7 gennaio 1978: Acca Larentia

7 gennaio 1978: Accalarentia

Mercoledì 07 Gennaio 2015 07:04

Roma, 7 Gennaio del 1978, ore 18,20: cinque militanti del Fronte della Gioventù escono dalla sede dell’Msi di via Acca Larentia 28, nel quartiere Appio Latino, lasciando un biglietto sul tavolo “Siamo a Prati, ci vediamo domani”.
Acca Larentia è tristemente famosa in quegli anni, per i numerosi attacchi squadristi che troppe volte sono partiti proprio da quella sede.
Fuori, ad attendere i neofascisti, un gruppo di cinque o sei persone che, appena vede aprirsi la porta, apre immediatamente il fuoco.
Franco Bigonzetti, studente di 20 anni, rimane ucciso sul colpo; tre riescono a fuggire e a rientrare nella sede, dotata di porta blindata. L’ultimo militante, Francesco Ciavatta, diciottenne, viene ferito e tenta di fuggire attraverso una scalinata situata a lato della sezione. Viene però colpito nuovamente alla schiena e morirà in ambulanza.
Alcuni giorni dopo l’azione viene rivendicata tramite una cassetta, fatta trovare accanto ad una pompa di benzina, da un giovane con la voce contraffatta a nome dei “Nuclei Armati di Contropotere Territoriale”.

« Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d’Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell’accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. Abbiamo colpito duro e non certo a caso, le carogne nere sono picchiatori ben conosciuti e addestrati all’uso delle armi. »

Nelle ore successive al raid antifascista centinaia di missini romani (sono presenti tra gli altri Gianfranco Fini, Maurizio Gasparri, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti) si radunano sul luogo. Una telecamera del Tg1 inizia a riprendere l’ingresso della sede, inquadrando i volti dei giovani neo-fascisti, che aggrediscono il giornalista, provocando così una carica da parte delle forze dell’ordine.
Nel caos creato da un fitto lancio di lacrimogeni, tra le fila dei neofascisti spuntano spranghe e pistole, qualcuno spara.
Il capitano dei Carabinieri Edoardo Sivori punta la pistola ad altezza d’uomo, ma l’arma si inceppa. Toglie dalle mani di un suo attendente un’altra pistola e spara con quella, centrando in piena fronte il diciannovenne Stefano Recchioni, che morirà due giorni dopo in ospedale, provocando l’ira dei neofascisti che daranno vita a tre giorni di scontri e guerriglia in molte città italiane.
Dei cinque imputati Daniela Dolce è tutt’ora latitante, Mario Scrocca si suiciderà in carcere, mentre Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis saranno assolti per insufficienza di prove.
Nella miglior tradizione italiana il comandante Sivori verrà invece condannato per “eccesso colposo di legittima difesa”.

La vicenda giudiziaria legata ad Acca Larentia sarà lunga e senza risoluzione: gli unici accusati del duplice omicidio sono cinque militanti di Lotta Continua, secondo le dubbie rivelazioni di Livia, ex br pentita che afferma di averli visti partecipare ad una riunione in cui veniva decisa la firma per rivendicare il raid.

L’aggressione del 7 gennaio avrà inoltre un ulteriore seguito: il 28 febbraio, anniversario della morte di Mikis Mantakas, alcuni membri dei Nar, guidati da Valerio Fioravanti, decidono di farsi vendetta. Con alcune auto si avvicinano a Piazza S.Giovanni Bosco, luogo di ritrovo per molti compagni della zona. Irrompono nella piazza, facendo fuoco. Viene colpito al torace Roberto Scialabba, militante di Lotta Continua di 24 anni, poi giustiziato, mentre è disteso a terra, dallo stesso Fioravanti con due colpi alla nuca. Poche ore dopo i Nar rivendicheranno l’attentato con una telefonata al Messaggero, affermando di aver vendicato Acca Larentia.

10 gennaio 1978, 93.400 Radio Onda Rossa – “Compagni, non scandalizziamoci, è inutile stare lì a mascherarci: siamo di fronte a un momento di antifascismo”.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/154-7-gennaio-1978-accalarentia

 

 

Carlo Giuliani

Il 20 luglio 2001, durante il G8 di Genova, a Piazza Alimonda, rimase ucciso il giovane Carlo Giuliani.
Questo è il sito del Comitato a lui dedicato:

http://www.piazzacarlogiuliani.org/

BREVE CRONOLOGIA DEI FATTI DEL 20 LUGLIO 2001:
PIAZZA ALIMONDA ORE 17.27

Venerdì 20 luglio
Il vicepresidente del Consiglio, on. Gianfranco Fini, con altri esponenti di Alleanza Nazionale, tra cui l’on. Ascierto, si trovano nella Caserma dei Carabinieri di San Giuliano dove si trattengono per diverse ore. Le forze dell’ordine vengono dislocate nelle zone dove passeranno i cortei e nelle vicinanze delle piazze tematiche.
Sono stati rimossi i cestini della spazzatura ma molti cassonetti si trovano tuttora lungo i percorsi e nelle piazze dove si raccolgono i manifestanti.
Fin dalla mattina compare il Black block: gruppi di 10, 15, al massimo 20 persone alla volta, molte delle quali dall’accento straniero, si aggirano per la città distruggendo vetrine, incendiando cassonetti, auto, motorini.
Fanno incetta di sassi, spranghe e bastoni.
Diversi privati cittadini, da varie zone della città, denunciano il fatto alle autorità competenti. Un gruppo si concentra in piazza Paolo da Novi, la piazza tematica dei Cobas; inizia a smantellare la pavimentazione e a caricare i cassonetti con pietre.
Alcuni manifestanti tentano di fermarli.
Le forze dell’ordine, che si trovano a breve distanza, no.
Indietreggiano, sparando lacrimogeni. Li inseguono nelle vie adiacenti senza mai fermarli davvero.
(Alcuni filmati, anche del sabato, riprenderanno strani personaggi che prima parlano con le forze dell’ordine e poi si avvicinano ad alcuni Black block. Altri filmati riprendono dei personaggi che, in motorino, prima parlano con i Black block, poi con le forze dell’ordine, e così via).
Il black block passa sotto il tunnel della ferrovia all’altezza di corso Torino dividendosi quindi in due gruppi : uno si dirige verso il Carcere, l’altro sale la scalinata Montaldo verso piazza Manin.
Ore 15. Un filmato riprende alcuni blindati dei Carabinieri nella piazza antistante il Carcere di Marassi e gruppi di agenti a piedi.
Una ventina di Black block si avvicina al carcere lanciando sassi.
I Carabinieri si ritirano.
I Black block rompono alcuni vetri delle finestre del Carcere e incendiano un portone ed una finestra. Poi se ne vanno indisturbati.
Nel frattempo il corteo dei Disobbedienti, “armati” con scudi di plexiglass, imbottiture di polistirolo, gommapiuma e bottiglie di plastica, lasciato lo Stadio Carlini, si avvia lentamente lungo il tragitto autorizzato, incontrando sul suo cammino cassonetti rovesciati e auto bruciate.
A metà di via Tolemaide viene duramente e improvvisamente aggredito dai Carabinieri, sostenuti da 4 blindati. Ricordiamo che i portavoce dei Disobbidienti avevano precedentemente concordato con la Questura il percorso fino a piazza Verdi, (la piazza che si trova di fronte alla stazione Brignole). Ci sarebbero, quindi, ancora circa 500 metri di strada da percorrere. La zona rossa, protetta dalle grate in ferro, è ben più lontana.
L’attacco respinge per alcuni metri i manifestanti che, retrocedendo, si compattano verso corso Gastaldi. Non ci sono vie di fuga: alle spalle 10000 persone premono non comprendendo cosa stia accadendo; da un lato la massicciata della ferrovia, dall’altro file continue di palazzi.
Nel frattempo, i Black block saliti a piazza Manin, dove sono radunati Pax Christi, Mani Tese, Rete Lilliput, ecc., proseguono indisturbati verso piazza Marsala; dietro a loro sopraggiunge la Polizia che spara lacrimogeni e carica i pacifisti con le mani, pitturate di bianco, alzate; vengono picchiate e ferite soprattutto le donne.
Tornando a via Tolemaide, dopo ogni carica al corteo dei Disobbedienti, i blindati e i militari indietreggiano, ritirandosi fino all’angolo con corso Torino.
Alcuni ragazzi del corteo li inseguono, tirando sassi e cercando di rompere i vetri dei blindati.
Una camionetta, dopo aver percorso a velocità sostenuta, su e giù, quel tratto di strada, minacciando di travolgere i manifestanti, si blocca improvvisamente a marcia indietro contro un cassonetto. L’autista fugge lasciando soli i colleghi.
I carabinieri schierati poco più avanti non intervengono in loro aiuto.
I ragazzi assaltano il blindato, visibilmente infuriati, con sassi e spranghe; permettono comunque ai carabinieri che occupano il mezzo di allontanarsi. Quindi lo incendiano.
La Polizia respinge il corteo in via Tolemaide.
Ore 16.30 circa – Carlo si unisce al corteo dei Disobbedienti, che già da tempo, bloccato frontalmente, stremato dalle cariche ripetute, intossicato dai lacrimogeni, scottato dagli idranti urticanti, tenta di defluire per le vie laterali e di tornare al Carlini.
Carlo indossa un pantalone della tuta blu, una canottiera bianca e una giacca della tuta grigia legata in vita.
A questo punto le forze dell’ordine, carabinieri e polizia, attaccano nuovamente il fronte del corteo: blindati lanciati a 70Km/h sui ragazzi, idranti urticanti, colpi d’arma da fuoco, lacrimogeni al gas CS, manganelli Tonfa.
I ragazzi rispondono lanciando sassi, lanciando indietro alcuni lacrimogeni, facendo piccole barricate con i bidoni per la raccolta differenziata della carta e della plastica.
Carlo indossa il passamontagna blu.
Sul fianco di via Tolemaide si aprono 2 strade strette, che portano in piazza Alimonda.
Ore 17.15. Un drappello di una ventina di carabinieri appoggiato da 2 defender si posiziona in una di queste due stradine. Partono i lacrimogeni, che vengono lanciati in mezzo al corteo.
I manifestanti reagiscono.
I militari, improvvisamente, cominciano ad indietreggiare, fino a scappare disordinatamente verso via Caffa, attraverso piazza Alimonda.
Un gruppo di manifestanti li inseguono urlando.
I due defender proseguono in retromarcia, superano un primo cassonetto che si trova in mezzo alla strada di fronte alla Chiesa del Rimedio.
Un defender, raggiunto uno slargo, fa manovra e raggiunge i colleghi in via Caffa; l’altro si ferma contro un cassonetto di rifiuti mezzo vuoto che si trova sul lato destro della strada.
Un plotone di polizia, con defender e blindati, è schierato in via Caffa a pochi metri dal defender. Un ingente schieramento di forze di polizia e blindati si trova in piazza Tommaseo, la piazza in cui sfocia via Caffa, lunga 300 metri.
Alcuni manifestanti raggiungono il defender fermo in piazza Alimonda, alcuni di loro tornano indietro verso via Tolemaide, altri cominciano a tirare sassi contro le forze dell’ordine schierate in via Caffa, altri ancora lanciano pietre e tirano colpi con assi di legno al defender.
Una persona raccoglie da terra un estintore, comparso sulla scena in questo momento, e lo lancia da una distanza ravvicinata e nel senso della lunghezza, contro il defender; l’estintore colpisce il lunotto posteriore e cade fermandosi sulla ruota di scorta.
Uno scarpone spunta dal lunotto e lo scalcia facendolo rotolare a terra.
In questo momento attorno al defender ci sono 4 fotografi e 5 manifestanti.
Una pistola spunta dal lunotto posteriore.
Un ragazzo con la felpa grigia vede la pistola, si china e scappa.
Carlo, si avvicina, si china a raccogliere l’estintore, si alza in torsione per ritrovarsi quasi di fronte al retro del defender…
… Solleva l’estintore sopra la testa…

In questo momento, Carlo si trova a 3,37 metri di distanza dal lunotto posteriore del defender.
Sono le 17.27.
Parte il primo sparo.
Carlo cade a terra in avanti, trascinato dall’estintore che sta lanciando, e rotola sul fianco destro verso il defender.
I manifestanti presenti nella piazza scappano precipitosamente mentre parte un secondo colpo di pistola. I fanali della retromarcia del defender sono accesi.
Qualcuno grida “fermi, stop” al Defender che passa due volte sul corpo di Carlo, una prima volta in retromarcia sul bacino, la seconda in avanti sulle gambe.
Sono passati 5 secondi dal secondo sparo quando il defender è già in via Caffa, oltre lo schieramento della Polizia.
I giornalisti che si trovano vicino al defender cominciano a fotografare e riprendere Carlo a terra, che sta morendo.
Si avvicinano alcuni manifestanti che cercano di fermare lo zampillo di sangue che sgorga a ritmo cardiaco dallo zigomo sinistro di Carlo.
A questo punto, le forze di polizia avanzano, sparando lacrimogeni e disperdendo i pochi manifestanti ancora nei pressi.
Le forze di polizia circondano il corpo.
10 minuti dopo, un’infermiera del GSF che cerca di soccorrere Carlo sente ancora il suo cuore che batte. Arriva una seconda infermiera.
Le infermiere tolgono il passamontagna a Carlo e notano sulla fronte una grossa e profonda ferita che non sanguina, una ferita, dunque, che è stata provocata da un colpo in fronte inferto dopo l’uccisione. Sulla tempia destra di Carlo ci sono abrasioni e ferite.
Più di un testimone racconterà di aver visto rappresentanti delle forze dell’ordine che hanno preso a calci in testa Carlo prima che arrivassero le infermiere del GSF.

Nella relazione del primo semestre 2002, i Servizi Segreti italiani hanno ammesso “infiltrazioni di elementi di estrema destra tra i black block a Genova durante le manifestazioni anti-G8”.

Tutto quanto raccontato è visibile dai numerosi filmati elencati in questo sito alla voce “Bibliografia”, o dalle numerose fotografie riportate nelle contro-inchieste.
Sul Black Block e l’assalto al Carcere di Marassi si veda in particolare “Le strade di Genova”, di Davide Ferrario.

» La ricostruzione e qualche domanda

 

 

Fonte:
http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/20lug.php

Nel sito del Comitato Piazza Carlo Giuliani è presente molto altro  materiale, tra cui videi di documentari che ricostruiscono l’omicidio. Rinvio alla visita del sito stesso.

Su Carlo Giuliani ho letto un paio di libri di cui consiglio la lettura. Si tratta di una raccolta di racconti  dedicati a Carlo e pubblicati a dieci anni dalla sua uccisione e di un grafic novel che ne racconta la vita.

Per sempre ragazzo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CARLO GIULIANI

 

La famiglia Giuliani da quel giorno lotta per sapere la verità sull’omicidio del figlio, sui fatti del g8 di Genova 2001 e dà il suo sostegno anche per tutti gli altri casi di malapolizia. Costante è dunque l’impegno della madre Haidi Gaggio Giuliani , cofondatrice, insieme a Francesco Barilli, del sito http://www.reti-invisibili.net/, del padre Giuliano e della sorella Elena.

Qui gli ultimi articoli sull’omicidio di Carlo:

G8, "Giusto sparare a Giuliani" Sallusti a giudizio per diffamazione

 

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/23/APcfvxoF-giuliano_giuliani_voglio.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/26/APbPurpF-giuliano_giuliani_morto.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/10/09/AQhu73c-ritorna_morte_giuliani.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/01/27/AQ0MALdB-credevo_colpito_giuliani.shtml

http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/03/27/news/g8_giusto_sparare_a_giuliani_sallusti_a_giudizio_per_diffamazione-82065957/

Segnalo il prossimo evento organizzato per ricordare Carlo:

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/?tribe_events=per-non-dimenticarlo-genova-19-20-luglio-2014

G8 Genova, fotoreporter Mark Covell: “Voglio i nomi di chi mi stava per uccidere. Nell’archivio Scajola forse la verità”

Arianna Giunti, L’Huffington Post  |  Pubblicato:   Aggiornato: 23/05/2014 11:50

 

“I responsabili del mio tentato omicidio non hanno ancora un nome. Se la verità è contenuta in quei dossier, ora è il momento di tirarla fuori. Per me e per le altre vittime”.

 

Il blitz alla scuola Diaz di Genova, una delle pagine più nere della storia della Repubblica italiana, ancora oggi dopo tredici anni continua a rimanere una ferita aperta, piena di misteri. Uno di questi è l’identità mai rivelata dei quasi quattrocento agenti in tenuta antisommossa che quella notte hanno fatto ingresso nella scuola genovese dando inizio a una feroce mattanza, in quella che è stata definita come “la più grave sospensione dei diritti umani in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

 

Alcuni di questi agenti sono responsabili di un tentato omicidio, quello del fotoreporter inglese Mark Covell: in seguito al feroce pestaggio venne lasciato a terra senza essere soccorso per venti minuti; riportò danni alla spina dorsale e è rimase in coma profondo per 14 ore. Nonostante una lunga inchiesta e tre processi la Procura di Genova, infatti, non è mai riuscita a identificarli. L’indagine sul tuo tentato omicidio è stata archiviata un anno fa dal gip di Genova Adriana Petri. Nessun testimone si è fatto avanti. I responsabili sono stati protetti da un invalicabile muro di omertà – come denunciarono gli stessi magistrati – che si è immediatamente innalzato a difesa degli appartenenti alle forze dell’ordine.

 

A capo del Viminale, in quei giorni di guerriglia urbana, sedeva Claudio Scajola. Nella cui abitazione proprio in questi giorni i magistrati che indagano sull’inchiesta Matacena hanno trovato alcuni dossier privati. Uno di questi riguarda appunto il G8 di Genova.

 

Oggi Mark Covell ha 46 anni. Disabile, vive in una casa popolare di Londra. E chiede a gran voce che si faccia luce su quei documenti, che potrebbero contenere la verità anche sui nomi degli agenti coinvolti nel blitz.

 

Lei sostiene che quei 340 nomi fossero ben noti ai vertici della polizia, ma che furono fatti sparire.

 

Esatto, le indagini coordinate dal pubblico ministero Enrico Zucca della Procura di Genova hanno trovato da subito un ostacolo enorme. Da parte delle istituzioni e dei ministri del governo Berlusconi ci fu immediatamente uno scaricabarile di responsabilità. Penso per esempio a Fini – vice presidente del Consiglio presente in quei giorni a Genova – e, appunto, a Scajola. Però tutti quanti fecero immediatamente quadrato con i servizi segreti e i vertici delle forze dell’ordine.

 

Perché Scajola, a capo del Viminale, avrebbe dovuto sapere qualcosa su quei nomi? Chi coordinò il blitz alla scuola Diaz?

 

È ormai accertato da tre sentenze che il blitz alla scuola Diaz fu ordinato per “punire” i black bloc. Erano passate poche ore dall’omicidio di Carlo Giuliani e la polizia era in fibrillazione. Il blitz alla Diaz fu pretestuoso, lo sapevano benissimo che in quel palazzo dormivano solo manifestanti inermi e giornalisti, come me. I poliziotti del I Reparto Mobile (un reparto di polizia creato ad hoc proprio in quei giorni, ndr) arrivarono portandosi dietro prove false, le bottiglie molotov. Ci sono filmati e tre sentenze che lo dimostrano. I loro capi erano tenuti ad avere una lista dei poliziotti che vi avevano preso parte. Così come di quelli appartenenti al Settimo nucleo speciale della Mobile, responsabili dei pestaggi. Succede per tutte le altre operazioni di ordine pubblico. Queste liste finiscono direttamente al Viminale.

 

Questi nomi però non vennero mai comunicati alla Procura di Genova, che li chiese una volta iniziate le indagini…

 

Solo in parte sono stati comunicati, con molta fatica. Se questo fosse stato fatto, con facilità – anche grazie alle telecamere – avremmo potuto identificare i poliziotti che mi hanno massacrato di botte fino quasi ad uccidermi, in quella che nei processi è stata definita una “macelleria messicana”. Io sono convinto che Scajola sia un personaggio chiave in questa storia. Non direttamente responsabile, sicuramente. Però sono certo che sappia molto di più di quello che, allora, ha fatto capire di sapere.

 

Secondo lei dunque in quei dossier relativi al G8 potrebbe essere contenuta la verità sul blitz di quella notte e su altri aspetti controversi di quei giorni a Genova?

 

Io sono convinto che qualcuno abbia nascosto i files con i nomi dei 340 agenti. Grossissime responsabilità sono da imputare non solo ai vertici della polizia ma anche ai ministri del governo Berlusconi, che hanno insabbiato la verità, distrutto le prove e protetto i colpevoli. E poi ci sono troppe incongruenze legate a quella notte. Penso per esempio alla sostituzione del vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, l’unico che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in Tribunale. Ci devono la verità. Non solo a me ma anche a Lena Zulke, Niels Martensen, Jaroslaw Engel, Melanie Jonachse, Daniel Albright e gli altri manifestanti pestati a sangue quella notte. Se Scajola decidesse di parlare si potrebbe riaprire l’indagine sul mio tentato omicidio.

 

Ha mai ricevuto scuse ufficiali da parte delle istituzioni e dal governo?

 

Chiedere scusa significa ammettere la propria colpevolezza. E quindi certo che no, non ho mai ricevuto scuse. Il G8 di Genova continua a rimanere un’ombra nera nella mia vita, che mi perseguita. Però io voglio continuare a credere che un giorno qualche poliziotto onesto trovi il coraggio di rompere il silenzio su quella maledetta notte che ha stravolto la mia vita. Ancora oggi, quando torno in Italia, io non sono tranquillo. Vivo con la paura di incontrare uno dei poliziotti della Diaz, e che le minacce di quella notte diventino realtà.

 

 

 

 

 

Fonte:
http://www.huffingtonpost.it/2014/05/23/g8-genova-fotoreporter-mark-covell-intervista_n_5377292.html?1400837794&utm_hp_ref=fb&src=sp&comm_ref=false

Scajola e il “dopo Diaz” della polizia

 

 

di Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova

Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ’77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono schioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile.

Scajola era all’epoca il ministro dell’Interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vice presidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.

Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, un “rompiscatole”. Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo).

Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto. Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di stato e il ministero dell’Interno dall’altro.

Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vice capo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.

Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti.

Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.

Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente:

“Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa”. Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.

(9 maggio 2014)
Fonte:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/scajola-e-il-%E2%80%9Cdopo-diaz%E2%80%9D-della-polizia/?fb_action_ids=656596614421337&fb_action_types=og.likes