Usate armi chimiche in Darfur

giovedì, settembre 29, 2016

Come avevamo anticipato sul nostro blog lo scorso 30 aprile, in Darfur sono state usate armi chimiche. A confermare oggi le notizie che ci erano arrivate dai nostri contatti in Sudan e che avevamo tentato di verificare riscontrando grande ostracismo,  è stato anche impedito alla nostra presidente, nonché giornalista, Antonella Napoli di tornare in Sudan è un rapporto di Amnesty International che riportiamo di seguito.
Post sul Corriere di Riccardo Noury, portavoce Amnesty Italia
Le prime denunce le aveva fatte circolare Italians for Darfur, l’associazione che nel silenzio generale cerca da 13 anni di mantenere alta l’attenzione sui crimini di guerra del regime del presidente-latitante (ricercato dalla Corte penale internazionale) Omar al-Bashir, col quale l’Italia non disdegna di fare accordi per i rimpatri.
Oggi arriva la conferma da parte di Amnesty International: da gennaio al 9 settembre 2016 sono stati condotti con ogni probabilità almeno 30 attacchi con armi chimiche nella zona del Jebel Marra. A questa sconvolgente conclusione, l’organizzazione per i diritti umani è giunta attraverso riprese satellitari, oltre 200 approfondite interviste con sopravvissuti e l’analisi da parte di esperti di decine di immagini agghiaccianti di bambini e neonati con terribili ferite. (Non mostriamo alcuna di quelle foto; questo post si apre con un’immagine di archivio sulle devastazioni dei villaggi del Darfur).
Le vittime da esposizione ad agenti chimici tra i civili darfuriani sarebbero dalle 200 alle 250. Molte, se non la maggior parte di loro, erano bambini.
Centinaia di altre persone sono inizialmente sopravvissute agli attacchi ma nelle ore e nei giorni successivi hanno sviluppato gravi disturbi gastrointestinali, tra cui diarrea e vomito di sangue; la loro pelle si è riempita di vesciche, hanno cambiato colorito, sono svenute, hanno perso completamente la vista e hanno sviluppato problemi respiratori che sono descritti come la principale causa di morte.
Molte delle vittime hanno dichiarato ad Amnesty International di non aver potuto accedere alle medicine e di essere state curate con sale, frutti ed erbe.
Un uomo che ha aiutato molte persone del suo villaggio e di quelli circostanti e che si prendeva cura delle vittime del conflitto nel Jebel Marra sin dal 2003, ha detto di non aver mai assistito a niente del genere: nel giro di un mese 19 delle persone che aveva curato, compresi dei bambini, sono morte. Tutte avevano sviluppato profondi cambiamenti sulla pelle: la metà delle ferite era diventata di colore verde e sull’altra metà si erano composte vesciche purulente.
Gli agenti chimici erano contenuti in bombe aeree e in razzi. La maggior parte dei sopravvissuti ha raccontato che il fumo rilasciato a seguito dell’esplosione cambiava colore nel giro di cinque, al massimo 20 minuti. Inizialmente era scuro, poi tendeva a diventare più chiaro. Tutti i sopravvissuti hanno descritto la puzza del fumo come estremamente nociva.
Amnesty International ha sottoposto le sue conclusioni a due esperti indipendenti in materia di armi chimiche. Secondo entrambi, vi è il forte sospetto che siano stati usati agenti chimici vescicanti, come mostarda solforosa, mostarda al nitrogeno o lewisite.
Gli attacchi con armi chimiche sono avvenuti durante l’offensiva su vasta scala lanciata a gennaio nel Jebel Marra dalle forze armate sudanesi contro l’Esercito di liberazione del Sudan/Abdul Wahid (Sla/Aw), accusato di imboscate contro convogli militari e attacchi contro i civili.
Negli otto mesi successivi al lancio dell’operazione militare Amnesty International ha documentato numerosi attacchi contro i civili e le loro proprietà. Le immagini satellitari hanno confermato che sono stati distrutti o danneggiati 171 villaggi, nella maggior parte dei quali non vi era presenza di oppositori armati al momento dell’attacco. In 250.000 hanno dovuto lasciare la zona.
Terra bruciata, stupro di massa, uccisioni e bombardamenti. Sono esattamente gli stessi crimini di guerra che vengono commessi dal 2004, quando il mondo si accorse per la prima volta che esisteva un luogo sulla terra chiamato Darfur: un luogo sprofondato da 13 anni in un catastrofico ciclo di violenza. Nulla è cambiato da allora, se non che il mondo ha cessato di occuparsene. Nonostante la presenza di una missione di peacekeeping congiunta delle Nazioni Unite e dell’Unione africana, la popolazione civile del Darfur continua a vivere nel terrore.
Fonte:

L’ignavia colpevole del mondo ha spento i riflettori sul Darfur

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WAR DARFUR

Quando il Segretario di Stato americano Colin Powell nell’agosto del 2004, tornando da una missione in Sudan, definì per la prima volta ciò che stava avvenendo in Darfur come “il primo genocidio del 21esimo secolo” si accesero all’istante i riflettori sul conflitto che dal febbraio del 2003 stava dilaniando la regione occidentale sudanese.

La presa di posizione statunitense apparve come il banco di prova per la comunità internazionale di essere in grado di fermare, compattamente, le atrocità di massa. Ma ben presto emerse l’ineluttabilità del fallimento dell’azione contro il regime del presidente Omar Hassan al-Bashir, ex generale giunto al potere nall’89 grazie a un colpo di stato.

Oggi, 11 anni dopo il viaggio di Powell, quei riflettori sono spenti e l’attenzione mediatica sul dramma del Darfur è finita da tempo. Non sono però finiti i massacri che in questo caldo agosto, alternato a piogge devastanti, in tutto il Darfur stanno stremando un popolo provato da anni di soprusi e di ogni genere di violazioni dei diritti umani.

Tutto ciò a fronte del dispiegamento nella regione di una forza di pace delle Nazioni Unite, composta da oltre 20mila cachi blu, che si è rivelata sin dal primo momento costosa e inefficace. Per non parlare della beffa di un presidente in carica, considerato dalla Corte penale dell’Aja un criminale di guerra e genocida, in grado di viaggiare con relativa libertà in Africa, come dimostra il recente viaggio in Sudafrica, e non solo nonostante un mandato di arresto internazionale.

E intanto in Darfur si continua a vivere nella paura e nella miseria. Gran parte della popolazione ormai è in condizioni al limite della sopravvivenza. A 12 anni dall’inizio del conflitto le stime Onu parlano di oltre 300mila vittime e di circa 6 milioni di persone bisognose di aiuti di ogni genere, di cui oltre il 30% ospitate nei campi gestiti dall’agenzia Ocha’ (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs). Nel primo semestre del 2015 ben 385mila sono stati i nuovi profughi a causa della recrudescenza del conflitto in molte aree della regione, che ha registrato il flusso di sfollati più consistente dal 2006 a oggi.

Dall’inizio dell’anno le possibilità di assistenza delle centinaia di migliaia di nuovi rifugiati, per lo più donne e bambini, e a rischio in tutto il Darfur. Le minacce sono sempre le stesse: insufficiente disponibilità d’acqua e di cibo, condizioni igienico-sanitarie e sicurezza inadeguate. La mortalità continua a essere molto alta. In pochi superano i 50 anni mentre tra i bambini molti non raggiungono il sesto anno di vita. Malnutrizione e infezioni le principali cause di morte per i più piccoli. Il settore sanità è quello che registra la maggiore criticità ed è considerato addirittura cronico dagli operatori umanitari sul campo che continuano a operare in un contesto difficile come testimoniano le continue espulsioni.
La protezione della missione di peacekeeping è del tutto insufficiente. Continuano a registrarsi scontri armati che coinvolgono i civili soprattutto nel Nord Darfur ed episodi di crimini di massa, in particolare stupri, usati come arma di guerra.

Il 2 novembre del 2014, su segnalazione di alcuni rifugiati sudanesi in Italia, Italians for Darfur è stata la prima organizzazione a denunciare sul proprio blog lo stupro di massa a Tabit, un villaggio a nord di al-Fasher. Oltre 200 tra donne, adolescenti e bambine erano state violentate nella notte tra giovedì 30 ottobre e il primo novembre da militari governativi e milizie arabe, gli ex janjaweed.

Secondo i testimoni, il raid punitivo sarebbe stato conseguenza della scomparsa di un militare della guarnigione dell’esercito del Sudan di pattuglia nell’area. La forza Onu dispiegata in Darfur non ha potuto effettuare nell’immediato un sopralluogo e confermare, in un primo momento, l’episodio. Dopo aver parlato nuovamente con abitanti del posto, senza la presenza di militari governativi, i caschi blu hanno invece raccolto elementi che non hanno più lasciato dubbi su quanto fosse avvenuto a Tabit.

Human Rights Watch ha poi pubblicato l’11 febbraio di quest’anno una approfondita ricerca che ha evidenziato le responsabilità delle truppe dell’esercito del Sudan che avevano eseguito una serie di attacchi contro la popolazione civile della cittadina vicino al-Fasher, arbitrarie detenzioni, pestaggi e maltrattamenti di decine di persone oltre allo stupro di massa di donne e ragazze. I militari hanno giustificato gli abusi dichiarando che le vittime fornivano aiuti ai guerriglieri coinvolti nelle operazioni contro il governo.

Il mondo, nonostante le prove di questa come di altre atrocità perpetrate in Darfur, è rimasto e resta a guardare nel silenzio più colpevole e sconcertante che l’ignavia internazionale abbia mai manifestato.

Fonte:

http://www.huffingtonpost.it/antonella-napoli/lignavia-colpevole-del-mondo-ha-spento-i-riflettori-sul-darfur_b_7935888.html

Sudan, Corte penale internazionale sospende inchiesta su Bashir per il genocidio in Darfur

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Darfur, la verità nascosta dello stupro di massa a Tabit

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DARFUR

Amina ha 11 anni, nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre era sola nella capanna di fango a Tabit, cittadina a 45 chilomentri dalla capitale del Nord Darfur, el-Fasher. Tre uomini sono entrati, l”hanno picchiata e violentata a sangue, a turno, più e più volte. Una guarnigione dell’esercito del Sudan, supportata da milizie filo-governative, era arrivata nel villaggio con i kalashnikov spianati. I militari hanno radunato e immobilizzato gli uomini e, minacciandoli di morte, gli hanno impedito di reagire e di proteggere le loro donne. In duecentodieci, tra cui 79 adolescenti e 8 bambine, sono state stuprate in poche ore. All’origine di tale inconcepibile violenza il presunto coinvolgimento di alcuni residenti nella scomparsa di un militare. Il brutale atto sessuale è stato usato come arma di guerra.

Il due novembre Italians for Darfur ha raccontato sul proprio blog quello che era avvenuto, in contemporanea ad altre organizzazioni per i diritti umani che hanno diffuso testimonianze sulla vicenda. Mentre in gran parte del mondo anglosassone i media hanno rilanciato la notizia, nel nostro paese è stata totalmente ignorata.

Venerdì 21 novembre Unamid, la missione Onu dispiegata in Darfur, ha annunciato che presto avvierà una nuova indagine, a distanza di una settimana dal report con cui affermava che non era possibile accertare l’accaduto. La realtà è che i testimoni avvicinati erano stati intimiditi dalle forze governative e nessuno ha avuto il coraggio di parlare. Dopo l’ondata di indignazione sui social media che da subito ha travolto la rete, il team di peacekeepers che aveva indagato sulle accuse rivolte ai militari sudanesi – concludendo che non ci fossero elementi per appurare le responsabilità dello stupro – tornerà presto nel villaggio per ascoltare le vittime dirette delle violenze. Le stesse che sono state intervistate da Radio Dabanga e che hanno raccontato i dettagli di ciò che è accaduto in quella terribile notte.

Per tenere alta l’attenzione sulla vicenda, venerdì 28 novembre, in tutto il mondo, i profughi sudanesi manifesteranno davanti ai parlamenti dei paesi in cui sono rifugiati insieme agli attivisti della coalizione di organizzazioni internazionali ‘Sudan365’, tra cui Italians for Darfur, Amnesty International e United to end genocide. Se il mondo punterà lo sguardo su Tabit forse questa volta sarà possibile raccogliere le testimonianze di ciò che li è avvenuto e che il governo continua a negare, nonostante il comandante della guarnigione abbia confermato che alcuni suoi uomini quegli stupri li hanno compiuti. Per impedire che episodi del genere possano essere ancora perpetrati impunemente è necessario sottrarre la regione del Sudan dal cono d’ombra in cui è precipitata da quando Khartoum, nel giorno in cui al presidente Omar Al Bashir venne notificato il mandato di arresto della Corte penale internazionale per i crimini in Darfur compiuti dalle milizie janjaweed tra il 2003 e il 2006, espulse le maggiori ong internazionali, sentinelle di quanto quotidianamente avveniva nella regione sudanese che in undici anni di conflitto ha superato le 300 mila vittime e conta oltre due milioni di sfollati.

 

Fonte:

http://www.huffingtonpost.it/antonella-napoli/darfur-verita-nacosta-stupro-massa-tabit_b_6191826.html

 

Testimonianza di un dottore di Msf: il dramma Darfur è più grave che mai

martedì, ottobre 07, 2014

di Antonella Napoli per Italians for Darfur ONLUS

 

Dieci anni di guerra, metà popolazione tra sfollati, rifugiati e morti. Dopo la tregua del 2011, in Darfur sono ricominciati gli scontri tra l’esercito sudanese, le milizie paramilitari alleate e i gruppi indipendentisti “neri”: dall’inizio del 2014, sono 385mila i civili che hanno perso la casa, raggiungendo i due milioni di profughi già nei campi.
Tutto ciò che denunciamo da mesi, come fatto negli ultimi otto anni, lo conferma la testimonianza di uno psicologo di Medici senza Frontiere, il dottore Fabio Gianfortuna.
Prosegue il conflitto in Darfur, dove la minoranza araba detentrice del potere a Khartoum è opposta ai gruppi indipendentisti (Slm, Sla, Jem) delle etnie “nere” di questa zona occidentale del Sudan. L’ultimo scontro, il 6 ottobre, quando sono stati uccisi 16 militari in un attacco dei ribelli alla guarnigione di Guldo. Nel frattempo, nel Nord Darfur è stato proclamato lo Stato di Emergenza, vietando tra l’altro il kadamool, il turbante locale che copre gran parte della faccia.
Ma lo stillicidio è costante e quotidiano: secondo le Nazioni Unite, solo dall’inizio dell’anno 385mila civili hanno dovuto lasciare le loro case, soprattutto per gli attacchi delle forze paramilitari nella zona di Nyala. In un paese di 6 milioni di abitanti, dal 2003, anno in cui iniziò la guerra civile, si contano 400mila morti, più di 2 milioni di sfollati interni e 300mila rifugiati all’estero. In Darfur, oggi tutta la popolazione è divisa in sfollati, comunità di accoglienza e popolazioni rurali tagliate fuori dagli aiuti. Non ci sono alternative a queste tre categorie di vita. È una sorta di prigione a cielo aperto, perché è vietata la libertà di movimento al di fuori della propria area di insediamento.
Così fa il punto Fabio Gianfortuna, psicologo di Medici senza Frontiere che ha coordinato un progetto di salute mentale nel campo di Shanguil Tobaya: “In Darfur, la situazione è sempre incerta, si alternano tregue più o meno ufficiali a periodi di conflitto aperto. Dopo la firma del trattato di Doha del 2011 e la costituzione del Comitato misto Nazioni Unite/Unione Africana per il cessate il fuoco, la situazione sembrava più calma, ma nel 2013 il Governo ha intensificato i bombardamenti e le milizie arabe (Janjaweed) hanno ripreso ad attaccare campi di sfollati e villaggi, proteste pacifiche sono state soppresse nel sangue e sono ripresi gli arresti sistematici, mentre i vari gruppi ribelli si son nuovamente mobilitati”. Human Rights Watch e un report di Foreign Policy hanno recentemente accusato di totale inefficacia la missione internazionale di peacekeeping, forte di 20mila soldati. Il segretario dell’Onu Ban Ki-moon si è detto “preoccupato” e ha aperto un’inchiesta. In ogni caso, oggi la situazione non è quella del 2004, con centinaia di migliaia di morti, ma le speranze del 2011 sono tornate a essere solo speranze.
Gianfortuna racconta come gli abitanti del Darfur vivano da un decennio in uno stato di pericolo costante e di violazione dei diritti umani. Shanguil Tobaya, nel pieno del Sahara, è solo uno delle decine di campi sorti nel Paese: “È vicino all’incrocio tra le due principali strade del Nord; dieci anni fa, la popolazione in fuga si è fermata lì per stanchezza, dopo un cammino di settimane. E negli anni successivi i profughi sono continuati ad arrivare, con alle spalle storie di violenza nei villaggi di origine e lungo il cammino”. Tutto dipende da aiuti esterni: il Pam delle Nazioni Unite per il cibo, Oxfam per l’acqua, Medici senza Frontiere per la salute. Shanguil è stato completamente distrutto tre volte. Racconta Gianfortuna, che era là durante un bombardamento: “Le milizie girano intorno al campo, uccidendo gli uomini che escono e violentando le donne che cercano di raggiungere una misera fonte d’acqua distante un chilometro”.
A fine settembre, nel campo di Nierteti e Nyala, piogge torrenziali hanno distrutto 3.700 abitazioni di fortuna e bloccato le strade. Gli sfollati, senza più nulla, si proteggono ora da pioggia e sole con sacchi di plastica. Nei campi, la stragrande maggioranza dei profughi sono bambini e ragazzi di meno di 12 anni, talvolta separati dalle loro famiglie. Non ci sono scuole, né spazi di incontro, niente che possa aiutarli a crescere. Spiega lo psicologo di Msf: “I genitori, se ci sono, sono spesso bloccati psicologicamente”. Molte donne sono vittime di violenza, in Darfur lo stupro è usato come arma di guerra.
Nei campi, dove la salute non è un diritto, Medici senza Frontiere ha costruito dei presidi sanitari. Gianfortuna si è occupato dell’aspetto psicologico, tentare di alleviare i traumi e disturbi derivanti dallo stress e dalle violenze subite da un lato, provare a salvaguardare un minimo di strutture comunitarie e familiari dall’altro. “Mi ricordo – racconta – una bambina di sette anni che non dormiva da mesi perché il suo villaggio era stato attaccato da truppe appartenenti ad un’altra etnia che parlavano un dialetto estremamente riconoscibile. Nel campo c’erano molti appartenenti alla stessa etnia e lei, ogni volta che sentiva il dialetto degli assalitori, cominciava a piangere e gridare di paura. Purtroppo questo succedeva di continuo, di giorno e di notte, e la bambina era veramente allo stremo delle sue energie psichiche. Sei mesi di lavoro quotidiano con lei, sono stati premiati da un sorriso e da un pupazzetto costruito con la sabbia che ho ancora in camera mia”.
Accanto alla sofferenza delle persone, c’è anche un dato economico che spiega l’assurdità di questa guerra. Secondo Hamed El Tijani, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università americana del Cairo, il conflitto in Darfur costa 23 volte di più rispetto alle spese sanitarie dell’intero Sudan. Il professore ha calcolato che la guerra decennale è costata 50 miliardi di dollari, 5 all’anno, cioè il 23% del Pil a fronte dell’1% rappresentato dagli investimenti nella sanità.

Fonte:
http://itablogs4darfur.blogspot.it/