Afghanistan, Trump ordina di lanciare la ‘madre di tutte le bombe’

E’ la prima volta dell’ordigno più potente

Gli Usa hanno sganciato la bomba Moab (la ‘madre di tutte le bombe’) sull’Afghanistan orientale per colpire l’Isis. E’ la prima volta che la superbomba è usata in combattimento. La ‘Massive ordnance air blast’ pesa quasi 10 tonnellate e ha la forza di distruggere tutto nel raggio di centinaia di metri. “Un altro grande successo, sono orgoglioso dei nostri militari”, ha detto Trump. L’obiettivo, dice la Casa Bianca, sono “tunnel e grotte usate dai miliziani dell’Isis” e “sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali”.

Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno sganciato la bomba nella zona di Nangarhar. Si tratta di una cosiddetta bomba MOAB (la sigla significa ‘Massive ordnance air blast’, ma è stata ribattezzata mother of all bombs -madre di tutte le bombe).

ECCO GLI EFFETTI DI UNA MOAB – VIDEO DA YOUTUBE

Il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha confermato in apertura del briefing quotidiano che gli Stati Uniti hanno colpito l’Afghanistan sganciando una bomba mirata a colpire “tunnel e grotte usate dai miliziani dell’Isis”. Spicer ha quindi sottolineato che nell’azione “sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali”, rimandando poi al Pentagono per ulteriori dettagli.

“Un’altra missione di successo, sono molto orgoglioso dei nostri militari”. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha risposto a domande dei giornalisti sulla ‘superbomb’ sganciata dagli Usa in Afghanistan, sottolineando che i militari hanno la sua “totale autorizzazione”, cioè carta bianca.

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L’attentato a Stoccolma e una vecchia gaffe (?) di Trump

Ancora un tir sulla folla, 4 morti a Stoccolma
Un fermato ha confessato. Ma l’autista è in fuga

Prima Nizza. Poi Berlino. Ora Stoccolma. Ancora una volta un camion lanciato contro la folla ha travolto i passanti, questa volta sulla Drottninggatan, la “via della regina”, cioè la strada pedonale più famosa e frequentata della città. Il tir – rubato durante alcune consegne ai ristoranti – ha concluso la corsa contro le vetrine di un grande magazzino. La polizia ferma un sospetto che rivendica l’attacco. Ma non è l’autista del camion: è caccia all’uomo

di F. Q.

•scheda – camion e auto come armi: i precedenti da Nizza a Londra

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Attentato a Stoccolma, la gaffe mondiale di Trump meno di due mesi dopo diventa realtà

Attentato a Stoccolma, la gaffe mondiale di Trump meno di due mesi dopo diventa realtà
Mondo
“Guardate cos’è successo in Svezia ieri sera… Chi poteva immaginarlo?”. Così parlava dalla Florida il presidente degli Stati Uniti il 17 febbraio, alludendo a un attacco terroristico mai avvenuto
Da gaffe di livello internazionale a imprevedibile realtà. Era il 17 febbraio quando Donald Trump durante un comizio a Melbourne, in Florida, dichiarava la sua solidarietà alla Svezia per un attentato in realtà totalmente inesistente. Parole che tornano dopo l’attacco nel centro commerciale di Stoccolma. “Guardate cosa sta succedendo – si infervorava quel giorno il presidente americano davanti ai suoi sostenitori – Dobbiamo mantenere il nostro Paese sicuro. Guardate quello che sta succedendo in Germania, guardate quello che è successo la notte scorsa in Svezia. In Svezia, chi può crederci? Stanno avendo problemi che non avrebbero mai pensato di avere”.La fake news del presidente americano scandalizzò il mondo, fino alla denuncia di Margot Wallström, ministra degli Esteri della Svezia, per la “tendenza generale” a diffondere “informazioni sbagliate“. Trump aveva provato a rifugiarsi in corner spiegando che la sua dichiarazione era arrivata dopo aver visto un servizio televisivo della Fox. Tuttavia il video dell’emittente Usa non faceva alcun riferimento ad attacchi in Svezia, ma solo all’afflusso di migranti in Scandinavia e ad un attentato, con due feriti, sì a Stoccolma ma risalente a sette anni prima, nel 2010. Tra l’altro quell’attacco passato era avvenuto, con due autobombe, proprio nella stessa zona colpita oggi, l’area pedonale della Drottninggatan.

Attacco Usa in Siria, Trump sconfessa la sua linea. Ma l’avvertimento preventivo alla Russia conferma l’intesa con Mosca

Attacco Usa in Siria, Trump sconfessa la sua linea. Ma l’avvertimento preventivo alla Russia conferma l’intesa con Mosca

Attacco Usa in Siria, Trump sconfessa la sua linea. Ma l’avvertimento preventivo alla Russia conferma l’intesa con Mosca
Mondo
Il bombardamento della base aerea di Shayrat non rappresenta in sé un’escalation nella crisi siriana. Altrimenti metterebbe a rischio le intese che Mosca, Washington e Ankara hanno raggiunto per stabilire sul Paese, ormai in macerie, la loro personale area d’influenza. Se Russia e Cina sono state davvero informate dell’attacco, il bombardamento Usa alla base di Shayrat ha scopo puramente dimostrativo
“Quello che sto dicendo è rimanete fuori dalla Siria!”. Lo scriveva Donald Trump su twitter il 4 settembre del 2013, pochi giorni dopo l’attacco con armi chimiche nella zona di Ghouta, a Damasco, dove circa 1400 persone vennero uccise. Allora, per il presidente Barack Obama, era stata superata la linea rossa tracciata dall’ex segretario di Stato John Kerry. A quel tempo l’intervento americano non ci fu. Perché grazie alla mediazione russa si trovò un accordo per chiedere a Damasco di consegnare, sotto la supervisione di osservatori dell’Opac – l’organizzazione mondiale per la proibizione delle armi chimiche -, tutti i quantitativi di sarin stoccati nei magazzini. Quell’intesa segnò una nuova pagina per la crisi siriana che condusse l’amministrazione Obama verso un ruolo più defilato, in favore di una Russia maggiormente attiva nel contesto siriano.Con l’amministrazione Trump, che aveva criticato l’approccio di Obama nella questione mediorientale, è parso subito chiaro che gli Usa sposassero una linea non interventista, cercando con la Russia un’intesa per un coordinamento nella lotta al terrorismo. Una visione che aveva avuto risvolti politici, almeno a parole.

La settimana scorsa Nikki Haley, ambasciatrice Usa presso le Nazioni Unite, aveva affermato che “per gli Usa la rimozione di Assad non era più la priorità”. A fare da eco alle sue parole ci aveva pensato anche Rex Tillerson, segretario di Stato Usa che, durante una visita ad Ankara il 30 marzo scorso, aveva detto che “il destino di Assad sarebbe stato scelto dai siriani”.

Dichiarazioni in linea con la posizione del Cremlino che ha sempre ribadito il suo appoggio al governo di Damasco. Ed emergeva così il raggiungimento di una visione comune o almeno un cambio di rotta.

Non a caso il 7 marzo scorso ad Antalya, in Turchia, i tre capi di Stato maggiore di Usa, Turchia e Russia si erano riuniti per discutere della situazione intorno a Munbij, città siriana nel nord della Siria, dove le forze armate sostenute da questi tre paesi si erano scontrate. “C’è la volontà di creare un coordinamento efficace negli sforzi per eliminare ogni gruppo terroristico dalla Siria”, aveva dichiarato il primo ministro turco, Binali Hildirim.

Ma secondo molti analisti questo coordinamento aveva come scopo quello di creare per ogni potenza aree d’influenza sotto l’ombrello della lotta al terrorismo. Solo due giorni dopo, il 9 marzo, centinaia di marines sono entrati in Siria per combattere contro lo Stato Islamico a fianco delle ‘Forze democratiche siriane’, una formazione predominata dai curdi e sostenuta da Washington. Mentre la Turchia, in quegli stessi giorni, intensificava la sua operazione “scudo dell’Eufrate” per creare una zona cuscinetto nel nord della Siria.

Ma dopo l’attacco chimico a Khain Sheikhun il 4 aprile scorso, l’approccio americano in Siria sembra cambiare drasticamente. “Quello che ho visto ieri su bambini e neonati ha avuto un grande impatto su di me. Quello che è successo ieri è inaccettabile. Su Assad ho cambiato idea”, ha detto Trump il giorno dopo in conferenza stampa con re Abdullah II di Giordania.

Dopo l’attacco con 59 missili che ha colpito la base di Shayrat, il portavoce del Pentagono ha riferito che “i russi erano stati informati dei piani Usa per minimizzare i rischi per il personale russo e siriano presente nella base aerea”. Mentre il presidente cinese Xi Jinping, scrive la stampa, è avvisato personalmente da Trump durante il meeting in Florida.

Se Russia e Cina sono state davvero informate dell’attacco, allora il bombardamentoUsa alla base di Shayrat ha scopo puramente dimostrativo. Motivato dal desiderio di riaffermare il ruolo di Washington sullo scacchiere internazionale. Per la Cina rappresenta invece un segnale di imprevedibilità di Trump che continua a alzare i toni contro la Nord Corea, sostenuta da Pechino. Quindi Pyongyang potrebbe non essere più immune a rappresaglie Usa. Ma la cosa più importante dell’avvertimento preventivo a Cina e Russia è che l’attacco della notte scorsa non rappresenta un’escalation della crisi siriana. Perché in quel caso a rimetterci sarebbero le varie potenze che hanno raggiunto alcune intese per stabilire sul Paese, ormai in macerie, la loro personale area d’influenza.

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Il Ban di Trump e la Guerra Santa del nerd canadese

31 gennaio 2017

Pubblicato da

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. L’ordine mondiale è scosso dal Ban di Trump, che impedisce l’ingresso negli Stati Uniti a i cittadini di Iran, Iraq, Libya, Somalia, Sudan, Syria and Yemen. Sulla prima pagina del New York Times tiene banco il conflitto istituzionale circa la nomina del nuovo Attorney General, in relazione alla legalità del Ban e dell’opportunità che i legali del Dipartimento della Giustizia lo dichiarino ammissibile. La nostra agenda ci porta, però, in Canada, a Quebec City, appresso ad una notizia che sta riscuotendo attenzione molto inferiore alla portata del fatto, di gravità pari, se non superiore a vari altri che abbiamo seguito e discusso. Si tratta dell’attentato alla moschea locale, nel corso del quale sono morte sparate sei persone e otto altre sono rimaste ferite. Il fatto, del quale si trova traccia soltanto nei tagli bassi delle testate di tutto il mondo, avrebbe di certo suscitato una diversa attenzione, qualora l’obiettivo fosse stato altro, cioè uno dei riferimenti dell’occidente libero e democratico e l’attentatore fosse stato un musulmano qualunque, uno di quelli che urlano “Allah Akbar”, per capirci, che poi hanno spesso e volentieri urlato altro, come s’è detto e ridetto. Gli elementi di interesse, almeno per noi, sono moltissimi. Prima di tutto il profilo di questo Alexandre Bissonnette, un vero freak da tutti i punti di vista, poi il fatto che questo episodio abbia luogo in Canada all’inizio dell’era Trump, in relazione alla posizione liberal che Trudeau ha assunto sulla questione dell’immigrazione, quindi, forse soprattutto, il tema della “Guerra Santa”, che, misteriosamente, non affiora a titoloni cubitali sulle prime pagine dei giornali. Anche limitandoci allo squallido teatrino di casa nostra viene soprattutto da domandarsi dove sia l’editoriale di Panebianco, dove siano i memi di Oriana che aveva previsto tutto e perché oggi la guerra santa non “la fa l’ACI” (lo so, ce lo devo mettere ogni volta, è un po’ un tormentone, ma fa troppo ride’). Inoltre, e questo è l’aspetto che ci ricollega a tutta la questione delle fake news, nelle prime ore seguenti l’attentato circolava nei mezzi d’informazione la notizia che l’autore dell’attentato fosse un marocchino non meglio identificato, di quelli che appunto urlano “Allah Akbar” prima di ammazzare la gente.

Lorenzo. Mettiamo due cose una dietro l’altra, concedendoci il tempo di fare quello che abbiamo fatto con Masharipov, Amri e tutta la compagnia. E ripetendo il mantra delle 36 ore, prima delle quali dire qualcosa di sensato è sostanzialmente inutile e dopo le quali è quasi del tutto inutile dire qualcosa, perché le idee e le emozioni sul fatto si sono già ampiamente formate. Primo: appiccico un po’ di cose su questo “allah akbar”, riguardo al cui uso e alla cui diffusione in quanto meme – lo ricordo anche qui – ho già abbondantemente dato (e quindi un knowledge base purchessia ce l’ho). Al centro commerciale di Monaco il 18enne tedesco-iraniano aveva urlato “sono tedesco, turchi di merda” ma un testimone giurava di averlo sentito urlare “allah akbar”. Chi sa il tedesco afferma che l’assassino avesse anche un certo accento del sud. Nell’agguato nella metropolitana, sempre a Monaco, uno squilibrato aveva urlato davvero “Allah Akbar” ma non era neanche lontanamente mai stato musulmano, né aveva mai avuto un legame famigliare con quel mondo. Non sappiamo se dimostrasse di avere un qualche accento particolare. Di Amri, l’assassino di Berlino abbattuto a Sesto S. Giovanni, si era detto che avesse urlato “allah akbar” ma invece poi fu confermato che aveva detto “poliziotti bastardi”. Questa volta un testimone afferma che l’attentatore aveva un forte accento del Quebec e urlava “allah akbar”. La nota sull’accento rende il testimone credibile. In più la cosa avviene in una moschea, un luogo dove è abbastanza facile che ci siano persone che “Allah Akbar” lo dicono un bel po’ di volte al giorno, poiché pregano. Ricordando poi un numero elevato di casi in cui l’espressione è stata usata per scopi che vanno dallo scherzo stupido al sarcasmo pesante, giungo a pensare che il Gemello abbia davvero urlato “Allah akbar”, per un suo qualche oscuro motivo. Ciò certifica definitivamente, se ce ne fosse bisogno, che il lanciare l’urlo “Allah Akbar” prima di un fatto violento non segnala assolutamente niente di rilevante al fine di stabilire le responsabilità ultime dell’atto, almeno dal punto di vista delle affiliazioni ideologiche, cosa che va tanto per la maggiore quando bisogna dire che siamo soldati crociati ecc. in stile Panebianco. Resta da capire, se l’ha fatto, perché Alexandre Bissonnette l’ha fatto. Ma diciamo che a questo punto ci può interessare il giusto, cioè niente. Però è da segnalare che a un certo punto ieri si è capito che questo killer con l’ISIS non c’entrava davvero una mazza e dunque i giornali online hanno iniziato a togliere dai titoli quell’”allah akbar” (sbagliando, secondo me, ma va bene). A quel punto c’è stato, come il commentatore di un pezzo di Repubblica, chi ha sollevato dubbi e paventato gombloddi. Arrivando tardi alla lettura del pezzo “Sikomoro” scrive: “Perchè non è stato scritto, come su tutti gli altri giornali, che gli attentatori gridavano Allah Akbar? Si vuole per caso nascondere qualcosa? Si vuole per caso influenzare l’opinione?”. La parola che trovo – ricordo che la usava Jaime intorno al 1988 – per definire tutto questo è “inquietante”.

Anatole. Tragicamente inquietante, ma la cosa che, per usare un’altra espressione del tempo, è ancora più flesciante è il rilievo che la notizia assume nell’opinione pubblica. Cioè, detto senza mezzi termini, appare confermato che se spari dentro una moschea e ammazzi sei persone non gliene frega letteralmente un cazzo a nessuno! E questo fatto sembrerebbe contraddire anche le tradizionali leggi del giornalismo, secondo le quali “cane morde uomo” dovrebbe interessare meno di “uomo morde cane”. Ora, volendo anche applicare questo criterio utterly incorrect alla situazione attuale, ma con trump al potere e i nazi alla casa bianca va di moda, senza meno un canadese bianco, pallidissimo anzi, con nome e cognome da film dei Cohen, per dire, che spara in una moschea dovrebbe essere “uomo morde cane”, stante l’agenda corrente, no? Eppure niente, non fa notizia. Il che dimostra che la forte polarizzazione ideologica ha smantellato le regole basilari dell’attenzione, la legge di mercato della comunicazione, a vantaggio di un meccanismo di allarme orientatissimo, e lo dico anche in senso proprio etimologico (occidentatissimo sarebbe il contrario, diciamo). Come dice Alessandro Lanni qua:

Una ventina d’anni fa, il giurista Cass Sunstein poneva la questione in questi termini: il web prima e i social network poi stanno peggiorando la qualità della democrazia perché ci fanno vivere dentro bolle ermetiche che escludono voci diverse da quelle che condividiamo. Se il filtro siamo noi, se siamo noi a scegliere la nostra dieta informativa tendenzialmente lasciamo fuori ciò che mette in crisi le nostre opinioni che diverranno man mano sempre più cristallizzate e granitiche. Il risultato è la polarizzazione e la radicalizzazione delle opinioni politiche, scrive Sunstein nel suo libro ormai classico Republic.com.

Il filtro informativo individuale opera in una direzione secondo la quale le notizie vere, quelle “uomo morde cane”, non fregano a nessuno, poiché obbligano a fare un ragionamento del tipo di quello che stiamo facendo noi da un anno, dunque a preoccuparsi di una situazione che stiamo contrastando con strumenti inadatti, con guerre sbagliate, eleggendo figure pericolosissime, in ragione dell’incapacità di identificare i problemi in ordine ai quali la situazione corrente si viene a determinare, tanto sul piano economico che su quello sociale, che ancora su quello culturale.

Lorenzo. Passo alla seconda che consiste nel ricordare che c’è un assassino solitario di massa occidentale dal profilo molto simile: Anders Behring Breivik. Ho letto un bel po’, ieri, su Bissonnette e noto, con crescente senso di inquietudine, che i tratti in comune sono fin troppi. Entrambi hanno un curriculum di destra molto “classico”, una destra stile Trump se si guarda agli Stati Uniti, e una destra nazionalista se l’attenzione cade sull’Europa, oggi soprattutto in Francia. Una destra che però guarda a Israele con una certa ammirazione: entrambi i profili ci raccontano questo (qui Bissonnette, qui Breivik). Anche nel caso di Bissonnette dire “nazista” o “neonazista” è un po’ riduttivo, non è proprio esattissimo. C’è quel quid di islamofobo e ultraliberistissimo che ci riconduce agli stereotipi di – chessà – un Salvini e di un Borghezio e financo di un Beppegrilllo. Insomma non un antisemita dichiarato, lo definirei un criptoantisemita in un certo senso. Uno che sul modello antisemita fonda un suo nazismo ufficialmente non-antisemita, stavolta islamofobo. Certamente c’è un aggiornamento del profilo, data l’età. Bessonnette, ad esempio, è il classico troll del cazzo che ti entra nella tua pagina normale, in cui dici cose belle, per disturbare e far perdere tempo alle persone brave.

Anatole. Da quello che si capisce si tratta comunque di uno di quei coglioni che ci vanno sotto alla propaganda di destra (estrema o no, è tutta uguale) sugli immigrati. Molto attivo sui siti xenofobi, grande fan della Le Pen, era stato anche a sentirla durante la sua visita in Quebec. È anche preparato quanto basta da sostenere gli argomenti classici della destra che ci circonda, grazie ad un curriculum di studi a cavallo tra Scienze Politiche e Antropologia, un tempo bastione dell’ultrasinistra, ma oggi, per ragioni che abbiamo più volte sottolineato (ad esempio qua), praticatissimo anche da quella destra che ha fatto benchmark sull’ultrasinistra (tipo Spencer, per capirci). Cioè, un matto sicuro, non meno lupo solitario degli altri, magari integrato in un sistema di relazioni labili e liquide, come avrebbe detto Bauman, attorno alle quali un’identità te la crei, certo, ma sempre molto da solo, in quella solitudine che, come abbiamo detto in tutte le salse, si consuma nella rete telematica, offrendo un’ombra di appartenenza a persone bisognose di attenzione. Di sicuro: «He was not a leader and was not affiliated with the groups we know», come ha spiegato François Deschamps, il job counselor di Carrefour Jeunesse, un’organizzazione che aiuta a trovare lavoro, ma anche attivista di Bienvenue aux Réfugiés, che ha avuto modo di tracciare l’attività di pubblicista anti-immigrazione dell’attentatore.

Lorenzo.  Sulla questione dell’estremismo di destra in Canada è uscito un bell’articolo, molto documentato sul Montreal Gazzette: “L’effetto Trump e la normalizzazione dell’odio in Quebec”. Vale la pena dargli una letta e visionare la tabella, molto esplicativa:
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Certo oggi i destrorsi operano in un contesto “garantito” a tutti gli effetti dalla presidenza americana. Cioè, c’è Steve Bannon nel Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti d’America, per dire. Non a caso Richard Spencer non ha perso l’occasione di trollare Trudeau a proposito del suo discorso ispirato a seguito della sparatoria alla moschea di Quebec City, rilanciando l’analogia con la Francia, anche in cerca di simpatie transoceaniche:

 

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Anatole. Il quadro in cui questi figuri operano oggi è molto diverso, ma non dissimile da quello che si ricostruisce attorno al classico attentatore islamico. Voglio dire che c’è un quadro di riferimento istituzionale rispetto al quale questi personaggi si sforzano di apparire conformi, l’ISIS per gli uni, gli USA di Trump, Bannon e Spencer per gli altri. Lo si poteva già vedere nel corso della campagna elettorale americana con i bersagli accesi dalla propaganda antiliberal, soprattutto nel formato del Pizzagate, di cui abbiamo già parlato qua. Il qualcunismo omicida non è più una semplice forma di appartenenza contro i valori liberal che stanno abbattendo le frontiere tra ciò che “la tradizione” (un costrutto ideologico folle, come sappiamo, una cosa mai esistita) ci ha consegnato come una cosa che ci appartiene e tutto quello che invece no e quindi deve restarsene fuori dal posto che identifichiamo come ”casa nostra”, anche se poi a casa nostra i siriani non ci vengono e non ne abbiamo mai visto uno manco per sbaglio. È quello che capita quando la destra nazi prende il potere, che i mezzi matti si sentono appartenenti ad una milizia che opera in un quadro di ”legalità”. lo si vedeva già all’indomani dell’elezione di Trump, con le migliaia di piccoli atti di bullismo rivoltante ai danni di ebrei, musulmani, neri, omosessuali, donne di ogni razza e ceto sociale, perpetrati da maschi bianchi, ritornati in pieno controllo di una prospettiva identitaria ”forte”. In sostanza, una cosa molto simile al fascismo.

Lorenzo. Esatto. Il modulo è quello del lupo solitario, forse ancor più di prima, perché oggi anche lo xenofobo fascista ha il suo quadro di riferimento ideale proiettato in uno scenario istituzionale.

Anatole. Penso che alla fine quello che abbiamo detto e ridetto, che cioè questa guerra santa la stanno combattendo un pugno di mezzi matti sobillati da altri mezzi matti (i Panebianco di tutto il mondo, per capirci) è una cosa vera. Quello che oggi è cambiato è che, come dici tu, alcuni di questi mezzi matti, della prima e della seconda categoria, sono oggi al potere in tutto il mondo. Ma non mi sembra un messaggio rassicurante sul quale concludere.

Lorenzo. Possiamo peggiorare la visione, rendendola ancora più fosca.

Anatole. Facciamolo.

Lorenzo. Ragioniamo anche un po’ sulla ricezione del fatto, voglio dire. L’altra volta dicevo delle vittime del Reina, che erano più o meno tutte di origine musulmana, tranne mi sembra due canadesi (dei quali non conosciamo l’appartenenza religiosa). Dicevo che c’è stato questo intitolarsi le vittime, questo parlare di crociate mentre, come dicevi all’inizio, oggi non vedo quest’ansia di intitolatura, anzi. Quindi, giusto per mettere un po’ le cose in chiaro, completerei – dopo aver citato l’articolo sul Canada – il ragionamento con questo progetto sulla mappatura dell’islamofobia negli Stati Uniti e quest’altro sull’islamofobia in Europa. Cioè, detta fuori dai denti: i nostri simpatici amici teorici del conflitto di civiltà, i crociati da poltrona in pantofole, hanno effettivamente contribuito ad elaborare un paradigma di crociato che trova riscontro nella società. Ma ciò facendo non hanno descritto una cosa che esiste come tale di per sé. Cioè, nessuno dei potenziali crociati è di per sé un crociato, così come nessuno dei potenziali estremisti del cosiddetto jihad islamico lo è in quanto è nato così o perché le sue condizioni di esistenza lo portano naturalmente a diventarlo. È il quadro ideologico di riferimento, elaborato dai nostri amici del conflitto di civiltà, quelli che la Guerra Santa “la fa l’ACI”, che offre un contesto all’interno del quale situare azioni come quelle sulle quali ragioniamo da più di un anno. Quindi, perlomeno, la prossima volta, evitino di parlare di timidezze e buonismi, di occidenti pavidi e altre idiozie, ché manca poco all’aperto incitamento all’odio razziale. E, quasi quasi, sembrano aver letto i manuali di Abu Mus’ab al-Suri (sistema vs organizzazione, del quale dicevamo l’altra volta). Qui, come abbiamo detto ormai fino alla noia, il tema sarebbe un altro, collegato, come abbiamo ripetuto alla nausea, al dramma identitario in cui sprofonda la piccolissima borghesia promossa dal debito e messa in ginocchio dalla crisi.

Anatole. A questo proposito abbiamo prodotto un congruo pregresso.

Lorenzo. Talmente congruo che, come alcuni nostri detrattori auspicano, ce la potremmo anche far finita.

Anatole. Sarei d’accordo con loro, se solo si alzasse ogni tanto mezza voce da qualche parte a far notare le cose che stiamo ripetendo. Personalmente avrei anche da fare, diciamo. Mi blinderei volentieri nel XII secolo, per dire.

Lorenzo. Eh, infatti, a chi lo dici. E vi sono segnali che dimostrano quanto ripetitivi stiamo diventando.

Anatole. Forse perché diciamo una cosa vera? Potrebbe anche darsi.

Lorenzo. La verità è ripetitiva, questo di sicuro. E noiosa.

Anatole. Infatti abbiamo chiuso questo pezzo in un’ora. Per noia.

Lorenzo. Speriamo che si sia capito il concetto.

Anatole. Io penso di sì. E sinceramente me la farei finita volentieri, se non temessi che  l’episodio di oggi potrebbe essere solo uno dei primi accenni di una cosa sinistra che sta per accadere. Non l’ho mai pensato fino ad ora, ma la strizza a questo punto sale per davvero. Non già la paura di una Guerra Santa, quanto piuttosto il terrore che questi qualcunisti, quelli di casa nostra soprattutto, abbiano trovato un’identità forte dietro la quale nascondere il loro microscopico cazzetto, ecco. Perché a questa cosa dell’allarme democratico non ci avevamo alla fine mai creduto davvero, diciamolo. Oggi forse un po’ di più ci crediamo, sinceramente. Leggendo questo, ad esempio, non mi viene da ridere. Ne mi tranquillizza questo, pur straordinario, capolavoro artistico:

 

capitan america

 

Lorenzo. No, neanche a me. Sì, c’è una certa strizza e anche una certa rabbia per come le cose sono state fatte deteriorare. Forse dobbiamo capire, nei prossimi tempi, se proprio siamo circondati, se le cose sono già andate avanti troppo, se c’è un rimedio.

Anatole. La Women’s March è il rimedio. L’unico vero. Forse. Speriamo. Perché il movimento femminista è l’unica forza capace di metterti in discussione per quello che sei, per come vivi davvero, invece che per quanto figo ti senti su un social network o dove che sia. In quest’epoca qualcunista è davvero un ancoraggio straordinario ad un piano di verità basata su scelte di vita, sincerità di quello che provi, coraggio di affrontare gli aspetti meno evidenti e più scomodi della realtà che ti disegni attorno. Per questa ragione è probabile che sia l’unica forza propulsiva di un rinnovamento democratico progressista, capace di demistificare i meccanismi di idealizzazione del quotidiano grazie ai quali la demagogia populista fa presa, ritraendo maschi disperati e miserabili come campioni dell’emancipazione di masse inascoltate, che in realtà non hanno niente da dire. Sono donne come Kamala Harris e Cecile Richards che devono stare davanti oggi, in America e in tutto il mondo, e tutti quelli che vogliono combattere questo orrore devono limitarsi a sostenerle.

Lorenzo. …. [sgrana gli occhi]

Anatole. …. [guarda altrove, un po’ come se questa cosa che ha appena detto non l’avesse detta lui]

Lorenzo. Si è riaccesa la luce della stanza. Proprio mi sono visto davanti questo libro di Valentina Fedele che indaga sui modelli maschili nel mondo islamico, specie nelle comunità di migranti maghrebine in Europa. “Islam e mascolinità”. Cose di cazzetti piccoli se vogliamo metterla così. Fuori dallo stupidario delle robe che girano, davvero.

Anatole. Ecco.

Lorenzo. Daje.

Anatole. Daje sì.

 

 

Fonte:

https://www.nazioneindiana.com/2017/01/31/ban-trump-la-guerra-santa-del-nerd-canadese/

No Dal Molin – Manifestazione regionale per la difesa dei territori dalle grandi opere e dalle servitù militari

nodalmolin

Da circa due mesi, nella provincia di Vicenza, abbiamo dato vita alla campagna #vicenzasisolleva, un percorso fatto da attivisti No Dal Molin, da Comitati contro le grandi opere e da cittadini impegnati per la difesa dei Beni Comuni.

Questa campagna ci sta portando verso il prossimo 16 gennaio, data in cui saranno 10 anni dal sì di Romano Prodi alla costruzione della nuova base militare Usa al Dal Molin. Una scelta che allora, da un lato, calpestò la volontà popolare con una pesante imposizione alla città di Vicenza e, dall’altro, generò una presa di coscienza e un percorso di lotte virtuose e radicali contro la militarizzazione del territorio e le grandi opere.

Dal 12 al 26 Gennaio torneremo al terreno del Presidio No dal Molin rimontando quel tendone che ha saputo essere piazza di discussione in difesa della terra e dei beni comuni, ci torneremo per 15 giorni di assemblee convegni, iniziative perché siamo ancora in cammino verso una società che ripudia la guerra, dove al primo posto mettiamo la tutela della terra e la difesa dei beni comuni.

Ci torneremo perché vogliamo ancora lottare contro la voracità dei potenti che cura gli interessi di pochi, e costruire insieme un mondo diverso e migliore. Vicenza non è un’eccezione nel consumo del suolo e nella predazione delle risorse. Dalla Tav alla Pedementana, dalla Valdastico Sud e Nord alle Grandi Navi, dai progetti di incenerimento dei rifiuti alle discariche, dalle cave all’inquinamento dell’acqua, il territorio del nord-est è sottoposto alla continua cementificazione ed è divorato da piccole e grandi opere inutili e dannose, facili prede per le lobby del cemento e del capitalismo finanziario.

All’interno della cornice dei 10 anni dall’inizio della battaglia contro il Dal Molin vorremmo costruire insieme a tutt* voi un momento di manifestazione e mobilitazione che metta insieme i nostri No!
Per dispiegare quella necessità di alternativa di sistema che vogliamo affermare a partire dai nostri territori.
Vogliamo che sabato 21 gennaio diventi la giornata in cui affermiamo, ancora una volta, il nostro amore per la terra in cui viviamo.
Vogliamo che i NO che abbiamo gridato negli ultimi dieci anni, e quelli precedenti a noi, i NO che emergono dalle paludi dei ricordi, dalle nebbie che respiriamo in queste terre di pianura, che sorgono sulle nostre colline e sulle montagne all’alba, che questi NO diventino un favoloso SI alla vita, liberi dal malaffare, dalle mafie, dalle ruberie dell’uomo sull’uomo e sull’ambiente.

Vogliamo affermare che dove non c’è terra non c’è vita.

L’alternativa esiste, bisogna saperla vedere.

http://www.nodalmolin.it/

*** PROGRAMMA COMPLETO DEGLI EVENTI DAL 12/01 AL 27/01 AL PRESIDIO NO DAL MOLIN***

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Luogo

Presidio No Dal Molin
Vicenza, + Google Map:

2 gennaio 1975, Los Angeles

2 gennaio 1975, Los Angeles: l’attore Marlon Brando consegna al leader dell’Associazione per la sopravvivenza degli indiani di America, Hank Adams, l’atto di donazione di 40 acri di terra vicino al villaggio di Agura, dichiarando che darà tutte le sue proprietà negli Stati Uniti “ai appresentanti delle comunità di pellerossa ancora discriminate e perseguitate dal governo”.

 

Da Rivoluzionaria 2017 Agenda di Davide Steccanella, Mimesis Edizioni, Milano 2016

Aggiornamenti sulla strage di capodanno a Istanbul

Turchia: strage in night club a Istanbul, 39 morti e 69 feriti. Tra le vittime 24 stranieri

Terrorista in fuga, ombra dell’Isis

Il terrorismo colpisce la Turchia nella notte di Capodanno: è di almeno 39 morti e 69 feriti l’ultimo bilancio ufficiale di un attacco avvenuto in una famosa e affollatissima discoteca di Istanbul, non ancora rivendicato ma le cui caratteristiche fanno pensare a un attentato a firma Isis. IL VIDEO, TERRORISTA RIPRESO DURANTE L’ATTACCO

L’attentatore del nightclub Reina di Istanbul non indossava il costume di Babbo Natale, come riferito finora da alcune testimonianze, e ha lasciato la pistola prima di fuggire. Lo ha detto il premier turco, Binali Yildirim.

E nel pomeriggio un uomo armato ha sparato davanti ad una moschea di Istanbul ferendo almeno due persone prima di fuggire. Lo riferiscono i media locali. La sparatoria è avvenuta nel quartiere di Sariyer.

C’era anche un gruppo di giovani italiani nel nightclub, secondo quanto riporta la tv locale modenese Trc-Telemodena. Per la tv, la compagnia italiana, che stava festeggiando il Capodanno, è riuscita a scampare alla strage gettandosi a terra quando i primi spari nel locale hanno fatto scattare il panico. Alcuni di loro, avrebbero riportato solo lievi escoriazioni nella calca. Si tratterebbe di tre modenesi e altri amici di Brescia e Palermo, in Turchia per lavoro.

 La polizia di Istanbul ha diffuso le foto del presunto killer che ha sparato e ucciso 39 persone nel ‘Reina’ nightclub. Dalle foto, riprese dal video di sorveglianza, risulta essere un giovane con barba e capelli neri. Dopo la strage, l’attentatore è fuggito e una caccia all’uomo è in corso in tutta la Turchia.

LA STRAGE – L’attacco non è stato ancora rivendicato ma l’attentatore, secondo le testimonianze di alcuni dei sopravvissuti, avrebbe urlato ‘Allah Akbar’ mentre apriva il fuoco dentro il locale. Secondo un deputato dell’opposizione, che ha visitato ospedali e obitorio, 24 vittime sono straniere: sette sono saudite, tre irachene, tre giordane, due libanesi, due tunisine, due indiane, una da Kuwait, Siria e Israele, un belga di origine turca ed un canadese-iracheno. Tra le vittime turche, c’è anche una guardia di sicurezza che era sopravissuta il 10 dicembre scorso al duplice attentato dinamitardo al vicino stadio di calcio del Besiktas. Anche tra i feriti ci sono diversi stranieri. 

 

Per il resto, sono ancora molti i punti da chiarire sulla dinamica dell’attacco. Non si sa con certezza se il terrorista abbia agito effettivamente da solo. Di lui si sa che è entrato vestito di nero e incappucciato con un fucile automatico in braccio con cui ha sparato ad un agente di guardia al locale, che all’interno era vestito di bianco con un cappello a pon-pon bianco, che si è cambiato dopo aver massacrato le persone all’interno del locale, “sparando ovunque, come un pazzo”, ed è riuscito a fuggire nella notte, scatenando stamani una gigantesca caccia all’uomo estesa a tutta la Turchia ala quale partecipano almeno 17.000 agenti. Le poche certezze sono quelle suggerite dalle immagini catturate dalle telecamere di sicurezza, ma alcuni testimoni sopravissuti alla strage hanno raccontato di aver sentito sparare più di una persona, forse due o tre terroristi.

L’unico uomo armato immortalato dalle telecamere è entrato in azione intorno all’1.30 locale (le 23.30 in Italia), mentre nel locale si trovavano circa 700 persone. Ha ucciso l’agente all’ingresso prima di entrare e iniziare a sparare sui clienti. Per sfuggire alla strage, alcuni dei clienti si sono lanciati nelle acque gelide del Bosforo e sono poi stati tratti in salvo, anche se non c’è certezza che tutti siano stati salvati. I testimoni sopravissuti sono concordi su una cosa: i terroristi “sparavano a casaccio”, sparavano su tutti, sulla folla. “Sparavano ovunque, come dei pazzi”, ha raccontato alla Cnn turca una donna, ferita a una gamba da un proiettile. Un altro testimone afferma che le forze speciali sono intervenute portando via i sopravissuti. “Ero di spalle e mio marito ha urlato: ‘Buttati giù!’. Eravamo vicino a una finestra e ho sentito due o tre persone che sparavano. Poi sono svenuta”, ha raccontato una donna.

“Stanno cercando di creare caos, demoralizzare il nostro popolo, destabilizzare il nostro Paese con attacchi abominevoli che prendono di mira i civili – ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan -. Ma manterremo il sangue freddo come nazione e resteremo più uniti che mai e non cederemo mai a questi sporchi giochi”. Durante la notte c’è stata la condanna della Casa Bianca, che per bocca del portavoce Eric Schultz ha parlato di “attacco terroristico orribile” e ha offerto aiuto ad Ankara. Il Dipartimento di Stato ha quindi aggiunto che gli Usa sono “solidali con il loro alleato Nato, la Turchia, nella lotta contro la costante minaccia del terrorismo”. L’ambasciata americana ad Ankara ha però negato le notizie comparse su alcuni social media secondo cui l’intelligence Usa sapeva in anticipo che un nightclub di Istanbul era a rischio di attentato terroristico. “Il nostro dovere comune è combattere il terrorismo”, ha scritto il presidente russo Vladimir Putin al presidente turco. “La tragedia di Istanbul ci ricorda che la lotta contro il terrore non conosce pause né feste o Paesi o continenti. Serve unità. Ad ogni costo”, ha twittato Alfano.

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ALEPPO, EVACUAZIONE BLOCCATA TRA L’INDIFFERENZA DEL MONDO POLITICO

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Due facce della stessa #Aleppo, ma una nega l’altra: Due ragazze posano davanti ai ruderi Carlton Hotel. Altre aspettano evacuazione #Siria
Aleppo, Syria December 17, 2016. REUTERS/ Omar Sanadiki

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Intervista con Radio Vaticana. Buon ascolto

Nonostante la risoluzione firmata pochi giorni fa dall’Onu, è stata rinviata di circa 24 ore l’evacuazione delle ultime zone di Aleppo est ancora in mano ai ribelli
it.radiovaticana.va
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Donatella Quattrone

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Fiore Haneen Sarti ha pubblicato una nota.

di Julien Salingue, da resisteralairdutemps.blogspot.it, traduzione di Chiara Carratù
«Compagno»,
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Una Lenta Impazienza – Il Blog ha aggiunto 4 nuove foto — a Aleppo.

#Aleppo
+++URGENTE+++
Un girone dantesco che sembra non avere fine.
Il processo di “evacuazione” è fermo da ieri. In attesa di essere portate via dalla città

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Donatella Quattrone
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-4:45
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Una Lenta Impazienza – Il Blog ha aggiunto un nuovo video.

#ALEPPO, 2012
Perché Assad ha liquidato, letteralmente liquidato, Aleppo?
Ecco perché.
Aleppo, 2012, questi giovani cantano per la libertà e si fanno beffa di A

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Donatella Quattrone

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Donald Trump potrebbe autorizzare la costruzione dell’oleodotto in North Dakota

Attivisti marciano contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access, vicino a Cannon Ball, il 5 dicembre 2016. - Lucas Jackson, Reuters/Contrasto
Attivisti marciano contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access, vicino a Cannon Ball, il 5 dicembre 2016. (Lucas Jackson, Reuters/Contrasto)
  • 06 Dic 2016 18.26

Gli ingegneri dell’esercito statunitense hanno negato il 4 dicembre l’autorizzazione per la costruzione dell’oleodotto vicino alla riserva di Standing Rock Sioux, a cavallo tra il North Dakota e il South Dakota, ripagando i lunghi mesi di proteste dei nativi americani. Fin dal 2014, quando il progetto è stato presentato la prima volta, i sioux si sono opposti, affermando che il progetto profanerebbe le terre sacre e metterebbe in pericolo le risorse idriche.

L’oleodotto Dakota Access, la cui lunghezza dovrebbe essere di 2.047 chilometri, è quasi completo, manca poco più di un chilometro per essere terminato definitivamente. Quel chilometro sarebbe dovuto passare sotto il lago Oahe, punto che necessitava del permesso delle autorità federali. Il permesso chiave non è stato concesso e quindi l’azienda costruttrice, Energy transfer partners, è stata costretta a fermarsi.

Il portavoce del presidente eletto Donald Trump, Jason Miller, ha detto che la futura amministrazione potrebbe rivedere questa decisione, dato che è favorevole al completamento dell’oleodotto: quindi sarà Trump a decidere dopo il 20 gennaio, giorno del suo insediamento. Per i sioux, invece, quella dell’azienda è una decisione storica per la quale saranno per sempre grati all’amministrazione di Obama, che “ha fatto la cosa giusta”. Alcuni dei veterani non hanno intenzione di lasciare il campo di Oceti Sakowin, nel North Dakota, dove si sono riuniti finora, perché sospettano che la notizia di domenica sia solo una tattica per bloccare le loro proteste e poi riprendere i lavori.

Infatti i nativi americani, gli ambientalisti e i veterani che hanno protestato contro il progetto da 3,8 miliardi di dollari, temono molto la prossima amministrazione e che la compagnia di costruzione – nella quale Trump è perfino un investitore – possa presentare un ricorso.

Il leader della tribù Standing Rock Sioux, Dave Archambault, ha invitato i “protettori dell’acqua” ad abbandonare il campo e andare a casa, ma non è ancora chiaro se i manifestanti seguiranno il suo consiglio. Il corpo degli ingegneri dell’esercito ha detto che sarà necessaria una valutazione degli impatti ambientali dell’oleodotto, che richiederà anni, e trovare una soluzione alternativa se necessario.

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2016/12/06/oleodotto-north-dakota-nativi-trump

Polizia violenta a Standing Rock, arrivano i marines nativi

North Dakota. Decine di feriti e arresti non fermano la protesta contro l’oleodotto e a difesa dell’acqua nelle terre dei Lakota. Esercito in campo per sgomberare i manifestanti, che però avranno al loro fianco una milizia di veterani di guerra disarmata, ma dotata di giubbotti antiproiettile e maschere antigas. Battaglia annunciata per il 4 dicembre

Blocco stradale sull’autostrada all’altezza di Mandan, Nord Dakota

Ormai dalla scorsa primavera le popolazioni Lakota, attualmente con più di 6.000 nativi americani arrivati da diverse aree del Paese, sono accampati a Standing Rock, in Nord Dakota, per difendere le loro terre ancestrali dal mega oleodotto di 300km di lunghezza, voluto da governo e multinazionali in violazione dei trattati firmati in difesa delle terre indiane, che metterà a repentaglio le falde acquifere e le loro stesse vite, assieme a quelle delle generazioni future.

In questo momento drammatico in cui il Ku Klux Klan festeggia l’avvento del nuovo presidente Donald Trump, le popolazioni indigene sono precipitate nel terrore di nuovi Wounded Knee, nuove repressioni, nuovi massacri, nuove deportazioni contro i pacifici protettori dell’acqua riunitisi a Standing Rock.

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Lauren Howland del gruppo Jicarilla Apache sfida la polizia a Standing Rock (foto Jenni Monet/PBS)

PROTESTE DECISE ma pacifiche, a cui il governo ha finora risposto in modo repressivo e violento, con l’utilizzo di cani da combattimento, cannoni ad acqua, proiettili di gomma che hanno causato decine di feriti gravi e l’arresto di innumerevoli attivisti.
Ora nell’area sono arrivati anche centinaia di Veterani Nativi, che hanno messo per anni la loro vita in gioco per l’America e che ora lo fanno per difendere le proteste a difesa di questa terra. Dopo aver assistito ai brutali metodi utilizzati dalla polizia nei confronti dei nativi americani di Standing Rock, un centinaio di veterani statunitensi, appartenenti al corpo dei marines, hanno deciso di unirsi alle proteste degli indiani per difenderli dagli attacchi ingiustificati della polizia. Essi affermano: «Siamo veterani delle forze armate degli Stati uniti e chiediamo ai nostri compagni veterani di mettere assieme una milizia disarmata allo Standing Rock Indian per il 4 dicembre, per difendere i protettori dell’acqua dalle aggressioni e dalle intimidazioni messe in atto dalla polizia».

30 est2 dakota indiani protesta

Gli ex soldati hanno affermato anche di essere disposti a beccarsi un proiettile pur di difendere la causa indiana. Indosseranno le loro vecchie uniformi militari, ma anche giubbotti antiproiettile e maschere anti-gas, sapendo che la polizia sparerà lacrimogeni contro di loro. L’ex marine Michael Wood, ha anche aggiunto: «Questo Paese sta reprimendo la nostra gente. Se vogliamo essere davvero quei veterani che il nostro Paese ammira, allora è nostro dovere difendere la Costituzione dai nostri nemici interni che non la rispettano».

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La Guardia nazionale a difesa del Dakota Access Pipeline (foto Jenni Monet/PBS)

PROPRIO IL 4 DICEMBRE sarà infatti il giorno in cui è previsto lo sgombero del grande accampamento e l’arresto di tutti coloro che si opporranno. L’esercito è già sul luogo, pronto a intervenire con gli stessi carri armati speciali utilizzati in Iraq. I protettori dell’acqua non sono disposti a fare un passo indietro, quindi si rischierà una vera carneficina.
Per supportare le popolazioni native, il 27 novembre c’è stata una mobilitazione a Standing Rock culminata in un concerto a cui hanno partecipato Jackson Browne, Bonnie Raitt, la band John Trudell Bad Dog, Quiltman, Mark Shark, Ricky Epstein, Jane Fonda, Heather Rae Sage e molti altri.

Dal carcere di Coleman, Florida, il prigioniero politico Leonard Peltier, da 41 anni dietro le sbarre, ha scritto una lettera di sostegno alla nuova resistenza indigena di Standing Rock.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/polizia-violenta-a-standing-rock-arrivano-i-marines-nativi/

 

Qui la lettera di Leonard Peltier:

http://ilmanifesto.info/peltier-dal-carcere-di-coleman-florida-sono-li-con-voi/