Nasce a Bolzaneto l’inquietante legalità di Marino

Dalla più grande sospensione dei diritti umani d’Occidente [Genova 2001] all’assessorato alla legalità di Roma: un controsenso insostenibile. La denuncia dei Giuristi democratici

di Ercole Olmi

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Dall’inferno di Bolzaneto al Campidoglio, per garantire la legalità nel rimpasto della Giunta Marino. Si parla di Alfonso Sabella, pm e, all’epoca di Genova 2001, inviato del Dap a supervisionare il carcere provvisorio per le retate di manifestanti.

Il primo atto di indagine della procura di Genova su quanto accaduto nella caserma lager di Bolzaneto nelle giornate genovesi fu nei confronti del responsabile della struttura detentiva di Bolzaneto: il magistrato Alfonso Sabella. Fu ascoltato il 1° agosto 2001, ad appena nove giorni dalla fine del G8. Ex sostituto procuratore a Palermo al fianco di Giancarlo Caselli, Sabella nei giorni dei fatti di Genova era il dirigente della polizia penitenziaria, inviato a Genova dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Prima di essere smentito dalle deposizioni dei torturati a Bolzaneto, Sabella, scolpì negli atti – e sulle agenzie – che “la Polizia Penitenziaria a Bolzaneto ha gestito due camere di sicurezza dove non ci sono state violenze”. Il 29 agosto Sabella insisteva nel minimizzare quanto accaduto: “E’ probabile che ci siano stati singoli e isolati comportamenti, che potrebbero anche costituire dei reati, ma allo stato non emerge assolutamente una situazione di confusione o di disorganizzazione riconducibile al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”.

“Per quanto potevo constatare allora tutto si era svolto tranquillamente. Ora, invece, abbiamo più di qualche dubbio che non sia stato effettivamente così”. Ma lui dov’era?, si chiede il sito Misteri d’Italia. Era a Bolzaneto: “Mi ci recavo tre-quattro volte al giorno e anche qui non ho visto niente di particolare, se non il fatto che gli arrestati venivano fatti sostare in piedi, con le mani alzate addosso al muro”. Una cosa, quindi, assolutamente normale in tutte le carceri…

L’11 maggio 2004, quando i magistrati formulano le loro richiesta di rinvio a giudizio per 47 persone tra poliziotti, secondini, carabinieri e medici presenti a Bolzaneto, la posizione di Sabella viene stralciata e destinata ad essere archiviata. Così fu chiesto il 31 marzo 2005: “Risulta, per sua stessa ammissione, che Sabella ebbe a vedere personalmente che i detenuti nelle celle erano tenuti nella posizione vessatoria in due occasioni. Da ciò e dal non avere dato l’ordine di fare immediatamente sedere i detenuti potrebbe inferirsene una responsabilità quanto meno ex art. 608 cp, stante la posizione di garanzia rivestita dal magistrato che comportava anche un dovere di controllo”. I pm aggiungono però: “Peraltro, da un lato la già rilevata intermittenza della presenza in Bolzaneto del magistrato non consente di ritenere la consapevolezza del perdurare della posizione vessatoria e ciò tanto più perché aveva dato ordine a Gugliotta (responsabile della sicurezza della caserma di Bolzaneto, ndr) di contenerla in un tempo massimo di un quarto d’ora e perché non vi erano ragioni di pensare che il proprio ordine sarebbe stato invece disatteso; dall’altro lato deve osservarsi che, secondo il suo incarico, il magistrato aveva il compito di ‘organizzare il controllo e non quindi di effettuarlo personalmente (non essendo tra l’altro Ufficiale di Polizia Giudiziaria) e che indubbiamente la precisa individuazione – effettuata da parte del magistrato – di responsabili per ciascun settore del sito (ispettore Gugliotta per la sicurezza, ispettore Tolomeo per la matricola, dottor Toccafondi per l’Area Sanitaria, Capitani, Cimino e Pelliccia per il servizio traduzione) può ritenersi adempimento dell’obbligo di organizzazione del controllo”.

L’archiviazione arriverà il 25 Gennaio 2007. A cinque anni e mezzo dagli orrori della Bolzaneto, il Gip Lucia Vignale archivia la posizione del magistrato che però nell’ordinanza scrive: “Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e non impedì il verificarsi di eventi che avrebbe dovuto evitare”. E più avanti aggiunge: “Sarebbe stato opportuno cercare di comprendere ciò che, pur nella confusione e nella difficoltà del momento, poteva essere almeno intuito. In questo senso si può affermare che il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento”.

L’Associazione Giuristi Democratici di Roma è piuttosto angosciata per la scelta del Sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino, di prendere in considerazione per l’incarico di assessore alla legalità proprio Alfonso Sabella. “Ciò, nel ricordo dell’operato dello stesso nelle drammaticamente storiche giornate del G8 di Genova 2001. In quel contesto, ormai universalmente definito come la più grande sospensione dei diritti di democrazia in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale, il Dr. Sabella si trovò a operare quale coordinatore dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria, che si svolsero anche nella caserma N. Bixio di Bolzaneto. I comportamenti illegali, i trattamenti inumani e degradanti inflitti agli ospiti di tale struttura ad opera di alcuni degli agenti ivi presenti sono ormai dato incontrovertibile. In quel quadro, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi”, scrivono citando l’ordinanza e ricordando che Sabella “non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare”.

Per i giuristi democratici tutto ciò dimostra che, “sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi, circa il trattenimento dei fermati in piedi, faccia al muro e mani in alto; e ancora avendo, fin da subito, affermato pubblicamente che «A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare». Sicuramente, non è questo il viatico che può accompagnare chi si appresta a ricoprire un incarico quale quello per il quale il Dr. Sabella sarebbe stato prescelto”.

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2014/12/21/nasce-a-bolzaneto-linquietante-legalita-di-marino/

 

Stupratore di 4 donne e torturatore a Bolzaneto: è Massimo Pigozzi, poliziotto

Riporto questo vecchio articolo che sta girando in questi giorni per ricordare a chi parla di “mele marce” di cosa sono capaci le forze dell’ordine.

Dal blog di Valentina Perniciaro:

1 ottobre 2013

Una sentenza di Cassazione, a conferma dei due precedenti gradi di giudizio, che condanna il poliziotto Massimo Pigozzi a dodici e anni e mezzo di reclusione per lo stupro di ben 4 donne. Stupri che il Picozzi compieva durante l’espletamento delle sue mansioni lavorative, quindi all’interno delle camere di sicurezza della Questura di Genova ai danni di donne in stati di fermo.

Massimo Pigozzi però noi lo conosciamo già, il suo nome, prima degli stupri “in divisa” era già noto alla magistratura,
ma soprattutto a noi che eravamo per quelle strade in quei giorni indimenticabili; non un poliziotto qualunque, un playmobil tra i troppi che ce ne sono…
Massimo Pigozzi -mi piace ripetere il suo nome tipo nenia, così che il tempo lo lasci comunque indelebile nella memoria-  era ben noto come torturatore, e per questo già condannato a tre anni e due mesi, per aver … non so trovare il verbo adatto…  divaricato le dita delle mani di un manifestante fino a spaccargli la mano (dopo Giuseppe Azzolina fu suturato con 25 punti e ha riportato una lesione permanente ) .

Insomma, Massimo Pigozzi è un uomo di Stato e in quanto tale è stato condannato per aver compiuto tortura su un uomo in stato di fermo,
e in quanto tale ha stuprato ben 4 donne dentro una Questura anche loro in stato di fermo, quindi in una condizione di debolezza totale.
La corte di Cassazione ha per questo stabilito che il risarcimento venga pagato dallo Stato, dal Viminale per essere precisi, perchè se stupro c’è stato,
dice senza troppi giri di parola la sentenza depositata oggi – e c’è stato per ben 4 volte- è stato possibile per volere dello Stato, che dopo la condanna per i fatti di Bolzaneto ha pensato bene di mantenere quel personaggio a svolgere il suo lavoro,
avendo oltretutto modo di avvicinare e poter rimanere solo con persone in stato di fermo.

Dopo i giorni di Genova ha continuato a fare il suo mestiere,
Dopo la condanna a tre anni e due mesi per i fatti di Bolzaneto, ha continuato a fare il suo mestiere,
Dopo uno stupro e poi un altro e poi un altro e poi un altro, tutti avvenuti in caserma mentre continuava a fare il suo mestiere.
Oggi il terzo grado di giudizio: il fatto che sia la magistratura a toglier dalle caserme questi personaggi e non il “furor di popolo” mette un po’ di tristezza, ma tant’è.

Son sentenze che però andrebbero lette e rilette in faccia a chi diceva che a Genova in quei giorni c’è stata la “sospensione della democrazia”,
o a chi parla di “mele marce” quando avvengono certi fatti in caserma.

 

 

Fonte:

http://baruda.net/2013/10/01/stupratore-di-4-donne-e-torturatore-a-bolzaneto-e-massimo-pigozzi-poliziotto/

G8 Genova, fotoreporter Mark Covell: “Voglio i nomi di chi mi stava per uccidere. Nell’archivio Scajola forse la verità”

Arianna Giunti, L’Huffington Post  |  Pubblicato:   Aggiornato: 23/05/2014 11:50

 

“I responsabili del mio tentato omicidio non hanno ancora un nome. Se la verità è contenuta in quei dossier, ora è il momento di tirarla fuori. Per me e per le altre vittime”.

 

Il blitz alla scuola Diaz di Genova, una delle pagine più nere della storia della Repubblica italiana, ancora oggi dopo tredici anni continua a rimanere una ferita aperta, piena di misteri. Uno di questi è l’identità mai rivelata dei quasi quattrocento agenti in tenuta antisommossa che quella notte hanno fatto ingresso nella scuola genovese dando inizio a una feroce mattanza, in quella che è stata definita come “la più grave sospensione dei diritti umani in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

 

Alcuni di questi agenti sono responsabili di un tentato omicidio, quello del fotoreporter inglese Mark Covell: in seguito al feroce pestaggio venne lasciato a terra senza essere soccorso per venti minuti; riportò danni alla spina dorsale e è rimase in coma profondo per 14 ore. Nonostante una lunga inchiesta e tre processi la Procura di Genova, infatti, non è mai riuscita a identificarli. L’indagine sul tuo tentato omicidio è stata archiviata un anno fa dal gip di Genova Adriana Petri. Nessun testimone si è fatto avanti. I responsabili sono stati protetti da un invalicabile muro di omertà – come denunciarono gli stessi magistrati – che si è immediatamente innalzato a difesa degli appartenenti alle forze dell’ordine.

 

A capo del Viminale, in quei giorni di guerriglia urbana, sedeva Claudio Scajola. Nella cui abitazione proprio in questi giorni i magistrati che indagano sull’inchiesta Matacena hanno trovato alcuni dossier privati. Uno di questi riguarda appunto il G8 di Genova.

 

Oggi Mark Covell ha 46 anni. Disabile, vive in una casa popolare di Londra. E chiede a gran voce che si faccia luce su quei documenti, che potrebbero contenere la verità anche sui nomi degli agenti coinvolti nel blitz.

 

Lei sostiene che quei 340 nomi fossero ben noti ai vertici della polizia, ma che furono fatti sparire.

 

Esatto, le indagini coordinate dal pubblico ministero Enrico Zucca della Procura di Genova hanno trovato da subito un ostacolo enorme. Da parte delle istituzioni e dei ministri del governo Berlusconi ci fu immediatamente uno scaricabarile di responsabilità. Penso per esempio a Fini – vice presidente del Consiglio presente in quei giorni a Genova – e, appunto, a Scajola. Però tutti quanti fecero immediatamente quadrato con i servizi segreti e i vertici delle forze dell’ordine.

 

Perché Scajola, a capo del Viminale, avrebbe dovuto sapere qualcosa su quei nomi? Chi coordinò il blitz alla scuola Diaz?

 

È ormai accertato da tre sentenze che il blitz alla scuola Diaz fu ordinato per “punire” i black bloc. Erano passate poche ore dall’omicidio di Carlo Giuliani e la polizia era in fibrillazione. Il blitz alla Diaz fu pretestuoso, lo sapevano benissimo che in quel palazzo dormivano solo manifestanti inermi e giornalisti, come me. I poliziotti del I Reparto Mobile (un reparto di polizia creato ad hoc proprio in quei giorni, ndr) arrivarono portandosi dietro prove false, le bottiglie molotov. Ci sono filmati e tre sentenze che lo dimostrano. I loro capi erano tenuti ad avere una lista dei poliziotti che vi avevano preso parte. Così come di quelli appartenenti al Settimo nucleo speciale della Mobile, responsabili dei pestaggi. Succede per tutte le altre operazioni di ordine pubblico. Queste liste finiscono direttamente al Viminale.

 

Questi nomi però non vennero mai comunicati alla Procura di Genova, che li chiese una volta iniziate le indagini…

 

Solo in parte sono stati comunicati, con molta fatica. Se questo fosse stato fatto, con facilità – anche grazie alle telecamere – avremmo potuto identificare i poliziotti che mi hanno massacrato di botte fino quasi ad uccidermi, in quella che nei processi è stata definita una “macelleria messicana”. Io sono convinto che Scajola sia un personaggio chiave in questa storia. Non direttamente responsabile, sicuramente. Però sono certo che sappia molto di più di quello che, allora, ha fatto capire di sapere.

 

Secondo lei dunque in quei dossier relativi al G8 potrebbe essere contenuta la verità sul blitz di quella notte e su altri aspetti controversi di quei giorni a Genova?

 

Io sono convinto che qualcuno abbia nascosto i files con i nomi dei 340 agenti. Grossissime responsabilità sono da imputare non solo ai vertici della polizia ma anche ai ministri del governo Berlusconi, che hanno insabbiato la verità, distrutto le prove e protetto i colpevoli. E poi ci sono troppe incongruenze legate a quella notte. Penso per esempio alla sostituzione del vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, l’unico che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in Tribunale. Ci devono la verità. Non solo a me ma anche a Lena Zulke, Niels Martensen, Jaroslaw Engel, Melanie Jonachse, Daniel Albright e gli altri manifestanti pestati a sangue quella notte. Se Scajola decidesse di parlare si potrebbe riaprire l’indagine sul mio tentato omicidio.

 

Ha mai ricevuto scuse ufficiali da parte delle istituzioni e dal governo?

 

Chiedere scusa significa ammettere la propria colpevolezza. E quindi certo che no, non ho mai ricevuto scuse. Il G8 di Genova continua a rimanere un’ombra nera nella mia vita, che mi perseguita. Però io voglio continuare a credere che un giorno qualche poliziotto onesto trovi il coraggio di rompere il silenzio su quella maledetta notte che ha stravolto la mia vita. Ancora oggi, quando torno in Italia, io non sono tranquillo. Vivo con la paura di incontrare uno dei poliziotti della Diaz, e che le minacce di quella notte diventino realtà.

 

 

 

 

 

Fonte:
http://www.huffingtonpost.it/2014/05/23/g8-genova-fotoreporter-mark-covell-intervista_n_5377292.html?1400837794&utm_hp_ref=fb&src=sp&comm_ref=false

Scajola e il “dopo Diaz” della polizia

 

 

di Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova

Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ’77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono schioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile.

Scajola era all’epoca il ministro dell’Interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vice presidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.

Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, un “rompiscatole”. Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo).

Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto. Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di stato e il ministero dell’Interno dall’altro.

Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vice capo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.

Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti.

Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.

Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente:

“Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa”. Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.

(9 maggio 2014)
Fonte:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/scajola-e-il-%E2%80%9Cdopo-diaz%E2%80%9D-della-polizia/?fb_action_ids=656596614421337&fb_action_types=og.likes

Tortura, se è così meglio nessuna legge

29 aprile 2014

Il G8 di Genova del 2001 fu un abisso di ille­ga­lità: in quei giorni l’abuso di potere era la regola, non l’eccezione. In quei giorni entrammo in un tun­nel dal quale, a ben vedere, non siamo ancora usciti. Per­ché non abbiamo fatto dav­vero i conti con quella tra­gica vicenda. Non abbiamo tratto gli inse­gna­menti dovuti da quella ter­ri­bile lezione. Non ci sono stati cam­bia­menti veri, è man­cato un ripu­dio da parte delle isti­tu­zioni di quei com­por­ta­menti, sono rima­ste let­tera morta le riforme neces­sa­rie per uscire a testa alta da quel tun­nel di pro­ter­via e auto­ri­ta­ri­smo. E dire che sul piano giu­di­zia­rio abbiamo otte­nuto risul­tati senza pre­ce­denti, con un ampio rico­no­sci­mento delle verità rac­con­tate da cen­ti­naia di cit­ta­dini e le con­danne di decine di agenti, fun­zio­nari e altis­simi diri­genti di poli­zia per le vicende Diaz, Bol­za­neto e una lunga di serie di epi­sodi avve­nuti in piazza — pestaggi, arre­sti arbi­trari — impro­pria­mente defi­niti minori.

Ci sono almeno tre riforme essen­ziali che sca­tu­ri­scono dall’esperienza geno­vese e che in un paese “nor­male” sareb­bero già realtà. La prima: una legge ad hoc sulla tor­tura. La seconda, una rivo­lu­zione nei cri­teri di for­ma­zione degli agenti e nei rap­porti fra le forze dell’ordine e la società civile. Terza, l’obbligo per gli agenti in ser­vi­zio di ordine pub­blico di avere codici iden­ti­fi­ca­tivi sulle divise.

Voglio sof­fer­marmi sul primo punto. Ciò che inten­diamo per tor­tura ha a che fare con il potere, ossia con l’abuso di potere. La tor­tura vìola i diritti fon­da­men­tali del cit­ta­dino nei suoi rap­porti con le isti­tu­zioni. Si mani­fe­sta quando una per­sona è sot­to­po­sta a una limi­ta­zione della sua libertà per­so­nale ad opera del pub­blico uffi­ciale. È una vio­lenza, fisica o psi­co­lo­gica, che umi­lia chi la subi­sce ma anche chi la com­mette, per­ché lede gra­ve­mente la dignità e la cre­di­bi­lità dell’istituzione che rap­pre­senta. È quindi una vio­la­zione della dignità di tutti i cit­ta­dini, e per­ciò ci indi­gna. Ora, la legge appro­vata al Senato, su que­sto punto fon­da­men­tale, essen­ziale, irri­nun­cia­bile, è del tutto inac­cet­ta­bile. Qua­li­fica la tor­tura come reato comune, che può essere com­messo da chiun­que nella sua dimen­sione pri­vata, nei rap­porti con altre per­sone, e si limita a sta­bi­lire un’aggravante se quell’atto è com­messo da un pub­blico uffi­ciale. La tor­tura non può essere un reato comune, se vogliamo che que­sta riforma sia uno stru­mento di rico­stru­zione di un’etica demo­cra­tica all’interno delle forze dell’ordine. Sap­piamo tutti che un testo di legge sulla tor­tura è appena stato appro­vato dal Senato e attende l’esame da parte dall’altra camera. C’è stata e c’è una pres­sione esterna per arri­vare a una rapida appro­va­zione della legge, in modo da rispet­tare l’impegno preso dall’Italia con le isti­tu­zioni inter­na­zio­nali oltre vent’anni fa. Que­sto testo di legge, che è frutto di una media­zione più esterna che interna alle aule par­la­men­tari, poi­ché rece­pi­sce una pre­cisa richie­sta arri­vata dai ver­tici delle forze dell’ordine, qua­li­fica la tor­tura come reato comune e non come reato spe­ci­fico del pub­blico uffi­ciale. Si disco­sta cioè dagli stan­dard inter­na­zio­nali e anche dal buon senso.

Dev’essere chiaro che intro­durre que­sta figura di reato nei codici serve prin­ci­pal­mente a fini di pre­ven­zione. Appro­van­dola, il par­la­mento manda un chiaro mes­sag­gio alle forze dell’odine: dice che abu­sare dei dete­nuti, vio­lare l’integrità di cit­ta­dini sot­to­po­sti a limi­ta­zioni legit­time della libertà, è un’infamia insop­por­ta­bile. Dev’essere un mes­sag­gio forte e chiaro, visto che l’Italia in mate­ria di abusi sui dete­nuti ha un cur­ri­cu­lum pre­oc­cu­pante, prima e dopo Genova G8. Bol­za­neto è stato la punta di un ice­berg. Non può essere inviato un mes­sag­gio ambi­guo, depo­ten­ziato nella sua portata.

Sap­piamo bene che i ver­tici delle forze dell’ordine, con il soste­gno – pur­troppo – dei sin­da­cati di poli­zia, sono i prin­ci­pali avver­sari dell’introduzione del reato di tor­tura. Hanno sem­pre inter­pre­tato que­sto pro­getto di riforma come un’onta, come un attacco all’affidabilità e alla cre­di­bi­lità delle forze dell’ordine. Finora sono riu­sciti a bloc­care tutti i ten­ta­tivi di appro­vare una legge. Ma l’inadempienza degli obbli­ghi inter­na­zio­nali, dal punto di vista del par­la­mento, dev’essere supe­rata, per­ciò durante ogni legi­sla­tura il tema è stato ripro­po­sto. In que­sta legi­sla­tura il sena­tore Man­coni ha pre­sen­tato un testo di legge che rical­cava la for­mula stan­dard pre­vi­sta dalle Nazioni Unite, ma il testo è stato cam­biato e stra­volto nella discus­sione par­la­men­tare e si è atte­stato sul piano B matu­rato in seno alle forze dell’ordine: il piano B è appunto il no asso­luto alla qua­li­fi­ca­zione della tor­tura come reato del pub­blico ufficiale.

Ho ben pre­sente la discus­sione in corso, le posi­zioni assunte dal sena­tore Man­coni e da altri sog­getti che in que­sti anni si sono spesi su que­sto ter­reno: c’è una spinta affin­ché que­sta legge sia appro­vata comun­que, in modo che la lacuna nor­ma­tiva sia col­mata. Ho ben pre­sente però anche un’altra rifles­sione, svolta in seno al nostro comi­tato, e attiene al senso del nostro lavoro nella società. Che fun­zione hanno comi­tati come il nostro, com­po­sti da poche per­sone, vit­time di abusi o fami­liari di per­sone ferite, umi­liate, spesso uccise in stragi, atten­tati ecce­tera? Ebbene, la rispo­sta che ci siamo dati è che que­sti comi­tati sono impor­tanti per­ché hanno la voca­zione a dire la verità. Pos­sono dirla più e meglio di altri per­ché sono liberi da con­di­zio­na­menti di qual­siasi tipo, non hanno ruoli poli­tici da svol­gere, né pro­getti di qual­si­vo­glia natura da por­tare avanti. Si occu­pano di que­stioni spe­ci­fi­che e su quelle con­cen­trano tutta la loro attenzione.

Allora la mia verità oggi è che que­sta legge sulla tor­tura è una legge sba­gliata e non va appro­vata. Non sarebbe un passo avanti. L’Italia non è nelle con­di­zioni di intro­durre nor­ma­tive sulla tutela dei diritti fon­da­men­tali, spe­cie con riguardo alla con­dotta e al fun­zio­na­mento delle forze dell’ordine, che si pon­gano al di sotto degli stan­dard inter­na­zio­nali. Le nostre forze dell’ordine non sono una casa di vetro, e dob­biamo aiu­tarle a diven­tarlo. Le nostre forze dell’ordine non hanno biso­gno d’essere blan­dite e asse­con­date nei loro mec­ca­ni­smi di chiu­sura verso il resto della società; devono essere aiu­tate ad aprirsi. Il reato di tor­tura, in ogni Paese demo­cra­tico, è uno stru­mento for­ma­tivo, un punto di rife­ri­mento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. Solo una men­ta­lità distorta, una cul­tura demo­cra­tica debole e invo­luta, può inter­pre­tare l’introduzione del reato di tor­tura come un attacco alle forze dell’ordine e alla loro cre­di­bi­lità. Un motivo in più per avere una legge vera, all’altezza degli evi­denti biso­gni del nostro paese.

Si dirà: ma una legge non per­fetta è meglio di nes­suna legge. Non credo che sia così. Stiamo par­lando di un prin­ci­pio fon­da­men­tale che non può essere oggetto di trat­ta­tive al ribasso. Il par­la­mento deve assu­mersi le sue respon­sa­bi­lità e appli­care gli stan­dard inter­na­zio­nali: la ricerca di una solu­zione gra­dita ai ver­tici delle forze dell’ordine – atte­stati su posi­zioni retro­grade e cor­po­ra­tive, molto distanti dai valori demo­cra­tici e costi­tu­zio­nali – non è su que­sto punto accet­ta­bile. Meglio nes­suna legge che una legge così, per­ché una volta appro­vata una nuova nor­ma­tiva, il discorso sarebbe chiuso defi­ni­ti­va­mente. Sarebbe un errore poli­tico irri­me­dia­bile. E poi­ché l’introduzione del reato di tor­tura serve a pre­ve­nire gli abusi, meglio tenere aperta la discus­sione, ren­dere evi­dente il cedi­mento in corso, e rinun­ciare a que­sta corsa ad appro­vare una legge pur­ches­sia, come se si trat­tasse di segnare un punto in ter­mini di pro­dut­ti­vità legi­sla­tiva. Non è di que­sto che ha biso­gno un Paese pau­ro­sa­mente incam­mi­nato sulla strada dell’autoritarismo.

Lorenzo Guadagnucci, Comi­tato Verità e Giu­sti­zia per Genova

 

 

 

Fonte:

http://lorenzoguadagnucci.wordpress.com/2014/04/29/tortura-se-e-cosi-meglio-nessuna-legge/