasonga ripercorreva – più che il genocidio vero e proprio, cui era dedicata solo la parte finale – la fase di incubazione dello sterminio, a partire dagli anni Cinquanta. Ed è così nel primo romanzo della scrittrice, Nostra Signora del Nilo, tradotto di recente per 66thand2nd da Stefania Ricciardi (pp. 209, euro 16), ambientato negli anni Settanta in un liceo femminile che assomiglia molto a quello frequentato a suo tempo dalla stessa autrice.

Abbiamo intervistato Scholastique Mukasonga alcuni giorni fa, poco prima della sua partenza per Kigali, dove domani prenderà parte alle commemorazioni per il ventennale del genocidio.

È stato il genocidio a fare di me una scrittrice”, lei ha dichiarato in più di una intervista. Eppure nei suoi libri gli avvenimenti del 1994 non sono quasi mai in primo piano. Può spiegare meglio il senso della sua affermazione?

Nell’aprile del 1994 non ero in Ruanda, a Nyamata, luogo della deportazione dei tutsi dal 1960. Se fossi stata lì, oggi non ci sarei più. Non mi considero dunque come una persona scampata al genocidio, ma come una superstite. Mi sembrerebbe indecente parlare al posto di quelli che si trovavano a Nyamata nel 1994. Nel mio primo libro Inyenzi, ou les cafards, ho dato la parola a mio cognato, testimone e sopravvissuto al massacro. Ma quando sono dovuta andare in esilio in Burundi, nel 1973, i miei genitori mi avevano affidato la missione di testimoniare la loro esistenza e lo sterminio che già si annunciava. I miei due primi libri sono tombe di carta innalzate alla loro memoria.

Con Nostra Signora del Nilo lei ha abbandonato l’autobiografia per scrivere un romanzo. Quali differenze ha riscontrato nella stesura del libro?

Anche se poggia evidentemente su dati reali (il liceo Nostra Signora del Nilo assomiglia al liceo Notre-Dame des Citeaux dove io sono stata educata), l’invenzione permette di prendere quella distanza necessaria grazie alla quale si sviluppa il piacere della scrittura. In altri termini, rispetto alla rigidezza dell’autobiografia la finzione mi ha consentito di abbordare i medesimi soggetti, allargando però la visuale.

Nostra Signora del Nilo si svolge negli anni Settanta, eppure si ha l’impressione che il liceo dove ha luogo l’azione sia lo specchio di un paese lacerato, dove la violenza esploderà da un momento all’altro. Pensa che si sarebbe potuto prevedere e prevenire quello che accadde poi nel 1994?

I primi pogrom contro i tutsi cominciarono nel 1959. La mia famiglia, come tante altre famiglie tutsi, venne deportata nel 1960 a Nyamara, nel Bugesera, una regione insalubre dove si pensava che sarebbero tutti morti. E già nel 1960 Bertrand Russell denunciò il massacro dei tutsi come il più grave dopo la Shoah. Ma il regime hutu, sostenuto dall’Occidente e dalla chiesa cattolica, descriveva il Ruanda come un paese modello, roccaforte contro il comunismo che invadeva l’Africa. E l’apartheid subìto da gran parte della popolazione veniva ignorato.

Nel suo libro lei descrive situazioni molto serie (per esempio la pedofilia di padre Herménegilde) o addirittura tragiche, come la morte di Frida, con molto umorismo, una scelta che differenzia Nostra Signora del Nilo rispetto ai molti altri ambientati in Ruanda. Ce ne vuole parlare?

L’umorismo ha sempre fatto parte integrante dei miei libri. Penso che il lettore non debba essere sommerso dal dolore e abbia il diritto di gustare il piacere puro della lettura. Mia madre Stefania era una narratrice rinomata, che sapeva tenere gli ascoltatori con il fiato in sospeso, e io spero di avere ereditato almeno un po’ del suo talento. Ma l’umorismo che affiora perfino nelle situazioni più tragiche è un tratto culturale del Ruanda e i ruandesi lo maneggiano con grande destrezza anche in riferimento a se stessi. Discrezione, riservatezza e ironia sembrano essere caratteristiche della nostra cultura, un fatto che ha causato molti malintesi.

Come è nato il personaggio di Monsieur Fontenaille, questo bianco innamorato pazzo del mito dell’Africa?

Una delle più grandi disgrazie che siano capitate ai ruandesi è di abitare alle sorgenti del Nilo. Certo, prima dell’arrivo degli europei lo ignoravano, come ignoravano i miti che dall’antichità si erano accumulati sulle sorgenti di questo fiume misterioso. Alla fine del diciannovesimo secolo il Ruanda è l’ultima macchia bianca sulla carta dell’Africa. Alle sorgenti del Nilo si sarebbero trovati degli esseri fuori dal comune, usciti dalla leggenda. E se non ci fossero stati, li si sarebbe inventati. La civiltà tradizionale ruandese affascinò a tal punto i primi osservatori europei, amministratori coloniali e soprattutto missionari, che si rifiutarono di vedere nei tutsi dei semplici autoctoni. I tutsi dovevano essere per forza degli invasori, poiché i “negri” sono incapaci di raggiungere un tale grado di raffinatezza politica e rituale. Così si inventarono per loro le origini più deliranti: Etiopia Egitto Caucaso Tibet… Considerati degli europei come una razza superiore perché quasi bianca, i tutsi, dopo la presa del potere da parte degli hutu, non saranno altro che degli stranieri, degli invasori, i veri colonizzatori che bisogna cacciare ed estirpare. Nella sua follia il personaggio di Fontenaille rappresenta tutte le mortifere affabulazioni che si sono accumulate sul mio disgraziato paese. Virginia, nel romanzo, riassume così la situazione: “Qui noi siamo scarafaggi o serpenti, per i bianchi siamo gli eroi delle loro leggende.

Il suo romanzo ha ricevuto dei riconoscimenti importanti, tra cui il premio Ahmadou Kourouma, intitolato al grande scrittore ivoriano che in libri come I soli delle indipendenze ha reinventato il francese. Qual è il suo rapporto con questa lingua?

Negli anni Sessanta si imparava il francese già a partire dalla scuola elementare, ma dal momento che il Ruanda ha la fortuna di possedere una lingua nazionale parlata da tutti, il francese non usciva dagli istituti scolastici. In effetti, credo di avere scritto francese prima ancora di parlarlo. Ora vivo e lavoro in Francia da molti anni, e parlo dunque il francese tutti i giorni, ma non ho dimenticato la mia lingua materna, il kinyarwanda, e per questo ho scelto di disseminare tutti i miei libri di parole in questa lingua.

Molte conversazioni di Virginia e Veronica sottolineano la responsabilità dei bianchi nella creazione dell’odio fra hutu e tutsi. Crede sia possibile trovare un percorso di pace per ricomporre questa frattura?

Gli africanisti seri hanno confutato i miti dell’antica antropologia razzista. Basta constatare che hutu, tutsi e twa parlano la stessa lingua, abitano fianco a fianco, condividono la medesima cultura. I ragazzi che oggi affollano le aule scolastiche non sono più toccati da categorie come etnie e razze, erette del tutto artificialmente.

A questo proposito, nel recente Città aperta del nigeriano Teju Cole il protagonista si stupisce vedendo dei giovani ruandesi ballare in una discoteca a Bruxelles come nel 1994 se non fosse accaduto niente. Qual è la prospettiva sul genocidio da parte di chi a quel tempo non era ancora nato?

I ruandesi non vogliono dimenticare e intendono combattere con tutte le forze il negazionismo, ma al tempo stesso non vogliono essere ostaggio del passato: il Ruanda è un paese rivolto al futuro e basta soggiornare anche solo pochi giorni nel paese per constatare il dinamismo straordinario della popolazione e i progressi compiuti dal 1994.

Cosa pensa del processo a Pascal Simbikwanga, accusato di complicità nel genocidio, che si è appena svolto a Parigi e si è concluso con una condanna a 25 anni?

Ritengo che si tratti solo di un primo passo. In Francia restano 37 presunti responsabili da giudicare. E in Italia?

 

 

Fonte:

http://www.alfabeta2.it/2014/04/06/ruanda-ventanni-dopo/