"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione." Articolo 21 della Costituzione Italiana. "Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario." George Orwell – Blog antifascista e contro ogni forma di discriminazione.
Questo articolo fa parte della serie Cronache dal Mediterraneo, il diario di Annalisa Camilli sulla nave impegnata nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo.
Josefa ha occhi enormi, allungati e larghi. Mi guarda aprendo le palpebre lentamente. È sdraiata sul ponte della Open Arms. L’equipaggio ha messo dei giubbotti di salvataggio sotto alla sua schiena e l’ha coperta con dei teli termici che sembrano d’argento e d’oro. Il suo viso è sofferente, apre gli occhi per chiedere aiuto, li sgrana. Poi torna a chiudere le palpebre come per riposare.
“Sono del Camerun, sono scappata dal mio paese perché mio marito mi picchiava. Mi picchiava perché non potevo avere figli”, racconta Josefa (non Josephine, come si era detto inizialmente) con un filo di voce in un francese dolce. Si tocca la pancia. “Non potevo avere figli”, ripete. Ha il corpo robusto e le mani piccole ancora raggrinzite per essere stata in acqua tutta la notte.
Non riesce quasi a parlare, due occhiaie profonde le scavano gli occhi, le sue pupille sono di un nero intenso. Alza il braccio per salutarmi, poi mi stringe la mano. È ancora fredda, sembra che abbia i brividi. Giovanna Scaccabarozzi, la dottoressa italiana di Open Arms che da stamattina si sta prendendo cura di lei, dice che ora è fuori pericolo, ma è ancora sotto shock. Trema, non si riesce a tranquillizzare, sembra stanchissima.
Non si ricorda nulla di cosa è successo e ha un unico timore. Non vuole essere portata in Libia
Una flebo di soluzione fisiologica è appesa sul palo del ponte della nave: goccia a goccia entra nelle vene di Josefa per reidratarla. “Siamo stati in mare due giorni e due notti”, racconta. Non si ricorda da dove sono partiti e non sa dove sono i suoi compagni di viaggio. “Sono arrivati i poliziotti libici”, dice. “E hanno cominciato a picchiarci”.
Non si ricorda nulla di cosa è successo dopo e ha un unico timore. Non vuole essere portata in Libia. “Pas Libye, pas Libye”, ripete come in una preghiera, una litania sussurrata con un filo di voce. “Pas Libye”. Per tranquillizzarla i volontari le dicono che ora è al sicuro, che presto arriverà in Europa.
A turno vengono vicino a lei sul ponte per passarle un fazzoletto bagnato sulla fronte: ha i capelli pieni di una polvere bianca, forse un per un periodo è stata rinchiusa in un carcere senza potersi lavare. “Se avessimo tardato ancora qualche ora sarebbe morta anche lei”, afferma la dottoressa italiana originaria di Lecco che stamattina l’ha accolta sul ponte della nave spagnola e le ha diagnosticato una grave ipotermia.
“Ha una forza incredibile che l’ha fatta recuperare rapidamente”, spiega Giovanna Scaccabarozzi, che insieme a Marina Buzzetti fa parte dell’équipe medica che a bordo della Open Arms ha accudito Josefa dal primo momento. “Abbiamo fatto delle manovre di riscaldamento e la stiamo idratando”. Alle due dottoresse è toccato anche il compito di fare il referto medico sui due cadaveri recuperati. Uno è di un bambino che ha un’età stimata tra i tre e i cinque anni. “Il bambino era tutto nudo, non sappiamo se abbia un legame di parentela con le due donne”, racconta Scaccabarozzi.
Momenti decisivi
“È morto di ipotermia, poco prima che arrivassimo”, conferma il medico. Questa è la notizia più dura da accettare per tutta la squadra di volontari che da anni dedica le proprie vacanze e i momenti liberi dal lavoro per soccorrere chi rischia di perdere la vita in mezzo al mare. “Arrivare anche solo un’ora prima avrebbe potuto fare la differenza”, questa consapevolezza tormenta i volontari.
La nave Open Arms chiede di poter sbarcare Josefa e i corpi del bambino e della donna senza nome. “Abbiamo dovuto chiamare la Spagna, il nostro stato di bandiera, poi abbiamo chiamato i libici, quindi gli italiani”, spiega Marc Reig, comandante della Open Arms. Tutto è bloccato in una serie di polemiche e di rimpalli infiniti, le stesse polemiche e gli stessi ritardi che hanno decretato la morte di un bambino senza nome che ora giace in un sacco bianco a prua.
Giovanna Scaccabarozzi passa ancora una pezza bagnata sulla fronte di Josefa, che sussurra “Merci”. Grazie. Poi alza il braccio e la saluta, come una bambina al suo primo giorno di scuola. Sul braccio ha i segni di una bruciatura. Non oso chiederle chi o cosa le ha lasciato questo segno. Dice di avere dolore dappertutto.
Dall’inizio del mondo, almeno da quando si racconta la storia di Antigone e Creonte, la legge degli uomini si contrappone a quella dei potenti e sceglie il corpo e la voce di una donna per dire che il potere non potrà mai cancellare la legge naturale, quella che ha a che fare con la vita e la morte, con la malattia e la sepoltura. Josefa ha occhi grandi e una voce flebile, dalla pezza sulla fronte le spunta una ciocca di capelli ricci e bianchi. Ha quarant’anni.
Organizzato da USB Federazione provinciale di Reggio Calabria
APPELLO
Verità e Giustizia per Soumaila Sacko
Tutti/tutte a Reggio Calabria Sabato 23 giugno per proseguire la marcia per i diritti sindacali e sociali dei braccianti e delle braccianti
Vogliamo Verità e Giustizia: chiediamo insieme ai familiari che sia fatta piena luce sull’assassinio di Soumaila Sacko, bracciante e militante sindacale USB, come abbiamo chiesto quando abbiamo rifiutato senza indugio la notizia della reazione a un furto.
Vogliamo proseguire la marcia per i diritti sindacali e sociali dei braccianti e delle braccianti, indipendentemente dal colore della pelle e dalla provenienza geografica: insieme ai lavoratori ed alle lavoratrici di qualsiasi provenienza geografica, alle associazioni e movimenti per la giustizia sociale e la solidarietà, ai disoccupati e precari, agli studenti, alle famiglie e alle persone che già in tutta Italia si sono mobilitate dopo questo tragico delitto, proseguiamo la lotta che stavamo conducendo assieme al nostro compagno e fratello Soumaila Sacko.
Vogliamo diritti e dignità per i lavoratori e le lavoratrici di tutta la filiera agricola: vogliamo e dobbiamo onorare la memoria di Soumaila, e come ci hanno chiesto di fare anche i suoi familiari,
rilanciamo la lotta dei dannati e delle dannate della terra, di chi si spezza la schiena per pochi euro al giorno e ha deciso di non chinare più la testa contro le prepotenze, i caporali e lo sfruttamento. Di chi lavora senza alcuna sicurezza, costretto ad accettarne qualsivoglia conseguenza.
Vogliamo diritti sociali per i lavoratori e le lavoratrici delle campagne: viviamo spesso una condizione assimilabile alla schiavitù ed in condizioni di segregazione sociale, in non luoghi dove si produce l’annullamento delle persone che lo abitano e la privazione dei fondamentali diritti umani. Spesso non abbiamo elettricità, acqua e riscaldamento. Non abbiamo una casa, ma solo rifugi di fortuna. Siamo esclusi dalle società, siamo non-umani che vivono in non-luoghi. Siamo invisibili, salvo ridiventare visibili quando torniamo a lavorare nei campi e veniamo sfruttati e sfruttate. Rivendichiamo l’urgenza di un inserimento abitativo dignitoso.
Vogliamo la bonifica dell’area dell’Ex-Fornace “TRANQUILLA” riportata agli onori della cronaca dopo i fatti del 2 giugno 2018, considerata la discarica dei veleni più pericolosa d’Europa a
causa dell’interramento di 130mila tonnellate di rifiuti industriali tossici. Il processo si sta per chiudere con un nulla di fatto, mentre la gente del circondario continua ad ammalarsi e a morire di cancro. Lo chiediamo insieme agli abitanti delle comunità locali che spesso vengono ingannate da campagne strumentali e razziste mentre vivono sulla propria pelle le conseguenza della crisi economica e sociale.
Vogliamo sicurezza per le lavoratrici delle campagne: esse vivono doppiamente lo sfruttamento e la vulnerabilità sulla propria pelle in quanto lavoratrici braccianti e in quanto donne. Esattamente come
accadeva nel bracciantato della seconda parte dell’Ottocento negli USA nei confronti delle donne nere schiavizzate.
Non vogliamo la guerra tra poveri: rifiutiamo la guerra tra poveri che ci vorrebbe contrapposti ai cittadini e alle cittadine del comprensorio, agli italiani e alle italiane, agli abitanti e alle abitanti della Piana di Gioia Tauro. Rifiutiamo la contrapposizione non solo nel mondo dell’agricoltura ma anche, ad esempio, dei 400 licenziati del porto di Gioia Tauro. Siamo consapevoli che i nostri problemi non sono generati dall’altro, dal diverso, ma dalle politiche attuate dai diversi Governi, che ci vogliono contrapposti per distogliere la nostra attenzione dal vero nemico, da ciò che ci ha impoverito, resi privi di diritti e diseguali. Siamo esseri umani non sudditi e (R)Esistiamo.
Mandiamo un abbraccio ai nostri fratelli che lavorano nella logistica che il 23 giugno marceranno a Piacenza. A fianco dei compagni di Abd Elsalam, ucciso perché difendeva i diritti dei
suoi compagni contro i soprusi delle multinazionali della logistica. La lotta di noi sfruttati non ha confini, insieme diventiamo imbattibili.
Vogliamo manifestare con gli abitanti della Piana di Gioia Tauro e della Calabria tutta, che non ci stanno a essere etichettati come razzisti e che quotidianamente sono impegnati nel promuovere la
cultura del rispetto delle diversità, ma che ancora una volta vengono cancellati nella rappresentazione mediatica di un territorio che non corrisponde alla realtà.
Invitiamo tutti e tutte alla manifestazione di Sabato 23 giugno 2018 dalle ore 10.00 con partenza da Piazza De Nava (Reggio Calabria): per Soumaila Sacko e per proseguire la marcia per i
diritti sindacali e sociali dei braccianti e delle braccianti e di tutti i lavoratori della terra.
USB (Unione Sindacale di Base) – Coordinamento Lavoratori agricoli USB – Associazione maliana di solidarietà – Potere al Popolo – Sinistra Anticapitalista – Partito della Rifondazione Comunista Sinistra Europea – Partito Comunista Calabria – Fronte della Gioventù Comunista Calabria – Coalizione Internazionale Sans-Papiers Migranti e Rifugiati (Italia) – Movimento Migranti e Rifugiati – Associazione Ivoriani e West Africa – FuoriMercato Autogestione in Movimento – Associazione Rurale Italiana (ARI), membro del Coordinamento Europeo Via Campesina (ECVC) – Mimmo Lucano, Sindaco di Riace – Campagna LasciateCIEntrare – ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa) – Rete dei Comuni Solidali – Il Sud che sogna – Società dei territorialisti – Rete Restiamo Umani – Osservatorio sul disagio abitativo – SOS Rosarno – CoSMi (Comitato Solidarietà Migranti) – c.s.c. Nuvola Rossa – EquoSud – Ass. Yairaiha – Ass. Il Brigante Serra San Bruno – Ass. La Kasbah Cosenza – Ass. Magnolia – Ass. Ponti Pialesi – Ass. Un mondo di mondi – c.s.o.a Angelina Cartella – Spazio Autogestito Sparrow Cosenza – Sportello Sociale Autogestito Lamezia Terme – Comitato Piazza Piccola Cosenza – Comitato PrendoCasa Cosenza – CPOA Rialzo Cosenza – RASPA (Rete delle associazioni Sibaritide-Pollino per l’autotutela) – Comitato Verità Democrazia e Partecipazione Crotone – Rete Antirazzista Catanese – Arci provinciale Reggio Calabria – Arci provinciale Crotone – Circolo Arci “Il Barrio” – Circolo Arci “Gli spalatori di nuvole” – Circolo ARCI “Culture in… Movimento” – Legambiente Reggio Calabria – Collettiva AutonoMia – Non una di meno Reggio Calabria – Mani e Terra SCS Onlus – Cooperativa Agorà Kroton – Società Cooperativa Sankara – ReggioNonTace – Ciavula.it – Cobas telecomunicazioni Cosenza – Associazione dei Comuni della Locride – Francesca Danese, già Assessora alle Politiche Sociali, Salute, Casa ed Emergenza Abitativa del Comune di Roma – Circolo del Cinema “Cesare Zavattini” Reggio Calabria – Eleonora Forenza, Eurodeputata GUE/NGL – Progetto Diritti onlus – Transform Italia – Francesco Piobbichi, operatore sociale – Associazione “Il Viandante” – Collettivo studentesco Catanzaro – Gruppo Scuola Hospital(ity) School – Collettivo Mamadou Bolzano – Baobab Experience – A buon diritto
Restiamo umani a Reggio Calabria giornata a favore di rifugiati e richiedenti asilo
11:14 – 17 giugno 2018
Una grande festa dell’accoglienza dove parole d’ordine saranno contrasto all’odio e alla paura, pluralità e integrazione. Il 20 giugno dalle ore 18 in poi, in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato (#withRefugees), promossa dalle Nazioni Unite, anche Reggio Calabria scende in piazza con una manifestazione dal titolo ‘Restiamo Umani’, organizzata da una fitta rete di associazioni che operano da anni sul territorio.
L’evento apartitico ha come obiettivo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo che, quotidianamente, sono costretti a fuggire da guerra e violenza, lasciando i propri affetti e la propria casa.
Dietro ogni volto c’è una storia da raccontare, ma anche tanti miti da sfatare, per questo Restiamo Umani sarà da un lato, un’occasione per ascoltare le testimonianze di chi ha subito ricatti e umiliazioni, ma anche di chi è riuscito a ricostruire nella città dello Stretto, una nuova vita e una nuova comunità, dall’altro quella di fornire informazioni corrette su dati e statistiche, partendo proprio da slogan e fake news che circolano sul web.
Le associazioni promotrici della manifestazione non sono solo quelle che si occupano di accoglienza, a testimonianza che il tema dei migranti, è universale e deve coinvolgere tutti. Proprio per questo, tutti partecipanti saranno riuniti sotto i colori della bandiera della pace.
Hanno già aderito:
Abakhi, Acisjf Fata Morgana, Actionaid, Agedo, Agesci, Agiduemila, AMI Sezione di Reggio Calabria, Amnesty International- Gruppo Italia 292, Anpi,Arci Reggio Calabria, Arci Next, Arcigay, Artemide,Associazione Georgia in Calabria, Associazione Rifiuti Zero, Associazione Altea, Associazione A tu per tu, Associazione Cuore di Medea, Associazione WACG, Azimut- Calabria for Harambee, Azione Cattolica Diocesana, Banco Alimentare,Cai Sezione Reggio Calabria,Casa accoglienza Centro Castellini, Centro antiviolenza Casa Rifugio A. Morabito Progetto Incipit,Centro Agape,Centro Servizi Volontariato,Centro ascolto ‘Scalabrini’, Laici Scalabriniani, CISM RC, Chiesa valdese, Comunità Accoglienza Onlus, Comunità Papa Giovanni XXIII,Coop. Collina del Sole,Cooperativa Exodus, Cooperativa Il piccolo principe, Cooperativa Cisme, Cooperativa Camelot, Coordinamento Ecclesiale Diocesano di Prima accoglienza Reggio Calabria,Coordinamento per l’ambiente,Cosmi,CSI,CSC Nuvola Rossa,CVX, Differenziamo Differenziandoci,Don Cosciotti,Emergency, Libera, LP.PC (Patto civico), Maestri di Speranza, Masci Rc4, Masci Rc5,MEIC, Mèdecins du Monde,Migrantes, Mindoro Tamaraw RC,Moci, Museo Diocesano, Museo dello Strumento musicale,Open Lab Aps, Reggio non Tace, Reggio Veg,Unicef, USMI RC.
L’appuntamento è, dunque, per il 20 giugno alle ore 18 a Piazza Italia. Chi volesse aderire, come associazione, realtà del Terzo Settore, ente ed Istituzione o come singolo, può scrivere a [email protected]. L’elenco verrà aggiornato sull’evento Facebook ‘Restiamo umani’.
La strage silenziosa dei campi, dove italiani e migranti muoiono insieme
Negli ultimi sei anni i braccianti caduti sono più di 1.500. Immigrati e italiani. Nell’indifferenza generale. Il sindacalista Soumayla, ammazzato in Calabria il 2 giugno, lottava per i diritti di questi lavoratori.
di Antonello Mangano
Becky è morta tra le fiamme. Sacko, pochi giorni fa, è stato ucciso a fucilate mentre cercava delle lamiere per le baracche. Paola è morta di caldo. Marcus di freddo. Negli ultimi sei anni, almeno 1.500 lavoratori sono deceduti nei campi: bruciati vivi negli incendi dei ghetti, investiti da un treno, ammazzati dalla fatica o dai “padroni”.
Da Nord a Sud, l’agricoltura nel nostro Paese ha il volto della guerra. Muoiono italiani, romeni, africani, arabi. Di caporalato, come i polacchi in Puglia. Di mafia, come gli algerini a Rosarno. E italiani, magari per incidenti col trattore. Storie che finiscono nelle cronache locali per poi essere dimenticate in fretta, invisibili alle statistiche ufficiali, registrate come “difetti in itinere”.
Fiamme nel ghetto
«Fuoco, fuoco, fuoco». Sono le due di notte del 27 gennaio 2018. Chi si sveglia all’improvviso. Chi prova a uscire dal torpore del sonno. La plastica diventa incandescente. I riflessi delle fiamme illuminano la notte. Duemila persone corrono più forte che possono. Ma Becky Moses, 26 anni, non ce la fa a uscire dalla baracca di legno, plastica e cartone. E muore arsa viva. Nella bara di zinco finiscono i pochi resti carbonizzati, portati via tra le lacrime delle altre nigeriane e gli sguardi attoniti degli uomini.
Becky viveva nel ghetto vicino a Rosarno, uno dei tanti dove vivono in condizioni infernali i braccianti impegnati nelle raccolte. Arance in Calabria, pomodori in Puglia.
Dalla stessa baraccopoli, o da quello che ne restava dopo il rogo, è partito domenica scorsa Soumayla Sacko, 29 anni, originario del Mali, per andare a cercare delle lamiere per le baracche dei suoi compagni in una vicina fabbrica abbandonata. Qualcuno lo ha puntato col fucile e gli ha sparato colpendolo dritto in testa. Più fortunati sono stati i due ragazzi che erano con lui, presi anche loro di mira in questo tiro al bersaglio, ma riusciti a scappare. E a denunciare quanto successo.
Le campagne rosarnesi sono un grande cimitero. Raccontano storie di ghanesi disperati che si impiccano nelle fabbriche diroccate o di braccianti investiti mentre tornano dal lavoro in bici su strade male illuminate.
Dominic Man Addiah, per esempio, è scappato alla guerra in Liberia per morire in Europa. Dormiva in auto ai bordi del ghetto di Rosarno. Era il 2013 ed è morto di freddo. Marcus era nato in Gambia e aveva girato mezzo mondo prima di arrivare nelle campagne calabresi. Era malato: è morto alla fine del 2010 nell’ospedale di Lamezia, provincia di Catanzaro, assistito dai volontari che hanno dovuto comunicare la notizia ai familiari in Africa.
La morte di Sekine, poi, è semplicemente senza senso. Siamo ancora nel ghetto, giugno 2016, tra gli spacci informali che vendono burro di arachidi e antidolorifico in bustine. Un gruppo di agenti – sei tra poliziotti e carabinieri – interviene per sedare una rissa. Sekine Triore, 27 anni, è evidentemente fuori di testa, «in stato di alterazione psicofisica», annota il verbale. La dinamica è controversa. Avrebbe un coltello in mano, gli agenti lo affrontano. Lui ne colpisce uno all’occhio, questo reagisce. Un proiettile trafora l’addome. Sekine morirà poco dopo all’ospedale di Polistena. Il processo – “eccesso di legittima difesa”, il reato ipotizzato – è ancora alle udienze preliminari. Dopo quello sparo si teme una rivolta. Ma ci sarà soltanto un corteo con cartelli di cartone.
E le morti dei braccianti non avvengono solo d’estate. Tra Rossano e Corigliano, ogni inverno, oltre diecimila lavoratori dell’Est arrivano per la raccolta delle clementine. Nel novembre del 2012 lo scontro tra un trenino diesel e un furgone con sei rumeni di ritorno dai campi è spaventoso: l’impatto lascia un ammasso di lamiere e sangue. Poi arrivano due ditte di pompe funebri: «Li abbiamo visti prima noi», dicono, e si contendono i corpi a calci e pugni. Un cadavere rotola sul terreno. I parenti delle vittime non ne possono più: «Mettete la testa in un vaso. Vergognatevi. C’è il nostro sangue qui». Per i congiunti è l’inizio di una trafila del dolore: non avranno neanche il risarcimento Inail.
A Foggia invece gli africani ricordano le fiamme del marzo 2017. Allora i morti furono due: Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, 33 e 36 anni, entrambi del Mali. Uno ha vissuto gli ultimi istanti sulla sua branda, avvolto dalle fiamme, l’altro mentre cercava la salvezza sulla porta della baracca. Il vento ha propagato il fuoco. Poteva essere una strage. «Se la sono cercata», secondo alcuni: non avevano obbedito all’ordinanza di sgombero del ghetto e sono rimasti ostinatamente lì, dove le condizioni sono orribili ma anche dove i caporali vengono a portare lavoro.
Centinaia di desaparecidos
Asfissiati o carbonizzati, a bastonate e a coltellate, investiti da un Tir o colpiti da infarto. Persino annegati nei vasconi per la raccolta dell’acqua. Alessandro Leogrande – per una strana maledizione morto d’infarto a 40 anni lo scorso novembre – aveva raccolto in un libro le testimonianze dei parenti dei polacchi scomparsi: 119 dal 2000 al 2006. Inghiottiti dalle campagne pugliesi. Attirati da connazionali e schiavizzati a morte.
Anche a Rosarno, negli anni 90, in tanti hanno perso la vita senza un perché. Ma a differenza della Puglia, uccisi da italiani e non da connazionali. Il motivo? Difficile da decifrare. In quegli anni non c’erano né Ong sul territorio, né una particolare attenzione mediatica. Le campagne del profondo Sud erano letteralmente al buio. In pochissimi avevano a cuore la sorte di lavoratori senza volto, nome, documenti. I loro cadaveri sparivano nel fango dei campi, seppelliti in casolari, uccisi a fucilate.
Un bilancio è impossibile. Tra i pochi nomi sottratti all’oblio, due ragazzi di 20 anni. Abdelgani Abid e Sari Mabini, algerini. Attirati in auto con la promessa di un lavoro in campagna e uccisi a bruciapelo in una zona isolata. Era il 1992. Saranno solo i primi di una lunga serie di morti e feriti.
Uccisi dalla fatica
Per lo Stato, Paola si occupava di “direzione aziendale e consulenza gestionale”. Almeno è quello che dicono i registri Inail. Invece stava da mattina a sera con la testa verso l’alto e le mani protese a pulire i grappoli d’uva. E non era neanche assunta direttamente, ma “somministrata” da un’agenzia interinale. Il volto moderno del caporalato.
A 49 anni, si alzava ogni notte alle tre, prendeva un autobus da San Giorgio Jonico alle campagne di Andria e toglieva i chicchi più piccoli dai grappoli. Quelli che impediscono agli altri di crescere. Tecnicamente si chiama acinellatura. È uno dei lavori più pesanti e peggio pagati in agricoltura. In Puglia, tradizionalmente, è un lavoro da donne. Mani delicate e poche pretese. «Meno di trenta euro a giornata, nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52 euro», dicono i sindacalisti.
Quel giorno, sotto il tendone, c’erano quaranta gradi. Il dolore alla cervicale era forte, ma con quel lavoro è normale. Poi lo svenimento, occhi sbarrati, le urla delle colleghe. Mezz’ora sul terreno. A prenderla non è venuta l’ambulanza, ma direttamente il carro funebre.
Il 13 luglio del 2015 gli italiani scoprono un mondo nuovo. Morire di sfruttamento non è solo questione da africani che vivono nella “clandestinità”. Riguarda anche una fetta di mondo “normale”: italiani assunti da agenzie interinali.
L’estate del 2015 sarà ricordata per le temperature sopra la media. E per i caduti. Morti di fatica da Carmagnola, provincia di Torino, a Vittoria, vicino Ragusa. Almeno, la fine di Mohamed Abdullah è servita a qualcosa: raccontare il percorso dei pomodori dal caporalato alle nostre tavole. Il sudanese è morto di infarto nei pressi di Nardò. Nel corso delle indagini, i carabinieri di Lecce hanno seguito a ritroso il percorso degli ortaggi. Una piccola ditta del leccese assoldava un caporale, che formava le squadre per la raccolta. I pomodori finivano a una cooperativa di Andria che riforniva marchi importanti: una vicino Parma, una nei pressi di Bologna, un altro nel napoletano e più in là fino al mercato inglese.
Invisibili alle statistiche
La “Spoon river” dei campi italiani è fatta di uomini e donne senza volto. Ma anche di numeri evanescenti. Prendiamo il 2015. Secondo l’Inail, sono morte soltanto tredici persone nei campi. Eppure quell’anno si è registrata una vera ecatombe. Dove sono finiti Stefan, Paola, Mohamed, Zakaria, Vasile, Arcangelo, Ioan? Non li troviamo sotto la voce agricoltura, ma tra i 336 deceduti non assegnati a una categoria, inseriti nel sommerso. Del resto, i rapporti dell’Ispettorato del lavoro dicono che – nel settore primario – il 50 per cento delle imprese ispezionate risulta irregolare.
Ma allora quanta gente è morta nei campi? Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro nel 2015 sono stati 518. In agricoltura si registrerebbe il 37 per cento del totale degli incidenti mortali.
La differenza rispetto ai dati ufficiali la spiega Carlo Soricelli, anima dell’Osservatorio, un metalmeccanico bolognese in pensione che da dieci anni conta tutti gli infortuni mortali, spulciando ogni giorno la stampa: «L’Inail considera solo i propri assicurati, escludendo partite Iva, artigiani, liberi professionisti che hanno altre assicurazioni».
L’Osservatorio inserisce nelle sue statistiche anche tutti gli incidenti “in itinere”, cioè andando o tornando dal luogo di lavoro. Ma su una cosa sono tutti d’accordo. Muoiono soprattutto gli italiani. Nella fascia del sommerso – sempre relativa al 2015 – i dati Inail parlano di 272 italiani deceduti su 336 (l’81 per cento). Al secondo posto i rumeni (27 casi). Terzi, a grande distanza, gli indiani (9). Anche l’Osservatorio conferma che la stragrande maggioranza dei morti è italiana. Un dato rimane costante: una vittima su cinque – in tutte le categorie – è uccisa dal trattore.
«Il terreno può nascondere insidie pazzesche: spesso sembra asciutto ma sotto è impregnato d’acqua. Il peso del trattore in un terreno in pendenza è micidiale», dice Soricelli. Così un agricoltore di Sessame, provincia di Asti, è morto decapitato: prima il ribaltamento, poi un filare che gli trancia il capo. È il maggio del 2017. Si tratta soltanto di uno dei tantissimi casi di una strage invisibile che coinvolge in gran parte italiani. La maggior parte dei quali oltre i 50 anni.
I numeri – raccolti dall’osservatorio bolognese – sono spaventosi. Centotrentotto morti nel 2017, oltre 1.400 negli ultimi dieci anni. Per evitare almeno questa mattanza basterebbe poco. Per esempio la legge europea che prevede uno specifico patentino. Ma l’applicazione è stata ritardata più volte. L’ultima, giusto un anno fa.
“BENVENUTI IN FAMIGLIA!” Come un’eco di preghiera, arriva da Valencia alla Cita una stessa invocazione: “All I have to say, thank you God!”- hanno cantato i sopravvissuti dell’Aquarius, stremati dalle violenze prima libiche e poi italiane, compiute “non in nostro nome”, in violazione di Trattati e Convenzioni Internazionali.
CHI RENDERA’ GIUSTIZIA A MADRE AFRICA, che dopo aver partorito l’umanità, continua ad essere da noi depredata “a casa loro”? Certamente non l’egoismo di popoli che si illudono di blindarsi in un sovranismo nazionalista e antievangelico. Sarà piuttosto la testimonianza quotidiana di comunità cristiane accoglienti a rispettare “il diritto alla speranza di chi non dovrà mai più essere lasciato in balìa delle onde dopo aver lasciato la sua terra affamato di pace e giustizia”(papa Francesco)
QUATTRO FIGLI IN UMANITA’ sono stati battezzati stamattina alla Cita e l’antichissima voce dal Cielo –“Tu sei mio figlio, l’amato!”- è risuonata a conferma della vocazione di comune appartenenza all’unica famiglia umana. Per questo, oggi e sempre e nonostante tutto, canteremo con gioia “BENVENUTI IN FAMIGLIA!”
Perchè MSF non ha firmato il Codice di Condotta ONG per le operazioni di ricerca e soccorso?
Nel corso di queste ultime settimane MSF ha avuto una serie di scambi e discussioni aperte e costruttive con il Ministero dell’Interno sul Codice di Condotta. Durante questi incontri abbiamo espresso una serie di preoccupazioni sul documento, richiedendo chiarimenti su temi specifici e sollecitando sostanziali cambiamenti che ci avrebbero messo nelle condizioni di poterlo firmare.Riconosciamo che sono stati fatti sforzi significativi per rispondere ad alcune delle osservazioni presentate da MSF e dalle altre organizzazioni, tuttavia dopo un’attenta valutazione della versione conclusiva del codice, permangono una serie di preoccupazioni e richieste lasciate inevase.
Dal nostro punto di vista, il Codice di Condotta non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio in mare, non riconosce il ruolo di supplenza svolto dalle organizzazioni umanitarie e soprattutto non si propone di introdurre misure specifiche orientate in primo luogo a rafforzare il sistema di ricerca e soccorso.
Al contrario, riteniamo che per la formulazione ancora poco chiara di alcune parti, il Codice rischi nella sua attuazione pratica di contribuire a ridurre l’efficienza e la capacità di quel sistema. Le linee di riferimento e l’impianto generale del Codice sono rimasti sostanzialmente immutati e, per questa ragione, con enorme dispiacere riteniamo che allo stato attuale non sussistano le condizioni perché MSF possa sottoscrivere il Codice di Condotta proposto dalle autorità italiane.
Quali sono le principali preoccupazioni di MSF riguardo al codice?
Prima di entrare nel merito delle motivazioni che sono alla base di questa decisione è importante sottolineare che le operazioni di ricerca e soccorso di MSF sono sempre state condotte nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali e sotto il coordinamento della guardia costiera italiana (MRCC di Roma).
1) Non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio di vite in mare
La responsabilità di organizzare e condurre le operazioni di ricerca e soccorso in mare risiede – come è sempre stato – negli Stati. L’impegno di MSF nelle attività di ricerca e soccorso mira a colmare un vuoto di responsabilità lasciato dai governi che auspichiamo sia solo temporaneo. Non a caso da tempo chiediamo agli stati UE di creare un meccanismo dedicato e preventivo di ricerca e soccorso che integri gli sforzi compiuti dalle autorità italiane. Dal nostro punto di vista il codice di condotta non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio in mare, non riconosce il ruolo di supplenza svolto dalle organizzazioni umanitarie e soprattutto non si propone di introdurre misure specifiche orientate in primo luogo a rafforzare il sistema di ricerca e soccorso.
2) Le limitazioni al trasbordo su altre navi riducono l’efficienza e la capacità di salvare vite in mare
La richiesta delle autorità italiane che le navi di soccorso concludano le loro operazioni provvedendo allo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro di destinazione, invece che attraverso il loro trasbordo su altre navi, riduce l’efficienza e la capacità di salvare vite in mare. In questo modo si crea un sistema di andata e ritorno di tutte le navi di soccorso verso i luoghi di sbarco, che avrà come conseguenza una minore presenza di quelle navi nella zona di ricerca e soccorso. Le stesse Linee guida per il Trattamento delle persone soccorse in mare raccomandano che le navi impegnate in operazioni SAR portino a termine il soccorso il più presto possibile, anche attraverso i trasferimenti ad altre navi se necessario.
3) Principi umanitari a rischio
Il codice inoltre non fa alcun riferimento ai principi umanitari e alla necessità di mantenere la più assoluta distinzione tra le attività di polizia e repressione delle organizzazioni criminali e l’azione umanitaria, che non può essere che autonoma e indipendente. Il rigoroso rispetto dei principi umanitari riconosciuti a livello internazionale è per noi un presupposto irrinunciabile. Essi rappresentano la sola garanzia di poter accedere alle popolazioni in stato di maggiore necessità ovunque nel mondo, assicurando allo stesso tempo ai nostri operatori un sufficiente livello di sicurezza. Ogni compromesso su questi principi è potenzialmente in grado di ridurre la percezione di MSF come organizzazione medico‐umanitaria effettivamente indipendente e imparziale.
4) L’inserimento del Codice nel contesto attuale del Mediterraneo
Le strategie messe in atto dalle autorità italiane ed europee per contenere migranti e rifugiati in Libia attraverso il supporto alla Guardia Costiera Libica sono, nelle circostanze attuali, estremamente preoccupanti. La situazione in Libia è drammatica. Le persone di cui ci prendiamo cura nei centri di detenzione intorno a Tripoli e quelle che soccorriamo in mare condividono le stesse vicende di violenza e trattamenti disumani. La Libia non è un posto sicuro dove riportare le persone in fuga. Una volta intercettate, saranno condotte in centri di detenzione dove, come le nostre équipe che lavorano in quei centri testimoniano ogni giorno, sono a rischio permanente di essere detenute in modo arbitrario e indefinito, trattenute in condizioni disumane e/o sottoposte a estorsioni o torture, comprese violenze sessuali. Ovviamente le attività di ricerca e soccorso non costituiscono la soluzione per affrontare i problemi causati dai viaggi sui barconi e le morti in mare, ma sono necessarie in assenza di qualunque altra alternativa sicura perché le persone possano trovare sicurezza. Contenere l’ultima e unica via di fuga dallo sfruttamento e dalla violenza non è dal nostro punto di vista accettabile. Il recente annuncio dell’operazione militare italiana nelle acque libiche proposta nel momento in cui il Codice di Condotta è stato introdotto costituisce un elemento di ulteriore preoccupazione che ci ha confermato la necessità di marcare l’assoluta indipendenza delle nostre attività di soccorso in mare dagli obiettivi militari e di sicurezza.
MSF continuerà le sue attività di ricerca e soccorso in mare?
Si, MSF continuerà a salvare vite in mare. Anche se MSF non è nelle condizioni di poter firmare il Codice di Condotta, l’organizzazione rispetta le leggi nazionali e internazionali, coopera sempre con le autorità italiane e conduce tutte le operazioni in pieno coordinamento con l’MRCC e in piena conformità alle norme vigenti. Allo stesso tempo comunichiamo la nostra intenzione di continuare a rispettare quelle disposizioni del Codice che non sono contrarie ai punti problematici per MSF, tra cui quelle relative alle capacità tecniche, alla trasparenza finanziaria, all’uso dei trasponder e dei segnali luminosi. Confermiamo inoltre l’impegno a coordinare ogni nostra iniziativa con l’MRCC e anche a garantire l’accesso a bordo di funzionari di polizia giudiziaria, secondo quanto sopra espresso, così come la collaborazione costruttiva con le autorità italiane, nel pieno rispetto degli obblighi di legge.
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo… Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare
di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo. (Alex Zanotelli)Se tremi per l’indignazione davanti all’ingiustizia, allora sei mio fratello …Nessuno è libero finché anche un solo uomo al mondo sarà in catene… Ho tanti fratelli che non riesco a contarli e una sorella bellissima che si chiama libertà… Vale milioni di volte di più la vita di un solo essere umano che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra (Ernesto Che Guevara)
GLI INCONTRI COMINCERANNO ALLE 20.30
PROGRAMMA
26 Luglio
Rete Migranti “Restiamo Umani”
Re-Stiamo Umani
23 agosto
Mattanza e No Carbone
Suoni e parole: echi della Ri-Partenza
30 agosto
ReggioNonTace con i pm G. Lombardo e S. Musolino
Ri-Prendiamoci la città: quale economia virtuosa?
13 Settembre
CISTOF e Orchestra giovanile dello Stretto con Saverio Pazzano
E’ arrivato il Tempo di Re-Stare
20 Settembre
Microdanisma:
La finanza solidale per Ri-Esistere: il progetto Mag delle Calabrie
Domani siete invitati alla conferenza stampa di lancio dell’iniziativa presso la sala Arrupe della Chiesa degli Ottimati alle ore 15.30.
“Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia”. Così il comandante del Ros Giuseppe Governale ha sintetizzato l’operazione Jonny che ha portato in carcere il governatore della Misericordia di Isola Leonardo Sacco ed il parroco don Edoardo Scordio, sottoposti a fermo insieme ad altre 66 persone, perché accusate di avere collaborato con la cosca Arena a lucrare sui finanziamenti destinati all’assistenza dei migranti. “La ‘ndrangheta – ha detto Governale – presceglie i suoi uomini e li fa lavorare per i proprie interessi. E tra questi c’erano Sacco e Scordio. Quest’ultimo ha infangato la Misericordia che fa tanto bene. Sacco, a cui lo Stato affida la tutela di persone in difficoltà, nel 2020 denunciò un reddito di 800 euro al fisco. Stamani, nel corso della perquisizione a lui ed a persone a lui vicine, abbiamo trovato 200 mila euro”. “Edoardo Scordio – ha aggiunto il comandante del Ros – è un parroco di provincia antitesi di quello che il Santo Padre descrive come uno dei più grandi pericoli della Chiesa. La Chiesa, ha detto il Papa, ha bisogno di persone con una sola vita, di servire il prossimo e le persone in difficoltà. In questo caso questo parroco ha dato indicazione di una doppia vita, di una vita al servizio di chi per tanti anni, per troppo tempo, ha messo sotto i propri piedi la gente di questa terra”. Un sacerdote, ha spiegato Governale, che nel 2007 risulta avere preso 650 mila euro dalla Misericordia di Isola Capo Rizzuto. Il comandante del Ros ha anche spiegato il nome dato all’operazione, Jonny: “Era in nome di battaglia di un maresciallo del reparto morto per una grave malattia mentre stava indagando sul Cara di Isola”.
“In Calabria è mancato il controllo dello Stato sul gioco online. Un business milionario su cui la cosca Arena ha sbaragliato la concorrenza con una rete gestita da una società maltese”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto nel corso della conferenza stampa tenutasi questa mattina per illustrare i particolari dell’operazione Jonny. “Grazie alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia – ha aggiunto – abbiamo scoperto come la cosca potesse contare su un software neanche tanto sofisticato che consentiva di eludere il prelievo fiscale”. In un anno e mezzo, ha reso noto il colonnello Pantaleo Cozzoli comandante provinciale della Guardia di finanza di Crotone, il clan, grazie al gioco online, avrebbe “incamerato circa un milione e 300mila euro. Oggi abbiamo sequestrato beni per 12 milioni di euro e durante le perquisizioni abbiamo rinvenuto migliaia di euro in contanti”. Gli uomini del clan Arena avevano anche il monopolio sul traffico di reperti archeologici. “La cosca – ha spiegato il capo della Mobile di Crotone Nicola Lelario – aveva la prelazione sugli oggetti che se non interessavano agli uomini della ‘ndrina venivano venduti sul mercato nero grazie anche all’intermediazioni di consulenti ed esperti, anche molto conosciuti, del settore”. Ma, come spiegato dal direttore dello Sco Alessandro Giuliano, “la cosca aveva un alto grado di pervasività in ogni settore della vita economica della provincia di Crotone e Catanzaro”. Le indagini hanno svelato la penetrazione della cosca Arena nel capoluogo calabrese: “Catanzaro – ha sottolineato Luberto – non è una isola felice. Le cosche sono radicate e si impongono con intimidazioni violenti e drammaticamente simbolici”. Il questore di Catanzaro Amalia Di Ruocco e il comandante provinciale dei carabinieri Marco Pecci hanno rivolto un accorato appello ai cittadini affinché denuncino i loro aguzzini e facciano “squadra con le forze dell’ordine”.
Forse allertati da qualche articolo di giornale, alcuni degli indagati finiti nella rete tesa dalla Dda di Catanzaro con l’operazione “Jonny” sulla gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto temevano di essere intercettati. Lo ha rivelato il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto, riferendo il contenuto di alcune riprese video effettuate dagli inquirenti. “L’aspetto piu’ inquietante del centro di accoglienza – ha detto – e’ che abbiamo notato articoli che praticamente avvisavano gli interessati delle indagini. Ho visto Poerio e Sacco (due dei fermati), ndr mettere i cellulari su una siepe e allontanarsi e li’ ho capito che tutti sapevano e temevo che non saremmo riusciti a carpire i segreti piu’ intimi della cosca, come invece accaduto con fotogrammi della consegna del denaro”.
Il ruolo del consigliere comunale di Isola nel meccanismo che allontanava i soldi dai servizi del Cara per portarli nelle casse della ‘ndrangheta Lunedì, 15 Maggio 2017 14:58 Pubblicato in Cronaca
CATANZARO Consigliere comunale, recordman di preferenze, sempre in prima fila nelle manifestazioni antindrangheta. In realtà, secondo le Dda, cosciente prestanome di uno dei principali ingranaggi societari che hanno permesso ai feroci clan di Isola Capo Rizzuto di mettere le mani sull’accoglienza. Un business per la ‘ndrangheta, un quotidiano inferno per gli ospiti del Cara, le cui condizioni sono finite più volte sotto i riflettori. È per questo che il consigliere comunale Pasquale Poerio è finito in carcere con la pesante accusa di essere uno dei partecipi all’associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetistico, con il compito precipuo di collaborare nella «distrazione dei capitali serventi la gestione del catering per il Cara, apprestando all’uopo falsi documenti contabili e utilizzando, quali soggetti contabili emittenti, le imprese commerciali dalle stesse gerite», ma anche di «acquisire quote sociali di imprese appositamente costituite per veicolare il danaro provento delle illecite condotte di distrazione, sì da ripulire lo stesso per essere destinato in parte ad incrementare la c.d. bacinella della cosca». Traduzione, il politico era uno degli ingranaggi del sistema di scatole cinesi che ha permesso al clan di rubare i soldi dell’accoglienza per finanziare nuove imprese criminali. Rubava ai poveri (e senza diritti) per dare ai ricchi (e presunti ‘ndranghetisti). E al parroco, don Scordio, che grazie al business dell’accoglienza ha incamerato milioni. Poerio – spiegano gli investigatori – «non conduce alcuna strategia aziendale, sia essa di natura meramente amministrativa sia di natura organizzativa, che invece risulta condotta, per il tramite di Poerio Antonio, da quest’ultimo, da Poerio Fernando e da Sacco Leonardo». Lo conferma la segretaria della società, che interrogata dai finanzieri assicura di aver avuto a che fare con Pasquale Poerio, ma di essere stata assunta e di aver sempre trattato con Leonardo Sacco e Antonio Poerio. Ma lo ammette – intercettato – anche quest’ultimo, che a Salvatore De Furia raccomanda: «Tu evita di farti vedere, io qua manco li faccio entrare». E a maggior chiarezza spiega: «Io non mi trovo il nome mio qua, che è a nome di altri perché apposta, perché mi vedono con quello, mi vedono con quell’altro … non va bene!». “Qua” è la società Quadrifoglio. Ma di fortuna oggi sembra avergliene portata poca.
Intervista. Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm: «Servono soluzioni diverse nell’accoglienza». Per l’Italia l’appello a un volontariato «responsabile, professionale, ben gestito, che coinvolga le istituzioni»
«Una morte atroce. Sandrine è spirata sola, disperata, riversa in un bagno. Impossibile non sentirsi chiamati in causa nella “nostra Africa”, soprattutto per noi che abbiamo scolpito nel cuore il mandato evangelico Euntes curate infirmos…».
Dante Carraro, 58 anni, cardiologo, ordinato sacerdote nel 1991, dall’estate 2008 è il direttore di Medici con l’Africa Cuamm, l’ong padovana che da più di 60 anni si preoccupa di garantire il diritto alla salute nel continente. È presente in Angola, Etiopia, Mozambico, Sud Sudan, Sierra Leone, Tanzania, Uganda con 827 operatori internazionali e 72 progetti di cooperazione più un centinaio di micro-realizzazioni di supporto, con cui appoggia 14 ospedali, 35 distretti medici, tre scuole infermieri e due università. Il bilancio 2015 del Cuamm ammonta a 21,7 milioni di euro di cui ben 19,4 investiti direttamente negli interventi, compresa l’ultima campagna dedicata al parto sicuro.
Qual è stata la reazione al «caso Cona» che in questi giorni ha riportato in primo piano la condizione dei profughi?
Confesso che mi fa venire le lacrime agli occhi pensare alla ragazza ivoriana di 25 anni stroncata da un’embolia polmonare. Atroce solo pensare ai suoi ultimi istanti di vita, alla ricerca di ossigeno senza più riuscire a respirare. Per di più, disperata e sola, abbandonata in un bagno. Sandrine è morta così, a poche decine di chilometri dal Cuamm. Un dramma anche per noi che siamo vicini quotidianamente alle donne africane affinché la gravidanza e la maternità siano sorrette da consapevolezza, impegno e un minimo accompagnamento sociale. Altrimenti, restano abbandonate a loro stesse. Con i nostri volontari assicuriamo visite mediche, ma anche ascolto, accompagnamento, coinvolgimento della famiglia, sicurezza e affetto. Devo dire che quest’attività a lunga gittata per lo più riesce, compresa l’educazione alla maternità responsabile in ogni suo aspetto. Che poi a Cona accada un episodio così tragico, davvero ti distrugge…
È il «Veneto africano» rimosso fino a quando non ci scappa il morto. Davvero non c’è alternativa ai migranti «ospitati» in massa nelle ex strutture militari?
Come sempre, donne e minori sono i più deboli, soggetti indifesi e troppo spesso esposti al peggio. In Africa come qui da noi, se la gestione si dimostra sostanzialmente carente finisce per produrre i drammi più inquietanti. Nell’ex base di Conetta, non c’è dubbio che una concentrazione così densa di persone rappresentasse da tempo una sorta di bomba ad orologeria destinata a deflagrare. Con 1.500 profughi ammassati, prima o poi i fattori di rischio avrebbero avuto la meglio. Non mi permetto di giudicare né di accusare nessuno, tuttavia mi sembrano evidenti almeno tre questioni.
La prima e più impellente?
Vanno cercate e trovate soluzioni diverse nell’accoglienza. Una distribuzione dei profughi più diffusa nel territorio, con quantità gestibili e in modalità più comprensibili ai residenti.
E poi cosa altro «insegna» questa vicenda?
Una sola coop fa fatica, comunque, perché nell’accoglienza servono anche le istituzioni. La morte di Sandrine richiama sindaci, prefetti, governo a riprendere in mano la situazione, senza deleghe. La terza questione riguarda il volontariato. Non c’è dubbio che in Italia si pone sempre più il tema dei migranti con un appello che chiama in causa il volontariato. Ma responsabile, professionale, ben gestito, che coinvolge sempre le istituzioni. Insomma un intervento competente, che assicuri condizioni idonee. Come Cuamm in Africa con i progetti sul campo vogliamo rafforzare il sistema sanitario locale: il volontariato non è supplenza, ma coinvolgimento.
In Italia qual è la vostra esperienza in situazioni di «emergenza» con i migranti costretti in condizioni limite?
A Rignano da un anno e mezzo, i nostri volontari e medici ogni fine settimana sono presenti con il camper per le centinaia di ghanesi che nel Foggiano raccolgono pomodori e sopravvivono in un ghetto. Ovviamente, l’assistenza non solo sanitaria è offerta senza un euro in cambio. Garantiamo un servizio essenziale temporaneo, sollecitando le istituzioni: con l’assessorato regionale c’è, appunto, un costante coinvolgimento per poter risolvere questa situazione altrettanto drammatica.
foto e video per gentile concessione Maurizio Marzolla
Riace 31/12/2016 – Una partecipazione massiccia e convinta, e non poteva essere altrimenti. La Calabria che lotta dal basso si è fatta scudo attorno al suo simbolo di eccellenza, il Sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Esempio per il mondo intero di accoglienza e visione altra della gestione pubblica. Così il primo cittadino ha ritirato le dimissioni presentate nei giorni scorsi dopo alcuni attacchi anonimi sulla rete. Una decisione condivisa da tutti i consiglieri comunali di maggioranza e opposizione
Compatta la vicinanza al Sindaco. Tra i tantissimi presenti: il Governatore Mario Oliverio: Mimmo- ha detto Oliverio- ha saputo guidare un processo che ha fatto di Riace un simbolo, un esempio dell’accoglienza, utile alla stessa Europa, in una fase storica che è caratterizzata da un esodo che spinge milioni di uomini verso l’Europa, verso il nostro Paese.
In questo contesto, Lucano, animato dalla sua passione, dai suoi ideali, ha saputo affermare Riace come simbolo che ha assunto una dimensione internazionale. Qui l’accoglienza è una pratica di vita; lo SPRAR è utilizzato per fare accoglienza vera, per costruirne la rete che lo sostanzi. Chi pensa di infamare, di infangare, prescindendo da questa realtà, fa male a se stesso.” “Su Riace- ha proseguito Oliverio- non è consentito a nessuno buttare fango e sospetti. Riace è un modello e in quel modello c’è la risposta a tante spinte che alimentano le paure.
Oggi sono qui non solo per l’ amicizia che a lui mi lega, ma per chiedere di non fare prevalere la rinuncia.” “Sono qui per chiederti di difendere una impostazione destinata a crescere, non solo per Riace. Il contrario sarebbe un fatto disastroso, una picconata al cuore di un progetto e di una idea” ha spiegato il Presidente della Regione rivolgendosi al sindaco.
“Ribadisco in questa occasione , ancora, il pieno sostegno della Regione- ha concluso Oliverio- , perché sono convinto che, come Calabria, proseguire questa esperienza significa e significherà fare prevalere l’immagine della nostra terra per come è nel profondo, quella che crede e pratica il rispetto delle persone, dei valori. La Calabria è qui con te e ti chiede di andare avanti.”
Reggio Calabria 28/12/2016 – Non sono riusciti a fermarlo con le elezioni e nemmeno con le minacce. Ora ci provano con la diffamazione anonima, uno dei sistemi più vigliacchi. Ma lo stesso non ci riusciranno, perché Domenico Lucano non è solo. Riace è un esempio per molti, per troppi, non possiamo essere fermati soprattutto in questo momento di grandi cambiamenti epocali.
Reggio Calabria 26/1272016 – La Cgil Reggio Calabria Locri esprime vicinanza al sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che riportiamo nel suo testo integrale: Caro Mimmo, ti esprimiamo tutta la nostra vicinanza in questo momento di sconforto dovuto a quella becera macchina del fango che puntualmente cerca di colpire e di scalfire l’operato di personalità come te, che in un territorio di continue brutture e scandali amministrativi, danno lustro a questa nostra terra e all’intera nazione.
Reggio Calabria 22/12/2016 – A seguito dell’incresciosa vicenda che ha duramente colpito Mimmo Lucano, sindaco di Riace dimessosi dopo la diffusione di una registrazione in cui viene accusato di aver pilotato un appalto, l’Arci Comitato Provinciale di Reggio Calabria esprime la propria solidarietà all’ex primo cittadino. Fino a qualche mese fa, il nome di Lucano era associato a quello di un sindaco, che con il suo modello di integrazione ha fatto della piccola cittadina di Riace, un modello di solidarietà e diritti.
Riace 21/12/2016 – Apprendiamo con profondo rammarico dai social network la decisione di Domenico Lucano, Sindaco di Riace, di presentare le dimissioni dal suo incarico, che ha reso lui e la piccola cittadina calabrese famosi in tutto il mondo. Questa sofferta decisione segue una campagna denigratoria effettuata sempre sui social e, pare, sfociata anche in alcune denunce.
Riace 21/12/2016 – Il Pd Calabria chiede a Mimmo Lucano di andare avanti, di non interrompere quel cammino di emancipazione e preziosa integrazione che da anni sta portando avanti nella sua comunità. “Comprendiamo – spiega il segretario regionale del Pd Calabria, Ernesto Magorno – lo stato d’animo di un amministratore che per tutto il mondo rappresenta un esempio e un modello da seguire, ci compenetriamo nei sentimenti di chi in maniera vile diviene oggetto di una indegna operazione mistificatoria.