28 febbraio 1978: i Nar uccidono Roberto Scialabba

 

scialabbaIl 28 febbraio 1978 è per i neofascisti romani una data significativa: tre anni prima era morto durante gli scontri alla sezione missina del rione Prati Mikis Mantakas, giovane militante del Fuan. L’episodio aveva segnato un vero e proprio punto di svolta per alcuni giovani neofascisti, tra i quali i fratelli Fioravanti, Francesca Mambro a Alessandro Alibrandi, che avevano quindi deciso di impugnare le armi: così erano nati i Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), che si renderanno negli anni responsabili di almeno 33 omicidi e che a tutt’oggi sono ritenuti responsabili della strage di Bologna.

Nei giorni precedenti all’anniversario della morte di Mantakas, Fioravanti e i suoi accoliti discutono molto su quale azione mettere in atto per ricordare il camerata ucciso, fino a quando un neofascista appena uscito dal carcere riporta la notizia che a sparare ad Acca Larentia, il 7 gennaio, sono stati quelli del centro sociale di Via Calpurnio Fiamma.
Detto, fatto: quella sera in otto salgono su tre macchine e si dirigono verso il quartiere Tuscolano. Arrivano davanti all’edificio occupato, ma lo trovano chiuso, perché la mattina stessa è stato sgomberato da un’operazione di polizia.
Il gruppetto comincia a perlustrare la zona, entra in un parchetto e vede un gruppo di ragazzi, che dal vestiario sembrano appartenere alla sinistra extraparlamentare. I neofascisti scendono da una delle macchine, e cominciano subito a sparare.
Le pistole però si inceppano, ma per terra rimane, ferito, Roberto Scialabba, colpito al torace, mentre gli altri ragazzi, alcuni feriti, riescono ad allontanarsi.
L’agguato potrebbe concludersi senza vittime, ma Valerio Fioravanti salta addosso a Roberto e gli spara: uno, due colpi alla testa. È il primo omicidio di Valerio Fioravanti, ma lui stesso si rende conto che i ragazzi di Piazza San Giovanni Bosco non avevano nulla a che fare con Acca Larentia.
Alcune ore dopo, una telefonata all’Ansa rivendica l’omicidio: “La gioventù nazional rivoluzionaria colpisce dove la giustizia borghese non vuole. Abbiamo scoperto noi chi ha ucciso Ciavatta e Bigonzetti. Onore ai camerati caduti.”
Ci vorranno però quattro anni, dopo le dichiarazioni del pentito Cristiano Fioravanti, perché la magistratura riconosca la matrice politica del delitto, che fino allora era stato considerato un “regolamento di conti tra piccoli spacciatori”.
In una scritta, quando il 30 settembre di un anno prima era stato ucciso Walter Rossi, Roberto, pur non conoscendolo direttamente, lo aveva così ricordato: «Una lacrima scivola sul viso, una lacrima che non doveva uscire, il cuore si stringe, si ribella, i suoi tonfi accompagnano slogan che si alzano verso il cielo “non basta il lutto pagherete caro pagherete tutto”».
Così, all’indomani della morte, i compagni di Cinecittà lo ricordavano: «Roberto era un compagno che lottava, come tutti noi, contro un’emarginazione che Stato e polizia gli imponevano. E’ caduto da partigiano sotto il fuoco fascista».
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7 gennaio 1978: Acca Larentia

7 gennaio 1978: Accalarentia

Mercoledì 07 Gennaio 2015 07:04

Roma, 7 Gennaio del 1978, ore 18,20: cinque militanti del Fronte della Gioventù escono dalla sede dell’Msi di via Acca Larentia 28, nel quartiere Appio Latino, lasciando un biglietto sul tavolo “Siamo a Prati, ci vediamo domani”.
Acca Larentia è tristemente famosa in quegli anni, per i numerosi attacchi squadristi che troppe volte sono partiti proprio da quella sede.
Fuori, ad attendere i neofascisti, un gruppo di cinque o sei persone che, appena vede aprirsi la porta, apre immediatamente il fuoco.
Franco Bigonzetti, studente di 20 anni, rimane ucciso sul colpo; tre riescono a fuggire e a rientrare nella sede, dotata di porta blindata. L’ultimo militante, Francesco Ciavatta, diciottenne, viene ferito e tenta di fuggire attraverso una scalinata situata a lato della sezione. Viene però colpito nuovamente alla schiena e morirà in ambulanza.
Alcuni giorni dopo l’azione viene rivendicata tramite una cassetta, fatta trovare accanto ad una pompa di benzina, da un giovane con la voce contraffatta a nome dei “Nuclei Armati di Contropotere Territoriale”.

« Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d’Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell’accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. Abbiamo colpito duro e non certo a caso, le carogne nere sono picchiatori ben conosciuti e addestrati all’uso delle armi. »

Nelle ore successive al raid antifascista centinaia di missini romani (sono presenti tra gli altri Gianfranco Fini, Maurizio Gasparri, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti) si radunano sul luogo. Una telecamera del Tg1 inizia a riprendere l’ingresso della sede, inquadrando i volti dei giovani neo-fascisti, che aggrediscono il giornalista, provocando così una carica da parte delle forze dell’ordine.
Nel caos creato da un fitto lancio di lacrimogeni, tra le fila dei neofascisti spuntano spranghe e pistole, qualcuno spara.
Il capitano dei Carabinieri Edoardo Sivori punta la pistola ad altezza d’uomo, ma l’arma si inceppa. Toglie dalle mani di un suo attendente un’altra pistola e spara con quella, centrando in piena fronte il diciannovenne Stefano Recchioni, che morirà due giorni dopo in ospedale, provocando l’ira dei neofascisti che daranno vita a tre giorni di scontri e guerriglia in molte città italiane.
Dei cinque imputati Daniela Dolce è tutt’ora latitante, Mario Scrocca si suiciderà in carcere, mentre Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis saranno assolti per insufficienza di prove.
Nella miglior tradizione italiana il comandante Sivori verrà invece condannato per “eccesso colposo di legittima difesa”.

La vicenda giudiziaria legata ad Acca Larentia sarà lunga e senza risoluzione: gli unici accusati del duplice omicidio sono cinque militanti di Lotta Continua, secondo le dubbie rivelazioni di Livia, ex br pentita che afferma di averli visti partecipare ad una riunione in cui veniva decisa la firma per rivendicare il raid.

L’aggressione del 7 gennaio avrà inoltre un ulteriore seguito: il 28 febbraio, anniversario della morte di Mikis Mantakas, alcuni membri dei Nar, guidati da Valerio Fioravanti, decidono di farsi vendetta. Con alcune auto si avvicinano a Piazza S.Giovanni Bosco, luogo di ritrovo per molti compagni della zona. Irrompono nella piazza, facendo fuoco. Viene colpito al torace Roberto Scialabba, militante di Lotta Continua di 24 anni, poi giustiziato, mentre è disteso a terra, dallo stesso Fioravanti con due colpi alla nuca. Poche ore dopo i Nar rivendicheranno l’attentato con una telefonata al Messaggero, affermando di aver vendicato Acca Larentia.

10 gennaio 1978, 93.400 Radio Onda Rossa – “Compagni, non scandalizziamoci, è inutile stare lì a mascherarci: siamo di fronte a un momento di antifascismo”.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/154-7-gennaio-1978-accalarentia

 

 

Strage di Bologna: archiviata la pista palestinese ma da anni sapevamo che era un depistaggio

2 agosto, per la Procura di Bologna non c'è alcuna pista palestinese

Oggi su Repubblica è uscito un articolo sull’archiviazione della pista palestinese per la strage di Bologna:

http://bologna.repubblica.it/cronaca/2014/07/31/news/2_agosto_procura_kram-92825757/?ref=HREC1-13

Ma già da anni i compagni sapevano che era un depistaggio. Qui un vecchio articolo di Germano Monti:

Strage di Bologna: il depistaggio palestinese
di Germano Monti *
Per una Destra che non vuole solo governare, ma procedere ad una profonda ristrutturazione dell’assetto istituzionale del Paese, ripulire l’album di famiglia dalle immagini più imbarazzanti è una necessità. In altre parole, voler riscrivere la Costituzione repubblicana e antifascista richiede ineluttabilmente la riscrittura della propria storia politica… naturalmente, se si è o si è stati fascisti.Lo stragismo rappresenta sicuramente la pagina più nera della storia italiana contemporanea, con il suo intreccio perverso fra manovalanza fascista, apparati – più o meno occulti – dello Stato e interferenze atlantiche. Fra tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia, quella alla Stazione di Bologna del 2 agosto 1980 è stata la più feroce, ed anche l’unica in cui è stata raggiunta una verità giudiziaria, con la condanna definitiva dei fascisti Ciavardini, Fioravanti e Mambro. La verità giudiziaria non coincide sempre e comunque con la realtà effettuale, e l’esercizio della critica anche nei confronti delle sentenze della magistratura è assolutamente legittimo, in certi casi persino doveroso, e questo vale anche per le sentenze sulla strage di Bologna. Tuttavia, quello che sta avvenendo non ha molto a che vedere con il garantismo e l’esercizio del diritto di critica, quanto con un tentativo di revisionismo storico particolarmente straccione, dettato dall’opportunità della contingenza politica.I critici attuali delle sentenze sulla strage di Bologna non si limitano, come avveniva alcuni anni or sono, a rilevare quelle che per loro sono incongruenze degli investigatori e dei giudici, ma si spingono ad affermare che quelle incongruenze servirono – e servono tuttora – a coprire un’altra verità, sulla quale non si è voluto indagare. Questa “verità” consisterebbe nel coinvolgimento della resistenza palestinese, ed in particolare del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, nella strage, coinvolgimento che sarebbe stato tenuto nascosto in virtù dei patti intercorsi fra i governanti e i servizi segreti italiani di allora con i Palestinesi stessi. Il sostenitore più autorevole di questa tesi è l’ex Presidente Cossiga, cui si sono aggiunti i più alti esponenti della Destra ex fascista, fino all’attuale Presidente della Camera, Gianfranco Fini e, ancora più esplicitamente, l’attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno, sui cui trascorsi squadristi esiste una vasta letteratura. Nel ventottesimo anniversario della strage, è proprio Alemanno, intervistato da la Repubblica, il più esplicito nel sostenere che quella della colpevolezza dei suoi ex camerati sia una “verità comoda”, mentre “c’è un’altra pista, quella del vecchio terrorismo palestinese, che soltanto da poco si è cominciata a esplorare”, pista rispetto alla quale “ci sono una marea di riscontri”. Nell’intervista, poi, Alemanno ripropone un vecchio cavallo di battaglia dell’estrema destra, quello secondo cui “Nei ’70 ci fu una guerra civile strisciante che peraltro cominciò dal maledetto slogan “Uccidere un fascista non è reato”, urlato da vari gruppi dell’estrema sinistra che, falliti i loro obbiettivi rivoluzionari, decisero di convogliare tutta la loro energia nell’antifascismo militante. Suscitando ovviamente delle reazioni altrettanto dure da parte dell’estrema destra. E ciò fu un incubatore sia delle Br sia dei Nar”. E’ una vecchia tesi, cara agli squadristi fascisti e ai terroristi dei Nar; una smaccata bugia, ma qualcuno che Alemanno certamente conosce bene diceva: «Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità», specialmente se a ribadirla sono alte cariche istituzionali, come un ministro della propaganda ieri o un sindaco oggi.Dunque, la strage di Bologna non fu opera di terroristi neri, bensì di Palestinesi. A sostegno di questa ipotesi, sia Alemanno che altri (fra i quali anche Andrea Colombo, ex giornalista del Manifesto ed ora di Liberazione) invitano ad indagare a fondo sulle dichiarazioni del guerrigliero venezuelano conosciuto come “Carlos”, detenuto in Francia, e, più in dettaglio, sulla presenza a Bologna, il giorno della strage, di Thomas Kram, cittadino tedesco attualmente detenuto nel suo Paese con l’accusa di appartenenza alle Cellule Rivoluzionarie.Per quanto riguarda “Carlos”, l’intervista da lui rilasciata all’ANSA lo scorso 30 giugno, per il tramite del suo avvocato italiano, in realtà riguarda in massima parte il sequestro di Aldo Moro e quello che, a suo dire, fu un tentativo di mediazione dell’OLP, insieme ad una parte dei servizi segreti italiani, per ottenere la liberazione del presidente democristiano. Dopo aver fornito il suo punto di vista sulle contraddizioni esistenti fra diverse fazioni dei servizi italiani e su altre vicende di quegli anni, “Carlos” risponde alla domanda esplicita dell’intervistatore, Paolo Cucchiarelli, in merito alla strage di Bologna:
Domanda:
Una sola domanda sulla strage di Bologna visti i molti riferimenti fatti da lei nel tempo e che sembrano alludere ad una ipotesi da lei mai espressa ma che potrebbe essere alla base delle sue osservazioni. Cioè agenti occidentali che fanno saltare in aria – con un piccolo ordigno – un più rilevante carico di materiale esplodente trasportato da palestinesi o uomini legati all’Fplp e alla sua rete con l’intento di far ricadere su questa ben diversa realtà politica tutta la responsabilità della strage alla stazione.
Risposta:
L’attentato contro il popolo italiano alla stazione di Bologna “rossa”, costruita dal Duce, non ha potuto essere opera dei fascisti e ancora meno dei comunisti. Ciò è opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio. Non abbiamo riscontrato nessun’altra spiegazione. Accusarono anche il Dottor Habbash, nostro caro Akim, che, contrariamente a molti, moriva senza tradire e rimanendo leale alla linea politica del FPLP per la liberazione della Palestina. Vi erano dei sospetti su Thomas C., nipote di un eroe della resistenza comunista in Germania dal febbraio 1933 fino al maggio 1945, per accusarmi di una qualsiasi implicazione riguardo ad un’aggressione così barbarica contro il popolo italiano: tutto ciò è una prova che il nemico imperialista e sionista e le sue “lunghe dita” in Italia sono disperati, e vogliono nascondere una verità che li accusa.
Insomma, “Carlos” non solo smentisce la “pista palestinese”, ma accusa direttamente gli apparati occulti americani, israeliani ed italiani di aver ordito e realizzato la strage. Il fatto che escluda anche la responsabilità dei fascisti, con la bizzarra postilla della stazione “costruita dal Duce”, non significa altro che il rafforzamento della sua convinzione di una pista internazionale, ma nella direzione opposta a quella indicata da Cossiga, Fini e Alemanno, da una parte, e da Andrea Colombo dall’altra. Del resto, in tutta la storia dello stragismo e dell’eversione nera, l’intreccio fra il sottobosco neofascista e apparati interni ed internazionali, particolarmente statunitensi, è sempre emerso con grande puntualità. Non si capisce, quindi, come le parole del detenuto nel carcere di Poissy possano essere utilizzate per dimostrare il contrario di ciò che dicono… ma questo bisognerebbe chiederlo ad Alemanno ed a quelli come lui. Sempre alle stesse persone, e ad un gran numero di giornalisti, bisognerebbe chiedere anche perché continuino a presentare in termini tanto misteriosi la figura di Thomas Kram, quasi che di lui non si sappia nulla, se non che da qualche tempo si trova nelle carceri tedesche. Ebbene, già nel giugno dello scorso anno, Saverio Ferrari si è occupato della pista palestinese e di Kram, in un suo articolo su “Osservatorio Democratico sulle nuove destre” dedicato al libro scritto da Andrea Colombo sulla strage di Bologna, libro accusato – per inciso – di voler accreditare l’innocenza di Mambro, Fioravanti e Ciavardini “omettendo deliberatamente le carte giudiziarie più scomode”.A proposito della “pista palestinese” Ferrari scrive: “Colpisce, infine, l’ultimo capitolo in cui, si rilancia la stessa fantomatica pista palestinese sulla quale da qualche anno alcuni deputati di Alleanza nazionale si affannano, millantando la presenza del terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, o di suoi uomini, a Bologna, in veste di stragisti al servizio del Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habbash. È più che noto, infatti, che già all’epoca, non solo recentemente, si appurò che il terrorista Thomas Kram, esperto in falsificazione di documenti e non in esplosivi, fosse presente a Bologna nella notte fra tra l’1 e il 2 agosto, alloggiando nella stanza 21 dell’albergo Centrale di via della Zecca. Presentò nell’occasione la sua patente di guida non contraffatta. Fu precedentemente fermato e identificato al valico di frontiera sulla base di un documento di identità valido a suo nome. Non era al momento inseguito da alcun mandato di cattura. La questura di Bologna segnalò i suoi movimenti all’Ucigos che già in quei giorni conosceva tutti i suoi spostamenti. Un terrorista stragista, dunque, non in incognito che viaggiava e pernottava in albergo con documenti a proprio nome (!). Una pista vecchia, già archiviata data la comprovata mancanza di legami tra Thomas Kram e la strage. Per altro Kram risultò non aver mai fatto parte dell’organizzazione di Carlos. (…)”.Ma c’è di più: il 2 agosto del 2007, proprio sul quotidiano in cui Andrea Colombo ha lavorato per anni, il Manifesto, il suo collega Guido Ambrosino pubblica un lungo articolo dal titolo “Bologna, l’ultimo depistaggio”, in cui il misteriosissimo Thomas Kram – a Berlino in libertà provvisoria, dopo essersi costituito nel dicembre 2006 – si lascia tranquillamente intervistare. Dall’intervista di Guido Ambrosino: “«Ho scoperto su internet che la bomba potrei averla messa io. Un’assurdità, sostenuta addirittura da una commissione d’inchiesta del parlamento italiano, o meglio dalla sua maggioranza di centrodestra, nel dicembre 2004. Deputati di An, e altri critici delle sentenze che hanno condannato per quella strage i neofascisti Fioravanti e Mambro, rimproverano agli inquirenti di non aver indagato sulla mia presenza a Bologna». Per Kram è una polemica pretestuosa: «Non sono io il mistero da svelare. Non lo credono nemmeno i commissari di minoranza della Mitrokhin. Viaggiavo con documenti autentici. La polizia italiana mi controllava, sapeva in che albergo avevo dormito a Bologna, il giorno prima mi aveva fermato a Chiasso. Come corriere per una bomba non ero proprio adatto»”. L’articolo e l’intervista demoliscono l’impianto del libro di Colombo e, più in generale, la “pista palestinese”, anche con alcuni particolari che, se non si trattasse di fatti tanto drammatici, indurrebbero al sorriso. Secondo Ambrosino, il lavoro di Colombo “si riduce a un paio di forzature”, particolarmente per quanto riguarda la latitanza di Kram, che – secondo Colombo – sarebbe durata ben 27 anni, cioè dal 1979, quando lo stesso Kram è invece sempre stato reperibile almeno fino al 1987, quando contro di lui viene spiccato un mandato di cattura per appartenenza alle Cellule Rivoluzionarie. Nella pista palestinese sarebbe coinvolta anche un’altra militante dell’estrema sinistra tedesca, Christa Frolich, che – secondo la testimonianza di un cameriere di albergo – lavorava come ballerina nei pressi di Bologna e il primo agosto 1980 si sarebbe fatta portare una valigia alla stazione di Bologna, mentre il 2 agosto avrebbe telefonato (parlando italiano con accento tedesco) per accertarsi che i suoi figli non fossero stati coinvolti nell’esplosione. Scrive Ambrosino: “Christa Fröhlich ha ora 64 anni, insegna tedesco a Hannover. Confrontata con questa descrizione, non sa se ridere o piangere: «Non ero a Bologna. Non ho figli. Mai un ingaggio da ballerina. E nel 1980 non sapevo una parola di italiano»”. Se pensiamo che uno dei cardini principali della “pista palestinese” è costituito dai lavori della “Commissione Mitrokhin”, anche noi non sappiamo se ridere o piangere. Addirittura nel dicembre 2005, sull’Espresso, l’operato di quella Commissione veniva già definito come “L’ennesimo polverone. Per far riaprire l’inchiesta sulla strage di Bologna e riabilitare gli estremisti di destra Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati per l’attentato”. Dal medesimo articolo si apprende anche, peraltro, che le stesse risultanze della Commissione Mitrokhin escludevano ogni coinvolgimento di Thomas Kram nella strage di Bologna.La domanda, a questo punto, è: perché, contro ogni evidenza ed ogni riscontro, in questo agosto 2008 c’è chi tenta di riciclare vecchie bufale, magari contando sui riflessi appannati di un’opinione pubblica martellata da campagne sulla “sicurezza” minacciata da zingari ed immigrati, tanto da richiedere paracadutisti, alpini e bersaglieri per le strade delle nostre città? Probabilmente, la risposta è nella premessa: per mettere mano alla Costituzione, la Destra ha bisogno di svecchiare i propri armadi, facendone opportunamente sparire gli scheletri di troppo. Lo scheletro più ingombrante è senza dubbio quello datato 2 agosto 1980, rimosso il quale sarà assai più semplice rimuovere tutti gli altri… si, perché,se si riesce a convincere, contro ogni evidenza storica e giudiziaria, che la strage di Bologna è stata opera dei Palestinesi, domani si potrà legittimamente sostenere che quella di Piazza Fontana fu veramente opera degli anarchici e così via. Senza dimenticare che accollare proprio ai Palestinesi la più orrenda delle stragi consente alla fava revisionista di cogliere un secondo piccione: oltre alla definitiva legittimazione interna, la nuova Destra di governo rimedierebbe anche l’imperitura gratitudine di Israele e delle sue lobby, mentre a protestare per l’ennesima infamia commessa ai danni di un popolo sempre più martoriato rimarrebbero in pochi, come – effettivamente – sono in pochi, almeno ai livelli che contano, quelli che continuano a sostenere le ragioni e il diritto all’esistenza del popolo palestinese. Eppure, a dubitare della riuscita di un’operazione così spregiudicata ci aiuta la frase di un uomo importante, uno di quelli che, piaccia o no, la storia l’hanno fatta, non hanno solo cercato di riscriverla a proprio piacimento. Quell’uomo, che di nome faceva Abramo Lincoln e di mestiere il Presidente degli Stati Uniti, amava ripetere: “Si può ingannare tutti a volte, qualcuno sempre, ma non è possibile ingannare tutti tutte le volte”. Sarà bene che Alemanno e quelli come lui lo tengano presente.
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