Cosa sappiamo finora dell’attentato all’aeroporto di Istanbul

All’aeroporto Atatürk di Istanbul, il 29 giugno 2016. - Osman Orsal, Reuters/Contrasto
All’aeroporto Atatürk di Istanbul, il 29 giugno 2016. (Osman Orsal, Reuters/Contrasto)
  • 29 Giu 2016 10.42

Cosa sappiamo finora dell’attentato all’aeroporto di Istanbul

La sera del 28 giugno c’è stato un attacco terroristico all’aeroporto Atatürk di Istanbul. L’attentato ha causato 41 morti e 239 feriti. Ecco cosa sappiamo finora.

  • Verso le 22 (le 21 in Italia), tre attentatori hanno aperto il fuoco con dei mitra contro i passeggeri, la polizia e il personale dell’aeroporto fuori e dentro uno dei terminal dedicati ai voli internazionali. Poi, quando la polizia ha cominciato a sparare, gli aggressori si sono fatti esplodere. Non si conosce ancora la loro identità. È circolata l’ipotesi di un quarto attentatore in fuga, ma l’informazione non è stata confermata.
  • Un video circolato su internet mostra uno degli attentatori che corre e apre il fuoco dentro il terminal. La polizia gli spara e l’uomo resta a terra per circa venti secondi prima di farsi esplodere. Secondo un testimone intervistato dalla Bbc, uno degli attentatori era vestito di nero e aveva il volto scoperto.
  • Tra le vittime ci sono almeno 13 stranieri, tra i quali un iraniano e un ucraino, hanno fatto sapere le autorità turche. Secondo la Farnesina per ora non risultano italiani tra le vittime.
  • I feriti sono 239, alcuni in gravi condizioni, secondo un bilancio ufficiale diffuso dalle autorità locali. L’ambasciata dell’Arabia Saudita in Turchia ha dichiarato che tra i feriti ci sono sette sauditi.
  • I voli sono stati sospesi dopo l’attacco. La circolazione degli aerei è ripresa verso le 3 di notte (le 2 in Italia), ma ci sono state molte cancellazioni. L’aeroporto Atatürk è uno dei più frequentati in Europa ed è l’undicesimo nel mondo per traffico di passeggeri.
  • Non è ancora arrivata nessuna rivendicazione, ma le autorità turche sospettano il coinvolgimento del gruppo Stato islamico, come ha confermato il premier Binali Yıldırım. L’attentato all’aeroporto Atatürk è stato ben organizzato e coordinato. Per le modalità ricorda quello del 22 marzo allo scalo di Zaventem a Bruxelles.
  • A Istanbul ci sono stati già tre attentati quest’anno. A colpire la città turca sono stati i militanti curdi, che da decenni combattono per ottenere l’autonomia, ma anche i jihadisti dello Stato islamico, che hanno una forte presenza nel paese e passano per la Turchia sulla strada verso la Siria e l’Iraq.
  • Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha chiesto sostegno alla comunità internazionale, chiedendo una svolta nella lotta al terrorismo. Gli Stati Uniti hanno espresso “fermo sostegno alla Turchia”.

 

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2016/06/29/attentato-istanbul-aeroporto-riassunto

SE LA TURCHIA VOLESSE DAVVERO AIUTARE I RIFUGIATI SIRIANI

Mentre l’esercito continua a sparare e uccidere i profughi al confine con la Siria, per paura di essere espulsi i giornalisti stranieri hanno smesso di raccontare il doppio volto dell’accoglienza turca

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di Rami Jarrah

Undici profughi, tra cui sei bambini, sono stati uccisi da militari turchi mentre tentavano di attraversare il valico di frontiera di Khirbit al Joz dalla città siriana di Idlib. L’incidente, avvenuto nell’ambito della fuga delle famiglie dai combattimenti, non è il primo di questa natura: nel corso degli ultimi mesi, più di 50 rifugiati sono stati uccisi mentre tentavano di attraversare il confine. Vergognosamente neanche uno tra i rapporti sui diritti umani rilasciati è servito a contrastare il fenomeno.

Se la Turchia vuole continuare a proporsi come uno dei principali sostenitori dei profughi siriani, ci sono una serie di passi che deve iniziare immediatamente a fare. Uno è, ovviamente, quello di smettere di uccidere i rifugiati.

Deve poi iniziare a concedere ai cittadini facenti parti di gruppi d’aiuto o equipe mediche la possibilità di Siria, riconoscendo il loro lavoro anche qualora essi fossero non d’accordo con le politiche della Turchia. Al contrario, ora c’è il monopolio dell’IHH (İnsani Yardım Vakfı, una fondazione conservatrice turca di stampo marcatamente confessionale, ndr).

Un’altra cosa sarebbe dare, effettivamente, ai giornalisti l’accesso ai campi proprio come ogni altro stato europeo ha fatto finora. Altrimenti la speranza di entrare in Europa, vissuta dalla Turchia da tanto tempo, dovrebbe essere qualcosa da abbandonare per salvare l’imbarazzo.

I giornalisti che vivono in Turchia non stanno facilitando la questione: ho visto personalmente molti casi di giornalisti stranieri che evitano le storie scomode che coinvolgono la Turchia perché vivono in essa. Ciò è onestamente una vergogna. “Se vai via e inizi a scrivere di Siria e Turchia da Chicago o, se tecnicamente possibile, anche dalla Via Lattea, probabilmente riusciresti a fare un lavoro molto migliore”. Del resto non mi aspetto che i numerosi giornalisti che mi tolgono l’amicizia su Facebook perché sono stato arrestato dai turchi abbiano pubblicato storie in cui si criticano le autorità turche.

Quindi non sarà possibile sapere da loro che i siriani in Turchia non sono in realtà dei rifugiati, che molti di loro sono stati recentemente obbligati e sono in procinto di ottenere un “permesso di soggiorno turistico”. Eppure lo stato turco continua a parlare dei siriani come se fosse un ente di beneficenza.

Qualcuno che paga per un permesso di soggiorno e può permettersi di fare un bonifico di 6000 dollari (uno dei requisiti per il permesso) non richiede denaro dall’Europa per farle finire nelle tasche della Turchia.

La Turchia non è il grande salvatore dei siriani in fuga dal terrore di là del confine. In realtà essa stessa è diventata un grosso ostacolo e i siriani che vi abitano sono silenti solo per una ragione: perché hanno paura.


Nella foto in copertina: profughi bloccati a Khirbet Al-Joz in attesa di un permesso per entrare in Turchia, via Pinterest.

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/06/se-la-turchia-volesse-davvero-aiutare-i-rifugiati/

Dino Frisullo

 

 

 

 

5 giugno 2003, se ne andava Dino Frisullo. Internazionalista e antirazzista, nel cuore e nella testa


5 giugno 2003, se ne andava Dino Frisullo. Internazionalista e antirazzista, nel cuore e nella testa

5 giugno 2016


Eh si ci manca. Come ci mancano De Andrè e Rino Gaetano, Monsignor Di Liegro e Amalia Rosselli, Alda Merini e Pier Paolo Pasolini. Come ci mancano nomi rimasti confinati in angoli remoti nella Storia di questo cazzo di Paese. Un Paese tanto bravo a dimenticare, rimuovere,a cui al massimo va una viuzza o un ricordo televisivo, ma solo se fa audience o se porta ad aumentare il consenso politico al leader di turno.

Compagni come Dino Frisullo, forse verranno ricordati diversamente quando saremo in un Paese diverso, quando vivremo in un contesto in cui saremo capaci di vergognarci del nostro egoismo, del nostro razzismo diffuso, dell’ignoranza che ha accompagnato le nostre vite. Se ne andava oggi nel 2003, in tempo per compiere i 51 anni, anni vissuti con intensità totale, con la stessa voracità delle sigarette fumate, degli articoli scritti, dei viaggi fatti senza risparmiarsi. Persona incasellabile: giornalista lo è stato ed a un livello che la mediocrità odierna poco conosce, militante antirazzista che non accettava mediazioni al ribasso, compromessi di bottega, doveri di partito. Kurdo fra i kurdi, in carcere come nei colori del Newroz, palestinese fra i palestinesi, in un corteo a Gerusalemme come in una piazza romana, migrante fra gli immigrati, all’occupazione della Pantanella come in una Piazza Navona orgogliosamente antirazzista.

Una vita senza respiro e senza lasciare respiro a chi gli stava intorno, fatta di discussioni interminabili, di vino buono e di cibo delle regioni che più lo avevano accolto, Puglia ed Umbria. Un sorriso contagioso come la capacità di squadernare la vita di chi con lui ha provato a cambiare il mondo, una determinazione pasticciona ed eternamente precaria, senza il bisogno di pensare al futuro come qualcosa di personale. Perché per Dino il futuro e il presente non potevano essere ridotti alla vita individuale. Ci manchi Dino, manca la tua caparbietà e il tuo radicalismo, la genialità arruffona e il tuo vivere prima che dichiararti, da comunista. E manca ancora un Paese capace di non dimenticarti, in cui prevalga la curiosità e la domanda profonda: “Chi c’era dietro quella foto? Perché c’è ancora chi lo ricorda con nostalgia e rabbia?”

Stefano Galieni

 

*

Dino Frisullo: una poesia

Chi era Dino Frisullo?

 

Dino Frisullo, un uomo che ha dedicato tutta la sua vita per la lotta del popolo kurdo.

Qui di seguito una sua poesia

 

Livide d’improvviso le luci di montagna.

Ferma e dolente la luce delle stelle.

Ammutoliti i richiami degli uccelli.

Alle quattro del mattino

la luna piena chiede silenzio al mondo.

Poggia l’orecchio al suolo e ascolta.

Le prime bombe su Baghdad

vibrano dalla terra nelle viscere..

Dopo ogni scoppio la lunga eco

è u milione di cuori di madri all’unisono

è il loro respiro affannoso

che l’Eufrate porta al mare come un grido.

Dorme Khawla la principessina

sulla corona di plastica preme un cuscino sua madre

si chiede se dovrà premere più forte

quando giungerà l’onda d’urto della bomba.

Dopo gli scoppi il tuono immenso

non è il mar rosso che s’innalza a spezzare la portaerei una ad una,

non è il deserto che si leva

a spazzare i blindati con fiato rovene di sabia:

è il fragore di milioni di ruote

carri carretti motocicli in fuga

kurdi arabi povera gente stracci

danni correlati.

Nelle basi sibillano i video.

Sono limitati i computer dei signori della guerra.

Non registreranno il respiro il palpito il pianto.

Non avvertono il terrore e l’ira del mondo.

Non sentiranno aprirsi le acque del Mar Rosso.

 

Dino Frisullo 20 marzo 2003

 

 

Fonte:

http://www.deapress.com/culture/caffe-letterario/15024-dino-frisullo-una-poesia-.html

 

 

Leggi anche qui:

Dino Frisullo: 20.03 2003. Le bombe su Bagdad:

 

http://www.peacelink.it/pace/a/37926.html

 

IL 2 MAGGIO A ROMA. PER I DIRITTI UMANI E LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE

Il 2 maggio a Roma. Per i diritti umani e la libertà di informazione

libertareteLa libertà di pensiero e il diritto di esprimere le proprie opinioni e di informare ed essere informati sono sotto attacco in tutto il mondo e anche in Italia. Ce lo ha raccontato l’ultimo rapporto di Reporteres Sans Frontieres e lo dimostrano le cronache quotidiane. Non possiamo far finta di nulla!

Per illuminare alcune emergenze che nel mondo vedono sotto attacco giornalisti, blogger, citizen journalist e, in generale, chiunque, da attivista o semplice cittadino, voglia esprimere la propria opinione e diffondere notizie non censurate, Articolo 21, con FNSI, UsigRai, RSF Italia e Amnesty International Italia, e con la partecipazione di tante reti e associazioni, a cominciare dalla Tavola della Pace e dal Coordinamento Enti Locali per la pace e i diritti umani, sta organizzando a Roma per lunedì 2 maggio, vigilia della Giornata mondiale per la libertà di stampa, una maratona di sit-in davanti alle ambasciate di alcuni paesi verso i quali già nei mesi scorsi le nostre organizzazioni si sono impegnate per chiedere conto di censure, arresti e leggi liberticide.
A partire dalle 10 e fino alle 13 saremo in presidio davanti alle ambasciate di Iran, Egitto e Turchia, che formano un percorso anche simbolico della sistematica repressione che nel mondo non colpisce più solo la stampa, ma arriva anche a cinema, musica, poesia e persino alla ricerca, come per le persecuzioni in Turchia verso i docenti universitari che chiedevano pace nelle regioni curde.

La mobilitazione, in cui abbiamo coinvolto, oltre alle federazioni dei giornalisti internazionale ed europea, altre grandi associazioni e reti, come Human Rights Watch, ma anche esponenti della cultura e dello spettacolo, si concluderà a piazza Santi Apostoli, vicino alla rappresentanza dell’Unione europea, alla quale abbiamo già chiesto di essere ricevuti, come abbiamo chiesto al Ministro degli esteri Paolo Gentiloni.
In queste sedi porteremo un documento per chiedere alle istituzioni europee e italiane di avviare un’azione ufficiale a difesa della libertà d’informazione, secondo il dettato della nostra Costituzione e dei Trattati dell’Unione, nei confronti di tutti i paesi partner come verso alcuni dei Paesi membri.
Chiediamo a tutte e tutti, come associazioni, reti, ma anche come semplici cittadine e cittadini di partecipare a questo appuntamento con la vostra presenza ma anche con le vostre idee e il vostro ricco patrimonio culturale e politico che da sempre segue i principi ispiratori di questa battaglia per la libertà di espressione.

I promotori sono: 
Articolo 21, FNSI, UsigRai, RSF Italia, Amnesty International Italia, Pressing NoBavaglio

Hanno aderito finora: Arci, Associazione Amici di Padre Dall’Oglio, Associazione Amici di Roberto Morrione, Associazione Diritti e Frontiere (Adif), Associazione Rose di Damasco (Como), Carta di Roma, Cipsi, Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Centro della Pace Forlì\Cesena, Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos, Cospe,  Jobsnews, Libertà e Giustizia nazionale, Rivista Confronti, Coordinamento nazionale degli Enti Locali per la pace e diritti umani, Iran Human Rights, Italians for Darfur, Campagna LasciateCIEntrare, Lettera 22, LiberaInformazione, MoveOn Italia, Pressing NoBavaglio, Tavola della pace, UISP, Voglio Vivere Onlus di Biella

L’evento su facebook

LUOGO E ORA: Roma, 2 maggio 2016 dalle ore 10.00 alle 13.00

Il percorso:

Ore 10.00-11.00 – Consolato Iran – via Nomentana  di fronte alla basilica di S. Agnese (altro lato della via)
Ore 11.00-12.00 – Ambasciata Egitto – via Salaria 267
Ore 11.30-12.30 -Ambasciata Turchia – via Palestro angolo via San Martino della Battaglia (piazza Indipendenza)
12.30  Rappresentanza UE   – piazza SS. Apostoli angolo via Quattro Novembre

21 aprile 2016

Fonte:
http://www.articolo21.org/2016/04/il-2-maggio-a-roma-per-i-diritti-umani-e-la-liberta-di-informazione/

Cosa ha detto Erdogan dopo l’attentato di Istanbul?

Tra notizie false, attacco ai nemici di sempre (i curdi) ed una nuova crociata contro gli accademici che hanno chiesto la fine delle operazioni militare nel Sud-Est del paese. E nessuna parola sul ruolo dell’ISIS.

Ancora bombe in Turchia. Ancora orrore.

Ancora corpi dilaniati e sangue sulle strade.

Questa volta l’attenzione si sposta dal Sud-Est del paese (Kurdistan Turco) – da mesi sotto un’offensiva dell’esercito che pare non avere fine e che ha provocato ad oggi oltre 400 morti – a quello che può essere considerato come il cuore pulsante della Turchia.

Istanbul, città di mezzo tra Europa ed Asia visitata ogni giorno da decine di migliaia di turisti, questa mattina è stata scossa da una forte esplosione. Intorno alle 10:15 ora locale, un attacco suicida ha colpito la zona di Sultanahmet, due passi dalla Moschea Blu e dalla basilica di Santa Sofia. Come ormai da prassi, dopo neanche mezz’ora dall’esplosione e con ancora le vittime per terra, il governo turco ha immediatamente emesso un divieto a tutti i media di trattare della vicenda.

La zona è stata recintata, giornalisti, fotografi ed operatori video costretti ad allontanarsi dall’area. Mentre i media di mezzo mondo rilanciavano le agenzie di stampa e le prime dichiarazioni relativamente al numero delle vittime e dei feriti, nei talk show della televisione turca si faceva finta di niente, come sulla TV di Stato dove proprio in quei minuti si parlava di tutt’altro, ovvero della costruzione di un nuovo segmento stradale (!). “Un divieto che è arrivato più velocemente delle ambulanze sulla scena dell’attentato. Questo è un disastro” ha dichiarato il leader del partito CHP Kemal Kılıçdaroğlu. Dopo neanche due ore dallo scoppio della bomba, l’impasse è stata rotta proprio dal presidente Turco Recep Tayyip Erdoğan con una conferenza stampa in cui dopo le prime frasi di rito, e con ancora tanti dubbi su numero e nazionalità di vittime e feriti, dava la notizia che tutti aspettavano: l’attentatore di Istanbul è un 28enne di origine siriane.

Caso chiuso. Una velocità stupefacente.

Molto più veloce rispetto alle altri stragi che hanno investito il paese negli ultimi 6 mesi: le due bombe durante il comizio elettorale dell’HDP il 5 Giugno a Diyarbakir, l’esplosione all’Amara Center di Suruc che ha fatto 33 morti, il massacro alla marcia per la pace di Ankara il 10 Ottobre. Ma tant’è.

Quello che lascia davvero sconvolti è che dopo aver dato questa notizia, il presidente Erdogan sposti subito l’attenzione verso i nemici storici (i curdi), accanendosi poi contro contro quegli intellettuali ed accademici che hanno sottoscritto nei giorni scorsi un appello internazionale chiedendo l’immediata fine delle operazioni militari nel sud-est del paese.

“Prendete posizione – ha dichiarato Erdogan – Se non siete dalla parte del governo turco, siete dalla parte dei terroristi”. “Questi intellettuali chiamano persone provenienti da altri paesi a seguire la situazione in Turchia. Sono dei traditori”. Erdogan parla dei 1.128 accademici provenienti da decine di università in Turchia, oltre a studiosi provenienti da molti altri paesi, che hanno hanno firmato la dichiarazione. Immediatamente lo YÖK (Consiglio generale per l’educazione) ha dichiarato che “saranno prese le misure giuridiche adeguate contro chi supporta i terroristi”. Nel 1984, il leader della giunta militare Kenan Evren, instauratosi con il colpo di Stato del 1980, definì 383 intellettuali che chiedevano democrazia “traditori”. Dopo 32 anni, oggi Erdoğan ha fatto la stessa cosa.

Erdogan ha poi rincarato la dose affermando che “La Turchia rimane il primo obiettivo dei terroristi perché li combatte con grande determinazione. Non facciamo differenza tra le varie sigle [terroristiche]. Per noi Daesh, PKK e PYD sono la stessa cosa”. Così le organizzazioni della sinistra curda in Turchia e in Siria, dove combattono una lotta all’ultimo sangue contro lo Stato Islamico, sono messe sullo stesso piano proprio con i nemici con cui si scontrano sul terreno. Erdogan ha poi chiuso il suo discorso invitando gli altri Stati ad “intensificare la lotta contro tutti i tipi di terrorismo” suggerendo infine agli ambasciatori turchi di “prendere tutte le misure necessarie per impedire l’aumento della simpatia internazionale nei confronti dei terroristi curdi”.

Poi nelle prime ore del pomeriggio il colpo di scena. L’attentatore di Istanbul si chiama Nabil Fadli, 28 anni, e non è siriano, bensì cittadino dell’Arabia Saudita, militante dello Stato Islamico.

Perché allora Erdogan si è così affannato nel dichiarare che l’attentatore di Istanbul aveva origine siriane?

È evidente che dopo il nulla di fatto da parte della NATO rispetto alla creazione di una buffer-zone del nord della Siria, e dopo le vittorie dei curdi siriani (e dei loro alleati) al califfo di Ankara non vada proprio giù quanto sta accadendo oltre confine. Tanto più dopo che con la liberazione di Tishreen Dam YPG/YPJ ed alleati hanno “infranto” il divieto turco di oltrepassare l’Eufrate, iniziando di fatto l’operazione di liberazione dell’ultimo “pezzo” di confine turco-siriano ancora sotto il controllo di ISIS, lì dove passano ancora mezzi, rifornimenti, armi e uomini che vanno a rinforzare le milizie del califfato, e soprattutto lì dove passano quotidianamente centinaia di autobotti con il petrolio di Daesh.

È ancora presto per designare nuovi scenari, ma certamente se ne aprono di diversi dopo la giornata di oggi. Gli attentati fin’ora attributi ad ISIS hanno colpito esclusivamente i curdi e le organizzazioni politiche della sinistra turca loro alleate. Il fatto che un militante di ISIS scelga come proprio obiettivo Istanbul rivolgendo la propria attenzione “ai turisti”, apre certamente un nuovo capitolo nella storia di “amore” e “odio” tra il governo turco e Daesh.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/cosa-ha-detto-erdogan-dopo-lattentato-di-istanbul

NEI GIORNI DELLA MISERICORDIA I BIMBI ANNEGATI NON FANNO PIU’ NOTIZIA

Nella notte di ieri in un naufragio sulle coste turche sono morti sei bambini tra cui un neonato. E’ stato trovato anche il cadavere di un’altra bimba di cinque anni annegata in un altro naufragio di qualche giorno fa, identificata come Sajida Ali. L’immagine diffusa dai media locali richiama alla mente quella di Aylan Kurdi, anche lui bimbo profugo annegato su una spiaggia turca tre mesi fa. Se ne parlò tanto allora, scattò l’indignazione generale sul web come va di moda adesso, quando succedono tragedie che, per qualche giorno, scuotono coscienze da troppo tempo sopite. E che troppo presto tornano a dormire. Si scatenarono polemiche chiedendosi se fosse giusto o no diffondere l’immagine di quel corpicino esanime. Dibattiti su dibattiti, commenti su commenti com’ è normale che sia per la libertà d’opinione e informazione, ancor di più nell’era digitale. Solo che poi l’indignazione va dove porta il vento, si sposta su nuove “emergenze” e paure di volta in volta indotte. C’è il terrorismo di cui preoccuparsi adesso. La “sicurezza” è la sola cosa che conta, di cui si può parlare  e su cui si deve investire. Ma non è che non abbiamo altri valori e interessi oltre a questo. No, a modo nostro c’è ne abbiamo e le guide non ci mancano: ci sono i grandi della terra che si riuniscono a Parigi (divenuta simbolo della lotta al terrorismo, che ci ha fatto diventare tutti francesi, fino all’ascesa del Fronte Nazionale di Marine Le Pen, ma questo è un altro discorso) per una conferenza sul clima e, soprattutto, c’è un papa che ama tanto la misericordia da decidere un giubileo straordinario. Proprio oggi papa Bergoglio ha inaugurato quest’anno santo nel bel mezzo del delirio securitario, che schiera truppe di uomini armati a difendere la città eterna da eventuali attacchi di terrorismo.
Ma cos’è la misericordia se non (come dice la parola stessa) aprire il proprio cuore a chi è misero? La nostra smania dei grandi eventi di portata mediatica dirige tutta la nostra attenzione all’apertura della Porta Santa. Siamo ormai capaci solo di guardare quello che ci inducono a guardare, di sentire (non ascoltare, che questo presuppone una profondità d’animo sempre più rara) quello che ci vogliono far sentire e di parlare. Amiamo ormai nella stragrande maggiornaza dei casi solo a  parole. Staremo un anno a parlare di misericordia senza sapere di cosa stiamo parlando.

Fortunatamente c’è ancora chi non si livella, chi resiste,come i No Tav in una valle stuprata da un’idea di progresso che (a dispetto delle conferenze sul clima) se ne sbatte della natura o come i movimenti per il diritto all’abitare che inaugurano il loro “giubileo dei poveri” con due occupazioni di stabili del Vaticano  (eppure in tempi di presepi dovremmo ricordarci che Gesù è nato in una stalla occupata e che le prime persone a averci insegnato che abitare è un diritto sono state proprio la Sacra Famiglia). Ma il resto del mondo è occupato a preoccuparsi ora del terrorismo, della sicurezza, dell’evento Giubileo e del Natale vicino. E’ così la piccola Sajida Ali e gli altri sei bimbi annegati non fanno notizia. Nessun Je suis per loro, nessuna lacrima, nessuna indignazione e nessun dibattito sul web o in Tv.
Buon anno santo, dunque, e amen.

 

D. Q.

 

Qui gli articoli sui naufragi tratti dal sito dell’Ansa:

Migranti, la strage senza fine degli innocenti

Le drammatica immagine del corpo di una bimba sulla spiaggia di Pirlanta, ricorda quella del piccolo Aylan

 – Il corpo di una bimba siriana di 5 anni è stato ritrovato sulla spiaggia di Pirlanta a Cesme, nella provincia turca di Smirne sul mar Egeo. La piccola, identificata come Sajida Ali, sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa.

La drammatica immagine del corpo della bimba sulla spiaggia, diffusa dai media locali, ricorda quella del ritrovamento del piccolo Aylan Kurdi, il bambino curdo-siriano di 3 anni annegato a inizio settembre con la madre e il fratellino di 5 anni. La scorsa notte in un naufragio sempre al largo di Cesme sono annegati altri 6 bambini.

– Sono tutti bambini, tra cui un neonato, i 6 morti nel naufragio avvenuto intorno alle 2:30 della scorsa notte di un gommone di profughi afghani al largo di Cesme, nella provincia di Smirne, sulla costa egea della Turchia. Lo sostiene l’agenzia di stampa statale Anadolu. La Guardia costiera di Ankara ha salvato altre 8 persone.

 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
Fonte:

Naufragio in Turchia, 6 bambini morti. Tra le vittime anche un neonato

Altre otto persone salvate da Guardia costiera, proseguono ricerche in mare

Almeno sei bambini sono annegati la scorsa notte nel naufragio di un barcone di migranti al largo di Cesme, nella provincia di Smirne, sulla costa egea della Turchia. Lo riportano media locali, secondo cui la Guardia costiera di Ankara ha tratto in salvo 8 persone. Proseguono le ricerche di altri possibili dispersi.  Tra le vittime anche un neonato. Lo sostiene l’agenzia di stampa statale Anadolu. La Guardia costiera di Ankara ha salvato altre otto persone.

Il corpo di una bimba siriana di 5 anni è stato ritrovato sulla spiaggia di Pirlanta a Cesme. La piccola, identificata come Sajida Ali, sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa.

 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Fonte:

ANKARA, TURCHIA: UN ENORME MASSACRO

Più di 100 vittime ad Ankara in seguito all’attentato di questa mattina. Ancora una volta un attacco alle esperienze curde di autonomia e alla pace.

10 / 10 / 2015

Ancora una volta la Turchia è scossa da un attentato. Questa mattina nel centro di Ankara sono esplose due bombe, a poca distanza l’una dall’altra, nelle vicinanze della stazione ferroviaria dove stava per aver inizio la Marcia per la Pace.

Questa marcia era stata indetta dal partito Hdp, insieme a sindacati di sinistra Disk e Kesk e dagli ordini degli ingegneri e dei medici, con l’obiettivo di chiedere il cessate il fuoco nel sud-est dell’Anatolia, dove da qualche mese sono ripresi i combattimenti tra forze di sicurezza turche e Pkk.

Come a Diyarbakir lo scorso giugno e a Suruç quest’estate, l’obiettivo degli attentatori è colpire la società civile, democratica e filo-curda, che vede in Erdogan e nel suo partito il principale oppositore al processo di pace. Lo afferma anche il leader dell’HDP, Selahattin Demirtas : “Stiamo assistendo a un enorme massacro. Un atroce e barbaro attacco è stato compiuto”.

Il sabotaggio del processo di pace con il Pkk e la conseguente campagna di attacchi alle città curde del sud-est del Paese, in particolare rivolte verso quelle che come Cizre e Diyarbakir stessa hanno saputo concretizzare gli ideali di autonomia e autogoverno espressi nel confederalismo democratico, fanno parte di un piano molto più grande ideato da Erdogan stesso, teso a gettare il paese nel caos in vista delle prossime elezioni del 1 Novembre, dove si presenterebbe come il canditato forte e l’unico in grado di riportare l’ordine in Turchia. A questo caos si aggiunge la forte repressione nei confronti della stampa che si scaglia contro il regime di Erdogan e che cerca in tutti i modi di rompere la cortina di censura creata dal suo governo e che anche in questo caso si potrebbe ripercuotere sulle indagini avviate a seguito dell’attentato.

Ad Ankara rimangono sull’asfalto oltre 100 innocenti vite e tanti altri feriti, in un attentato che come i precedenti non è stato rivendicato e, tutt’ora, non se ne conoscono le modalità. Ma è ancora  più chiaro che la polizia e le forze di sicurezza sono corresponsabili per il fatto che non garantiscono la sicurezza dei manifestanti. Infatti, in seguito all’attentato una parte della folla si è scagliata contro la polizia, accorsa in tenuta antisommossa, colpevole appunto di non aver garantito la sicurezza della Marcia per la Pace. In seguito sono stati sparati anche alcuni colpi di arma da fuoco e lanciati lacrimogeni per disperdere i manifestanti.

Nel frattempo tutte le altre manifestazioni politiche nel paese sono state annullate e a chi stava raggiungendo la città di Ankara è stato chiesto di tornare indietro per paura di altri attentati.

In attesa di ulteriori notizie e rivendicazioni, ci stringiamo ancora una volta attorno a chi combatte per la pace. Her Biji Kurdistan!

 

 

 

Fonte:

http://www.globalproject.info/it/mondi/stiamo-assistendo-a-un-enorme-massacro/19476

TOLTO L’ASSEDIO A CIZRE, SI CONTANO I MORTI E I DANNI

Giovedì 17 Settembre 2015 21:01

altNel 1992 durante le cele­bra­zioni del New­roz (il capo­danno kurdo) la città di Cizre fu asse­diata dall’esercito turco per dodici giorni. A ven­ti­tre anni di distanza la sto­ria si ripete.

di Luigi D’Alife – da Il Manifesto

A par­tire dalle ele­zioni poli­ti­che del 7 giu­gno scorso e con l’attentato di Suruç, costato la vita a 33 gio­vani socia­li­sti che por­ta­vano aiuti a Kobane, la Tur­chia sem­bra essere ripiom­bata indie­tro di vent’anni: da un lato, l’ex primo mini­stro — ora pre­si­dente della Repub­blica — Erdo­gan, da tre­dici anni al potere, dall’altro il popolo kurdo, soste­nuto dalla sini­stra del Par­tito demo­cra­tico dei Popoli (Hdp).

La popo­la­zione di Cizre, ha dichia­rato 15 giorni fa l’autogoverno o come la defi­ni­sce il co-presidente del muni­ci­pio «l’autonomia demo­cra­tica». «Dopo pochi giorni, circa cento mezzi blin­dati dell’esercito sono entrati in città — ci spiega Fay­sal Sariy­il­diz — e un copri­fuoco con­ti­nuo è stato impo­sto a tutta la popo­la­zione. Cor­rente elet­trica, acqua e ser­vizi di comu­ni­ca­zione sono stati inter­rotti. Un incubo».

Gli ospe­dali di Cizre sono stati iso­lati dai mili­tari tur­chi, i soc­corsi in strada impe­diti con l’uso delle armi, così come la sepol­tura delle vit­time. A Cizre, città a mag­gio­ranza musul­mana, per otto giorni gli imam non hanno can­tato. Il bilan­cio è di cento feriti e 21 morti, tutti civili, tra i quali un bimbo di 35 giorni. Quin­dici tra le vit­time sono state col­pite diret­ta­mente alla testa dai cec­chini. Ora che il copri­fuoco è inter­rotto la gente si riprende le strade in cor­teo ricor­dando i civili uccisi. In testa ci sono le madri delle vit­time, ovun­que si sen­tono cori, grida, slo­gan, ovun­que si vedono bar­ri­cate e trin­cee. Cor­tei che si ingros­sano men­tre attra­ver­sano vie strette, ancora pro­tette da massi e sac­chi di sab­bia, dai teli per impe­dire ai cec­chini di ucci­dere, men­tre supe­rano le sara­ci­ne­sche esplose e i muri distrutti.

A Cizre è stata guerra ed è il quar­tiere di Sur a mostrare le ferite più evi­denti. «Siamo stati costretti a restare chiusi in casa per dieci giorni — ci spiega una donna davanti alla porta di casa cri­vel­lata di pro­iet­tili — era­vamo in 22 nello stesso appar­ta­mento, bam­bini ed anziani, senza cibo e sotto il fuoco costante dei cec­chini». Suo marito indica i palazzi da dove arri­va­vano gli spari ed affac­cian­dosi alla fine­stra mostra un forno distrutto da un carro armato. Un gruppo di bam­bini si rin­corre per strada, gio­cando davanti ad uno dei mezzi blin­dati che ancora cir­con­dano il quartiere.

«Siamo ter­ro­riz­zati — urla un signore sulla cin­quan­tina davanti al can­cello di ferro divelto della sua casa — il copri­fuoco non c’è più, ma non siamo liberi di uscire». La dele­ga­zione della Caro­vana per Kobane, pre­sente in Kur­di­stan in que­sti giorni, è diven­tata il mega­fono per la gente di Cizre. Cizre è come Kobane: stesse scritte sui muri, stesse mace­rie per le strade, stessa deter­mi­na­zione del popolo kurdo a resistere.

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/15447-tolto-l%E2%80%99assedio-a-cizre-si-contano-i-morti-e-i-danni

LA FOTO DI AYLAN KURDI RISCHIA DI ESSERE PRESTO DIMENTICATA

  • 04 Set 2015 16.38
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Johan Hufnagel, direttore di Libération, fornisce una “spiegazione” disarmante sul perché il quotidiano francese non ha pubblicato la foto di Aylan Kurdi, il bambino siriano trovato morto sulle spiagge della Turchia: “Non l’abbiamo vista”. La cecità di Libération, che per molto tempo è stato un punto di riferimento nell’uso della fotografia e che non può essere sospettato di aver sottovalutato la gravità della situazione dei profughi e dei flussi migratori, spiega forse come mai nessun giornale francese – a parte le Dernières Nouvelles d’Alsace e Le Monde (che l’ha inserita in ritardo) – ha pubblicato le fotografie che, dopo aver circolato sui social network, sono finite sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo?

Questa sgradevole sorpresa non deve però impedire di riflettere a mente fredda su questo momento di emozione collettiva provocata dalle immagini. Dodici persone in fuga dalla Siria sono morte mentre la barca con la quale cercavano di arrivare in Grecia è affondata vicino all’isola di Kos. Sulla spiaggia sono stati ritrovati i corpi di Aylan Kurdi, 3 anni, e di suo fratello Galip, 5 anni, e della loro madre Rehan.

Negli ultimi mesi e durante tutta l’estate abbiamo purtroppo visto migliaia di fotografie di questi naufraghi dei tempi moderni. Spesso abbiamo dimenticato le foto molto simili che, solo qualche anno fa, erano state scattate sulle coste spagnole di fronte al Marocco. Perché allora l’immagine, le immagini, di Aylan hanno avuto un impatto diverso, perché l’emozione sembra improvvisamente aumentata?

Queste immagini hanno qualcosa di commovente per la loro distanza rispettosa e l’assenza di spettacolarizzazione.

Si possono avanzare numerose spiegazioni, come per esempio il fatto che si tratti di un bambino, ma purtroppo non è il primo e molto probabilmente non sarà neanche l’ultimo. Il modo in cui sono state pubblicate le immagini fornisce forse qualche elemento in più per capire l’intensità di questa reazione emotiva.

Una reazione che si manifesta nel momento in cui sempre più europei si rendono conto che non si può più parlare di migranti – anche se le situazioni sono spesso simili, le condizioni non sono esattamente le stesse – e che è tempo di affrontare la questione politica dell’accoglienza dei profughi.

L’immagine più ripresa mostra in primo piano, in orizzontale, un bambino con i pantaloni corti e la maglietta rossa, la faccia contro la sabbia, il volto bagnato dalla risacca. Un uomo in uniforme di schiena gli si avvicina. In molte pubblicazioni in prima pagina è stato scelto uno scatto con solo il corpo del bambino. Non si può non pensare a come questa immagine rimandi alle radici della nostra cultura, ai racconti magici dell’oceano che porta a riva i sopravvissuti “provenienti dal ventre del mare” o che dà loro la vita. Ma in questo caso il mare ha restituito un corpo inanimato, come fa quotidianamente con i rifiuti di cui si sbarazza.

Un’immagine quindi violenta. L’immagine successiva, anch’essa molto pubblicata, mostra il militare che trasporta con delicatezza il cadavere del bambino. In questo caso proiettiamo la nostra percezione dell’orrore nella speranza che questa immagine si trasformi in metafora della compassione attiva di un’Europa che tergiversa da mesi – da anni – di fronte a una situazione insopportabile.

Attenzione, nessuna di queste foto che sono state rapidamente diffuse, pubblicate e condivise, è violenta. Al contrario, hanno qualcosa di commovente, sia per la loro distanza rispettosa sia per l’assenza totale di spettacolarizzazione che anima l’inquadratura. Quello che è violento, molto violento, intollerabile, è la situazione alla quale ci rimandano e sulla quale ci avvertono.

Questa osservazione ha anche lo scopo di evitare nuove polemiche sterili sull’opportunità o meno di pubblicare queste immagini. Certo che lo si doveva fare. In nome dell’informazione, in nome dell’indispensabile segnale di allarme e rispettando – come non è sempre stato fatto – il pudore della fotografa, Nilüfer Demir, che ha saputo mantenere una delicata distanza da quello che vedeva.

Ho paura che queste fotografie saranno presto dimenticate

Di solito è impossibile – e ancora meno a caldo – determinare perché e come delle fotografie diventino delle icone, dei catalizzatori di gruppi che si proiettano e si riconoscono in esse. Questo è ancora più vero oggi, sommersi come siamo da sollecitazioni visive e dalle migliaia di immagini che cancellano quelle che le hanno precedute.

Se i politici, che si sono detti sconvolti dalle immagini che mostrano il cadavere del piccolo Aylan sulla spiaggia, prenderanno delle decisioni affinché questi fatti non si ripetano, allora queste fotografie diventeranno impossibili da fare e saranno servite a qualcosa.

Ma in questi tempi dalla velocità incontrollata, con le migliaia di immagini che sono arrivate dopo quelle drammatiche del bambino siriano, ho paura che queste fotografie saranno presto dimenticate. In modo vergognoso e inquietante. Ancora una volta questo probabile oblio ci deve far riflettere sulla nostra relazione con la memoria e quindi con la storia. Una riflessione terribile.

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/opinione/christian-caujolle/2015/09/04/foto-bambino-migranti-aylan-kurdi

 

Leggi anche qui:

http://www.internazionale.it/notizie/2015/09/04/aylan-kurdi-funerali-kobane

Abdullah Kurdi, padre di Aylan Kurd davanti alla camera mortuaria di Mugla, nel sud della Turchia il 3 settembre. (Ozan Kose, Afp)

 

COSì MUOINO IN MARE I BAMBINI SIRIANI

L’immagine urta le coscienze ma rappresenta quello che ora non si può più ignorare: servono risposte concrete e urgenti al genocidio in atto nel Mediterraneo. Questo è troppo, sveglia, ci ha scritto gli attivisti che hanno rilanciato, invano, il sos alle Guardie costiere come si è consumata la scorsa notte l’ultima strage nel mare tra Grecia e Turchia: dodici morti, tra cui il piccolo nella foto

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Niente scuse: questo è troppo. Continuare a voltarsi dall’altra parte? Non ce l’hanno fatta, in dodici persone, tra cui tre bambini – il più piccolo lo potete vedere con i vostri occhi, in un immagine che urta le coscienze ma che, a questo punto, serve come baluardo per restare umani e soprattutto obbligare i decisori politici europei ad agire per fermare questo genocidio – sono morte tentando di attraversare i miseri quattro chilometri che separano la località costiera turca di Bodrum dall’isola greca di Kos. I quattro superstiti? Salvati da alcuni pescatori.

Donne, uomini e bambini che ora sono morti ma che potevano essere salvati: questa è la verità che fa più male. Perché questi profughi, che avevano diritto all’asilo non appena usciti dal loro Paese in guerra, la Siria, quando il motore della sbarca si è spento lasciandoli in balia delle onde hanno lanciato l’allarme con i loro cellulari. L’hanno lanciato alla rete di attivisti volontari che da mesi, se non anni, vivono con l’orecchio incollato al telefono tentando di salvare più persone possibili: “appena raccolta la chiamata di sos e quindi le loro coordinate, è stata chiamata più volte la Guardia costiera greca, anche grazie all’aiuto dell’ong Watch the med. Ma non c’è stato nulla da fare, un giorno e una notte di chiamate ma nessuno è andato a salvarli, e stanotte sono naufragati, e sono sopravvissuti meno della metà dei presenti sulla barca. Un orrore”, racconta la volontaria italiana Simona Pisani.

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Il recupero del corpo del bambino siriano

 

Ecco come muoiono dodici innocenti, quindi. Tra queste righe potete vedere lo screenshot con la localizzazione dell’imbarcazione e il lancio del sos al Comando centrale di Roma della Guardia Costiera, “tentativo in questo caso inutile, perché mi è stato detto che la prassi era quella di chiamare direttamente i greci. Contrariamente a molte altre volte in cui l’autorità italiana aveva avviato il protocollo per avvertire d’urgenza i colleghi greci, che si erano poi immediatamente mossi, com’è avvenuto nella precedente telefonata in cui hanno recuperato 100 persone sbarcate da più di 24 ore – tra esse una donna quasi a termine di gravidanza – tra le rocce dell’isola di Samos”.

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Sos

Le chiamate degli attivisti non sono quindi bastate per convincere i greci a far uscire le loro navi: “ci hanno risposto che erano molto occupati con altre emergenze”. A livello ufficiale, si parla di problemi di fondi e di mancanza di personale (un ultimo stanziamento di fondi Ue per la Grecia è ancora in stand by senza un perché, come ha denunciato nei giorni scorsi l’europarlamentare Barbara Spinelli in una lettera sottoscritta da 40 colleghi, ndr), “il risultato concreto è che i profughi continuano a morire”, sottolinea Pisani.

Le chiamate degli attivisti non sono quindi bastate per convincere i greci a far uscire le loro navi: “ci hanno risposto che erano molto occupati con altre emergenze”.

Ma c’è anche un breve video, che ancora di più lascia senza parole (è stato caricato su youtube nella notte da un altro attivista e tradotto in inglese, invano perché il salvataggio di fortuna è stato operato da pescatori di passaggio): si vedono le persone sulla barca, i bambini estenuati da sete e sole, la paura di non farcela nel volto di una donna e nella voce di chi parla: alcuni di loro, in effetti, non ce l’hanno fatta. “Il loro sacrificio merita giustizia, senza più indugi: si attivino al più presto le cancellerie europee. Servono corridoi umanitari”. Ora.

Fonte: