Due prigionieri egiziani morti in quattro giorni

Egitto. Abdallah ucciso da un infarto, Ahmed dalle torture. La polizia: è caduto dalla camionetta, anzi da un palazzo. In carcere i detenuti sono vittime di abusi e mancanza di cure. Centro Al Nadeem: nel 2016 71 casi, 137 nel 2015

Secondo le associazioni per i diritti umani, sarebbero 60mila i prigionieri politici egiziani

Due morti in quattro giorni dietro le sbarre di una prigione egiziana. Il conto delle vittime della brutalità della polizia o dell’assenza di cure mediche nelle carceri va aggiornato di giorno in giorno.

Ieri Abdallah M. E., 58 anni, è morto in una stazione di polizia di Alessandria. Secondo la procura, ha avuto un attacco di cuore. La polizia dice di aver subito chiamato i soccorsi, ma il detenuto è spirato prima dell’arrivo dell’ambulanza.

Non certo un caso isolato: il 17 agosto a morire in una stazione di polizia a Fayoum era stato Abdel Halim Abdel Hayy, arrestato venti giorni prima con l’accusa di aver dato alle fiamme una caserma nel 2013, durante una protesta anti-golpe dei Fratelli Musulmani. Condannato a 15 anni, godeva di cattive condizioni di salute legate all’età, 71 anni. La famiglia chiedeva il ricovero in ospedale, ma le autorità carcerarie l’hanno negato.

Il 13 agosto era morto Ibrahim Saleh Hashish, insegnante di arabo di 58 anni, stavolta in un ospedale di Damietta dove era stato portato qualche giorno prima dalla polizia carceraria perché le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate. Era affetto da tumore ai reni che in prigione, dove si trovava dal luglio 2015 (anche lui con l’accusa di aver partecipato a scontri nel 2013 accanto alla Fratellanza), nessuno ha curato. La famiglia aveva chiesto che venisse rilasciato per ragioni mediche.

E se in carcere non si muore di mancanza di cure, si muore di pestaggi. L’ultima vittima accertata è uno studente di medicina di 28 anni, Ahmed Kamal. Era stato arrestato lunedì mattina. Su di lui pendeva una condanna a due anni, comminata a febbraio, per aver preso parte lo scorso anno a proteste non autorizzate.

Un reato comune in Egitto dal novembre 2013 quando il generale al-Sisi, a pochi mesi dal golpe e dalla strage di manifestanti islamisti a Rabaa (tra 1.000 e 1.500 morti), emanò una legge che vieta manifestazioni che le autorità non abbiano prima avallato.

La sera stessa, alle 23,30 di lunedì, Ahmed è morto. Il giorno dopo la famiglia ha identificato il corpo, mentre l’autopsia preliminare indica in una grave fattura alla testa e la conseguente emorragia le cause del decesso. Il legale della famiglia ha già chiesto l’apertura di un’inchiesta contro i poliziotti che lo avevano in custodia.

La polizia, da parte sua, dà la sua versione. Anzi, due. Ahmed, dicono, è morto cadendo mentre cercava di fuggire da una camionetta. È anche morto cadendo dal secondo piano di un edificio a Nasr City, dal quale si è lanciato per sfuggire ad una retata in una casa di prostituzione. Peccato che – spiega l’avvocato Ahmed Saad Sabah – non ci siano intorno alla ferita abrasioni tipiche di una caduta. Parla anche il fratello, Mohamed: il volto di Ahmed era pieno di ematomi.

Secondo il Nadeem Center, organizzazione che da vent’anni segue i casi di torture e abusi da parte delle forze di sicurezza, solo a luglio almeno 10 prigionieri sono morti per mancanza di assistenza sanitaria o torture. Fuori, in strada, le vittime di polizia e esercito sono state 99. In un mese soltanto.

Da gennaio a fine luglio 2016 i morti in custodia sono stati almeno 71; nel 2015 137 (a cui vanno aggiunti 328 morti in scontri con la polizia); nel 2014 almeno 90 solo nei governatorati di Giza e del Cairo. E, calcola Al Nadeem, nei primi 100 giorni di governo al-Sisi (da luglio a settembre 2013) i deceduti in carcere sono stati per lo meno 35.

Le giustificazioni che la polizia adduce a certe morti sono più o meno le stesse: le origini della morte di Regeni sarebbero da cercare in ambienti omosessuali, dissero; Khaled Said, ucciso nel 2010, era un trafficante di droga. Per molti si tratta di meri insabbiamenti, punta dell’iceberg di una macchina repressiva ben collaudata. Tra i suoi ingranaggi c’è la legge anti-terrorismo voluta da al-Sisi. Normativa controversa, che soffoca la libertà di espressione e manifestazione, ora è sul tavolo della corte costituzionale.

Nel mirino c’è proprio l’articolo che vieta le proteste non autorizzate dalle autorità. Il primo ottobre l’Alta Corte dovrà rivedere (su appello di avvocati per i diritti umani) la disposizione che ha permesso in tre anni l’arresto di decine di migliaia di persone, portando a 60mila il numero – presunto – di prigionieri politici.

 

 

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/due-prigionieri-egiziani-morti-in-quattro-giorni/

GAZA SOTTO ATTACCO: BOMBARDATA DA ISRAELE E DALL’IDIFFERENZA DEI MEDIA “OCCIDENTALI”.

Lunedì 22 Agosto 2016 14:09

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Ieri notte è avvenuto un nuovo durissimo bombardamento contro Gaza, il più duro dal 2014. L’ esercito israeliano, muovendosi via mare e via aerea, ha aperto una nuova fase di terrore e morte contro la popolazione che vive nella Striscia, prendendo come pretesto ufficiale il lancio di un razzo dai territori palestinesi che peraltro non ha sortito alcun effetto.

Circa cinquanta raid aerei e tiri di artiglieria serrati si sono dati a partire dalla nottata, riportando lo scontro e l’embargo imposti unilateralmente a livelli altissimi, a culmine di una crescita della ritorsione repressiva contro i palestinesi sempre più intensa e costante negli ultimi mesi.
Non si contano difatti gli eccidi arbitrari e le detenzioni a danni di civili palestinesi delle ultime settimane.

Mentre si acuiscono i dispositivi legislativi israeliani che tendono a criminalizzare financo i più piccoli, con la possibilità di tradurli in carcere se sospettati di “terrorismo”, lo stato sionista cerca di avanzare per la prima volta pure lungo il fronte di Hebron, laddove vuole installare altri suoi avamposti di controllo e repressione totale. gaza2208201602

Europa, Stati Uniti e amici di Israele intanto soprassiedono come da copione alla gravità dell’operazione bellica effettuata dall’ esercito di Netanyahu, mentre nelle settimane scorse, attraverso molti dispositivi mediatici, hanno usato il rifiuto di tendere la mano di un judoka egiziano a quello israeliano alle Olimpiadi di Rio come forma di agit-prop contro una “demonizzazione” dello Stato di Israele da parte del mondo arabo, narrazione fuorviante ma che ben si incastra nella creazione di un immaginario occidentale a dir poco tollerante e ossequioso rispetto all’ atteggiamento nazista nei Territori Occupati.

[eventuali aggiornamenti nelle prossime ore]

 

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/17495-gaza-sotto-attacco-bombardata-da-israele-e-dallindifferenza-dei-media-occidentali

A ROMA LA MOSTRA “NOME IN CODICE: CAESAR”

Pubblico · Organizzato da Comitato Khaled Bakrawi
Dal 5 ottobre alle 14:00 al 9 ottobre alle 19:00
Roma
“Caesar” è lo pseudonimo che protegge l’identità di un ex fotografo della polizia militare del regime di Bashar Assad. Fino al 2011 e all’inizio delle manifestazioni di protesta, l’incarico di “Caesar” consisteva nel riprendere scene del crimine (come incidenti stradali o delitti comuni) e fotografarne le vittime. Successivamente, lui ed i suoi colleghi vennero sempre più spesso chiamati a fotografare i corpi delle vittime delle torture e degli omicidi commessi nelle prigioni e nei centri di detenzione del regime, particolarmente in quello denominato Military Hospital 601, situato a Mezze, sobborgo di Damasco.
Per due anni, “Caesar” ha copiato su alcune chiavette USB le immagini che scattava per lavoro, contemporaneamente organizzando la sua fuga dalla Siria, effettivamente avvenuta nell’estate del 2013. Lasciando il suo Paese, “Caesar” ha portato con sé circa 55.000 immagini. Recentemente, l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha eseguito un’analisi delle immagini e delle informazioni fornite da Caesar, pubblicando poi un dettagliato rapporto (in inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, giapponese, cinese e russo) che costituisce un atto d’accusa sconvolgente, intitolato “Se i morti potessero parlare – Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria”. Le foto di “Caesar” sono state consegnate a HRW dal Movimento Nazionale Siriano e l’organizzazione umanitaria si è concentrata su 28.707 immagini che, sulla base di tutte le informazioni disponibili, mostrano almeno 6.786 persone morte in carcere o dopo essere stati trasferiti dal carcere in un ospedale militare, come il n. 601 di Mezze, Damasco. “Le foto rimanenti – scrive HRW – sono di attacchi a luoghi o di corpi identificati dal nome come appartenenti a soldati governativi, altri combattenti armati o a civili uccisi in attacchi, esplosioni o attentati”.
Le foto di “Caesar” hanno fatto il giro del mondo: sono state esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU a New York, all’Holocuast Memorial Museum di Washington, al Congresso U.S.A., alla facoltà di Legge dell’Università di Harvard, al Parlamento Europeo di Strasburgo, alla House of Commons di Westminster, alla Royal Hibernian Academy di Dublino e presso molte altre istituzioni a Boston, in Canada e in altri Paesi. In Francia, la giornalista Garance Le Caisne ha raccolto il racconto di “Caesar” in un libro – “Opèration Cèsar” – uscito lo scorso ottobre (pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo “La macchina della morte”) e la magistratura francese ha avviato un’inchiesta nei confronti del regime di Assad per crimini contro l’umanità, sulla base dell’art. 40 del Codice di Procedura Penale, che obbliga ogni autorità pubblica a trasmettere alla giustizia le informazioni in suo possesso se è venuta a conoscenza di un crimine o di un delitto. Gran parte della segnalazione inviata dal Ministero degli Esteri di Parigi alla magistratura si basa sulla testimonianza di “Caesar”.
In Italia, la mostra delle immagini di “Caesar” arriverà il prossimo ottobre. Abbiamo assunto questa iniziativa per contribuire a colmare le lacune mostrate dall’informazione in Italia sulle vicende siriane, particolarmente sui motivi che sono all’origine delle manifestazioni del 2011 contro il regime degli Assad. La sistematica violazione dei diritti umani dei Siriani da parte degli apparati del regime è una di queste motivazioni e le fotografie di “Caesar” sono lì a dimostrarlo. Sono immagini sconvolgenti nella loro fissità e nel loro richiamare alla mente altre immagini che tutti abbiamo visto, in bianco e nero, sui nostri libri di storia e che non avremmo mai voluto rivedere nell’attualità del colore.
L’inaugurazione della mostra “Nome in codice Caesar”, consistente in 27 pannelli fotografici 50 x 70, è prevista per il 5 ottobre e sarà preceduta da una conferenza stampa presso la sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, una delle organizzazioni promotrici dell’evento. Oltre alla FNSI, partecipano alla promozione Amnesty International, UniMed (Coordinamento delle Università del Mediterraneo), FOCSIV e Articolo 21. Nei giorni della mostra sono previsti iniziative e dibattiti in corso di organizzazione.
Fonte:
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Qui informazioni su Comitato Khaled Bakrawi:

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Qui il link per donazioni:

19 agosto 1978 – La protesta al carcere dell’Asinara

asinara caiennaitaliana

Nel supercarcere dell’Asinara, riprende la protesta contro le inumane condizioni di vita ed i pestaggi organizzati dai secondini, diretti da Luigi Cardullo, che, fra gli altri, hanno comportato il ricovero in ospedale per ben due volte di Horst Fantazzini.

La rivolta è capeggiata da Giuliano Naria, Pietro Bertolazzi, Tonino Paroli, Pasquale Abatangelo e Giuseppe Battaglia.

Alcune settimane dopo una delegazione di deputati, dopo aver effettuato una visita al carcere dell’Asinara, tiene una conferenza stampa.

Massimo Gorla deputato di Democrazia Proletaria afferma: “Definirlo lager mi sembra esatto. Lo è per tutti quelli che per una ragione o l’altra sono costretti a vivere nell’isola…Le condizioni di vita sono disumane“.

Nei giorni precedenti, sono stati trasferiti alle carceri di Cuneo e Fossombrone 3 prigionieri accusati di aver organizzato la rivolta: Maurizio Ferrari, Giorgio Semeria, Santino Stefanini.

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/19-agosto-1978-asinara-sassari/

TORTURE, CONDIZIONI DETENTIVE INUMANE E DECESSI DI MASSA NELLE PRIGIONI SIRIANE

Torture, condizioni detentive inumane e decessi di massa nelle prigioni siriane

Comunicato stampa 18 agosto 2016

Siria, una immagine dal rapporto di Amnesty International

Le terribili esperienze dei detenuti sottoposti a una tortura dilagante sono state rese note oggi da Amnesty International, in un rapporto che stima in 17.723 il numero delle persone morte in carcere in Siria dal marzo 2011, l’inizio della crisi: una media di oltre 300 morti al mese.

Il rapporto di Amnesty International, intitolato “Ti spezza l’umanità. Tortura, malattie e morte nelle prigioni della Siria“, denuncia crimini contro l’umanità commessi dalle forze governative di Damasco e ricostruisce l’esperienza provata da migliaia di detenuti attraverso i casi di 65 sopravvissuti alla tortura.

Da questi racconti, emergono le agghiaccianti e inumane condizioni delle strutture detentive gestite dai vari servizi di sicurezza siriani e nel carcere militare di Saydnaya, alla periferia della capitale. La maggior parte dei testimoni ha riferito di aver assistito alla morte di compagni di prigionia e alcuni hanno raccontato di essere stati tenuti in celle insieme a cadaveri.

Il campionario di orrori contenuti in questo rapporto ricostruisce in raccapriccianti dettagli le violenze da incubo inflitte ai detenuti sin dal momento dell’arresto e poi durante gli interrogatori, svolti a porte chiuse all’interno dei famigerati centri di detenzione dei servizi di sicurezza siriani: un incubo che spesso termina con la morte, che può arrivare in ogni fase della detenzione” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Da decenni le forze governative siriane usano la tortura per stroncare gli oppositori. Oggi viene usata nell’ambito di attacchi sistematici contro chiunque, nella popolazione civile, sia sospettato di non stare dalla parte del governo. Siamo di fronte a crimini contro l’umanità, i cui responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia” – ha aggiunto Luther.
I paesi della comunità internazionale, soprattutto Russia e Stati Uniti che condividono la direzione dei colloqui di pace sulla Siria, devono mettere questo tema in cima all’agenda delle discussioni tanto col governo quanto coi gruppi armati e sollecitare gli uni e gli altri a porre fine alla tortura” – ha proseguito Luther.

Amnesty International chiede inoltre il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza. Tutti gli altri detenuti dovrebbero essere sottoposti a un giusto processo in linea con gli standard internazionali oppure rilasciati. Osservatori indipendenti dovrebbero poter visitare immediatamente e senza ostacoli tutti i centri di detenzione.

Il rapporto di Amnesty International contiene nuove statistiche del Gruppo di analisi sui dati relativi ai diritti umani (Hrdag), un’organizzazione che usa un approccio scientifico per analizzare le violazioni dei diritti umani. Sulla base delle sue analisi, l’Hrdag ha concluso che tra marzo 2011 e dicembre 2015 nelle prigioni siriane sono morte 17.723 persone, oltre 300 al mese. Nei decenni precedenti il 2011, Amnesty International aveva riscontrato una media di 45 decessi in carcere all’anno, ossia tre o quattro al mese.

Si tratta, in ogni caso, di stime prudenti. Secondo l’Hrdag e Amnesty International, considerando le decine di migliaia di persone sottoposte a sparizione forzata nei centri di detenzione di tutta la Siria, il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.

In occasione del lancio del suo rapporto, Amnesty International ha anche collaborato con un team di specialisti di Architettura forense per creare una ricostruzione virtuale in 3D della prigione militare di Saydnaya. Utilizzando modelli architettonici e acustici e le testimonianze degli ex detenuti, il modello ricostruisce il terrore quotidiano vissuto all’interno della prigione e le agghiaccianti condizioni detentive.

Per la prima volta, mettendo insieme le tecniche tridimensionali e la memoria dei sopravvissuti, siamo in grado di entrare dentro uno dei più famigerati centri di tortura della Siria” – ha spiegato Luther.

La violenza in ogni momento

La maggior parte dei sopravvissuti, le cui testimonianze hanno contribuito al rapporto di Amnesty International, ha raccontato ad Amnesty International che le torture iniziano al momento stesso dell’arresto e durante il trasferimento nei luoghi di detenzione.

Qui, all’arrivo, i detenuti sono sottoposti al cosiddetto haflet al-istiqbal (“festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici).

Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” – ha raccontato Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama.

Alla “festa di benvenuto”, spesso seguono i “controlli di sicurezza” durante i quali le donne vengono sottoposte ad aggressioni sessuali e a stupri da parte di personale di sesso maschile.

All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subiscono costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, oppure semplicemente come punizione.

I metodi di tortura descritti dagli ex detenuti comprendono il dulab (“pneumatico”: il corpo della vittima viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico) e la falaqa (“bastonatura”, pestaggi sulle piante dei piedi), ma anche le scariche elettriche, lo stupro, l’estirpazione delle unghie delle mani o dei piedi, le ustioni con acqua bollente e le bruciature con sigarette.

Ali, detenuto presso la sede dei servizi di sicurezza militari di Homs, ha raccontato di essere stato sottoposto alla tortura dello shabeh (“impiccato”: il detenuto viene tenuto appeso per i polsi, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente per parecchie ore).

La combinazione tra sovraffollamento, mancanza di cibo e di cure mediche e insufficienza di servizi igienico-sanitari costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante, vietato dal diritto internazionale.

Le celle, hanno raccontato gli ex detenuti, erano così sovraffollate da rendere necessario fare i turni per dormire o, in alternativa, dormire rannicchiati.
Era come stare in una stanza di morti. Cercavano di farci fare quella fine” – ha raccontato un altro ex detenuto, Jalal.

“Ziad” (il nome è stato cambiato per proteggere la sua identità) ha denunciato che un giorno, nella sezione 235 dei servizi di sicurezza militari di Damasco, l’impianto di aerazione si è rotto e sette detenuti sono morti soffocati.

Ci prendevano a calci per vedere chi era morto e chi no. Ad alcuni di noi hanno ordinato di alzarci in piedi. In quel momento mi sono reso conto che c’erano sette morti, che avevo dormito accanto a sette cadaveri. Poi nel corridoio ho visto gli altri, circa 25 cadaveri“.

Gli ex detenuti hanno raccontato che l’accesso al cibo, all’acqua e ai servizi igienico-sanitari viene spesso limitato. La maggior parte di loro ha riferito di non aver mai potuto lavarsi adeguatamente. In questo ambiente, scabbia, pidocchi e altre infezioni proliferano. Poiché alla maggior parte dei detenuti vengono negate cure mediche adeguate, in molti casi i detenuti ricorrono a medicamenti rudimentali, ciò che ha contribuito al drammatico aumento dei decessi in carcere dal 2011.

In generale, i detenuti non hanno contatti con medici, familiari o avvocati: una condizione che in molti casi equivale a una sparizione forzata.

Il carcere militare di Saydnaya
I detenuti spesso trascorrono mesi se non anni nelle strutture detentive dei vari servizi di sicurezza siriani. Alcuni alla fine vengono portati di fronte a un tribunale militare, che li condanna nel giro di qualche minuto, per poi essere trasferiti nel carcere militare di Saydnaya, dove le condizioni sono particolarmente atroci.
[Nelle strutture dei servizi di sicurezza] ti torturano per farti ‘confessare’. A Saydnaya, l’obiettivo è la morte, una sorta di selezione naturale per liberarsi dei più deboli appena vengono trasferiti lì” – ha dichiarato Omar S., un ex detenuto.

La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Salam, un avvocato di Aleppo che vi ha trascorso due anni, ha raccontato: “Quando mi hanno portato dentro la prigione, ho sentito l’odore della tortura: un odore
specifico, un misto di umidità, sangue e sudore. Lo riconosci: è l’odore della tortura
“.

Salam ha descritto un caso in cui le guardie hanno picchiato a morte un istruttore di arti marziali dopo aver scoperto che allenava i compagni di cella: “Hanno picchiato a morte l’istruttore e altri cinque detenuti, poi hanno proseguito con gli altri 14. Nel giro di una settimana erano tutti morti. Vedevamo il sangue scorrere via dalla cella“.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, i detenuti cui viene negato il cibo si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Omar S. ha raccontato di una volta in cui una guardia ha obbligato due uomini a denudarsi e poi ha obbligato uno a stuprare l’altro, minacciandolo di morte se non l’avesse fatto.

La deliberata e sistematica natura della tortura nel carcere di Saydnaya rappresenta la forma più manifesta di crudeltà e di abietta mancanza di umanità” – ha commentato Luther.

Fonte:

Quei 900mila detenuti negli ex gulag di Stalin

di Damiano Aliprandi 12 ago 2016 14:35

Costretti ai lavori coatti nelle colonie penali siberiane. Nadja Tolokno, attivista e cantante russa del gruppo punk rock Pussy Riot ha creato la piattaforma ?Justice Zone? per una mobilitazione contro il sistema carcerario russo

Gelide oasi in cui sono costretti migliaia di alienati, obbligati ai lavori coatti con orari massacranti, paghe da fame e senza il permesso di coprirsi, a 30-40 gradi sotto zero, con indumenti caldi che non siano il cappotto poco imbottito fornito dai carcerieri. Parliamo delle famigerate colonie penali sparse in Siberia. Nella Russia di Putin, formalmente esistono solo sette carceri ordinarie, il resto dei detenuti – che sono oltre 900 mila – vengono dislocati in queste strutture ereditate dai Gulag staliniani.
La condizione delle detenute.
Sono circa 750 le colonie penali e le donne, secondo i dati dell’autorità penitenziaria di Mosca, rappresentano una minoranza di oltre 47 mila detenute, spedite in 46 colonie femminili. E le donne subiscono delle torture che ricordano descrizioni non molto diverse dai quadri dei gulag tratteggiati dal grande romanziere Aleksandr Sol?enicyn, rinchiuso nel 1950. Una delle testimoni è Nade?da Andreevna Tolokonnikova, anche nota come “Nadja Tolokno”, un’attivista e cantante russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, finita in galera per aver cantato per mezzo minuto un inno contro Putin sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Quando è uscita dalla colonia ha deciso di intraprendere una battaglia di mobilitazione per il sistema carcerario russo. Con altre attiviste ha creato la piattaforma “Justice Zone”: la base per l’azione collettiva di persone accomunate dall’interesse per il destino di quelle detenute le cui vite si stanno sgretolando sotto il sistema penale russo. Molte sono le testimonianze. Una è di Kira Sagaydarova, attivista di Justice Zone che nel passato aveva vissuto il dramma dei gulag “moderni”. Questi sono solo alcuni degli episodi che Kira ha vissuto: “Per i primi sei mesi ti uccidono lentamente. Rizhov, direttore della zona industriale, vuole che i supervisori dei laboratori di cucito raggiungano una certa quota di produzione, ma i supervisori non raggiungono la quota finché le nuove ragazze non imparano a cucire. Perciò i supervisori le picchiano. Una volta ti picchiano, poi magari ti strappano i capelli, ti sbattono la testa contro la macchina per cucire o ti portano in una cella punitiva, dove ti prendono a botte e calci usando mani e piedi, oppure tolgono la cinghia dalla macchina per cucire e ti colpiscono con quella”. Dice, ancora: “I supervisori sono i responsabili della maggior parte delle violenze che avvengono nella colonia penale. Fanno quello che vogliono e dispongono a loro piacimento della vita delle persone. Mi hanno colpito sulla schiena con tutta la loro forza, o sulla testa, non fa differenza. Più volte sono crollata e ho pianto, e non riesco nemmeno a elencare tutte le cose che succedevano lì. A loro non importa nulla. C’è stato un periodo in cui ci versavano addosso acqua gelida in una cella punitiva ghiacciata in pieno inverno! ”
Le condizioni maschili e la famigerata “Aquila nera”.
Ma per gli uomini è ancora peggio. Una delle peggiori colonie penali, la numero 56, viene chiamata anche Aquila Nera: è una delle carceri di massima sicurezza per i condannati all’ergastolo. Per un quarto di secolo i detenuti non hanno mai messo piede fuori da questo luogo. Per il rifornimento d’acqua, il carcere è collegato con tubature ad un lago, mentre l’energia nelle celle e nei recinti elettrificati è garantita da una serie di generatori. Non esistendo il sistema fognario, gli ergastolani devono svuotare il loro secchio nell’ora d’aria giornaliera in un fosso su cui si affacciano tutti i cortili. I reclusi trascorrono 23 ore al giorno dentro la cella, e hanno diritto a trascorrere solo un’ora fuori ma all’interno di una sala scoperta, senza tetto. Sono costretti a dormire con la luce accesa e durante il giorno è proibito restare a letto. Nel resto delle colonie, formalmente, l’obiettivo della reclusione nei campi è quello di abbinare la rieducazione allo sconto della pena, secondo il principio – travisato dai nazisti – per cui il “lavoro rende liberi”. La realtà è che i detenuti sono costretti a turni asfissianti di lavoro e pulizie, in strutture che sono le stesse dai tempi di Stalin. E con salari miseri di 20 rubli al giorno, non più di 70 euro al mese. Il compenso serve a coprire i costi delle uniformi e del rancio quotidiano.
Il sistema giudiziario senza alcuna garanzia per l’imputato.
E se il sistema penitenziario russo è devastante, non è da meno nemmeno quello giudiziario. Secondo la denuncia di Amnesty International, diversi processi di alto profilo hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario penale della Russia, tra cui la mancanza di parità tra le parti, l’uso della tortura e altri maltrattamenti nel corso delle indagini, nonché l’incapacità di escludere in aula le prove inquinate dalla tortura, l’uso di testimoni segreti e di altre prove segrete, che la difesa non può contestare, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato di propria scelta. Il dato parla chiaro: meno dello 0,5 per cento dei processi si è concluso con l’assoluzione. Il caso di Svetlana Davydova è stato uno dei sempre più diffusi casi di presunto alto tradimento e spionaggio, categorie di reato definite in modo vago, introdotte da Putin nel 2012. Svetlana Davydova era stata arrestata il 21 gennaio dell’anno scorso per una telefonata fatta otto mesi prima all’ambasciata ucraina, in cui aveva avanzato il sospetto che alcuni soldati della sua città, Vjaz’ma, nella regione di Smolensk, fossero stati inviati a combattere in Ucraina orientale. L’avvocato nominato d’ufficio aveva dichiarato ai mezzi d’informazione che la donna aveva “confessato tutto” e si era rifiutata di ricorrere in appello contro la sua detenzione perché “tutte queste udienze e il clamore sui media [creavano] un inutile trauma psicologico ai suoi figli”. Il 1° febbraio 2015, due nuovi avvocati hanno preso il caso. Svetlana Davydova ha denunciato che il primo avvocato l’aveva convinta a dichiararsi colpevole per ridurre la sua probabile condanna da 20 a 12 anni. Il 3 febbraio è stata rilasciata; il 13 marzo, in contrasto con tutti gli altri casi di tradimento, il procedimento penale nei suoi confronti è stato archiviato. A settembre dell’anno scorso è iniziato il processo contro Nade?da Savcenko, cittadina ucraina e appartenente al battaglione volontario Aidar. È stata accusata di aver deliberatamente diretto il fuoco dell’artiglieria per uccidere due giornalisti russi durante il conflitto in Ucraina, nel giugno 2014. La donna ha insistito sul fatto che il caso era stato inventato e che le testimonianze contro di lei, tra cui quelle di diversi testimoni segreti, erano false. Il suo processo è stato caratterizzato da moltissimi vizi procedurali. Il 15 dicembre del 2016, il presidente Putin ha approvato una nuova legge in base alla quale la Corte costituzionale poteva dichiarare “inattuabili” le decisioni della Corte europea dei diritti umani e di altri tribunali internazionali, qualora “violassero” la “supremazia” della costituzione russa.

 

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/giustizia_e_carcere/28760_quei_900mila_detenuti_negli_ex_gulag_di_stalin/

Cella zero, 22 agenti indagati per i pestaggi nel carcere di Poggioreale

carcere

A Gennaio 2014 Fanpage.it, in un servizio esclusivo, raccoglie la testimonianza di un ex detenuto che apre lo squarcio decisivo sull’orrore della “cella zero” del carcere di Poggioreale. Ma le denunce – scopriamo –  erano già 40, ed erano tra le mani della Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco. Pareti sporche di sangue, maltrattamenti, percosse, timpani perforati a suon schiaffi e pugni. “Erano le dieci e mezza di sera. All’improvviso, senza motivo sono stato portato giù nella cella zero: le guardie mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno picchiato, mi hanno umiliato”: così iniziava l’intervista realizzata dal nostro giornale, che raccontava l’esistenza di una “cella zero” e di indicibili violenze. Una Abu Ghraib napoletana.

Una lunga battaglia contro le violenze in carcere

Ma erano anni che si parlava di una cella degli orrori. Il primo a denunciarne l’esistenza, nel 2012, è stato Pietro Ioia, attivista per i diritti dei detenuti, presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani, che contro i maltrattamenti nel carcere napoletano ha ingaggiato una lunga battaglia. Sempre nel 2012, dopo la denuncia di Ioia, l’associazione “Il carcere Possibile”, guidata a quei tempi dall’avvocato Riccardo Polidoro, presentò un esposto in Procura a Napoli. Nel 2014, a seguito del servizio e della conseguente bufera mediatica, fu aperta un’altra inchiesta condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, che accorpò anche la precedente. Poi seguì una visita della Commissione Libertà Civili del Parlamento europeo e la direttrice, Teresa Abate, fu sollevata dall’incarico e trasferita in un’altra sede. Anche l’associazione Antigone Campania e i Radicali ebbero parole dure per quella modalità di gestione del carcere, improntata sulla violenza. L’esistenza della cella espressamente “adibita” ai pestaggi non sembra aver trovato ancora riscontri specifici nell’attività investigativa, ma ci sono 22 agenti indagati e un medico per lesioni e abuso di mezzi di correzione nei confronti dei detenuti.

L’inchiesta della Procura di Napoli

L’inchiesta della Procura di Napoli, condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, è molto complessa ma stamattina sono arrivati i 23 avvisi di conclusione delle indagini: ora bisognerà capire se per gli indagati si deciderà il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Al di là della verità giudiziaria, che emergerà, c’è quella raccontata, vissuta, incisa sulla pelle degli ex detenuti. “Dopo le denunce, con il nuovo direttore non arrivano più notizie di pestaggi e violenze sui detenuti – racconta Pietro Ioia – E’ un risultato straordinario. Io per primo ho subito tante volte violenze all’interno di quel carcere. Anche per futili motivi, come nel 1995: mi pestarono a sangue perché avevo un mazzetto di carte in cella, con il quale passavo il tempo. Una volta, negli anni Ottanta, sono stato anche incappucciato e minacciato con un cappio”. Ma Ioia non era certo un’eccezione: “Negli anni ho visto centinaia di detenuti con i timpani spaccati e gli ematomi sul corpo”.  Tanto è stato fatto, dopo la bufera, ma tanto resta ancora da fare: “Per trent’anni c’era una squadretta, un gruppo fisso di persone – racconta – Da quello che so, le guardie indagate non hanno più contatti con i detenuti”. Se ci sarà un processo, annuncia Ioia, l’associazione degli ex detenuti napoletani si costituirà parte civile: “Oggi è un’ulteriore conferma che ho sempre detto la verità, nonostante i tanti attacchi ricevuti per questo”.

Il carcere di Poggioreale sta lentamente cambiando

Dopo lo scandalo, il direttore del carcere di Poggioreale, da due anni, è Antonio Fullone: dagli ambienti penitenziari trapela una relativa serenità rispetto a quanto sta accadendo, si era preparati all’eventualità di uno sviluppo delle indagini in questo senso e negli anni si è cercato di rasserenare il clima tra guardie penitenziarie e detenuti, seppur in un contesto complicatissimo – sovraffollamento, inclinazione alla violenza, condizioni a volte fatiscenti del carcere – e ora un primo risultato raggiunto sembra essere una complessiva diversità relazionale. Contestualmente, ci sono stati alcuni cambiamenti all’interno della casa circondariale che – ricordiamo –  tra il 2013 e il 2014 è stata nell’occhio del ciclone e sotto i riflettori dell’Europa, pietra dello scandalo per la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Si è avviata la ristrutturazione di alcuni padiglioni, avviate alcune azioni di manutenzione straordinaria, sono state raddoppiate le ore di passeggio, si stanno introducendo varie attività e si stanno sperimentando le celle aperte, almeno in una parte dell’istituto di pena. Ma tanto resta ancora da fare: basti pensare che Poggioreale è di nuovo sovraffollato, e quest’anno ha toccato e superato più volte la soglia dei 2mila detenuti. Sul versante della violenza, dagli ambienti penitenziari c’è chi pone l’accento sul lavoro psicologico e di accompagnamento che si sta facendo, un cambiamento culturale assolutamente necessario. ( Gaia Bozza da Fanpage )

Poggioreale/Antigone. “Bene si faccia chiarezza. Se le denunce fossero provate, ancora una volta mancherebbe il reato di tortura”

Si è chiusa oggi l’inchiesta sulle violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Poggioreale – e in particolare nella cosiddetta “cella zero” – tra il 2012 e il 2014. A denunciarle furono alcuni detenuti che, direttamente, avrebbero subito tali violenze per le quali oggi 23 persone (22 agenti di polizia penitenziaria e un medico) risultano indagate.

La cella zero sarebbe una stanza vuota, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti.

I reati ipotizzati a vario titolo dalla Procura di Napoli – che segue l’inchiesta – vanno dal sequestro di persona, all’abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni, violenza privata.

“Ogni tentativo di fare chiarezza è sempre importante, soprattutto nei casi di violenze che avvengono quando un cittadino è sottoposto all’affidamento dello Stato” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Quello che ci auguriamo è che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili”.

“In episodi come quelli denunciati nel carcere di Poggioreale, infatti, il rischio di prescrizione, proprio nei casi di colpevolezza, è sempre molto alto poiché spesso le denunce avvengono molto tempo dopo i fatti, anche per paura di eventuali ritorsioni finché si è sottoposti a custodia” prosegue Gonnella che sottolinea come, dai primi casi che emergerebbero da queste denunce, sarebbero già passati 4 anni.

“Purtroppo, se i fatti denunciati corrispondessero a realtà, dovremo constatare ancora una volta come in Italia manchi il reato di tortura poiché, soprattutto le violenze che sarebbero avvenute nella cella zero, questo sono”. “Reato di tortura – sottolinea ancora il presidente di Antigone – che eviterebbe anche il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità”.

“Per tale ragione – conclude Gonnella – chiediamo che non si perda ulteriormente tempo e a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile”.

Un ulteriore elemento riguarda la questione dell’isolamento.

“Benché la cella zero, se fosse riconosciute le accuse, rappresenterebbe un luogo che va al di là di ogni regolamento – sottolinea ancora Gonnella – l’isolamento è un particolare regime dove, più facilmente, possono avvenire violenze. Rappresenta inoltre una soluzione particolarmente afflittiva che spesso porta i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi”. “Per questa ragione – conclude Gonnella – abbiamo da poco presentato una proposta di legge, invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato di farla loro, per una riforma profonda di questo regime”.

La proposta di legge di riforma dell’isolamento e alcuni degli episodi avventui in questi reparti nel corso degli anni.

 

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Le celle zeeo, purtroppo, esistono in tutte le carceri

 

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/cella-zero-22-agenti-indagati-pestaggi-nel-carcere-poggioreale/

Solidarietà con Nekane

Solidarietà con Nekane, gli aggiornamenti dalla Svizzera

02:18

Continua la pressione per impedire l’estradizione di Nekane Txapartegi, rifugiata basca in Svizzera su cui pende una richiesta da parte della magistratura spagnola.

Un membro del collegio difensivo di Nekane ci racconta gli ultimi aggiornamenti sulla sua vicenda, anche alla luce dell’annullamento, la settimana scorsa, da parte del tribunale supremo spagnolo, di una condanna inflitta ad un militante basco a causa di una denuncia di tortura non presa in considerazione da parte delle autorità.

Una decisione obbligata a causa dei numerosi pronunciamenti da parte di diversi organismi internazionali, a loro volta sollecitati dalle pressioni decennali di associazioni e collettivi che si battono contro l’uso della tortura nello Stato spagnolo.

Nel frattempo, proseguono le iniziative di solidarietà, che vedranno il loro apice in una manifestazione internazionale che si terrà a settembre a Berna.

Per notizie, aggiornamenti e per scrivere a Nekane:

 

https://twitter.com/freenekane https://www.facebook.com/freenekane/

 

Fonte:

http://www.ondarossa.info/newsredazione/solidariet-nekane-aggiornamenti-dalla-svizzera

 

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SOLIDARIETA’ A NEKANE!

  • maggio 10, 2016 23:33

Rueda de prensa ofrecida en Bilbo por representantes de Askatasuna, Gurasoak, Torturaren Aurkako Taldea (TAT) y ciudadanos vascos torturados por Ertzaintza, PolicÌa espaÒola y Guardia Civil en la que han denunciado los malos tratos recibidos por Ibon MeÒika tras su detenciÛn la pasada semana. En la imagen, Nekane Txapartegi (torturada y violada por la Guardia Civil).

Rueda de prensa ofrecida en Bilbo por representantes de Askatasuna, Gurasoak, Torturaren Aurkako Taldea (TAT) y ciudadanos vascos torturados por Ertzaintza, PolicÌa espaÒola y Guardia Civil en la que han denunciado los malos tratos recibidos por Ibon MeÒika tras su detenciÛn la pasada semana. En la imagen, Nekane Txapartegi (torturada y violada por la Guardia Civil).

L’infame repressione contro la dissidenza basca sta colpendo anche in Svizzera.
Solidarietà a Nekane e alle compagne e ai compagni che stanno seguendo il suo caso.
No all’estradizione!
Nekane libera!
Tutti libere!

ELKARTASUNA ETA ASKATASUNA
SOLIDARIETA’ E LIBERTA’

 

 

Fonte:

https://uncasobascoaroma.noblogs.org/post/2016/05/10/solidarieta-a-nekane/

 

«A mio padre vogliono far fare la fine di Provenzano»

 di Damiano Aliprandi 22 lug 2016 12:37

La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, da 24 anni al 41 bis e in cella a L’Aquila

Ha un tumore alla faringe e i 24 anni di 41 bis gli anno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio scorso, ma restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila.

Parliamo di Vincenzo Stranieri. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. “Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano”.

La sua denuncia è stata raccolta dalla radicale e presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Subito si è attivata chiedendo al capo del Dap, Santi Consolo, di intervenire sulla vicenda. Rita Bernardini conosce bene la situazione perché aveva già segnalato il grave problema del carcere di L’Aquila: durante la visita di Pasqua aveva ritrovato reclusi cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e ottenuto la risposta che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno. Uno che faceva il porta-vitto, le chiese “Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso? ”. Un altro ancora le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. “Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare? ”.
Rita Bernardini fa quindi presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, sarà riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. A questo si aggiunge che a causa della sua malattia ha bisogno della chemioterapia: il carcere di L’Aquila sarà in grado di riservargli questo trattamento sanitario assolutamente indispensabile?

Alla trasmissione Radio carcere,  condotta da Riccardo Arena, la Bernardini ha posto in diretta la questione a Santi Consolo. Il capo del Dap le ha risposto che purtroppo tutto rientra nella legge, dove è espressamente previsto che le persone ritenute ancora pericolose possono essere sottoposte a misura di sicurezza. Tuttavia ha segnalato il problema al magistrato di sorveglianza il quale ha ritenuto che Vincenzo Stranieri, nonostante i suoi gravi problemi di salute fisica e mentale, sia compatibile con la misura di sicurezza in 41 bis. Consolo ha comunque espresso il parere personale – in sintonia con quello della Bernardini – che tale regime in 41 bis non è compatibile nemmeno con la finalità del lavoro, per questo ha allertato il Provveditore regionale per chiedere chiarimenti. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante abbia scontato tutti gli anni inflitti e il sopraggiungere di questa grave malattia?

Ma come denuncia efficacemente Rita Bernardini, è giusto che la figlia Anna, oggi che il padre si trova nella cosiddetta “casa di lavoro” dell’Aquila, si sia sentita umiliata quando con arroganza qualcuno, alla sua garbata domanda “come sta mio padre? ”, ha risposto “è in cella! ”. La Bernardini conclude amaramente: “Anna Stranieri lo sa bene che suo padre è in cella e che ci rimarrà contro ogni principio di legalità e di umanità per altri due anni, ma era proprio necessario calpestare i suoi sentimenti? ”
Nel carcere di L”Aquila, in realtà, è stata creata una casa di lavoro per internati sottoposti al regime previsto dall’art 41 bis op. Attualmente sono presenti, oltre a Stranieri, Filippo Guttadauro, Salvatore Corrao, Salvatore Nobis e Pasquale Scarpa. Sono stati collocati nella dismessa area riservata del carcere e sono trattati come detenuti particolarmente pericolosi, La loro gestione è affidata al Gom, lo speciale reparto operativo mobile.
Salvatore Corrao è internato da due anni e mezzo, gli altri da circa 7 mesi. Sono in gruppi da due persone, non hanno un programma trattamentale, non sono seguiti da educatori e criminologi. Il magistrato di sorveglianza non è mai andato in carcere a verificare le condizioni in cui si trovano questi internati nonostante le molteplici richieste avanzate.
Da qualche mese gli hanno consentito di lavorare, solo dopo le ripetute richieste avanzate dal difensore, ma solo con mansioni di scopino o porta vitto, A distanza di oltre due anni di reclami e ricorsi rigettati, anche il loro comune difensore, Piera Farina, ha perso la speranza.

Scarpa e Nobis nel mese di febbraio hanno presentato una licenza per gravi motivi di famiglia ma non hanno avuto riscontro dal magistrato. Corrao si trova nella peggiore delle condizioni: dopo 9 anni di detenzione (di cui 7 in regime di alta sorveglianza e 2 in 41 bis op) ha visto rigettarsi licenza premio, riesame anticipato della pericolosità e revoca anticipata del 41 bis. A febbraio scorso scadevano i due anni di casa lavoro ma il magistrato si è determinato a prorogarla di 6 mesi e il tribunale di sorveglianza de L’Aquila cui è stato proposto appello non ha ancora depositato l’ordinanza. Il ministro della Giustizia gli ha prorogato il regime speciale a maggio e si è in attesa dell’udienza. Anche Scarpa ha avuto la proroga del regime speciale a gennaio e il tribunale di sorveglianza di Roma investito del reclamo ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata, ritenendola infondata.
Appare evidente che sia stato creato un nuovo e mascherato “fine pena mai” e magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di Roma giocano a palla avvelenata.

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/carcere/28545_a_mio_padre_vogliono_far_fare_la_fine_di_provenzano/

RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL SULL’EGITTO: CENTINAIA DI PERSONE SCOMPARSE E TORTURATE

Rapporto di Amnesty International sull’Egitto: centinaia di persone scomparse e torturate in un’ondata di repressione brutale

Un immagine delle forze speciali egiziane

In Egitto, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) si rende responsabile di rapimenti, torture e sparizioni forzate nel tentativo di incutere paura agli oppositori e spazzare via il dissenso pacifico: è quanto ha denunciato oggi Amnesty International in un drammatico nuovo rapporto, che mette in luce una scia senza precedenti di sparizioni forzate dai primi mesi del 2015.

Il rapporto, intitolato “Egitto: Tu ufficialmente non esisti’. Sparizioni forzate e torture in nome del contrasto al terrorismo“, rivela una vera e propria tendenza che vede centinaia di studenti, attivisti politici e manifestanti, compresi 14enni, sparire nelle mani dello stato senza lasciare traccia.

Secondo le organizzazioni non governative locali, la media delle sparizioni forzate è di tre-quattro al giorno. Di solito, agenti dell’Nsa pesantemente armati fanno irruzione nelle abitazioni private, portano via le persone e le trattengono anche per mesi, spesso ammanettate e bendate per l’intero periodo.

Questo rapporto rivela le scioccanti e spietate tattiche cui le autorità egiziane ricorrono nel tentativo di terrorizzare e ridurre al silenzio manifestanti e dissidenti” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

Le sparizioni forzate sono diventate uno dei principali strumenti dello stato di polizia in Egitto. Chiunque osi prendere la parola è a rischio. Il contrasto al terrorismo è usato come giustificazione per rapire, interrogare e torturare coloro che intendono sfidare le autorità” – ha aggiunto Luther.

Le autorità egiziane si ostinano a negare l’esistenza del fenomeno delle sparizioni forzate, ma i casi descritti nel nostro rapporto forniscono ampie prove del contrario. Denunciamo non solo le brutalità cui vanno incontro gli scomparsi ma anche la collusione esistente tra le forze di sicurezza e le autorità giudiziarie, il cui ruolo è quello di mentire per coprire l’operato della sicurezza o non indagare sulle denunce di tortura, e che in questo modo si rendono complici di gravi violazioni dei diritti umani” – ha sottolineato Luther.

FIRMA ORA L’APPELLO PER CHIEDERE AD ABDEL FATTAH AL-SISI DI FERMARE LE SPARIZIONI FORZATE IN EGITTO.

Sparizioni forzate e tortura 

Il rapporto descrive in dettaglio i casi di 17 persone sottoposte a sparizione forzata, detenute illegalmente per periodi varianti da diversi giorni a sette mesi, tagliate fuori dal mondo esterno e private di contatti con avvocati e familiari e di qualsiasi supervisione giudiziaria.

Il rapporto comprende inoltre drammatiche testimonianze delle torture praticate durante sessioni d’interrogatorio che possono durare fino a sette ore, allo scopo di estorcere “confessioni” che verranno poi usate come prova durante gli interrogatori ufficiali davanti al giudice e che condurranno alla condanna. In alcuni casi, sono stati torturati anche dei minorenni.

Uno dei casi più agghiaccianti è quello di Mazen Mohamed Abdallah: sottoposto a sparizione forzata nel settembre 2015, quando aveva 14 anni, è stato ripetutamente violentato con un bastone di legno per estorcergli una falsa “confessione”.

Aser Mohamed, a sua volta 14enne al momento dell’arresto, è stato vittima di sparizione forzata nel gennaio 2016 per 34 giorni, negli uffici dell’Nsa di Città 6 ottobre (nella Grande Cairo). Durante quel periodo è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso per gli arti. Alla fine è stato portato di fronte a un procuratore che lo ha minacciato di ulteriori scariche elettriche quando ha provato a ritrattare la “confessione”.

I due 14enni sono tra i cinque minorenni vittime di sparizione forzata per fino a 50 giorni descritti nel rapporto di Amnesty International. Alcuni di loro, anche dopo che ne era stato disposto il rilascio, sono stati sottoposti nuovamente a sparizione forzata prima di venire raggiunti da nuove accuse.

In altri casi, sono stati arrestati i familiari di persone da cui si voleva ottenere una “confessione”. Nel luglio 2015 Atef Farag è stato arrestato insieme al figlio 22enne Yehia. I loro familiari sostengono che Atef è stato arrestato per aver preso parte a un sit-in mentre suo figlio, che è disabile, è stato preso per costringere il padre a “confessare” una serie di gravi reati. Dopo una sparizione forzata durata 159 giorni, padre e figlio sono stati rinviati a processo per appartenenza al gruppo fuorilegge della Fratellanza musulmana.

L’evidente aumento delle sparizioni forzate risale al marzo 2015, ossia alla nomina a ministro dell’Interno di Magdy Abd el-Ghaffar, che in precedenza aveva fatto parte del Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato (Ssi), la famigerata polizia segreta dei tempi di Mubarak, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani: è stata smantellata dopo la rivolta del 2011 ma solo per essere rinominata Nsa.

Nel 2015 Islam Khalil, 26 anni, è stato sottoposto a sparizione forzata per 122 giorni. Tenuto bendato e ammanettato per l’intero periodo, è stato picchiato brutalmente e sottoposto a scariche elettriche anche sui genitali. Una volta, negli uffici dell’Nsa della città di Tanta (a nord del Cairo), è stato tenuto sospeso per i polsi e le caviglie per ore e ore fino a quando ha perso conoscenza.

Una volta, un agente che lo stava interrogando gli ha detto: “Pensi di avere qualche valore? Ti possiamo uccidere, arrotolarti in una coperta e buttarti in una discarica e nessuno chiederà di te“.

In un’altra occasione, un secondo agente lo ha sollecitato a dire le ultime preghiere mentre gli stava somministrando scariche elettriche.

Dopo 60 giorni Islam Khalil è stato trasferito in quello che ha chiamato “l’inferno”, ossia gli uffici dell’Nsa a Lazoughly, dove sono proseguite le torture.

A Lazoughly, a giudizio unanime il peggior centro di detenzione dell’Nsa, si stima si trovino centinaia di detenuti. Questa sede dell’Nsa si trova dentro il ministero dell’Interno, ironicamente a poca distanza da piazza Tahrir, dove cinque anni fa migliaia di persone avevano manifestato contro la tortura e le brutalità delle forze di sicurezza di Mubarak.

La sparizione forzata dello studente italiano Giulio Regeni, trovato morto al Cairo nel febbraio 2016 con segni di tortura, ha attratto l’attenzione dei mezzi d’informazione di ogni parte del mondo. Le autorità egiziane si ostinano a negare qualsiasi coinvolgimento nella sparizione e nell’uccisione di Giulio Regeni, ma il rapporto di Amnesty International rivela le similitudini tra i segni di tortura sul suo corpo e quelli sugli egiziani morti in custodia dello stato. Ciò lascia supporre che la sua morte sia stata solo la punta dell’iceberg e che possa far parte di una più ampia serie di sparizioni forzate ad opera dell’Nsa e di altri servizi d’intelligence in tutto il paese.

Le sparizioni forzate non solo aumentano il rischio di tortura e collocano i detenuti al di fuori della protezione della legge, ma hanno anche un impatto devastante sulle famiglie degli scomparsi, che sono lasciate sole a interrogarsi sul destino dei loro cari.

Tutto quello che voglio sapere è se mio figlio è vivo o morto” – dichiarava mesi fa Abd el-Moez Mohamed, padre di Karim, uno studente d’Ingegneria di 22 anni scomparso per quattro mesi dopo essere stato rapito nella sua abitazione del Cairo da agenti dell’Nsa pesantemente armati, nell’agosto 2015.

Alcuni familiari hanno denunciato la scomparsa dei loro cari al ministero dell’Interno e alla procura ma nella maggior parte dei casi non sono scattate le indagini. Nelle rare occasioni in cui ciò è accaduto, le indagini sono state chiuse dopo l’ammissione che lo scomparso era nelle mani dell’Nsa anche se questi ha continuato a vedersi negati i contatti con parenti e avvocati.

Il presidente Abdel Fattah al-Sisi deve ordinare a tutte le agenzie per la sicurezza dello stato di porre fine alle sparizioni forzate e alla tortura e dire chiaramente che chiunque ordinerà o commetterà queste violazioni dei diritti umani, o se ne renderà complice, sarà portato di fronte alla giustizia” – ha affermato Luther.

Tutte le persone detenute in tali condizioni devono avere accesso a familiari e avvocati e coloro che sono trattenuti solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà di espressione e alla libertà di riunione devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni” – ha aggiunto Luther.

Il rapporto chiede inoltre al presidente al-Sisi di istituire con urgenza una commissione indipendente d’inchiesta che indaghi su tutte le denunce di sparizione forzata e di tortura commesse dall’Nsa o da altre agenzie per la sicurezza dello stato e che abbia il potere di chiamare a deporre tutte le agenzie governative, comprese quelle militari, senza subire interferenze.

Collusione e inganno

Il rapporto di Amnesty International contiene forti accuse nei confronti della procura egiziana, colpevole di accettare prove dubbie ottenute dall’Nsa – che falsifica regolarmente le date d’arresto per nascondere il periodo in cui i detenuti sono sottoposti a sparizione forzata -, di emettere incriminazioni basate su “confessioni” estorte sotto coercizione e di non disporre indagini sulle denunce di tortura, evitando ad esempio di ordinare esami medici e di includerne i risultati negli atti ufficiali.

Nei rari casi in cui la procura autorizza esami medici indipendenti, gli avvocati dei detenuti non possono prendere visione dei risultati.

Siamo molto critici nei confronti della procura egiziana, che si rende complice di violazioni dei diritti umani e tradisce in modo crudele il dovere, assegnatole dalla legge, di proteggere le persone dalle sparizioni forzate, dagli arresti arbitrari e dalla tortura. Se l’istituto della procura non verrà riformato per garantire la sua indipendenza dal potere esecutivo, ciò sarà fatto di proposito” – ha chiarito Luther.

L’Egitto è considerato da molti paesi occidentali un partner chiave nella lotta al terrorismo a livello regionale e questa è la giustificazione usata per rifornirlo di armi e altro materiale nonostante le prove che tali forniture vengono usate per commettere gravi violazioni dei diritti umani. Molti paesi continuano a tenere strette relazioni diplomatiche, commerciali e di altra natura con l’Egitto senza dare priorità ai diritti umani.

Tutti gli stati, particolarmente quelli dell’Unione europea e gli Usa, devono usare la loro influenza per spingere l’Egitto a porre fine a queste terribili violazioni dei diritti umani, perpetrate col falso pretesto della sicurezza e del contrasto al terrorismo” – ha sottolineato Luther.

Invece di proseguire ciecamente a fornire equipaggiamento di sicurezza e di polizia all’Egitto, questi paesi dovranno annullare tutti i trasferimenti di armi e altro materiale che vengono usati per compiere gravi violazioni dei diritti umani fino a quando non saranno poste in essere garanzie efficaci contro il loro uso improprio, non saranno condotte indagini esaurienti e indipendenti sulle violazioni dei diritti umani e i responsabili di queste ultime non saranno portati di fronte alla giustizia” – ha concluso Luther.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 13 luglio 2016

Il rapporto “Egitto: ufficialmente tu non esisti’ Scomparsi e torturati nel nome della lotta al terrorismo” è disponibile presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia e online a questo indirizzo.

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/Rapporto-Egitto-centinaia-persone-scomparse-torturate