Femministe in piazza per la piccola Yuliana

Colombia. Proteste contro i femminicidi

Il logo delle donne contro i femminicidi

Femministe di nuovo in piazza, in Colombia, contro la violenza sulle donne. Centinaia di persone si sono raccolte nel parco di Lourdes, a Bogotà, intorno alla foto della piccola Yuliana Samboni, una bambina di 7 anni violentata, torturata e uccisa probabilmente da un uomo di 38 anni, che è stato arrestato. L’avvocata Monica Roa ha accusato la società colombiana di essere «il brodo di coltura per i violentatori che uccidono. Quello di Yuliana – ha ricordato – non è un caso isolato, 21 bambine tra i 10 e i 14 anni vengono violentate ogni giorno».

Il presunto assassino ha rapito la bambina dal quartiere povero in cui viveva per portarla nel lussuoso appartamento di proprietà della famiglia, nel Chapinero. La famiglia della piccola aveva lasciato il dipartimento del Cauca – dove i contadini sono spesso espulsi dalla violenza delle bande paramilitari -, in cerca di migliori condizioni nella capitale.
Il 6 novembre era stata violentata, torturata e impalata in Colombia, una donna di 44 anni, Dora Lilia Galvez, che morì dopo 22 giorni di agonia. Nel 2016, sono state uccise 125 donne. Secondo l’uffficio dell’Onu-Mujer, nel paese ogni giorno e mezzo una donna viene ammazzata dal compagno o dall’ex. Anche dal Cile, ieri le femministe hanno denunciato un femminicidio con stupro e torture a una giovane che sarebbe stata impalata e a cui avrebbero tagliato i seni.

In questi giorni, le donne che hanno partecipato all’incontro continentale dei Movimenti dell’Alba hanno ricordato le cifre dei femminicidi commessi in Colombia, e la violenza di cui sono state vittime le donne durante il conflitto armato ad opera di polizia e paramilitari; e hanno ribadito la necessità di arrivare a un processo di pace con giustizia sociale. Ma, mentre è iniziata la smobilitazione della guerriglia dopo la firma degli accordi, ratificata dal Parlamento, la Camera tarda ad avviare il percorso di amnistia per gli ex guerriglieri, che ne consentirebbe il rientro nella vita politica.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/femministe-in-piazza-per-la-piccola-yuliana/

#Nonunadimeno. Quando una manifestazione di 200mila persone non fa notizia

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Sabato 26 novembre a Roma c’è stata una bellissima manifestazione: 200mila persone hanno sfilato per la capitale per dire no alla violenza di genere. Tante, tantissime donne, di tutte le età. Tanti uomini, tanti bambini, tante persone queer (in barba alle posizioni incomprensibili di certe femministe). Insomma, tanta bella gente. Eppure, telegiornali e stampa hanno quasi del tutto ignorato quello che è successo.

Il TgUno, che appena il 25 novembre condannava la violenza sulle donne, ieri sera ha intervistato solo la Ministra Boschi e poi, come per caso, è stata data la notizia che migliaia di donne avevano sfilato a Roma per dire no alla violenza. RaiDue ha mostrato un papà con un bambino sullo sfondo del Colosseo e della manifestazione, sembrava una festa per famiglie. La7 non si è accorta di niente. – Dal sito Non una di meno.

Certo, sabato è morto Fidel Castro. Certo, siamo nel pieno della campagna referendaria, ed è meglio dare spazio alla manifestazione a Roma dei 5Stelle (ovviamente Virginia Raggi ha preferito essere insieme al suo partito), è meglio dare voce alle esternazioni della Ministro Boschi, che dedicare un servizio alla manifestazione. Ma perché?

Quando una donna viene uccisa dal compagno, “meglio” se fra le vittime ci sono anche i figli o se viene compiuto un atto efferato (tipo bruciarla in macchina), i tg ne parlano a gran voce. I programmi del pomeriggio si riempiono di opinionisti, più o meno qualificati, che cercano di “spiegare” il perché di certi orribili fatti di cronaca. Ma quando le donne, insieme agli uomini, alzano la testa e dicono no, beh, allora nemmeno una parola.

C’è qualcosa di profondamente perverso in questo meccanismo. Lo stesso che ha portato i signori (e le signore) della televisione di Stato a realizzare l’orrido spot contro la violenza di genere. Non c’è scampo, a noi donne è concesso solo un ineluttabile destino: essere vittime. In effetti, un omicidio efferato è una notizia di cronaca che fa indignare le persone, genera una curiosità spesso morbosa. Una manifestazione che vuole risolvere le cose, invece, non è mediaticamente “interessante”. Non porta spettatori, lettori, utenti. La si può tranquillamente ignorare.

Ed ecco che si genera il circolo vizioso. La retorica da una parte, l’indifferenza dall’altra, avallano l’idea che alla violenza non si possa reagire, che l’unico spazio concesso alle donne sia quello dell’umiliazione, delle vessazioni, del capo chinato. Non è così. E non lo dimostra solo la manifestazione di sabato. Ma lo dimostrano tutte le donne che hanno saputo dire no, tutte le donne che si sono ribellate. Donne delle quali quasi mai nessuno parla. Perché fa più “gola” un cadavere, o un viso sfregiato, che una donna libera.

 

 

Fonte:

http://www.lezpop.it/non-una-di-meno-quando-una-manifestazione-di-200mila-persone-non-fa-notizia/

Catania, un medico obiettore ha ucciso una donna?

 

«Finché è vivo io non intervengo», così un medico obiettore avrebbe lasciato crerpare una donna ricoverata a Catania. E’ femminicidio, in nome di un dio crudele. Il 26 novembre la marcia delle donne a Roma

di Ercole Olmi

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Si sarebbe rifiutato di estrarre il feto che aveva gravi difficoltà respiratorie fino a quando fosse rimasto vivo perché obiettore di coscienza. Lo dichiara uno dei medici che, a Catania, ha assistito la 32enne morta in un’ospedale, assieme ai due gemelli che aspettava, secondo quanto ricostruito dai familiari della donna e contenuto nella denuncia presentata alla Procura dal loro legale, l’avvocato Salvatore Catania Milluzzo. «La signora al quinto mese di gravidanza – sostiene il penalista – era stata ricoverata il 29 settembre per una dilatazione dell’utero anticipata. Per 15 giorni va tutto bene. Dal 15 ottobre mattina la situazione precipita. Ha la febbre alta che è curata con antipiretico. Ha dei collassi e dolori lancinanti. Lei ha la temperatura corporea a 34 gradi e la pressione arteriosa bassa. Dai controlli emerge che uno dei feti respira male e che bisognerebbe intervenire, ma il medico di turno, mi dicono i familiari presenti, si sarebbe rifiutato perché obiettore: “fino a che è vivo io non intervengo”, avrebbe detto loro». E’ un caso di femminicidio, di uomini che odiano le donne in un Paese talmente deteriorato che, oltre a inventarsi il fertility day, smantella il welfare, chiude i centri antiviolenza e intasa il servizio sanitario nazionale di medici obiettori che mettono a rischio la vita delle donne oltre a compromettere il diritto alla salute e all’autodeterminazione. Gli obiettori sono dei serial killer invasati? Certo che è un curioso e grottesco rispetto della vita che li fa agire.

Tutto ciò in una giornata già insanguinata dall’uccisione a Napoli di Stefania Formicola, 28 anni, madre di due bimbi di 4 e un anno e mezzo.  Un colpo al petto, in automobile. Sparato da Carmine D’Aponte, 33 anni, marito che non sopportava la separazione. Marito violento. Stefania non aveva mai denunciato queste violenze, «perché aveva paura che succedesse quanto successo, aveva paura che lui diventasse ancora più violento», dice la madre. Una denuncia, agli atti, c’è, confermano i carabinieri di Giugliano che indagano: a presentarla è stata l’omicida a carico del suocero con l’accusa di essere lui vittima di minacce.
Dall’inizio dell’anno sono oltre settanta le donne uccise in Italia dal partner o ex partner, 157 da gennaio 2015, 1742 negli ultimi dieci anni, stando ai dati del Telefono Rosa. Ma mentre in Italia aumenta tragicamente il numero dei femminicidi, mentre il senatore Grasso, la ministra Boschi e tutte le istituzioni nazionali e locali s’indignano, diversi centri antiviolenza sono stati chiusi e molti altri sono a rischio chiusura per mancanza di fondi.
Per dare voce alle donne vittime di femminicidio e a tutte le altre calcolate in 9 milioni che subiscono violenza tra le mura domestiche, la rete romana IoDecido, l’UDI, e l’associazione Donne in Rete contro la Violenza (DIRE) che rappresenta 75 centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale, hanno lanciato un appello che segna la mappa di un percorso che dovrebbe portare ad una manifestazione nazionale a Roma il prossimo 26 novembre e il giorno dopo a un convengo sul tema della violenza di genere, perché la giornata internazionale contro la violenza alle donne non resti solo una mera celebrazione sulla Carta dell’ONU.
“Ni una menos! Non una di meno”, inizia così l’appello che riprende lo slogan delle battaglie delle donne latinoamericane, perché se la violenza di genere non ha confini anche la guerra contro deve internazionalizzarsi. Il 26 novembre un corteo attraverserà le strade della capitale e il giorno dopo sarà dedicato “all’approfondimento e alla definizione di un percorso comune che porti a politiche più efficaci e alla revisione del Piano straordinario nazionale antiviolenza”. Per info e adesioni: [email protected] Testo integrale dell’appello sulla pagina Fb “Io Decido”

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/10/19/catania-un-medico-obiettore-ha-ucciso-una-donna/

 

Qui i link  con le notizie sulle vicende sopra riportate:

http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/10/19/news/catania_donna_incinta_muore_con_i_due_gemellini_procura_apre_inchiesta-150113267/

http://www.napolitoday.it/cronaca/omicidio-stefania-formicola-madre-commento.html

 

Cantiamo della libertà delle donne, non della loro morte

Wed, 19/10/2016 – 17:11
di

Femminist* di Ri-Make

Eri stata avvertita ricordi quegli scleri / Io te lo avevo detto avevo dei problemi seri / E ora hai paura perché tutti quei brutti pensieri / Da qualche giorno hanno iniziato a diventare veri / E adesso guido verso casa tua che vivi a Monza / Pieno di cattive idee dettate da un sbronza / Volevo abbassare le armi ora dovrò spararti / Non mi dire di calmarmi è tardi stronza / Fanculo il senso di colpa non ci saranno sbocchi / Voglio vedere la vita fuggire dai tuoi occhi / Io c’ho provato e tu mi hai detto no / E ora con quella tua testa ti ci strozzerò

Queste sono le parole con cui si conclude il brano Tre messaggi in segreteria di Emis Killa, presente all’interno dell’album che verrà presentato oggi, 19 ottobre, a San Babila, Milano.
Il rapper ha affermato di aver scritto questo brano con lo scopo di sollevare l’attenzione pubblica sul tema della violenza sulle donne. Tuttavia ci preoccupano le modalità con cui ha scelto di parlare di un argomento tanto delicato.

In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa e nell’ottanta per cento dei casi il colpevole del femminicidio è il suo partner. In Italia sono 6milioni e 788mila le donne che, nell’arco della loro vita, subiscono un abuso fisico e\o sessuale, il che significa una donna su tre. I dati Istat del 2015 non possono invece rilevare gli abusi non dichiarati, le violenze di genere non denunciate, e tutte quelle situazioni terrificanti che rimangono dietro la porta di casa. Non possono inoltre rivelare gli innumerevoli casi di donne maltrattate, abusate, violentate che faticano più d’altre a intraprendere un percorso di uscita dalla violenza.

L’argomento va toccato, va analizzato. In Italia – come ovunque – è necessario parlare di violenza sulle donne proprio per trovare meccanismi in grado di smontarla, di decostruirla e proprio per trovare strumenti con cui educare alla sua prevenzione. Quello che assolutamente non va, nel testo di Emis Killa, non è tanto la volontà di parlare di un argomento così rilevante, ma senz’altro il modo in cui il cantante ha scelto di farlo.

Perché parlarne in prima persona e soprattutto assumendo il punto di vista del femminicida?
Perché non ribaltare la narrazione suggerendo alle ascoltatrici e alle fan che dalla violenza si può uscire?

Immaginate per un attimo lo sgomento che si sarebbe generato se Emis Killa avesse invece voluto parlare non di violenza sulle donne ma di pedofilia: ve la immaginate una canzone in cui parla in prima persona del desiderio di abusare di un\una bambino/a? E vi immaginate invece se avesse scelto di parlare in prima persona della volontà di massacrare di botte un/una migrante? Vi immaginate se avesse voluto problematizzare col suo testo l’olocausto descrivendo in prima persona il desiderio di un nazista di uccidere un/una ebreo/a? Potremmo andare avanti all’infinito. Avremmo trovato accettabile una canzone così?

Quello che colpisce in questa storia non è soltanto il testo, grave e inquietante, ma anche il numero di tutte e tutti quelle/i che che sostengono che cantare di violenza sulle donne – in questi termini – sia accettabile mentre parlare di abusi su bambini/e non lo sia.

Interroghiamoci sui motivi che ci spingono a sottovalutare un brano che parla di femminicidio, a giustificarne uno che parla di violenza di genere e di stalking sostenendo che si tratti “solo di una canzone”. Domandiamoci come mai invece vengano aperte giuste polemiche nel momento in cui il soggetto oppresso, violentato, ucciso è un altro.
Quanto è inquietante inoltre immaginare il prossimo concerto di Emis Killa con migliaia di persone che all’unisono intonano la frase “preferisco saperti morta che con un altro”?

A noi fa venire i brividi, perché sappiamo che la violenza di genere è una questione seria, che ci tocca tutte da vicino, a cui tutte passiamo accanto almeno una volta nella vita – una, se siamo fortunate.
A noi fa venire i brividi perché sappiamo che non tutti/e hanno purtroppo gli strumenti per scindere una “semplice” canzone da un aperto suggerimento. Perché sappiamo che la violenza sulle donne è una questione di vita o di morte.

Oggi Emis Killa presenta il suo nuovo album e questa canzone.
Oggi in Argentina le donne di tutto un paese si sono fermate, scioperano dal lavoro o dallo studio e scendono per le strade al grido #NiUnaMenos perché scosse dall’ennesimo caso di femminicidio e di stupro, questa volta subito della quindicenne Luisa Perez.
Oggi a Milano contestiamo un testo che reputiamo violento.

Perché siamo stufe di essere le vittime, perché rivogliamo indietro la nostra indipendenza e le nostre vite, perché è di questa rabbia, di questa ribellione, di questa libertà che vogliamo cantare tutte assieme, e farci sentire sin dall’altra parte dell’oceano.

Il 26 novembre, a Roma, parteciperemo al corteo nazionale contro la violenza di genere: non accetteremo che la violenza sessista e machista porti via un’altra di noi e il nostro canto, non a caso, in quell’occasione sarà #NonUnaDiMeno.

Fermiamo la violenza sulle donne e chi la istiga.

 

 

Fonte:

http://www.communianet.org/gender/cantiamo-della-libert%C3%A0-delle-donne-non-della-loro-morte

Argentina, le donne scioperano contro la violenza di genere. #NiUnaMenos.

Dal blog di Bob Fabiani:

Oct 19

 

Una cinquantina di organizzazione che lottano contro la discriminazione e la violenza di genere hanno invitato le donne argentine a vestirsi di nero e ad abbandonare il loro posto di lavoro per un’ora (è accaduto tra le 13 e le 14 di oggi, 19 ottobre) in quello che è stato ribattezzato il #MiercolesNegro (mercoledì nero). 

La protesta è nata in seguito alla morte di Lucia Perez, sedicenne violentata e uccisa a Mar del Plata, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 2016. 

Nel pomeriggio di oggi, 19 ottobre è prevista anche un’imponente manifestazione di piazza a Buenos Aires. 
(Fonte.:lanacion;bbc)
Bob Fabiani
Link
-www.lanacion.com.ar/paro-de-mujeres-y-reclamo-en-el-obelisco;
-www.bbc.com/news/world-latin-america/argentine-women-to-strike-after-fatal-rape-of-teenager

Fonte:
http://bobfabiani.blogspot.it/2016/10/argentina-le-donne-scioperano-contro-la.html

Donna uccisa a Ravenna, uxoricida partecipò a serata antiviolenza

E’ in stato fermo a Firenze per omicidio e occultamento cadavere

Matteo Cagnoni, il dermatologo arrestato a Firenze per l’omicidio della moglie Giulia Ballestri a Ravenna, nel 2013 collaborò a una serata organizzata da Linea Rosa, associazione che tutela le donne vittime di violenza. La conferenza si tenne al teatro Rasi di Ravenna, come ricorda – intervistata dal Resto del Carlino – la presidente di Linea Rosa Alessandra Bagnara: “Fu lui a contattarci perché, disse, avrebbe voluto organizzare un evento che potesse aiutare Linea Rosa. E infatti il ricavato della serata fu devoluto all’associazione. Ci furono diversi incontri preparatori, e la moglie veniva sempre insieme a lui. Ci aiutò parecchio”. Cagnoni, noto anche per varie apparizioni tv, è accusato di aver ucciso la moglie a colpi di bastone in una villa disabitata. I due si stavano separando. Dopo il delitto l’uomo è fuggito con i figli a Firenze, sua città di origine. E’ stato bloccato a casa dei genitori ed è in stato di fermo per omicidio pluriaggravato e occultamento di cadavere.

Uccisa con cranio fracassato a Ravenna, fermato marito – Colpita a bastonate, trascinata giù per le scale, finita nello scantinato da un omicida che ha infierito sul suo capo. E’ morta così Giulia Ballestri, ravennate di 40 anni compiuti sabato scorso, trovata morta a Ravenna dopo che i familiari, che non avevano sue notizie da un paio di giorni, hanno dato l’allarme. Un omicidio realizzato con “violenze quasi inaudite”, per dirla con le parole del procuratore capo della città romagnola, Alessandro Mancini. Per il delitto è stato fermato il marito: Matteo Cagnoni, 51 anni, noto dermatologo di una famiglia abbiente e conosciuta anche a Firenze, di cui è originario. I due si stavano separando, lei voleva il divorzio. L’uomo è stato fermato proprio nel capoluogo toscano con l’accusa di omicidio aggravato della moglie, ma anche di occultamento di cadavere, per via della posizione nella quale è stato trovato il corpo.

La notte scorsa la polizia si è presentata infatti nella villa dei genitori di Cagnoni, in via Bolognese, per una perquisizione alla ricerca di elementi utili alle indagini. Ma vedendo i poliziotti il 51enne è scappato, lungo l’argine del torrente Mugnone. Era anche riuscito a far perdere le proprie tracce, ma qualche ora dopo è tornato a casa dei genitori, credendo che non ci fossero più agenti, e lì è stato bloccato. Ha detto di essersi impaurito alla vista della polizia, senza fare alcun riferimento alla moglie. Gli investigatori invece non escludono che stesse cercando di fuggire all’estero coi figli, che aveva portato con sé a Firenze: in una giacca aveva una somma importante in contanti, e i passaporti, il suo e quelli dei figli, tutti bambini tra i 6 e gli 11 anni. Il corpo della moglie è stato trovato nello scantinato di una villa di famiglia in via Padre Genocchi, a Ravenna. A denunciare la scomparsa di Giulia era stato il fratello, insospettitosi dopo avere trovato l’auto di lei in via Giordano Bruno davanti a casa con le portiere aperte. La polizia ha così setacciato tutte le dimore di famiglia arrivando anche a quella dove c’era il cadavere della 40enne. La villa – disabitata in questo periodo – era chiusa a chiave con allarme inserito, e ad avere le chiavi erano solo Giulia e il marito. Nella casa la polizia scientifica ha repertato numerose tracce di sangue, le più copiose nello scantinato dove c’era il cadavere.

L’arma del delitto, un bastone di legno, è già stato recuperato dagli inquirenti e anch’esso presenta molte tracce ematiche. La vittima addosso aveva solo un reggiseno. Sulla base degli elementi accertati gli inquirenti hanno ipotizzato che la donna possa essere stata colpita al piano superiore, trascinata giù per le scale battendo la testa sui gradini e poi sia stata finita nello scantinato. L’omicida ha infierito con violenza, con più colpi in testa. Non è ancora chiaro quando sia successo, ma da quello che ha stabilito il medico legale la morte risale a circa 72 ore prime del ritrovamento del corpo. L’ultimo contatto della donna con la famiglia risale a giovedì sera, quando aveva inviato un messaggio al fratello. Chi indaga su questo ennesimo femminicidio valuta che la causa scatenante della violenza dell’uomo sia stata il fatto che i due coniugi, sebbene ancora convivessero, si stavano effettivamente separando: Giulia era intenzionata ad arrivare fino al divorzio. Dilemmi che forse saranno chiariti nell’interrogatorio di convalida del fermo nei prossimi giorni. Sgomento e dolore sono stati espressi dal sindaco di Ravenna, Michele De Pascale, secondo cui episodi come quello odierno devono spingere a proseguire con maggiore impegno nella lotta alla violenza di genere.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Fonte:
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Non una di meno: per una grande manifestazione delle donne

Appello verso una manifestazione nazionale a Roma per sabato 26 novembre. In occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne del 25 novembre.

Un corteo che porti tutte noi a gridare la nostra rabbia e rivendicare la nostra voglia di autodeterminazione con lo slogan “”Ni una menos, non una di meno!”

Non accettiamo più che la violenza condannata a parole venga più che tollerata nei fatti. Non c’è nessuno stato d’eccezione o di emergenza: il femminicidio è solo l’estrema conseguenza della cultura che lo alimenta e lo giustifica. E’ una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata. La libertà delle donne è sempre più sotto attacco, qualsiasi scelta è continuamente giudicata e ostacolata. All’aumento delle morti non corrisponde una presa di coscienza delle istituzioni e della società che anzi continua a colpevolizzarci. I media continuano a veicolare un immaginario femminile stereotipato: vittimismo e spettacolo, neanche una narrazione coerente con le vite reali delle donne. La politica ci strumentalizza senza che ci sia una concreta volontà di contrastare il problema: si riduce tutto a dibattiti spettacolari e trovate pubblicitarie.

Non c’è nessun piano programmatico adeguato. La formazione nelle scuole e nelle università sulle tematiche di genere è ignorata o fortemente ostacolata, solo qualche brandello accidentale di formazione è previsto per il personale socio-sanitario, le forze dell’ordine e la magistratura. Dai commissariati alle aule dei tribunali subiamo l’umiliazione di essere continuamente messe in discussione e di non essere credute, burocrazia e tempi d’attesa ci fanno pentire di aver denunciato, spesso ci uccidono. Dal lavoro alle scelte procreative si impone ancora la retorica della moglie e madre che sacrifica la sua intera vita per la famiglia.

Di fronte a questo scenario tutte siamo consapevoli che gli strumenti a disposizione del piano straordinario contro la violenza del governo, da subito criticato dalle femministe e dalle attiviste dei centri antiviolenza, si sono rivelati alla prova dei fatti troppo spesso disattesi e inefficaci se non proprio nocivi. In più parti del paese e da diversi gruppi di donne emerge da tempo la necessità di dar vita ad un cambiamento sostanziale di cui essere protagoniste e che si misuri sui diversi aspetti della violenza di genere per prevenirla e trovare vie d’uscita concrete. È giunto il momento di essere unite ed ambiziose e di mettere insieme tutte le nostre intelligenze e competenze. A Roma da alcuni mesi abbiamo iniziato a confrontarci individuando alcune macro aree – il piano legislativo, i CAV e i percorsi di autonomia, l’educazione alle differenze, la libertà di scelta e l’IVG – sappiamo che molte altre come noi hanno avviato percorsi di discussione che stanno concretizzandosi in mobilitazioni e dibattiti pubblici. Riteniamo necessario che tutta questa ricchezza trovi un momento di confronto nazionale che possa contribuire a darci i contenuti e le parole d’ordine per costruire una grande manifestazione nazionale il 26 novembre prossimo.

Proponiamo a tutte la data di sabato 8 ottobre per incontrarci in una assemblea nazionale a Roma, e quella del 26 novembre per la manifestazione.

Proponiamo anche che la giornata del 27 novembre sia dedicata all’approfondimento e alla definizione di un percorso comune che porti alla rapida revisione del Piano Straordinario Nazionale Anti Violenza.

Queste date quindi non sono l’obiettivo ma l’inizio di un percorso da fare tutte assieme.

Realtà Promotrici: Rete IoDecido, D.i.Re – Donne in Rete Contro la violenza, UDI – Unione Donne in Italia. Per info e adesioni: [email protected]

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/non-una-di-meno-verso-una-grande-manifestazione-delle-donne

 

 

Leggi anche qui:

http://www.corriere.it/cronache/speciali/2016/la-strage-delle-donne/

Il calvario sessuale delle siriane in Libano

 La tragica condizione delle donne siriane rifugiate in Libano, vittime di abusi e violenze (domestiche e non)

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di Yeghia Tashjian – Nasawiya*

L’International Rescue Committee ha identificato tre sfide principali che le donne siriane rifugiate stanno affrontando in Libano: molestie e sfruttamento sessuale, l’aumento della violenza domestica (dando la sgradevole sensazione di non essere sicure a casa propria) e matrimoni forzati e precoci.

Le organizzazioni internazionali e locali stanno facendo del loro meglio per superare queste situazioni, ma c’è ancora molto da fare. Le siriane in Libano rischiano di essere molestate ogni giorno, quando vanno a comprare il pane, quando passeggiano per strada, quando vanno a scuola e persino quando vanno nei bagni dei campi profughi. Sembrerebbe che il sovraffollamento dei campi e la mancanza di privacy per le donne (che non hanno accesso a bagni e docce separati) siano alcune delle ragioni di questa situazione.

Molestie e sfruttamento sessuale

Secondo Hiba Habbani, project coordinator della Ong per i diritti delle donne Kafa, molte rifugiate siriane subiscono molestie anche quando tentano di accedere a servizi sociali. Ad esempio le donne che vengono percepite come di bell’aspetto ricevono trattamenti privilegiati nella fila per gli aiuti umanitari, a condizione di prestare determinati favori a chi di dovere.

Anche l’accesso ai servizi medico-sanitari è utilizzato come mezzo di sfruttamento. Secondo Lama Naja, Emergency Response Program Manager nella Ong Abaad, le molestie sessuali vengono compiute da parenti, da altri residenti nel campo e da persone esterne (sia libanesi che siriane). Il Libano ha, fino a un certo punto, leggi abbastanza moderne in materia di violenza domestica (soprattutto se paragonato ad altri paesi dell’Area), ma continua a trattare questi uomini e queste donne in modo ingiusto; ben pochi rifugiati siriani e siro-palestinesi sono in grado di accedere al sistema giudiziario per far valere i propri diritti quando vengono maltrattati.

Violenze domestiche

La ragione principale della violenza domestica non è la rabbia, ma una profonda struttura di potere che favorisce la mascolinità. Molti rifugiati siriani provengono da zone rurali dove la società è tendenzialmente patriarcale. È importante sottolineare che più volte le ragazze hanno dichiarato di aver subito violenza dal padre o dai fratelli maggiori. Questo le spinge a scappare dai campi profughi, esponendosi a rischi addirittura peggiori.

Matrimoni forzati

Nell’area i matrimoni precoci sono una tradizione consolidata, ma diverse associazioni hanno dichiarato di aver registrato un significativo aumento di questa pratica all’interno dei campi profughi siriani in Libano. Maria Semaan, program coordinator del Child Protection Program della Ong Kafa, ha identificato in alcune tradizioni religiose e culturali. “I matrimoni precoci hanno a che fare con la cultura”, ha detto Semaan. “Tutte le religioni qui presenti sembrano permetterli, il che ha reso la pratica perlomeno culturalmente accettata. Ed è, allo stesso tempo, considerata un modo per impedire rapporti sessuali prematrimoniali”.

Ma in questo caso specifico, sostiene Semaan, è il fattore economico a giocare un ruolo molto importante. Le famiglie giustificano le loro azioni dicendo di dover organizzare questi matrimoni per proteggere le loro figlie o per alleggerire le proprie difficoltà economiche; ma in realtà, invece di proteggere le ragazze, le conducono dritte verso l’inferno della violenza domestica. Secondo alcune Ong, molte famiglie siriane stanno usando le proprie figlie come merce di scambio per avere cibo, case in affitto, favori e beni di altro tipo.

L’instabilità economica rende le donne anche vulnerabili allo sfruttamento sessuale e all’abuso degli operatori umanitari, alla prostituzione forzata e alla tratta di esseri umani. “Le famiglie sono disperate e finiscono con l’essere disposte a fare tutto ciò che è necessario per sopravvivere”, ha dichiarato un operatore in un campo libanese che ha chiesto di rimanere anonimo. “Donne e ragazze accettano di sostenere un matrimonio temporaneo in cambio di soldi o di aiuti per ottenere visti e permessi vari”.

Secondo uno studio condotto dalla S. Joseph University, il 24 percento delle ragazze siriane rifugiate in Libano si sposano prima di raggiungere i 18 anni di età. I genitori, ridotti alla fame, non vedono alternative se non quella di trovare dei mariti per le loro figlie. Ma prendere delle scelte del genere sottopone le ragazze a seri pericoli per la salute, oltre al fatto che in questo modo non possono avere alcuna istruzione né opportunità professionale.

Hurriyah, una 12enne di Idlib fuggita 3 anni fa insieme alla famiglia, frequentava la scuola. In Libano un ragazzo di 17 ha iniziato a seguirla e a molestarla. Preoccupato dai conseguenti pettegolezzi sulla figlia, il padre ha deciso di organizzare per lei un matrimonio con uomo adulto per “proteggerla”. Un altro caso di matrimonio forzato è quello di Nour, una ragazza siriana di 13 anni costretta a sposare un uomo di 27 anni. I suoi genitori hanno detto all’Unicef che i due non si erano mai incontrati prima del matrimonio e che sono stati costretti a organizzare la cosa per motivi puramente economici, dato che il padre non era più in grado di prendersi cura di lei.

La Reuters ha mostrato che ci sono circa 500mila bambini siriani in Libano. Di questi soltanto un quinto è iscritto a scuola. Nonostante il ministro dell’Istruzione libanese abbia annunciato una campagna di scolarizzazione che avrebbe fornito educazione gratuita per circa 200mila bambini siriani, molti di loro sono ancora sparsi nella Capitale e preferiscono elemosinare per strada e aiutare le proprie famiglie piuttosto che andare a scuola.

Il governo libanese, con la cooperazione di Ong locali ed internazionali, può certamente adottare delle misure per superare queste crisi. Innanzitutto dovrebbe aumentare il numero di spazi sicuri per donne e ragazze all’interno dei campi. Le Ong dovrebbero poi fornire dei corsi, rivolti a uomini e donne, in cui vengono annunciati i diritti garantiti dalla legge (anche nei villaggi lungo il confine, dove sono concentrati molti rifugiati). Sarebbe necessario inoltre costruire centri clinici e sportelli per chi ha subito molestie sessuali, in modo da monitorare l’incidenza della violenza sessuale nei campi. È infine fondamentale che ci sia cooperazione tra il Ministero dell’Interno e quello degli Affari Sociali, in modo che entrambi possano adottare meccanismi legali per proteggere le donne che subiscono attacchi fisici o violenze dai propri famigliari.


Yeghia Tashjian è laureato in Scienze Politiche presso l’Università Haigazian di Beirut, in Libano. È un attivista politico, ricercatore e blogger armeno-libanese nonché fondatore del blog “New Eastern Politics”. È portavoce regionale del think tank Women in war e ricercatore dell’Armenian Diaspora Research Center dell’Università Haigazian. Potete seguirlo su Twitter: @yeghig

 

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/07/calvario-sessuale-rifugiate-donne-siriane-libano/

Guardate il volto di Federica e denunciate.

Ieri Federica De Luca ha sfilato per le strade di Taranto così. No non voltate lo sguardo dall’altra parte. Questa è la morte di una ragazza che aveva sogni, progetti e un bimbo di appena quattro anni da crescere, morto anche lui.

Le immagini di Federica De Luca diffuse dalla sua famiglia per denunciare il fenomeno della violenza sulle donne

Le immagini di Federica De Luca diffuse dalla sua famiglia per denunciare il fenomeno della violenza sulle donneFe

Ieri i suoi genitori (Rita e Vincenzo De Luca) si sono rinnovati un dolore ma fieramente l’hanno esposta agli sguardi del mondo nella fiaccolata organizzata dall’AVO, l’Associazione Volontari Ospedalieri di Taranto e dalla sua presidente Anna Pulpito. Lo hanno fatto rendendola testimone di una missione importante. Scuotere gli animi di un territorio che ogni giorno registra centinaia di abusi e violenze così. Su donne adulte come Federica o come la ragazza morta nell’aprile scorso sulla strada che porta da  Lizzano a Pulsano per un incidente stradale provocato dagli schiaffi e dai pugni che il suo compagno gli sferrava mentre lei era alla guida.

Sono bambini come AndreaAlfarano (il figlio di Federica e di Luigi Alfarano il loro assassino) o come Carmela Frassanito la ricordate vero? La 13enne che dopo anni di stupro di gruppo decise di buttarsi di sotto da un palazzo di Paolo VI.

Tutte vittime di violenze ignobili subite in silenzio, dentro casa o poco vicino dalle mani di mariti, padri, fidanzati, amici. Spesso insospettabili. Uomini irreprensibili fuori e mostri tra le mura domestiche. Oppure sbandati convinti che tutto gli sia dovuto.

Ma la violenza che le donne subiscono è doppia. C’è quella fisica, morale, sessuale, verbale di uomini che neanche le bestie. E poi c’è il sibilo assordante di un’altra violenza, quella della società, dell’opinione pubblica che di fronte a certi atti vili e violenti è portata a tacere, giustificare, coprire o edulcorare colpe e responsabilità. Questa è complicità bella e buona e non ce ne vogliano i congiunti dei mostri, ma così è!

A Taranto il fenomeno delle violenze domestiche è più diffuso di quanto appaia.

Perché la violenza ha tanti volti. C’è la violenza fisica con oggetti lanciati per colpire, soffocamenti, morsi, pugni, schiaffi. C’è quella psicologica con le minacce ripetute, la derisione, le pesanti offese, lo svilimento continuo e costante della donna e parole come sei “una puttana” una “donna di merda”, “non vali un cazzo”. C’è la violenza sessuale, si anche se si tratta del proprio marito, perché una intimità indesiderata ottenuta con coercizione, violenza, abuso o umiliazione nulla c’entra con l’amore. E c’è anche la violenza economica di uomini che dopo averle tentate tutte anche in presenza di figli decidono che se non possono essere i “padroni” di quella donna saranno i “padroni” del loro status sociale ed economico e non provvederanno più a pagare le bollette o il mantenimento, perché non c’è soddisfazione più grande per certi uomini che vedere gli stenti o la sofferenza sul volto di chi dicono di amare.

Questi uomini sono nostri figli, fratelli, amici, padri, vicini di casa. Sono operai, manager, giovani o vecchi. Sono tanti purtroppo. Troppi anche rispetto alle denunce che ad esempio ogni giorno l’AVO l’Associazione Volontari Ospedalieri che ieri ha organizzato la fiaccolata, registra tra le corsie del SS. Annunziata tra lacrime, paura e occhi pesti.

Le donne hanno paura, forse vergogna. E’ cosi nella spirale della violenza indotta da questi uomini. Un vortice fatto di isolamento, intimidazioni, minacce, ricatto sui figli, aggressioni e periodi di relativa calma dove tutto sembra svanito e invece no. Le false riappacificazioni servono al mostro solo per prendere fiato e confondere ancora la sua preda.

A Taranto Federica e il suo bambino sono le ultime vittime note di questa spirale.

Guardatela e denunciate!

A margine di questo servizio segnaliamo inoltre che è partita in tutta Italia la campagna del ministero dell’interno #questononèamore. In 14 città italiane (Sondrio, Brescia, Bologna, Arezzo, Macerata, Roma, L’Aquila, Pescara, Matera, Campobasso, Cosenza, Palermo, Siracusa e Sassari) saranno presenti e a disposizione postazioni mobili della Polizia con un team di operatori specializzati. Taranto ancora una volta da questo progetto è esclusa e questo è un male!

 

Fonte:

http://www.tvmed.tv/guardate-il-volto-di-federica-e-denunciate-ieri-alla-fiaccola-avo/

“Piccola storia ignobile”

Dal blog di Lorenza Valentini:

lunedì 30 maggio 2016

Piccola storia ignobile. *

In realtà Piccola storia ignobile è una canzone sull’aborto, ma c’è una frase che mi gira in testa: “così solita e banale come tante“.
No, non credo affatto che la storia di Sara, bruciata viva dall’ex fidanzato e morta alla periferia di Roma sia una storia “solita e banale”, ma sento che lo sono invece le parole che sto usando io.
Che di nuovo mi ritrovo a cercare di capire che cosa spinga i media italiani ad affrontare questa e le altre centinaia di storie uguali in un certo modo, offrendoci un certo tipo di racconto, banalizzandolo e allo stesso tempo “normalizzandolo” relegandolo alla “follia” del singolo.
Perché se il femminicida è sempre un “pazzo” o un “malato”, allora in qualche modo la storia assume un senso che le trova un posto facendola diventare quasi un “normale” fatto di cronaca nera.
Ho scritto altri mille post uguali, lo so. Sono stanca io per prima.
Centinaia di parole buttate al vento chiedendomi e chiedendoci cosa porti un uomo a credere che una donna sia una cosa di sua proprietà, fino al punto di ucciderla pur di non lasciarla libera di vivere la propria vita.
Io ho un’idea molto chiara in merito: si chiama cultura patriarcale, una cultura che con buona pace di tante e tanti autorevolissim* studios* non è morta affatto, anzi. Lo diciamo in tante e tanti, ma a quanto pare non basta ancora. Una cultura che naviga felice nelle disuguaglianze di genere e nei rapporti di potere tra uomini e donne, vecchi eppure sempre presenti.
Anche oggi quello che mi colpisce maggiormente è il racconto del femminicidio da parte dei media.
Rory Cappelli, su La Repubblica chiude il suo pezzo scrivendo:

E il resto è orribile cronaca. Che si sarebbe potuta evitare – dicono gli inquirenti – se solo lei avesse avuto il coraggio di denunciare le continue vessazioni psicologiche. Se solo gli amici, le amiche e i familiari non avessero sottovalutato. Se solo quei due che sono passati in macchina si fossero fermati.

Giorgia Meloni, candidata sindaca di Roma, la mia città, dice che questa è una città insicura, quindi nessuno si è fermato quando Sara chiedeva aiuto in strada perché a Roma abbiamo paura.
La vita in diretta ci fa sapere che l’assassino ha confessato “tra le lacrime” perché “non sopportava che fosse finita”.
E vi risparmio le solite, vergognose gallerie fotografiche piene di immagini saccheggiate dall’account facebook della vittima.
Su tutte, quella che la ritrae sorridente con l’assassino.
E il sottotesto di ogni parola usata in queste ore:
E pure lei, però. Non ha denunciato.
E pure gli amici suoi, però. Non hanno fatto niente.
E pure la famiglia di lei, però. Non ha capito.
E pure quelli in macchina, però. Non si sono fermati.
Come in ogni femminicidio che si rispetti, il racconto dei media sembra dire che l’unico che non ha mai colpe è sempre l’assassino. Quello al massimo è geloso, matto, impazzito, depresso, preda di un raptus.
* Piccola storia ignobile, Francesco Guccini, Via Paolo Fabbri 43, 1976
Fonte: