BRASILE. IL 1500, L’ANNO CHE NON È MAI FINITO

05.01.16

Chi ha pianto per Vitor, il bambino indigeno di due anni assassinato con un coltello conficcato nel collo?

di Eliane Brum*, pubblicato sul El Pais il 04.01.16

Foto: Gabriel Felipe/RBS TV

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NOTA DEL CIMI (Consiglio Indigenista Missionario) : VITOR, UN BAMBINO KAINGANG DI APPENA DUE ANNI ASSASSINATO MENTRE VENIVA ALLATTATO DALLA MADRE

Il CIMI (Conselho Indigenista Missionário) manifesta pubblicamente la sua indignazione per il crudele assassinio di Pedro Vitor, bambino Kaingang di due anni. Il crimine è avvenuto nella stazione degli autobus di Imbituba, comune di Santa Catarina. Vitor era allattato al seno della madre, Sonia da Siva, quando un uomo si è avvicinato, gli ha accarezzato il viso e, con un coltello, lo ha sgozzato. Mentre la madre e il padre – Arcelino Pinto – disperati tentavano di soccorrere il bambino, l’assassino ha continuato a camminare attraverso la stazione degli autobus, fino a sparire.

Vitor è morto in un posto che la sua famiglia immaginava fosse sicuro. Le stazioni degli autobus sono spazi scelti frequentemente dagli indigeni Kaingang per riposare, quando questi lasciano i loro villaggi alla ricerca di luoghi dove vendere i loro prodotti artigianali. La famiglia di Vitor è originaria dell’ Aldeia Kondá, situata nel municipio di Chapecó, regione occidentale di Santa Catarina. Vitor si trovava alla stazione degli autobus con i genitori ed altri due fratelli, uno di sei e l’altro di dodici.

Si tratta di un crimine brutale, un atto vigliacco, compiuto contro un bambino indifeso, che denota disumanità e odio verso gli altri esseri umani. Un tipo di delitto che si fonda nel desiderio di cancellare e sterminare i popoli indigeni.

La Polizia Militare della regione aveva dato per risolto il caso in pochi minuti, arrestando, in un quartiere povero, un giovane in libertà provvisoria perché beneficiato dall’indulto di Natale e Capodanno. Apparentemente era tutto risolto. Ma al posto di Polizia Civile di Imbuitiba sono stati ascoltati i genitori di Vitor ed un altro testimone, un taxista che si trovava sul luogo nell’ora del delitto. L’uomo indicato dalla Polizia Militare come autore dell’assassinio non è stato riconosciuto dai tre testimoni.

Le informazioni raccolte al posto di Polizia Civile da un avvocato che ha assistito la famiglia Kaingang, indicano che questo crudele delitto potrebbe essere messo in relazione con l’azione di gruppi neonazisti o di altre correnti segregazioniste, che diffondono odio e incitano alla violenza contro indios, neri, poveri, omosessuali e donne. Il CIMI è preoccupato per il clima di intolleranza che si sta diffondendo nella regione meridionale del paese contro le popolazioni indigene.

Un razzismo – a volte velato, a volte esplicito – diffuso attraverso mass media e social network. Occorrono con una certa frequenza manifestazioni pubbliche di parlamentari legati al latifondo e all’agribusiness contro i diritti degli indigeni e che aizzano la popolazione contro questi popoli. In tutto il paese si registrano casi di violenza e di intolleranza contro indigeni e quilombolas, concretamente messi in atto attraverso persecuzioni, discriminazione, espulsioni e assassini. In questi ultimi giorni almeno cinque indigeni sono stati assassinati negli stati del Maranhão, Tocantins, Paraná e Santa Catarina.

Il Conselho Indigenista Missionário spera che questo crimine odioso sia effettivamente indagato e che non si commetta l’errore di voler tentare di dare alla società una risposta immediata, imputando a un innocente un delitto che non ha commesso.

Chapecó, SC, 31 dicembre 2015.

Conselho Indigenista Missionário – Regional Sul

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Un bambino di due anni è stato assassinato. Un uomo gli ha accarezzato il volto. E poi gli ha piantato un coltello nella gola. Il bambino era un indio del popolo Kaingang. Si chiamava Vitor Pinto.

La sua famiglia, come altri del villaggio in cui viveva, era venuta in città per vendere oggetti d’artigianato poco prima di Natale. Sarebbero restati fino a Carnevale.

Dormivano nella stazione degli autobus a Imbituba, sulla costa di Santa Catarina. È stato lì che, mentre sua madre lo allattava, un uomo gli ha trafitto la gola. Era mezzogiorno del 30 dicembre. Il 2015 era molto vicino alla fine.

E il Brasile non si è fermato a piangere l’omicidio di un bambino di due anni. Le campane non hanno suonato per Vitor.

La sua morte non ha fatto notizia sulla stampa nazionale. Fosse stato mio figlio, o di qualsiasi donna bianca della classe media, ucciso in tali circostanze, ci sarebbero titoloni in prima pagina, ci sarebbero esperti ad analizzare la violenza, ci sarebbero pianti e solidarietà.

E forse ci sarebbero anche candele e fiori sul pavimento della stazione degli autobus, come per le vittime del terrorismo a Parigi. Ma Victor era un indio. Un bambino, ma indigeno. Piccolo ma indigeno. Vittima ma indigeno. Assassinato, ma indigeno. Trafitto, ma indigeno. Quel “ma” è l’assassino occulto. Quel “ma” è serial killer.

La fotografia che ha illustrato le poche notizie sulla morte del “curumim” (ndt. termine in lingua Tupi, che significa bambino in tenera età) mostra il pavimento di cemento e ghiaia della stazione degli autobus. Un paio di ciabattine infradito blu, con motivi per bambini. Una bottiglia di PET, una stellina giocattolo, di quelle con cui si fanno formine di sabbia, un coperchio di plastica, forse parte di un secchiello da bambini, un piccolo tubetto di plastica, un panno a fiori ammucchiato contro il muro, forse un lenzuolino. Viene presentata come “la scena del delitto” o come “gli effetti personali del bambino”.

Questa foto è un documento storico. Tanto per quello che in essa c’è quanto per quello che in essa non c’è. In essa resta ciò che è usa e getta, oggetti di plastica e PET, i resti delle ciabattine. In essa non c’è quello che è stato cancellato dalla vita. L’assenza è l’elemento principale del ritratto.

Gli indigeni possono esistere in Brasile solo come stampa. Apprezzati come illustrazione di un passato superato, i primi abitanti di questa terra, con la loro nudità e le loro corone di piume, una cosa bella da appendere su alcune pareti o da stampare su quei libri che adornano i tavolini da salotto.

Gli indigeni trovano posto solo se impagliati, o incorniciati. Allo stato attuale, la loro esistenza è considerata fuori luogo, di cattivo gusto.

Gli indios devono essere “falsi indios”

perché le loro terre

sono vere – e ricche

Come dice l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, gli indigeni sono specialisti in fine del mondo, visto che il loro mondo è finito nel 1500.

Hanno avuto, però, l’ardire di sopravvivere all’apocalisse promossa dalle divinità europee. Malgrado a centinaia di migliaia siano stati sterminati, sono sopravvissuti all’estinzione totale. E poihé sopravvissuti continuano ad essere uccisi. Quando non li si può uccidere, la strategia è quella di trasformarli in poveri nelle periferie delle città. Quando diventano poveri delle città, li chiamano “falsi indios”. Oppure “Paraguaiani”, altro pregiudizio verso il paese vicino. Nel passato, gli indios sono allegoria. “Guarda, figlio mio, come erano coraggiosi i primi abitanti di questa terra.” Nel presente, sono “ostacoli allo sviluppo”. “Guarda, figlio mio, come sono brutti, sporchi e pigri questi Indios fasulli”. Gli indios devono essere falsi perché le loro terre sono vere – e ricche.

La morte dei “curumins” non cambia nessuna politica,
le foto della loro assenza

non commuovono

milioni di persone

Se Victor era un ostacolo, questo ostacolo è stato rimosso. Ecco perché questa foto è un documento storico. Se ci fosse un briciolo di onestà, è questa che dovrebbe essere appesa alle pareti.

Sembra non sia abbastanza che Vitor, un bambino di due anni, passasse settimane sul pavimento di una stazione di autobus perché la violenza contro il suo popolo è stata tanta e per tanti secoli e continua ancora oggi, tanto che i suoi genitori, Sonia e Arcelino, sono costretti a lasciare il loro villaggio per vendere dell’artigianato. A prezzi bassi, perché svalutati sono gli artigiani.

È importante capire il livello di abbandono che porta alcuni a considerare una stazione degli autobus come un luogo sicuro e accogliente. I terminal degli autobus sono luoghi di passaggio, e la famiglia di Vitor, così come altre di indigeni, si rifugiano lì perché c’è movimento. Il terminal è una terra di nessuno. E così in essa trovano posto mendicanti, bambini di strada, ubriachi, puttane, pazzi, emarginati. E gli indios. O forse trovavano posto. E non lo trovano più.

Le stazioni degli autobus sono spazi di circolazione di estranei, ed essendo “gli altri”, gli stranieri nativi, gli indigeni credono che in questo non luogo hanno la possibilità di fuggire all’espulsione. Ma poi ne vengono espulsi. Parte della popolazione dei comuni in cui indigeni appaiono con i loro oggetti d’artigianato pensa che la stazione degli autobus sia troppo per gli indios. O per i “bugre”, come vengono chiamati in alcune zone del sud del paese.(ndt. “bugre” è una denominazione dispregiativa data agli indigeni per non essere considerati cristiani dagli europei. Deriva dal francese “bougre”, eretico.) “La stazione degli autobus è la cartolina della città, in un periodo in cui tante persone viaggiano, vengono qui. Che immagine resterà loro della città? “, ha spiegato un commerciante di São Miguel do Oeste, sempre nello Stato di Santa Catarina, per giustificare l’espulsione degli indigeni da quel posto prima di Natale. Vitor ormai non rovina più nessuna cartolina. Di lui non c’è nemmeno un volto. La foto della sua assenza non commuoverà milioni in tutto il mondo come è accaduto per il bambino siriano portato dalle onde del mare. La morte dei “curumins” non cambia nessuna politica.

Prima che mi accusino di essere precipitata, esagerata o ingiusta, va detto che: i “cittadini perbene” non vogliono che i bambini indigeni abbiano i loro colli trafitti. Assolutamente no. Vogliono solo che stiano lontani dalla vista. Altrove, in un altro posto dove non contaminino, sporchino o imbruttiscano. Ma che non sia nemmeno nelle loro terre, se queste sono ricche di minerali, fertili per la soia o buone per il pascolo del bestiame. Anche lì sono fuori posto. Che scompaiono, insomma. Ma uccidere, no, uccidere è male.

Il 2015 è stato l’anno in cui questo discorso ha fatto vincere il secondo campionato consecutivo al Brasile. Il deputato Fernando Furtado, del Partito Comunista del Brasile (PC do B), è stato riconosciuto come “razzista dell’anno” dall’organizzazione Survival International per la sua dichiarazione antologica, espressa in una udienza pubblica:

“Là a Brasilia, Arnaldo ha visto gli indios tutti con con le camicette, tutti ben vestiti, con le loro freccette, tutti un branco di frocetti, perché ce n’erano almeno tre che erano froci, sono sicuro, froci. Non sapevo che ci fossero indios froci, l’ho scoperto quel giorno a Brasilia … Tutti froci. Ecco, è così che stanno le cose, com’è che gli indios riescono già ad essere froci, finocchi, e non sono in grado di lavorare e produrre? Negativo!”

Per parte degli abitanti

delle città del sud del paese, 

gli indigeni “sporcano”

la “cartolina” della città

Il deputato si riferiva agli Awa-Guajá, considerati uno dei popoli più vulnerabili del pianeta. La conquista di Fernando Furtado, tuttavia, non è senza precedenti. Un altro deputato, Luis Carlos Heinze, questi deputato del Partito Progressista (PP) del Rio Grande do Sul, era già salito sul podio nel 2014, con la seguente dichiarazione: “Il governo … si è accasato con popolazioni quilombolas, indios, gay e lesbiche, tutto quello che fa schifo”.

Tutto indica che il Brasile è quasi imbattibile per la conquista del terzo campionato di fila. Si parla tanto di paese politicamente bi-polarizzato, ma la premiazione dimostra che i popoli indigeni sono un punto di rara unanimità tra una certa destra e una certa sinistra di questa grande nazione.

Vitor, il bambino assassinato, viveva nel villaggio Condá nel comune di Chapecó, nella parte occidentale di Santa Catarina.

I crimini commessi dallo Stato contro il popolo Kaingang del sud del Brasile sono registrati nel Rapporto Figueiredo, un documento storico che si credeva perduto ed è stato scoperto alla fine del 2012. Il rapporto, datato 1968, ha documentato il trattamento riservato ai popoli indigeni dall’ormai estinto SPI (Servizio di Protezione per gli Indios).

In totale, il procuratore Jader Figueiredo Correia ha dedicato 7.000 pagine per raccontare ciò che la sua equipe ha visto  e sentito. Chiunque voglia capire perché Vitor si era rifugiato sul pavimento della stazione degli autobus di Imbituba, invece di passare i mesi estivi sicuro, sano e felice nel suo villaggio, puo’ trovare una ricca fonte di informazioni nel documento disponibile su Internet. Scoprirà, tra le altre atrocità, come gli antenati di Vitor sono arrivati ad essere torturati e a vivere in condizioni analoghe a quelle della schiavitù in modo che le loro terre sono venissero disboscate e sfruttate da non indios, in pieno 20° secolo. È possibile che alcuni di questi “imprenditori” siano i nonni di coloro che oggi ritengono che gli indigeni come Vitor sporchino la “cartolina” della loro città.

Dopo l’omicidio del bambino, la polizia militare ha arrestato il solito sospettato di sempre. Un ragazzo povero, in libertà provvisoria, con “una piccola quantità di marijuana e cocaina nello zainetto.” Poiché non vi era alcuna prova contro di lui, è stato rilasciato. Successivamente è stato arrestato un altro giovane, oggi considerato il principale indiziato. La polizia cercava qualcuno dai connotati abbastanza generici: zainetto e cappellino e con una corporatura simile a quello che appare in un video registrato da una telecamera di sicurezza. La polizia militare sospetta che l’assassino fosse “infastidito dalla presenza di indigeni sul posto.” La Polizia Civile ha indicato come possibili moventi “il pregiudizio razziale”, “uno stato di crisi” e “problemi psicologici”.

In una nota (vedi nel riquadro in alto di quest’articolo) il CIMI (Consiglio Indigenista Missionario) ha dichiarato: “Il CIMI è preoccupato per il clima di intolleranza che si sta diffondendo nella regione meridionale del paese contro le popolazioni indigene. Un razzismo – a volte velato, a volte esplicito – che si sviluppa attraverso mass media e social network “

Abbiamo iniziato il 2016

come abbiamo

terminato il 2015: osceni.
I fuochi di Capodanno

hanno già fallito nell’artificio

Chi di fatto ha ucciso Vitor forse sarà indagato, processato e condannato, che è già una rarità nei casi di omicidio di indigeni in Brasile, segnati dall’impunità. Ma dobbiamo farci domande più complesse.

Chi ha armato questa mano? Quale crocevia storico ha fatto si che Vitor fosse scelto dal il bambino scelto dall’assassino, a prescindere dalla sua sanità mentale o meno – e non mio figlio o il tuo? Dove siamo noi in questa foto nella quale siamo senza essere?

Si è detto che il 2015, un anno di crisi in Brasile e di orrore ovunque, è l’anno che non è finito. Il 2016 sarebbe solo un looping. Ha un senso.

Alla vigilia di questo Natale, Antônio Isídio Pereira da Silva, leader contadino e ambientalista nello stato del Maranhão, è stato trovato morto. Si è trattato di un altro omicidio annunciato. Un anno fa è stata archiviata la domanda di inclusione dell’agricoltore nel programma federale di protezione ai difensori dei diritti umani. Si stava preparando a segnalare l’ennesimo disboscamento illegale in una regione con gravi conflitti per la terra quando è stato assassinato.

Sempre a Natale, cinque giovani hanno denunciato poliziotti militari di Rio per tortura e furto. Secondo il loro racconto, stavano tornando su tre moto da una festa quando sono stati fermati da poliziotti militari delle Unità di Polizia Pacificatrice (UPP) delle favelas Corona, Fallet e Fogueteiro. Oltre alle torture con coltello rovente, un accendino e pugni uno di loro sarebbe stato obbligato a fare sesso orale con il suo amico.

A San Paolo, ci sono voluti solo due giorni perché si verificasse il primo massacro del 2016, con quattro morti alla periferia di Guarulhos. Si sospetta la vendetta per la morte di un poliziotto militare avvenuta nella zona pochi giorni prima.

Abbiamo iniziato come abbiamo finito. Nulla, dunque, né è iniziato né è finito. Chi continua a morire assassinato in Brasile, in maggioranza, sono i neri, i poveri e gli indios. Il genocidio prosegue davanti all’indifferenza, quando non agli applausi, della cosiddetta società brasiliana.

Abbiamo iniziato il 2016 come abbiamo finito il 2015. Osceni. I fuochi di Capodanno hanno già fallito nell’artificio. Siamo nudi. E la nostra immagine è orrenda. Essa sporca di sangue il corpicino di Vitor per il quale hanno pianto in così pochi.

Dicono che il 2015 è l’anno che non finisce. O che è il 2013 che ancora non è terminato.

Per gli indios è molto più brutale: il 1500 non è ancora finito.

Eliane Brum* è scrittrice, reporter e documentarista. Tra le sue opere:

Coluna Prestes – o Avesso da Lenda, A Vida Que Ninguém vê, O Olho da Rua,

A Menina Quebrada, Meus Desacontecimentos e il romanzo Uma Duas.

Sito: desacontecimentos.com

Tratto da http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews#!il-1500-lanno-che-non–mai-finito/c1grm

“La polizia è vigliacca è assassina e si nasconde dietro la divisa” dice la madre del giovane giustiziato buttato giù da un tetto dalla polizia militare di San Paolo

“LA POLIZIA È VIGLIACCA E ASSASSINA E SI NASCONDE DIETRO LA DIVISA”
dice la madre del giovane giustiziato buttato giù da un tetto dalla polizia militare di San Paolo
di Claudia Belfort – video André Caramante – Ponte Jornalismo *
—>Guarda il video IN HD – assista em HD<—
In un video esclusivo di Ponte Jornalismo, Cleusa Glória da Silva, madre del giovane Fernando Henrique, 18 anni, che venne gettato giù da un tetto e, dopo essere stato bloccato e ammanettato, giustiziato a colpi di pistola da poliziotti militari lo scorso 7 settembre, manda a dire che questa esecuzione non rimarrà impunita e che a nulla serve minacciarla, perché lei “non ha paura di questa polizia corrotta”.
L’assassinio di Fernando è stata la seconda mostruosità, nelle sue parole, che ha dovuto subire per mano della polizia militare. La prima fu quando aveva solo 17 anni e venne violentata da un sergente della polizia militare, a Belo Horizonte. Da questo stupro nacque un bambino che, 18 anni dopo, è stato assassinato sempre per mano di poliziotti militari.
Nel video, Cleusa racconta della violenza sessuale che dovette subire e dice che non lascerà che la morte di suo figlio rimanga impunita. Racconta anche che da giovane avrebbe voluto seguire la carriera di suo nonno, anche lui poliziotto militare, ma che “Grazie a Dio, non ha seguito questa carriera schifosa”, che “la polizia militare è vigliacca, assassina e che si nasconde dietro la divisa”.

fonte: http://ponte.org/a-policia-e-covarde-e-assassina-e-se-esco…/

Per saperne di più sui fatti accaduti a San Paolo:
http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews…

“Il Resto del Carlinho (Utopia)”
Il Brasile che NON vi raccontano.
Articoli, reportages, video e film raccolti in ordine sparso e tradotti in italiano
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Tratto da https://www.facebook.com/RestoDelCarlinhoUtopia/videos/vb.537079876391456/707939749305467/?type=2&theater

 

Salerno. Torturata, violentata, minacciata dal marito carabiniere: condannato

di Viviana De Vita Torturata, violentata, minacciata con una pistola puntata al volto per oltre 12 anni dal proprio consorte. La sua vita matrimoniale fatta di calci, pugni e vessazioni, la 41enne di Capaccio, la racconta all’indomani della nuova sentenza di condanna inferta all’ex coniuge, un carabiniere tuttora in servizio presso una stazione della nostra provincia, al fine di spingere tutte le donne vittime di violenza ad avere il coraggio di denunciare.

Testimonianza-choc resa dalla donna, parte civile attraverso l’avvocato Giuliana Scarpetta, soprattutto alla luce del verdetto che arriva troppo tardi e che, pur confermando la responsabilità penale del militare, già condannato in primo grado a 7 anni di reclusione, lo salva attraverso il meccanismo della prescrizione. L’uomo, originario del Cilento, non sconterà la pena ma la Corte d’appello del tribunale di Roma, ha confermato le statuizioni civili in 50mila euro di danno oltre al pagamento delle spese processuali. La condanna si aggiunge a quella già inflitta alcuni anni fa quando il militare fu condannato a 4 anni di reclusione per il reato di maltrattamenti in famiglia.

Il procedimento è infatti una costola dell’altro e si riferisce esclusivamente alle violenze sessuali inferte dall’imputato alla sua consorte. «Mi massacrava di botte – racconta la moglie – mi picchiava per ogni nonnulla costringendomi a girare con lividi addosso, arriva a minacciarmi anche con la pistola, mi pestava in ogni parte del corpo tranne sul volto perché lì sarebbe stato troppo evidente e mi stuprava. Dopo mi mettevo in un angolo, al buio, per ore finché lui non si tranquillizzava e facevo fare così anche alle mie due bambine. Una notte ci costrinse a dormire in cantina e potemmo rientrare a casa solo dopo averlo supplicato.

Molte donne continuano a subire perché si vergognano di denunciare il loro calvario: io ho trovato la forza di trascinare il mio ex in tribunale solo grazie al mio avvocato Giuliana Scarpetta che mi ha “presa per mano” facendomi capire che la giustizia esiste ed è uguale per tutti». I fatti si riferiscono al periodo compreso tra il 1991 e il 2003: 12 lunghissimi anni nel corso dei quali il carabiniere avrebbe sottoposto la moglie a una serie infinita di violenze e vessazioni che, seppure in misura lievemente minore, non avrebbero risparmiato neppure le figliolette.

«Adesso chiederemo all’Arma di togliergli la divisa». Indossa ancora la divisa il carabiniere salernitano condannato a 7 anni di reclusione per violenza sessuale ai danni dell’ex moglie. «Nonostante il tribunale di Rieti, che diede la condanna di primo grado, abbia inviato la notizia di reato alla caserma dove attualmente è in sevizio il militare, lo stesso continua a svolgere le proprie mansioni», afferma l’avvocato Giuliana Scarpetta parte civile nei procedimenti intentati contro il militare. «Nostro intento – conclude la penalista – è quello di rivolgerci al comando generale dell’Arma dei carabinieri». Sono infatti svariati i procedimenti penali a carico del militare: dalla denuncia dell’ex consorte sono partite le indagini che hanno cristallizzato le accuse.

 

 

Fonte:

http://m.ilmattino.it/SALERNO/ilmattino/notizie/1574187.shtml#

LA TORTURA SESSUALE IN TURCHIA E’ UN CRIMINE DI GUERRA

La tortura sessuale della Turchia sono un crimine di guerra

L’Avvocata İpek Bozkurt dice che il recente uso della tortura sessuale contro le donne nell’escalation di guerra in Turchia costituisce un crimine di guerra.

La guerra si sta intensificando nel Kurdistan settentrionale (in Turchia), lo stato turco utilizza tattiche che riecheggiano la guerra sporca del anni 1990. I soldati hanno evacuato i villaggi. La polizia ha arrestato i politici kurdi. È stato dichiarato il coprifuoco in molti settori.

Un’altra tattica che riecheggia gli effetti psicologici del 1990 è il crescente attacco contro le donne. La polizia e soldati hanno più volte trattato le donne come oggetto sessuale per demoralizzarle e degradarle nella strategia di guerra.

Il 10 agosto la guerrigliera curda Kevser Eltürk (nome di battaglia Ekin Wan) ha bloccato una strada vicino alla città curda di Varto. La polizia ha torturato Ekin fino alla morte, la ha trascinata sul terreno e ha fatto circolare una foto con il suo corpo nudo. Il 23 agosto la polizia ha arrestato Figen Şahin di 25 anni nella città di Adana, dopo che un quartiere prevalentemente curdo ha dichiarato l’autogoverno. La polizia l’ha torturata con abusi sessuali e minacciata di condividere le fotografie del suo corpo nudo.

İpek Bozkurt è un avvocata attivista della piattaforma turca Donne contro gli omicidi, che lavora contro il femminicidio e la violenza sulle donne. Ha detto che nella recente guerra, lo Stato sta usando il corpo delle donne come un campo di battaglia.

“Con gli anfibi ai piedi e la loro postura quelli che l’hanno uccisa stanno in realtà cercando di mostrare – esponendo il corpo di una guerrigliera – che la considerano un oggetto sessuale, senza onore “
İpek ha dichiarato che l’esposizione del corpo nudo di Ekin Wan come oggetto sessuale costituisce un crimine di guerra ai sensi della Convenzione di Ginevra.

E’ un comportamento incompatibile con il rispetto della dignità umana e i principi della Convenzione di Ginevra. Ha fatto notare che la convenzione riconosce lo stupro e il maltrattamento delle donne come crimini di guerra.

İpek ha detto inoltre che l’attivismo delle donne potrebbe svolgere un ruolo chiave nel processo di pace. “Negli ultimi quindici anni, il movimento delle donne ha fatto molti passi avanti in questo paese, credo che le donne possono svolgere un ruolo importante, unite nella richiesta di una politica rispettosa dei diritti umani senza più uccisioni.”

 

 

Fonte:

http://www.uikionlus.com/la-tortura-sessuale-della-turchia-sono-un-crimine-di-guerra/

Torino, donna egiziana denuncia tentato stupro della figlia, ricoverata in TSO, e il marito al CIE

Un momento della rimozione forzata del blocco stradale messo in atto da una donna egiziana, con i suoi 4 figli minorenni, per protestare contro il trattenimento del marito nel Cie, in quanto irregolare, in corso Massimo d'Azeglio a Torino, 29 agosto 2015. ANSA/ALESSANDRO DI MARCOUn momento della rimozione forzata del blocco stradale messo in atto da una donna egiziana, con i suoi 4 figli minorenni, per protestare contro il trattenimento del marito nel Cie, in quanto irregolare, in corso Massimo d’Azeglio a Torino, 29 agosto 2015.
ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

L’ignavia colpevole del mondo ha spento i riflettori sul Darfur

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WAR DARFUR

Quando il Segretario di Stato americano Colin Powell nell’agosto del 2004, tornando da una missione in Sudan, definì per la prima volta ciò che stava avvenendo in Darfur come “il primo genocidio del 21esimo secolo” si accesero all’istante i riflettori sul conflitto che dal febbraio del 2003 stava dilaniando la regione occidentale sudanese.

La presa di posizione statunitense apparve come il banco di prova per la comunità internazionale di essere in grado di fermare, compattamente, le atrocità di massa. Ma ben presto emerse l’ineluttabilità del fallimento dell’azione contro il regime del presidente Omar Hassan al-Bashir, ex generale giunto al potere nall’89 grazie a un colpo di stato.

Oggi, 11 anni dopo il viaggio di Powell, quei riflettori sono spenti e l’attenzione mediatica sul dramma del Darfur è finita da tempo. Non sono però finiti i massacri che in questo caldo agosto, alternato a piogge devastanti, in tutto il Darfur stanno stremando un popolo provato da anni di soprusi e di ogni genere di violazioni dei diritti umani.

Tutto ciò a fronte del dispiegamento nella regione di una forza di pace delle Nazioni Unite, composta da oltre 20mila cachi blu, che si è rivelata sin dal primo momento costosa e inefficace. Per non parlare della beffa di un presidente in carica, considerato dalla Corte penale dell’Aja un criminale di guerra e genocida, in grado di viaggiare con relativa libertà in Africa, come dimostra il recente viaggio in Sudafrica, e non solo nonostante un mandato di arresto internazionale.

E intanto in Darfur si continua a vivere nella paura e nella miseria. Gran parte della popolazione ormai è in condizioni al limite della sopravvivenza. A 12 anni dall’inizio del conflitto le stime Onu parlano di oltre 300mila vittime e di circa 6 milioni di persone bisognose di aiuti di ogni genere, di cui oltre il 30% ospitate nei campi gestiti dall’agenzia Ocha’ (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs). Nel primo semestre del 2015 ben 385mila sono stati i nuovi profughi a causa della recrudescenza del conflitto in molte aree della regione, che ha registrato il flusso di sfollati più consistente dal 2006 a oggi.

Dall’inizio dell’anno le possibilità di assistenza delle centinaia di migliaia di nuovi rifugiati, per lo più donne e bambini, e a rischio in tutto il Darfur. Le minacce sono sempre le stesse: insufficiente disponibilità d’acqua e di cibo, condizioni igienico-sanitarie e sicurezza inadeguate. La mortalità continua a essere molto alta. In pochi superano i 50 anni mentre tra i bambini molti non raggiungono il sesto anno di vita. Malnutrizione e infezioni le principali cause di morte per i più piccoli. Il settore sanità è quello che registra la maggiore criticità ed è considerato addirittura cronico dagli operatori umanitari sul campo che continuano a operare in un contesto difficile come testimoniano le continue espulsioni.
La protezione della missione di peacekeeping è del tutto insufficiente. Continuano a registrarsi scontri armati che coinvolgono i civili soprattutto nel Nord Darfur ed episodi di crimini di massa, in particolare stupri, usati come arma di guerra.

Il 2 novembre del 2014, su segnalazione di alcuni rifugiati sudanesi in Italia, Italians for Darfur è stata la prima organizzazione a denunciare sul proprio blog lo stupro di massa a Tabit, un villaggio a nord di al-Fasher. Oltre 200 tra donne, adolescenti e bambine erano state violentate nella notte tra giovedì 30 ottobre e il primo novembre da militari governativi e milizie arabe, gli ex janjaweed.

Secondo i testimoni, il raid punitivo sarebbe stato conseguenza della scomparsa di un militare della guarnigione dell’esercito del Sudan di pattuglia nell’area. La forza Onu dispiegata in Darfur non ha potuto effettuare nell’immediato un sopralluogo e confermare, in un primo momento, l’episodio. Dopo aver parlato nuovamente con abitanti del posto, senza la presenza di militari governativi, i caschi blu hanno invece raccolto elementi che non hanno più lasciato dubbi su quanto fosse avvenuto a Tabit.

Human Rights Watch ha poi pubblicato l’11 febbraio di quest’anno una approfondita ricerca che ha evidenziato le responsabilità delle truppe dell’esercito del Sudan che avevano eseguito una serie di attacchi contro la popolazione civile della cittadina vicino al-Fasher, arbitrarie detenzioni, pestaggi e maltrattamenti di decine di persone oltre allo stupro di massa di donne e ragazze. I militari hanno giustificato gli abusi dichiarando che le vittime fornivano aiuti ai guerriglieri coinvolti nelle operazioni contro il governo.

Il mondo, nonostante le prove di questa come di altre atrocità perpetrate in Darfur, è rimasto e resta a guardare nel silenzio più colpevole e sconcertante che l’ignavia internazionale abbia mai manifestato.

Fonte:

http://www.huffingtonpost.it/antonella-napoli/lignavia-colpevole-del-mondo-ha-spento-i-riflettori-sul-darfur_b_7935888.html

Abusi sessuali anche dentro la caserma


Castiglione in Teverina – Carabiniere arrestato per violenze su ragazzo – Il brigadiere accusato di rinchiudere il ventenne nelle camerate

La caserma dei carabinieri di Castiglione in Teverina

Castiglione in Teverina – Violenze dentro la caserma e fuori.

Lo portava nel suo ufficio con la scusa di un controllo e lì dentro abusava di lui.

Sono accuse terribili, quelle rivolte al brigadiere G. O., nell’ordinanza d’arresto del gip di Viterbo. 

Violenza sessuale, stalking, abuso d’ufficio, per aver messo in atto, secondo gli inquirenti, una vera e propria persecuzione ai danni di un giovane poco più che ventenne.

Il carabiniere, ai domiciliari da sabato, avrebbe conosciuto il ragazzo diversi anni fa, lavorando come brigadiere capo alla stazione di Castiglione in Teverina. Così avrebbe partorito quella che, secondo gli inquirenti, sarebbe stata una vera e propria ossessione, degenerata in presunte violenze sessuali ripetute che il giovane, per un lungo periodo, avrebbe sopportato in silenzio. 

Quattro anni di abusi, secondo gli investigatori. I suoi stessi colleghi che, raccolta la denuncia del ventenne, hanno iniziato a indagare sul brigadiere, intercettandolo e scoprendo una mole sterminata di contatti dal suo cellulare a quello del ragazzo. Telefonate, sms, messaggi vocali. “Estenuanti comunicazioni telefoniche”, si leggerebbe sugli atti dell’inchiesta coordinata dal pm Franco Pacifici.

E poi, gli inviti in caserma senza motivo, se non quello di abusare del ragazzo, come sarebbe successo più volte, chiusi a chiave dentro le camerate della caserma di viale Duilio Rossi, quando gli uffici erano deserti e il brigadiere e il ventenne restavano soli. Al giovane venivano notificati inviti di polizia giudiziaria e comunicazioni scritte. 

Andava in caserma per paura, secondo gli inquirenti. Paura di eventuali ritorsioni del carabiniere se avesse respinto le sue avances. Secondo la magistratura, quell’uomo in divisa lo avrebbe messo in soggezione al punto da subire per anni.

Non a caso, oltre alla violenza sessuale, a G. O. si contesta lo stalking e l’abuso d’ufficio. L’insistenza del brigadiere nel cercarlo avrebbe provocato nel ragazzo uno stato di angoscia che lo avrebbe costretto a cambiare le sue abitudini per non incontrarlo. E, almeno secondo le indagini, l’abuso d’ufficio riguarda l’aver approfittato del suo ruolo di pubblico ufficiale per adescare il ventenne.

Ora il brigadiere aspetta l’interrogatorio.


Violenza sessuale su un ragazzo, carabiniere ai domiciliari

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Fonte:

http://www.tusciaweb.eu/2015/08/abusi-sessuali-caserma/

 

Orrore nel carcere di Enna: giovane trentenne violentato e seviziato per un mese

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Trent’anni, il furto di un motorino, in carcere a Enna e una vita distrutta dall’orrore. Per un mese interminabile, i compagni di cella, cinque detenuti comuni, lo avrebbero seviziato e torturato gettandogli addosso l’acqua bollente della pasta e spalmando sulle ustioni detersivi, sale, aceto. L’avrebbero violentato, gli avrebbero spento cicche di sigarette addosso, anche nelle parti intime. E poi lo avrebbero fatto tacere, con la minaccia di più atroci ritorsioni anche ai danni dei suoi familiari. Lo avrebbero costretto a restare in cella per non essere visto, perché nessuno notasse i segni terribili della ferocia che quotidianamente si ripeteva su di lui.

La madre ha schiuso il vaso di Pandora e dato luce a una verità agghiacciante, kafkiana, opprimente. Incontrandolo al colloquio ha notato una gravissima tumefazione a un orecchio del figlio. Ha gridato, chiesto aiuto. Il giovane è stato allora sottoposto ai controlli medici e sono stati scoperti i segni delle brutali sevizie. Pare che rischi di perdere un piede. Sul caso la Procura di Enna ha aperto un’inchiesta. Atto dovuto.

Letizia Bellelli, direttrice della casa circondariale di Enna, in un’intervista telefonica all’indomani della tragica notizia, ha affermato: «Ci addolora molto quello che è accaduto. E ci dispiace che il giovane non si sia fidato di noi: saremmo intervenuti subito. Dal momento in cui la madre ci ha fatto capire cosa stava accadendo, siamo subito intervenuti, mettendolo al sicuro e attuando tutti gli interventi sanitari e per la sua sicurezza per tutelarlo».

Ma che ci faceva in carcere un uomo che aveva rubato un motorino? Il primo tarlo che appare è quello di manette troppo facili, quasi sempre inutili, in questo caso preludio di tragedia. Ma non si può restare attoniti e accontentarsi delle spiegazioni della direttrice.

Dov’erano gli agenti penitenziari? E il personale dell’area pedagogica? Gli educatori? Gli psicologi? Dove? Nessuno vedeva com’era ridotto questo ragazzo che veniva atrocemente seviziato? Violentato? Calpestato? Offeso? Andava all’aria? Alla socialità? Usciva dalla sua cella? Qualcuno lo vedeva? Era in un reparto di detenuti comuni. Nessuno sentiva le sue grida? E se non usciva, restava tremante nel suo spazio asfittico di paura, nella sua vita mutilata per sempre, nessuno si chiedeva perché?

Il furto di un motorino ha spento per sempre i suoi trent’anni. Eccolo, uscirà dal carcere – se ne esce vivo – rieducato, riabilitato, restituito alla società civile.

 

Fonte:

Roma. Un militare si finge poliziotto e stupra una ragazza. Tutti zitti?

Mercoledì, 01 Luglio 2015 14:16
• Luca Fiore

Sarebbe un militare di 31 anni in servizio presso l’Arsenale della Marina lo stupratore arrestato oggi per violenza sessuale aggravata, in relazione allo stupro di una minorenne avvenuto nei pressi di piazzale Clodio a Roma la notte tra il 29 e il 30 giugno.
Il militare è stato infatti riconosciuto dalla vittima quale autore della violenza subìta la sera precedente. In quell’occasione l’uomo, fingendosi poliziotto, con il pretesto di infliggere una sanzione alla giovane, in quanto l’aveva vista bere birra all’aperto assieme a due coetanee, le aveva intimato di mostrargli i documenti e di seguirlo al commissariato per gli accertamenti.
A quel punto però, il sedicente poliziotto, dopo aver assicurato a un palo la bicicletta con cui era arrivato sul posto, l’ha condotta, a piedi, in via Teulada e, all’altezza del parcheggio di via Casale Strozzi, l’ha trascinata con forza nel parchetto sito nelle vicinanze e l’ha violentata.
Le indagini avrebbero consentito di ricostruire la dinamica della vicenda e il percorso effettuato dal fermato assieme alla vittima. L’appostamento nei pressi del luogo ove era stata parcheggiata la bicicletta utilizzata dal violentatore per i suoi spostamenti, ha consentito di individuarlo dopo che era stato fermato il fratello – poi denunciato per favoreggiamento – inviato a recuperare il mezzo. Inoltre secondo alcuni media con noti agganci in Questura le telecamere di un locale di via Mirabello, a Roma, avrebbero ripreso lo stupratore mentre fuggiva dopo lo stupro: il video ritrae un uomo muscoloso, alto circa un metro e 75, che indossava una maglietta gialla e un paio di pantaloni chiari e che corrisponderebbe al sospettato. Secondo un comunicato emesso dagli inquirenti durante la perquisizione effettuata presso la casa del fratello dell’arrestato, sono stati rinvenuti e sequestrati un paio di pantaloncini, appena lavati, e corrispondenti a quelli descritti dalla vittima.
Colpisce in questa ennesima vicenda di strupro contro una donna sia la figura sociale dello strupratore sia la insolita “prudenza” dei mass media. Non vogliamo pensare a quale sarebbe stata la gestione di questa vicenda se lo strupratore fosse stato un immigrato. Per coerenza con quanto abbiamo letto e sentito in questi tempi, qualcuno dovrebbe proporre un assalto riparatore all’Arsenale della Marina o l’invio di ruspe per demolire la caserma. Assai evidente intanto il tentativo da parte di alcuni media di sorvolare sull’identità dell’uomo arrestato, un militare definito eufemisticamente un ‘dipendente del Ministero della Difesa in forza presso l’Arsenale della Marina’. Evidente anche l’imbarazzo di molti improvvisati commentatori che sui social network, spiazzati dal fatto che il sospettato non sia un immigrato e che quindi non si possano invocare le salviniane ‘ruspe’, concentrano le proprie attenzioni sulle presunte responsabilità e sulle abitudini sessuali della vittima, “una sedicenne ancora in giro a mezzanotte”…

Ultima modifica il Mercoledì, 01 Luglio 2015 16:02

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Fonte:

http://contropiano.org/archivio-news/documenti/item/31648-roma-un-militare-si-finge-poliziotto-e-stupra-una-ragazza-tutti-zitti

Lo stupro di Franca Rame: fascisti, carabinieri e «una volontà superiore»

di Girolamo De Michele tutta_casa

 

Il 9 marzo 1973 Franca Rame fu sequestrata da cinque uomini, costretta a salire su un furgone all’interno della quale fu torturata e violentata. Come si sa, Franca è riuscita a raccontare la violenza subita in un monologo intitolato appunto “Lo stupro”, che inserì nello spettacolo “Tutta casa, letto e chiesa”. Per molto tempo, Franca raccontò di essersi ispirata ad un episodio di cronaca, non rivelando di essere stata lei stessa la vittima dello stupro.

La sera del 9 marzo 1973, alla notizia dell’avvenuto stupro, qualcuno a Milano gioì: era il generale Palumbo, comandante della divisione Pastrengo. «La notizia dello stupro della Rame in caserma fu accolta con euforia, il comandante era festante come se avesse fatto una bella operazione di servizio. Anzi, di più…», secondo la testimonianza di Nicolò Bozzo, che sarebbe diventato stretto collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e che all’epoca era in servizio alla Pastrengo:

«Arrivò la notizia del sequestro e dello stupro di Franca Rame. Per me fu un colpo, lo vissi come una sconfitta della giustizia. Ma tra i miei superiori ci fu chi reagì in modo esattamente opposto. Era tutto contento. “Era ora”, diceva. […] Era il più alto in grado: il comandante della “Pastrengo”, il generale Giovanni Battista Palumbo. […] Allora io vissi quella reazione di Palumbo solo come una manifestazione di cattivo gusto. Credevo che il generale fosse piacevolmente sorpreso della notizia, nulla di più. D’altronde Palumbo era un personaggio particolare, era stato nella Repubblica Sociale, poi era passato con i partigiani appena prima della Liberazione. Non faceva mistero delle sue idee di destra. E alla “Pastrengo”, sotto il suo comando, circolavano personaggi dell’estrema destra, erano di casa quelli della “maggioranza silenziosa” come l’avvocato Degli Occhi» [qui].

Nel 1981, il nome del generale Palumbo fu trovato all’interno dell’elenco degli iscritti alla Loggia P2, assieme a due alti ufficiali dell’Arma. Secondo Bozzo, «il comandante generale [dell’Arma dei carabinieri] era il generale Mino. Basta leggere la relazione di maggioranza della commissione d’inchiesta sulla P2 per capire perché non si accorgesse di nulla. Lui non era negli elenchi, ma la commissione lo dava come organico».

Nel 1987-88 due fascisti, Angelo Izzo e Biagio Pitarresi, rivelano al giudice Salvini che a compiere lo stupro fu una squadraccia neofascista, e soprattutto che l’ordine di “punire” Franca Rame con lo stupro venne dall’Arma dei Carabinieri. Si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio dell’inchiesta sull’eversione neofascista degli anni Settanta:

«Pitarresi ha fatto il nome dei camerati stupratori: Angelo Angeli e, con lui, “un certo Muller” e “un certo Patrizio”. Neofascisti coinvolti in traffici d’armi, doppiogiochisti che agivano come agenti provocatori negli ambienti di sinistra e informavano i carabinieri, balordi in contatto con la mala. Fu proprio in quella terra di nessuno dove negli Anni 70 s’incontravano apparati dello Stato e terroristi che nacque la decisione di colpire la compagna di Dario Fo. Ha detto Pitarresi: “L’azione contro Franca Rame fu ispirata da alcuni carabinieri della Divisione Pastrengo. Angeli ed io eravamo da tempo in contatto col comando dell’Arma» [qui].

A supportare la testimonianza dei due “pentiti”, un appunto dell’ex dirigente dei Servizi Gianadelio Maletti che racconta di un violento alterco tra il generale Giovanni Battista Palumbo e Vito Miceli, futuro capo del servizio segreto: «Il primo, si leggeva nella nota di Maletti, durante la lite aveva rinfacciato al secondo “l’azione contro Franca Rame”».

F_rame Commenta il giudice Salvini: «Il probabile coinvolgimento come suggeritori di alcuni ufficiali della divisione Pastrengo non deve stupire […] il comando della Pastrengo era stato pesantemente coinvolto, negli Anni 70, in attività di collusione con strutture eversive e di depistaggio delle indagini in corso, quali la copertura di traffici d’ armi, la soppressione di fonti informative che avrebbero potuto portare a scoprire le responsabilità nelle stragi dei neofascisti Freda e Ventura» [qui].

Ma secondo Nicolò Bozzo lo stesso generale Palumbo non sarebbe il responsabile primo dell’ordine di stuprare Franca Rame, quanto l’esecutore di «una volontà molto superiore»:

«A parte le sue convinzioni politiche io ricordo che Palumbo riceveva spesso telefonate dal ministero, dal ministro. So che parlava con il ministro della Difesa e degli Interni. È norma che un ministro della Difesa chiami un comandante di divisione. Ma secondo me un crimine del genere non nasce a livello locale. È vero che alla notizia dello stupro ci furono manifestazioni di contentezza nella caserma, però personalmente non me lo vedo il generale Palumbo chiamare i terroristi e ordinargli o chiedergli di fare questo» [qui].

Nel 1973 il capo del governo in carica era Giulio Andreotti, con una maggioranza di centro-destra il cui scopo, secondo quanto si legge nel Memoriale Moro, era di «deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato». Il ministro della Difesa era Mario Tanassi, quello dell’Interno Mariano Rumor.

 

Fonte:

http://www.carmillaonline.com/2013/05/31/lo-stupro-di-franca-rame-i-fascisti-i-carabinieri-della-pastrengo-e-una-volonta-molto-superiore/