LA STRAGE SILENZIOSA DEI CAMPI DOVE ITALIANI E MIGRANTI MUOINO INSIEME

La strage silenziosa dei campi, dove italiani e migranti muoiono insieme

Negli ultimi sei anni i braccianti caduti sono più di 1.500. Immigrati e italiani. Nell’indifferenza generale. Il sindacalista Soumayla, ammazzato in Calabria il 2 giugno, lottava per i diritti di questi lavoratori.

di Antonello Mangano

La strage silenziosa dei campi, dove italiani e migranti muoiono insieme

Becky è morta tra le fiamme. Sacko, pochi giorni fa, è stato ucciso a fucilate mentre cercava delle lamiere per le baracche. Paola è morta di caldo. Marcus di freddo. Negli ultimi sei anni, almeno 1.500 lavoratori sono deceduti nei campi: bruciati vivi negli incendi dei ghetti, investiti da un treno, ammazzati dalla fatica o dai “padroni”.

Da Nord a Sud, l’agricoltura nel nostro Paese ha il volto della guerra. Muoiono italiani, romeni, africani, arabi. Di caporalato, come i polacchi in Puglia. Di mafia, come gli algerini a Rosarno. E italiani, magari per incidenti col trattore. Storie che finiscono nelle cronache locali per poi essere dimenticate in fretta, invisibili alle statistiche ufficiali, registrate come “difetti in itinere”.

Fiamme nel ghetto
«Fuoco, fuoco, fuoco». Sono le due di notte del 27 gennaio 2018. Chi si sveglia all’improvviso. Chi prova a uscire dal torpore del sonno. La plastica diventa incandescente. I riflessi delle fiamme illuminano la notte. Duemila persone corrono più forte che possono. Ma Becky Moses, 26 anni, non ce la fa a uscire dalla baracca di legno, plastica e cartone. E muore arsa viva. Nella bara di zinco finiscono i pochi resti carbonizzati, portati via tra le lacrime delle altre nigeriane e gli sguardi attoniti degli uomini.
Becky viveva nel ghetto vicino a Rosarno, uno dei tanti dove vivono in condizioni infernali i braccianti impegnati nelle raccolte. Arance in Calabria, pomodori in Puglia.

Dalla stessa baraccopoli, o da quello che ne restava dopo il rogo, è partito domenica scorsa Soumayla Sacko, 29 anni, originario del Mali, per andare a cercare delle lamiere per le baracche dei suoi compagni in una vicina fabbrica abbandonata. Qualcuno lo ha puntato col fucile e gli ha sparato colpendolo dritto in testa. Più fortunati sono stati i due ragazzi che erano con lui, presi anche loro di mira in questo tiro al bersaglio, ma riusciti a scappare. E a denunciare quanto successo.

Le campagne rosarnesi sono un grande cimitero. Raccontano storie di ghanesi disperati che si impiccano nelle fabbriche diroccate o di braccianti investiti mentre tornano dal lavoro in bici su strade male illuminate.
Dominic Man Addiah, per esempio, è scappato alla guerra in Liberia per morire in Europa. Dormiva in auto ai bordi del ghetto di Rosarno. Era il 2013 ed è morto di freddo. Marcus era nato in Gambia e aveva girato mezzo mondo prima di arrivare nelle campagne calabresi. Era malato: è morto alla fine del 2010 nell’ospedale di Lamezia, provincia di Catanzaro, assistito dai volontari che hanno dovuto comunicare la notizia ai familiari in Africa.

La morte di Sekine, poi, è semplicemente senza senso. Siamo ancora nel ghetto, giugno 2016, tra gli spacci informali che vendono burro di arachidi e antidolorifico in bustine. Un gruppo di agenti – sei tra poliziotti e carabinieri – interviene per sedare una rissa. Sekine Triore, 27 anni, è evidentemente fuori di testa, «in stato di alterazione psicofisica», annota il verbale. La dinamica è controversa. Avrebbe un coltello in mano, gli agenti lo affrontano. Lui ne colpisce uno all’occhio, questo reagisce. Un proiettile trafora l’addome. Sekine morirà poco dopo all’ospedale di Polistena. Il processo – “eccesso di legittima difesa”, il reato ipotizzato – è ancora alle udienze preliminari. Dopo quello sparo si teme una rivolta. Ma ci sarà soltanto un corteo con cartelli di cartone.
E le morti dei braccianti non avvengono solo d’estate. Tra Rossano e Corigliano, ogni inverno, oltre diecimila lavoratori dell’Est arrivano per la raccolta delle clementine. Nel novembre del 2012 lo scontro tra un trenino diesel e un furgone con sei rumeni di ritorno dai campi è spaventoso: l’impatto lascia un ammasso di lamiere e sangue. Poi arrivano due ditte di pompe funebri: «Li abbiamo visti prima noi», dicono, e si contendono i corpi a calci e pugni. Un cadavere rotola sul terreno. I parenti delle vittime non ne possono più: «Mettete la testa in un vaso. Vergognatevi. C’è il nostro sangue qui». Per i congiunti è l’inizio di una trafila del dolore: non avranno neanche il risarcimento Inail.

A Foggia invece gli africani ricordano le fiamme del marzo 2017. Allora i morti furono due: Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, 33 e 36 anni, entrambi del Mali. Uno ha vissuto gli ultimi istanti sulla sua branda, avvolto dalle fiamme, l’altro mentre cercava la salvezza sulla porta della baracca. Il vento ha propagato il fuoco. Poteva essere una strage. «Se la sono cercata», secondo alcuni: non avevano obbedito all’ordinanza di sgombero del ghetto e sono rimasti ostinatamente lì, dove le condizioni sono orribili ma anche dove i caporali vengono a portare lavoro.

Centinaia di desaparecidos
Asfissiati o carbonizzati, a bastonate e a coltellate, investiti da un Tir o colpiti da infarto. Persino annegati nei vasconi per la raccolta dell’acqua. Alessandro Leogrande – per una strana maledizione morto d’infarto a 40 anni lo scorso novembre – aveva raccolto in un libro le testimonianze dei parenti dei polacchi scomparsi: 119 dal 2000 al 2006. Inghiottiti dalle campagne pugliesi. Attirati da connazionali e schiavizzati a morte.

Anche a Rosarno, negli anni 90, in tanti hanno perso la vita senza un perché. Ma a differenza della Puglia, uccisi da italiani e non da connazionali. Il motivo? Difficile da decifrare. In quegli anni non c’erano né Ong sul territorio, né una particolare attenzione mediatica. Le campagne del profondo Sud erano letteralmente al buio. In pochissimi avevano a cuore la sorte di lavoratori senza volto, nome, documenti. I loro cadaveri sparivano nel fango dei campi, seppelliti in casolari, uccisi a fucilate.

Un bilancio è impossibile. Tra i pochi nomi sottratti all’oblio, due ragazzi di 20 anni. Abdelgani Abid e Sari Mabini, algerini. Attirati in auto con la promessa di un lavoro in campagna e uccisi a bruciapelo in una zona isolata. Era il 1992. Saranno solo i primi di una lunga serie di morti e feriti.

Uccisi dalla fatica
Per lo Stato, Paola si occupava di “direzione aziendale e consulenza gestionale”. Almeno è quello che dicono i registri Inail. Invece stava da mattina a sera con la testa verso l’alto e le mani protese a pulire i grappoli d’uva. E non era neanche assunta direttamente, ma “somministrata” da un’agenzia interinale. Il volto moderno del caporalato.

A 49 anni, si alzava ogni notte alle tre, prendeva un autobus da San Giorgio Jonico alle campagne di Andria e toglieva i chicchi più piccoli dai grappoli. Quelli che impediscono agli altri di crescere. Tecnicamente si chiama acinellatura. È uno dei lavori più pesanti e peggio pagati in agricoltura. In Puglia, tradizionalmente, è un lavoro da donne. Mani delicate e poche pretese. «Meno di trenta euro a giornata, nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52 euro», dicono i sindacalisti.

Quel giorno, sotto il tendone, c’erano quaranta gradi. Il dolore alla cervicale era forte, ma con quel lavoro è normale. Poi lo svenimento, occhi sbarrati, le urla delle colleghe. Mezz’ora sul terreno. A prenderla non è venuta l’ambulanza, ma direttamente il carro funebre.

Il 13 luglio del 2015 gli italiani scoprono un mondo nuovo. Morire di sfruttamento non è solo questione da africani che vivono nella “clandestinità”. Riguarda anche una fetta di mondo “normale”: italiani assunti da agenzie interinali.

L’estate del 2015 sarà ricordata per le temperature sopra la media. E per i caduti. Morti di fatica da Carmagnola, provincia di Torino, a Vittoria, vicino Ragusa. Almeno, la fine di Mohamed Abdullah è servita a qualcosa: raccontare il percorso dei pomodori dal caporalato alle nostre tavole. Il sudanese è morto di infarto nei pressi di Nardò. Nel corso delle indagini, i carabinieri di Lecce hanno seguito a ritroso il percorso degli ortaggi. Una piccola ditta del leccese assoldava un caporale, che formava le squadre per la raccolta. I pomodori finivano a una cooperativa di Andria che riforniva marchi importanti: una vicino Parma, una nei pressi di Bologna, un altro nel napoletano e più in là fino al mercato inglese.

Invisibili alle statistiche
La “Spoon river” dei campi italiani è fatta di uomini e donne senza volto. Ma anche di numeri evanescenti. Prendiamo il 2015. Secondo l’Inail, sono morte soltanto tredici persone nei campi. Eppure quell’anno si è registrata una vera ecatombe. Dove sono finiti Stefan, Paola, Mohamed, Zakaria, Vasile, Arcangelo, Ioan? Non li troviamo sotto la voce agricoltura, ma tra i 336 deceduti non assegnati a una categoria, inseriti nel sommerso. Del resto, i rapporti dell’Ispettorato del lavoro dicono che – nel settore primario – il 50 per cento delle imprese ispezionate risulta irregolare.

Ma allora quanta gente è morta nei campi? Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro nel 2015 sono stati 518. In agricoltura si registrerebbe il 37 per cento del totale degli incidenti mortali.
La differenza rispetto ai dati ufficiali la spiega Carlo Soricelli, anima dell’Osservatorio, un metalmeccanico bolognese in pensione che da dieci anni conta tutti gli infortuni mortali, spulciando ogni giorno la stampa: «L’Inail considera solo i propri assicurati, escludendo partite Iva, artigiani, liberi professionisti che hanno altre assicurazioni».

L’Osservatorio inserisce nelle sue statistiche anche tutti gli incidenti “in itinere”, cioè andando o tornando dal luogo di lavoro. Ma su una cosa sono tutti d’accordo. Muoiono soprattutto gli italiani. Nella fascia del sommerso – sempre relativa al 2015 – i dati Inail parlano di 272 italiani deceduti su 336 (l’81 per cento). Al secondo posto i rumeni (27 casi). Terzi, a grande distanza, gli indiani (9). Anche l’Osservatorio conferma che la stragrande maggioranza dei morti è italiana. Un dato rimane costante: una vittima su cinque – in tutte le categorie – è uccisa dal trattore.

«Il terreno può nascondere insidie pazzesche: spesso sembra asciutto ma sotto è impregnato d’acqua. Il peso del trattore in un terreno in pendenza è micidiale», dice Soricelli. Così un agricoltore di Sessame, provincia di Asti, è morto decapitato: prima il ribaltamento, poi un filare che gli trancia il capo. È il maggio del 2017. Si tratta soltanto di uno dei tantissimi casi di una strage invisibile che coinvolge in gran parte italiani. La maggior parte dei quali oltre i 50 anni.

I numeri – raccolti dall’osservatorio bolognese – sono spaventosi. Centotrentotto morti nel 2017, oltre 1.400 negli ultimi dieci anni. Per evitare almeno questa mattanza basterebbe poco. Per esempio la legge europea che prevede uno specifico patentino. Ma l’applicazione è stata ritardata più volte. L’ultima, giusto un anno fa.

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Fonte:

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/06/11/news/la-strage-silenziosa-dei-campi-dove-italiani-e-migranti-sono-uniti-dalla-morte-1.323615?ref=HEF_RULLO&refresh_ce

Rosarno, migrante ucciso da un carabiniere nella tendopoli: versioni contrastanti sulla dinamica

Secondo la ricostruzione ufficiale il giovane maliano ha aggredito un militare che gli ha sparato colpendolo mortalmente. Ma alcuni braccianti raccontano l’accaduto in modo diverso. L’episodio in ogni caso conferma la situazione insostenibile in cui vivono i braccianti stranieri che lavorano negli agrumeti

di ALESSIA CANDITO

SAN FERDINANDO (Reggio Calabria) – Una lite scoppiata per motivi futili che non si riesce a sedare, animi surriscaldati, troppo nervosismo, un coltello di troppo, una pistola che spara. Sono questi gli ingredienti del dramma che si è consumato oggi alla tendopoli di Rosarno, dove un bracciante straniero è stato ucciso con un colpo di pistola da un carabiniere.

Secondo la ricostruzione ufficiale, la vittima, Sekine Triore in mattinata avrebbe aggredito con un coltello un altro ospite del campo per motivi futili, quindi si sarebbe scagliato contro un altro uomo tentando di strappargli il borsello. Preoccupati dal comportamento di Triore, già a metà mattina visibilmente ubriaco, gli altri ospiti del campo avrebbero tentato invano di calmarlo, mentre qualcuno allertava le forze dell’ordine. Ma l’intervento dei militari non ha fatto che innervosire ulteriormente Triore, che si è scagliato contro di loro. A farne le spese è stato uno dei carabinieri, ferito vicino all’occhio da un fendente del bracciante. Terrorizzato, il milite avrebbe sparato, colpendo il migrante maliano all’addome.

Tutto è successo di fronte a molti degli abitanti della Tendopoli. Ma alcuni danno versioni diverse dell’accaduto. Parlano con i pochi volontari che continuano a lavorare in zona, insieme ai sanitari di Medici per i diritti umani (Medu) che cercano di fornire l’assistenza minima ai braccianti “fantasma” che lavorano tra San Ferdinando e Rosarno. Sì, ammettono, è vero, c’è stata una lite in mattinata. Ma nessuno di quelli che hanno assistito a quello scontro è certo di aver visto “un fratello” scagliarsi contro il militare. La colluttazione – affermano – sarebbe avvenuta quando i carabinieri hanno tentato di avvicinarsi. Altri sostengono che uno dei due uomini avrebbe sì puntato il coltello contro il carabiniere, ma solo a grande distanza. Altri ancora che i due militari avrebbero raggiunto Triore all’interno della tenda, lì sarebbe avvenuto lo scontro e il giovane maliano sarebbe stato ucciso da un colpo di pistola all’addome. Il carabiniere che ha sparato è stato iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario, ma il procuratore capo di Palmi, Ottavio Sferlazza, sembra orientato a considerare la reazione del militare legittima difesa.

Nella tendopoli adesso tutti hanno paura. Una condizione permanente nel ghetto che ospita i braccianti che lavorano nei campi circostanti. Sei anni dopo la rivolta che ha rivelato all’opinione pubblica le disumane condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti che permettono alla arance di Rosarno di arrivare nei mercati di tutta Italia, per loro poco o nulla è cambiato. Usciti dalla “Cartiera”, lo stabile fatiscente in cui hanno trovato per anni alloggio e riparo, abbattuta dopo la rivolta, solo in pochi hanno trovato affitti accessibili in paese, o un casolare diroccato in cui trovare riparo, mentre la tendopoli messa in piedi dalla Protezione civile per ordine della Prefettura si è rapidamente gonfiata a dismisura, rendendo assolutamente insufficienti docce e servizi. Lì era previsto che vivessero non più di 350 persone. Oggi sarebbero 1.000. Senza un contratto che ne regolarizzi la posizione, ma spesso anche senza documenti che ne certifichino l’esistenza, sottopagati, privi di assistenza e tagliati fuori dai servizi, i braccianti di Rosarno non vivono, ma sopravvivono nella Piana, durante la stagione della raccolta delle arance.

Qualche mese fa, a richiamare l’attenzione sulla loro tragica condizione, è stata l’organizzazione Medici per i diritti umani che ha denunciato le terribili condizioni di vita e lavoro dei braccianti, identificate come principale causa delle patologie più comunemente riscontrate. Ma soprattutto ha squarciato il velo sulle aggressioni che negli ultimi mesi i migranti subiscono ormai regolarmente, sempre di notte e sempre senza colpevoli. Colpa dei caporali stranieri? O degli agricoltorirosarnesi? Non è dato saperlo. Le indagini non sono ancora arrivate a nulla, mentre molti casi sono stati archiviati. La comunità ha continuato a subire, rassegnata. Adesso però, dopo l’assassinio di un “fratello”, esige risposte. E punizioni immediate.

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