Genova 30 giugno 1960. No al governo Tambroni e al Congresso dell’MSI

30 giugno 2013 alle ore 11.53

La lotta paga!

A Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza, l’antifascismo è un valore ancora molto vivo nel 1960, quando il Msi (Movimento Sociale Italiano) annuncia che terrà nel capoluogo ligure il proprio Congresso nazionale a partire dal 2 luglio. La sede prescelta è il Teatro Margherita, a pochi passi dal ponte monumentale in ricordo dei Caduti per la libertà. Ad accendere ancor più gli animi la comunicazione che presiederà l’evento quel Carlo Emanuele Basile, ultimo prefetto della Repubblica di Salò, soprannominato il boia per le responsabilità nella morte e deportazione di antifascisti e comunisti. Fu subito chiaro che si trattava di un tentativo di reinserire il fascismo alla guida del paese, manovra resa possibile dalla costituzione ad opera di Ferdinando Tambroni, pochi mesi prima, di un monocolore democristiano eletto grazie ai voti determinanti del Msi, esecutivo che creò contrasti nella stessa Dc.

 

 

All’inizio di giugno prende avvio una mobilitazione che vede uniti operai e intellettuali, portuali e studenti, partigiani e giovani proletari con quelle “magliette a righe” che diverranno il simbolo della rivolta. In un susseguirsi di cortei, comizi, forme di boicottaggio individuale, si arriva allo sciopero provinciale proclamato dalla Cgil per il 30 giugno. La Cisl lascia i propri iscritti liberi di aderire, la Uil si schiera contro. Centomila persone attraversano in corteo la città. Al termine del comizio i sindacalisti invitano i presenti a tornare a casa. In molti non ubbidiscono, e in piazza De Ferrari, lanciando slogan e canti, circondano le camionette della polizia. Idranti, lacrimogeni e caroselli non bastano a sedare la rivolta. La piazza diviene un campo di battaglia. I poliziotti, colpiti da pietre, bottiglie, sedie, sparano colpi di arma da fuoco. Sorgono barricate, vari gipponi sono rovesciati e incendiati. Un ufficiale è gettato in una fontana, molti celerini vengono disarmati. Numerosi i feriti da entrambe le parti. I manifestanti si fanno inseguire nel dedalo dei carruggi, dove la polizia è bersagliata da pietre e vasi di fiori. I lavoratori sono padroni delle strade. L’invito alla calma dei dirigenti dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) viene accettato solo quando la Celere inizia a ritirarsi. Il processo contro i manifestanti si concluderà con 41 condanne fino a 4 anni e 5 mesi.

 

 

Il 1 luglio nuovi reparti di polizia e carabinieri affluiscono in una città blindata: zone bloccate da sbarramenti di filo spinato e cavalli di Frisia. Banche, stazioni, edifici pubblici sono presidiati. Tambroni conferma che il congresso si terrà. Nella notte il clima è pre-insurrezionale: trattori avanzano verso gli sbarramenti, nei quartieri del porto si confezionano molotov, le organizzazioni partigiane creano un comitato pronto a prendere il governo della città. Il congresso missino, inizialmente spostato a Nervi, viene annullato all’alba del 2. La città che nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, restò per due giorni in mano al popolo armato, era riuscita a impedire il congresso. Una grande manifestazione celebra la vittoria.

 

 

Lo scontro sociale e politico rimane però particolarmente aspro. Tambroni emana direttive per impedire con la forza le manifestazioni contro il governo. Il tributo di sangue pagato nei giorni successivi dalle masse popolari sarà molto alto. Il 5 luglio a Licata, in Sicilia, la polizia provoca il primo morto, Vincenzo Napoli. Il 6 luglio squadroni a cavallo caricano gli antifascisti a Roma, a Porta San Paolo, ferendo alcuni deputati di Pci e Psi. Il 7 luglio gli scontri si spostano a Reggio Emilia, dove muoiono cinque operai: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi e Afro Tondelli. L’8 luglio la Cgil indice uno sciopero generale in tutta Italia. A Palermo vengono uccisi Francesco Vella, Rosa La Barbera, Giuseppe Malleo e Andrea Cangitano, a Catania Salvatore Novembre. Centinaia i feriti. Il 19 luglio Tambroni si dimette, dando avvio alla stagione del centrosinistra.

 

 

Scheda di Paola Staccioli , in Piazza bella piazza.

Gli scontri in piazza de FerrariGli scontri in piazza de Ferrari

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/genova-30-giugno-1960-no-al-governo-tambroni-e-al-congresso-dellmsi/10151561303618264

I morti di Reggio Emilia – I morti del luglio 1960

Scheda a cura di Girolamo De Michele
Il 7 luglio 1960, nel corso di una manifestazione sindacale, cinque operai reggiani, tutti iscritti al PCI, sono uccisi dalle forze dell’ordine. I loro nomi, immortalati dalla celebre canzone di Fausto Amodei “Per i morti di Reggio Emilia”: Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. I morti di Reggio Emilia sono l’apice – non la conclusione – di due settimane di scontri con la polizia, alla quale il capo del governo Tambroni ha dato libertà di aprire il fuoco in “situazioni di emergenza”: alla fine si conteranno undici morti e centinaia di feriti. Questi morti costringeranno alle dimissioni il governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno dei fascisti del M.S.I. e dei monarchici, e apriranno la strada ai futuri governi di centro-sinistra. Ma soprattutto, contrassegneranno in modo repentino un radicale mutamento di clima politico nel paese: l’avvento della generazione dei “ragazzi con le magliette a righe”. Sino a quel momento i giovani erano considerati come spoliticizzati, distanti dalla generazione dei partigiani e orientati al mito delle “tre M” (macchina, moglie, mestiere): la giovane età di tre delle cinque vittime testimonia invece la presa di coscienza, in forme ancor più radicali della generazione che aveva resistito negli anni Cinquanta, di un nuovo proletariato giovanile. Di questo mutamento di clima – dalla disperata tristezza per il revanchismo fascista alla rinascita della speranza dopo i fatti di luglio – sono testimonianza la poesia di Pasolini “La croce uncinata” (aprile 1960) e l’articolo “Le radici del luglio” (Vie nuove, 29 ottobre 1960).
Il contesto storico-politico
Il 25 marzo 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi conferisce l’incarico di formare il nuovo governo a un democristiano di secondo piano, Fernando Tambroni, avvocato quasi sessantenne ed esponente della sinistra democristiana, attivo sostenitore di una politica di “legge ed ordine”. La sua designazione segna un punto di svolta all’interno di un’acuta crisi politica, con pesanti risvolti istituzionali. La politica del centrismo è ormai esaurita, ma le trattative con il Partito Socialista di Pietro Nenni per la formazione di un governo di centro-sinistra non sembrano in grado di partorire la svolta politica, auspicata e preparata dall’astro nascente della DC Aldo Moro, che nell’ottobre 1959 aveva aperto ai socialisti affermando il carattere “popolare e antifascista” della DC in occasione del congresso democristiano svoltosi a Firenze. Il governo Tambroni ha al suo interno una forte presenza di uomini della sinistra democristiana, ma ottiene la fiducia alla camera solo grazie ai voti dei fascisti e dei monarchici. La direzione della DC sconfessa l’operato del gruppo parlamentare, e tre ministri (Sullo, Bo e Pastore) aprono una crisi che si conclude col rinvio alle Camere del Governo, con l’invito del presidente Gronchi a sostituire i tre ministri riottosi. In questo modo Gronchi esplicitava la proposta politica di un “governo del Presidente” che cercava spregiudicatamente i suoi consensi in aula con chiunque fosse disponibile ad appoggiarlo: una soluzione autoritaria, come lo era del resto la proposta di un “gollismo italiano” caldeggiata da Fanfani, volta a sminuire le prerogative del Parlamento davanti al rischio di un ingresso dei socialisti nella maggioranza. Degna di nota la presenza nel governo di due uomini del “partito-Gladio”: Antonio Segni (agli Esteri) e Paolo Emilio Taviani, (oltre all’immancabile Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro e Benigno Zaccagnini).
Da Genova a Reggio Emilia
Nel giugno il MSI annuncia che il suo congresso nazionale si terrà a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, e che a presiederlo è stato chiamato l’ex prefetto repubblichino Emanuele Basile, responsabile della deportazione degli antifascisti resistenti e degli operai genovesi nei lager e nelle fabbriche tedeschi. Alla notizia Genova insorge. Il 30 giugno i lavoratori portuensi (i cosiddetti “camalli”) risalgono dal porto guidando decine di migliaia di genovesi, in massima parte di giovane età (i cosiddetti “ragazzi dalle magliette a righe”), in una grande manifestazione aperta dai comandanti partigiani. Al tentativo di sciogliere la manifestazione da parte della polizia, i manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono barricate e di fatto si impadroniscono della città, costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell’ordine. Il prefetto di Genova è costretto ad annullare il congresso fascista. In risposta alla sollevazione genovese Tambroni ordina la linea dura nei confronti di ogni manifestazione: il 5 luglio la polizia spara a Licata e uccide Vincenzo Napoli, di 25 anni, ferendo gravemente altri ventiquattro manifestanti. Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall’olimpionico Raimondo d’Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti.
Il 7 luglio
La sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare. Ma l’unico spazio consentito – la Sala Verdi, 600 posti – è troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti: un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la manifestazione pacifica: “Cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Ricordo un’autobotte della polizia che in piazza cercava di disperdere la folla con gli idranti”, ricorda un testimone, l’allora maestro elementare Antonio Zambonelli. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dalle bombe a gas, dai getti d’acqua e dai fumogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, “dove c’era un cantiere, ricorda un protagonista dei fatti, Giuliano Rovacchi. Entrammo e raccogliemmo di tutto, assi di legno, sassi…”. “Altri manifestanti, aggiunge Zambonelli, buttavano le seggiole dalle distese dei bar della piazza”. Respinti dalla disperata sassaiola dei manifestanti, i celerini impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare: “Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l’isolato San Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall’autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d’uomo”.
In quel punto verrà trovato il corpo di Afro Tondelli (1924), operaio di 35 anni. Si trova isolato al centro di piazza della Libertà. L’agente di PS Orlando Celani estrae la pistola, s’inginocchia, prende la mira in accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Tondelli dice: “Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia”. Partigiano della 76a Sap (nome di battaglia “Bobi”), è il quinto di otto fratelli, in una famiglia contadina di Gavasseto. Sposato, è segretario locale dell’Anpi.
Davanti alla chiesa di San Francesco è Lauro Farioli, 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bimbo. Lo chiamavano “Modugno” grazie alla vaga somiglianza con il cantante. Era uscito di casa con pantaloni corti, una camicetta rossa, le ciabatte ai piedi: ai primi spari si muove incredulo verso i poliziotti come per fermarli. Gli agenti sono a cento metri da lui: lo fucilano in pieno petto. Dirà un ragazzo testimone dell’eccidio: “Ha fatto un passo o due, non di più, e subito è partita la raffica di mitra, io mi trovavo proprio alle sue spalle e l’ho visto voltarsi, girarsi su se stesso con tutto il sangue che gli usciva dalla bocca. Mi è caduto addosso con tutto il sangue”.
Intanto l’operaio Marino Serri, 41 anni, partigiano della 76a brigata si è affacciato piangendo di rabbia oltre l’angolo della strada gridando “Assassini!”: cade immediatamente, colpito da una raffica di mitra. Nato in una famiglia contadina e montanara poverissima di Casina, con sei fratelli, non aveva frequentato nemmeno le elementari: lavorava sin da bambino pascolando le pecore nelle campagne. Militare a 20 anni, era stato in Jugoslavia. Abitava a Rondinara di Scandiano, con la moglie Clotilde e i figli.
In piazza Cavour c’è Ovidio Franchi, un ragazzo operaio di 19 anni. Viene colpito da un proiettile all’addome. Cerca di tenersi su, aggrappandosi a una serranda: “Un altro, racconta un testimone, ferito lievemente, lo voleva aiutare, poi è arrivato uno in divisa e ha sparato a tutti e due”. Franchi è la vittima più giovane (classe 1941, nativo della frazione di Gavassa): figlio di un operaio delle Officine Meccaniche Reggiane, dopo la scuola di avviamento industriale era entrato come apprendista in una piccola officina della zona. Nel frattempo frequentava il biennio serale per conseguire l’attestato di disegnatore meccanico, che gli era stato appena recapitato. Morirà poco dopo a causa delle ferite riportate.
Ma gli spari non sciolgono la manifestazione: sono proprio i più giovani – tra i quali è Rovacchi – a resistere: “La macchina del sindacato girava tra i tumulti e l’altoparlante ci invitava a lasciare la piazza, che la manifestazione era finita. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di ritirarci, qualcuno incitava addirittura alle barricate. Non avremmo sgomberato la piazza almeno fino a quando la polizia non spariva. E così fu. Mentre correvo inciampai su un corpo senza vita, vicino al negozio di Zamboni. Era il corpo di Reverberi, ma lo capii soltanto dopo”.
Emilio Reverberi, 39 anni, operaio, era stato licenziato perché comunista nel 1951 dalle Officine Meccaniche Reggiane, dove era entrato all’età di 14 anni. Era stato garibaldino nella 144a Brigata dislocata nella zona della Val d’Enza (commissario politico nel distaccamento Amendola). Nativo di Cavriago, abitava a Reggio nelle case operaie oltre Crostolo con la moglie e i due figli. Viene brutalmente freddato a 39 anni, sotto i portici dell’Isolato San Rocco, in piazza Cavour. In realtà non è ancora morto: falciato da una raffica di mitra, spirerà in sala operatoria.
Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d’ora, contro gli inermi manifestanti. I morti sono cinque, i feriti centinaia: Zambonelli, riuscito a entrare nell’ospedale, testimonia di “feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull’altro”. Drammatica anche la testimonianza del chirurgo Riccardo Motta: “In sala operatoria c’eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’apprensione e il dolore dei parenti”.
La caduta del governo Tambroni
Nello stesso giorno altri scontri e altri feriti a Napoli, Modena e Parma. Il ministro degli Interni Spataro afferma alla Camera che “è in atto una destabilizzazione ordita dalle sinistre con appoggi internazionali”. Invano il presidente del Senato Cesare Merzagora tenta una mediazione, proponendo di tenere le forze di polizia in caserma e invitando i sindacati a sospendere gli scioperi per “non lasciare libera una moltitudine di gente che può provocare incidenti”: la polizia continua a sparare ad altezza d’uomo. A Palermo la polizia carica con i gipponi senza preavviso, e quando i dimostranti rispondono a sassate, gli agenti estraggono i mitra e le pistole e uccidono Francesco Vella, di 42 anni, mastro muratore e organizzatore delle leghe edili, che stava soccorrendo un ragazzo di 16 anni colpito da un colpo di moschetto al petto, Giuseppe Malleo (che morirà nei giorni successivi) e Andrea Gangitano, giovane manovale disoccupato di 18 anni. Viene uccisa anche Rosa La Barbera di 53 anni, raggiunta in casa da una pallottola sparata all’impazzata mentre chiudeva le imposte. I feriti dai colpi di armi da fuoco sono 40.
A Catania la polizia spara in piazza Stesicoro. Salvatore Novembre di 19 anni, disoccupato, è massacrato a manganellate. Si accascia a terra sanguinante: “mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione”. Il corpo martoriato e sanguinante di Salvatore viene trascinato da alcuni agenti fino al centro della piazza affinché sia da ammonimento. Essi impediscono a chiunque, mitra alla mano, di portare soccorso al giovane il quale, a mano a mano che il sangue si riversa sul selciato, lentamente muore. Le autorità imbastiranno successivamente una macabra montatura disponendo una perizia necroscopica al fine di “accertare, ove sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti”. Altri 7 manifestanti rimangono feriti.
Il 9 luglio imponenti manifestazioni di protesta a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Catania e Palermo rilanciano la protesta. Tambroni arriva a collegare le manifestazioni a un viaggio di Togliatti a Mosca, affermando che “questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino”. Ma il governo è ormai nell’angolo: il 16 luglio la Confindustria firma con i sindacati l’accordo sulla parità salariale tra uomini e donne, il 18 viene pubblicato un documento sottoscritto da 61 intellettuali cattolici che intima ai dirigenti democristiani a non fare alleanza con i neofascisti. Il 19 luglio Tambroni si reca dal presidente Gronchi, il 22 viene conferito ad Amintore Fanfani l’incarico di formare un governo appoggiato da repubblicani e socialdemocratici.
Nel 1964 si svolge a Milano il processo a carico del vice-questore Cafari Panico e dell’agente Celani. Il 14 luglio la Corte d’Assise di Milano, presidente Curatolo, assolve i responsabili della strage: Giulio Cafari Panico, che aveva ordinato la carica, viene assolto con formula piena per non aver commesso il fatto; Orlando Celani, da più testimoni riconosciuto come l’agente che con freddezza prende la mira e uccide Afro Tondelli, viene assolto per insufficienza di prove.
 
 
 
Fonte:
 

Luigi Di Rosa

 

 

 

 

 

di Andrea Barbera 

 

 

È il 28 maggio 1976. L’Italia è percorsa in lungo e largo dai molti comizi elettorali che precedono le imminenti elezioni politiche fissate per il successivo 20 giugno. A Sezze Romano, cittadina in provincia di Latina, è previsto il comizio di Sandro Saccucci, mportante esponente del Movimento Sociale Italiano. Ex paracadutista e sospettato di aver partecipato al tentato golpe orchestrato nel dicembre del 1970 dal principe Junio Valerio Borghese con l’aiuto di settori «deviati» di istituzioni e servizi segreti, il Saccucci giunge nel centro pontino con un manipolo di fedelissimi. La scelta della città è quanto mai provocatoria: Sezze è un centro tradizionalmente antifascista. L’adunata è prevista per il tardo pomeriggio e attorno alle 19,30 un corteo di sette o otto auto entra in paese. A bordo degli automezzi, tra gli altri, vi sono fascisti di dichiarata fede come: Pietro Allatta, suo figlio Benito e sua sorella Palma; Ida Veglianti, Mauro Camalieri, Sandro Grasselli, Massimo Gabrielli e un certo Russini, tutti provenienti da Aprilia; Filippo Alviti di Bassiano; Spagnolo e Mangani di Latina; il segretario locale della Cisnal Del Piano; Alessandro Petrianni, Virgilio Grassocci e Antonio Contento di Sezze; Calogero Aronica e Salvatore Trimarchi del Portuense; Gabliele Pirone, segretario della sezione missina della Magliana, Roma. Il manipolo si reca in piazza IV Novembre, luogo per il previsto raduno. Dal palco su cui sale Saccucci, vi sono molti camerati armati di bastoni e pistole. Le forze di polizia presenti non sembrano molto interessate e rimangono in disparte. La tensione è alta: i fascisti vogliono provocatoriamente portare avanti il comizio nonostante si trovino in netta minoranza. Ad un certo punto Saccucci dice: «Noi siamo un partito delle mani pulite!» e quando la piazza risponde con bordate di fischi e canti inneggianti il comunismo, l’ex parà, innervosito, aggiunge: «Non volete sentirmi con le buone, mi sentirete con queste» ed inizia a sparare. Saccucci si sarebbe poi dato alla fuga dirigendosi con il corteo delle altre auto fuori dal paese esplodendo numerosi colpi. Quando il seguito delle macchine giunge nella zona detta del «Ferro di cavallo», un proiettile, esploso da una «mano» che fuoriesce dall’auto di Saccucci, colpisce alla gamba sinistra il giovane Antonio Spirito, studente-lavoratore militante di Lotta continua. Un altro colpo centra quasi contemporaneamente Luigi Di Rosa. Il ragazzo morirà in ospedale dopo circa due ore di agonia. In realtà, come le indagini balistiche condotte dalla polizia scientifica dimostreranno, Luigi viene investito da due diverse pallottole: la prima, dello stesso calibro di quella che aveva colpito in precedenza Antonio Spirito, gli ferisce la mano; una seconda, di diverso calibro e quindi presumibilmente esplosa da una mano diversa, centrerà Luigi nella zona del basso ventre, causandone la ferita mortale. Di Rosa, padre muratore e madre casalinga, aveva ventuno anni e frequentava l’ultimo anno di un istituto tecnico di Latina. Era un militante, come suo padre, del Pci ed era iscritto alla Fgci.
L’iter giudiziario che ha tentato di fare luce sull’accaduto è stato lungo e tortuoso e a conclusione dei vari processi ha pagato solamente un «pesce piccolo»: Pietro Allatta, condannato in primo grado a tredici anni di cui otto effettivamente scontati in virtù di vari sconti di pena. L’Allatta è stato ritenuto colpevole di aver impugnato l’arma che ha colpito prima Spirito poi Di Rosa; non si è tuttavia tenuto conto delle prove balistiche e del referto medico secondo cui si afferma che Luigi era stato colpito da due pallottole di calibro diverso; ciò avvalora la tesi secondo la quale gli attentatori furono più di uno. Le indagini non hanno mai chiarito inoltre la presenza a Sezze di un ex maresciallo dei Carabinieri e agente del Sid, Francesco Troccia. Questi risulterà essere legato ad un altro personaggio avvistato quel giorno: Gabriele Pirone, segretario del Msi della Magliana, nonché proprietario dell’immobile in cui viveva lo stesso Troccia. Quest’ultimo, sospettato di essere presente al comizio in qualità di «agente provocatore», sarà arrestato per un breve periodo con l’accusa di favoreggiamento: avrebbe impedito l’arresto di Saccucci. Sulla figura del dirigente missino è invece sceso un fitto velo di ombra fatto di depistaggi, appoggi politici e interminabili processi dagli esiti contradditori. Rieletto nel Parlamento della Repubblica con il doppio dei voti che aveva ottenuto nella precedente legislatura, il 27 luglio 1976 la Camera dei Deputati ne autorizza l’arresto con le pesanti accuse di: «omicidio di Luigi Di Rosa, cospirazione politica e istigazione all’insurrezione armata per il cosiddetto golpe Borghese». In altre parole l’onorevole Saccucci, non è mai stato «uno stinco di santo»; ma questi, informato anticipatamente da «ignoti» del suo imminente arresto, si rende «irreperibile» trovando rifugio nel Regno Unito dove rimarrà fino al 1980. Divenuto successivamente persona non più gradita alle autorità inglesi, trova riparo in Francia dove però subisce un primo breve arresto. La scarcerazione, si legge in una rogatoria, avviene in tempi brevissimi e grazie agli interventi di don Sixto di Borbone, del prefetto di Parigi e di un tale Jacques Susini, amico di Stefano Delle Chiaie, altro personaggio controverso già coinvolto nella strage di Piazza Fontana e «collega» ai tempi del golpe Borghese dello stesso Saccucci. Successivamente il fascista prosegue la sua fuga in Spagna, dove evita un nuovo arresto grazie ad un depistaggio organizzato con il sostegno di settori dei servizi segreti spagnoli: alle autorità italiane che lo ricercano, si fa credere che Saccucci non si trovi più in Spagna ma che sia fuggito in un paese sudamericano. Effettivamente, qualche tempo dopo, il ricercato ripara prima in Cile, poi in Argentina dove, attualmente, vivrebbe nella città di Córdoba. A livello penale, l’ex deputato missino è stato assolto in ultima istanza per i reati relativi alla vicenda Borghese e all’omicidio di Di Rosa. Rimane processabile solo per piccoli reati marginali legati delitto di Sezze.
La memoria di Luigi è stata infangata non solo dal fatto che nessuno abbia mai veramente pagato per la sua uccisione, ma anche per i ripetuti attentati al monumento posto, ad un anno dal suo omicidio, dall’Amministrazione Comunale in ricordo di tutte le vittime dell’antifascismo e culminato con la spregevole profanazione della sua tomba avvenuta nel 1978. Anche per quelle vicende, gli autori sono rimasti nell’oscurità.
Noi lo ricordiamo con quelle stesse parole che vennero pronunciate in un comizio antifascista all’indomani della sua morte: «Luigi era giovane, ma non troppo giovane per capire e battersi per la strada giusta. Non troppo giovane per cadere dalla parte giusta, come i partigiani di trent’anni fa, che erano poco più che ragazzi, come i nuovi partigiani di questi anni: Saltarelli e Mario Lupo, Serantini, Argada, Franceschi, Zibecchi e Varalli e Micciché e Brasili e Pietro Bruno e Mario Salvi».

 

 

Fonte:

http://www.reti-invisibili.net/luigidirosa/

Alberto Brasili

Alberto Brasili e la sua fidanzata Lucia Corna furono aggrediti alle 22.30 di domenica 25 maggio 1975 in via Mascagni a Milano.
Cinque fascisti – Antonio Bega, Pietro Croce, Giorgio Nicolosi, Enrico Caruso e Giovanni Sciabicco – li avevano seguiti fin da piazza San Babila perchè erano vestiti da comunisti e avevano osato sfiorare un manifesto del Msi. L’agguato scattò di fronte alla sede provinciale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia: “Li ho sentiti arrivare quando erano ormai alle nostre spalle – raccontò poi Lucia – e ho visto luccicare le lame dei coltelli. Uno dei cinque mi ha afferrata e ha cominciato a colpirmi mentre gli altri si accanivano su Alberto.”
Raggiunto da cinque fendenti a organi vitali, Brasili spirò poco dopo il suo arrivo all’ospedale Fatebenefratelli con il cuore spaccato da una coltellata. E Corna, colpita due volte all’emitorace sinistro, sfuggì alla morte solo perché la lama aveva mancato il suo cuore di pochi centimetri.
“Il delitto – scrisse il Manifesto due giorni dopo – è tanto più impressionante in quanto ha chiaramente i connotati dell’azione terroristica. Alberto Brasili non era un compagno conosciuto, era un lavoratore studente che frequentava le scuole serali, l’ultimo anno dell’istituto tecnico industriale Settembrini, e il giorno lavorava per una ditta di antifurti elettrici, la Adt. Faceva questa vita dall’età di 14 anni perché in famiglia c’era bisogno di soldi.
Brasili, dichiararono preside, professori e studenti del Settembrini, era sicuramente di sinistra e impegnato nelle lotte per il diritto allo studio. Nel 1970 aveva partecipato all’occupazione della sua scuola per l’ introduzione del biennio sperimentale ed era anche stato identificato dalla polizia quando il Settembrini fu sgomberato. Non per questo, però, era più conosciuto di altri, e poi di giovani come lui in quegli anni a Milano ce n’erano decine di migliaia. E allora, perché ucciderlo?
“Non è – rispose Stefano Bonilli su il Manifesto del 27 maggio 75 – come alcuni giornali hanno tentato di accreditare, un errore di persona, è un delitto fascista che si lega perfettamente al clima che la destra sta preparando in Milano in vista del comizio di giovedì, anniversario della strage di Brescia. Per quel giorno il Msi ha in programma di aprire la campagna elettorale con una manifestazione in piazza degli Affari, a pochi metri da piazza del Duomo. Milano però ha negato tutte le sue piazze ai fascisti per bocca del suo sindaco, il quale dopo l’assassinio di Claudio Varalli aveva preso solennemente questo impegno. Questa uccisione a freddo, apparentemente inspiegabile, – concluse il Manifesto – ha lo stesso impatto psicologico di un attentato dinamitardo”.
 
Fonte:

Franco Serantini

Franco Serantini (Cagliari, 16 Luglio 1951 – Pisa, 7 maggio 1972), é stato un anarchico pisano morto il 7 maggio 1972 dopo un violento pestaggio poliziesco avvenuto qualche giorno prima durante una manifestazione antifascista.
Biografia 
L’infanzia 
Franco Serantini nasce a Cagliari il 16 Luglio del 1951. Abbandonato al brefotrofio di “Infanzia abbandonata” della sua città natale, deve forse il suo nome e cognome ad un qualche ufficiale di Stato civile o ad un qualche religioso che apprezzava uno scrittore romagnolo autore di romanzi pittoreschi ottocenteschi che all’epoca aveva una certa celebrità, Franco Serantini [1]. Nel brefetrofio vi resta sino al 16 maggio 1953, quando viene dato in affidamento a due coniugi siciliani: Giovanni Ciotta, figlio di braccianti e guardia di pubblica sicurezza che all’epoca lavorava nel capoluogo sardo, e Rosa Alaimo, figlia di un piccolo possidente terriero. I due sono genitori affettuosi col bambino, ma quando alla madre adottiva viene diagnosticato un tumore la famiglia fa rientro al paese natale, Campobello di Licata. Dopo la morte della madre, il piccolo Franco diviene motivo di tensione familiare; Giovanni Ciotta ottiene il trasferimento del bambino a Caltanisetta, vorrebbe che gli fosse concessa l’affiliazione del bambino e fa domanda all’Amministrazione provinciale di Cagliari, a cui Franco ufficialmente era affidato. La richiesta viene però rigettata a causa di un cavillo burocratico. Il bambino vorrebbe essere preso in affidamento anche dai nonni materni (Maria Bruscato e Giovanni Alaimo) ed allora, il 13 dicembre 1955, sentito anche il parere dei fratelli adottivi (Santo e Carmelina), l’Amministrazione affida ufficialmente Franco alla sua nuova famiglia. [2]
Quando Maria Bruscatto si ammala, tenendo conto anche del fatto che Giovanni Alaimo era ormai anziano e i loro figli erano emigrati al Nord o in America, viene chiesto di ricoverare Franco in un nuovo istituto, giacché nessuno della famiglia, pur essendo sinceramente affezionati, poteva più occuparsi di lui. L’Amministrazione provinciale, nell’aprile 1960, ordina che Franco Serantini venga affidato all’Istituto Buon Pastore di Cagliari. [3]
Nel capoluogo sardo frequenta le scuole medie con scarso profitto, viene bocciato in seconda media. È un ragazzo timido, chiuso e taciturno, desideroso di ricevere affetto, cosa che le suore evidentemente non riescono a dargli. A quindici anni il rapporto con le suore è insostenibile, i litigi sono continui e nei primi mesi del 1968 l’Istituto si rivolge al tribunale dei minorenni, esprimendo l’impossibilità ad ospitare ancora Franco Serantini nel loro istituto. Malgrado adducano motivazioni disciplinari, una delle ragioni dell’insofferenza delle suore potrebbe anche essere che a quell’età, all’epoca, le amministrazioni provinciali smettevano di pagare la retta. [4]
A Pisa: prima il marxismo e poi l’anarchismo
Franco ha diciassette anni, il Tribunale dei minori riconosce che il ragazzo «ha una assoluta carenza affettiva» e che dovrebbe essere aiutato «con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore». L’incredibile contraddizione del Tribunale sta nel fatto che per curare questa carenza affettiva, la sentenza emessa dal giudice minorile stabilisce che Franco debba essere rinchiuso in un riformatorio [5](!!!!!).

Franco Serantini durante una manifestazione

Dopo essere stato psicoanalizzato per un mese intero a Firenze, Franco Serantini viene affidato all’istituto di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa, in regime di semilibertà (è bene precisare che Franco Serantini era incensurato). Nella città toscana riprende gli studi, consegue la licenza media alla scuola statale Fibonacci e poi frequenta la scuola di contabilità aziendale. Con l’esplosione della contestazione, Franco si avvicina agli ambienti della sinistra, frequentando prima le sedi delle Federazioni giovanili comunista e socialista e poi quella di Lotta continua (LC). Durante il periodo di questa militanza politica, insieme ad una ventina di ragazzi, Serantini è protagonista dell’esperienza del Mercato rosso, al CEP (quartiere popolare pisano). L’idea del gruppetto è quella di comprare merce ai mercati generali per poi rivenderla a prezzo di costo agli abitanti del quartiere. Il mercato, che si teneva nell’area del piazzale Giovanni XXIII, viene inteso dai giovani militanti di LC come un modo per aiutare la povera gente e, contemporaneamente, per entrare in contatto diretto con loro, invitandola poi a partecipare alle riunioni che Lotta continua teneva ogni domenica pomeriggio.
Il mercato però attira le ira di commercianti, di fascisti e della polizia, mentre il PCI pare più attento a non perdere l’appoggio dei commercianti che a sostenere il gruppo di giovani di cui faceva parte Serantini. Il 16 settembre 1971 la polizia irrompe al CEP, nel tentativo di sgomberare il mercatino abusivo carica violentemente i ragazzi e ne trattiene in stato di fermo alcuni. Finisce in questo modo l’avventura del mercato.
Dopo alcuni litigi con il gruppo dirigente pisano di LC, anche a causa della vicenda del mercato, l’intolleranza di Franco Serantini verso ogni forma di autoritarismo lo spinge su posizioni legate all’anarchismo. Nella seconda metà del 1970 comincia a frequentare la sede del Gruppo anarchico Giuseppe Pinelli, che ha la sede presso la Federazione Anarchica Pisana (aderente ai GIA) in via S. Martino n° 48, dove conosce anziani militanti come Cafiero Ciuti, il prof. Renzo Vanni e altri libertari, giovani e meno giovani, del luogo. Inizia anche a leggere libri anarchici di Kropotkin, Cafiero e Malatesta che gli presta il prof. Vanni. Franco è molto attivo, partecipa a diverse iniziative e quando Renzo Vanni trova il bando di Almirante (un documento controfirmato da Giorgio Almirante che il 17 maggio 1944 imponeva la condanna a morte per i renitenti alla leva), nel giugno 1971, è lui stesso ad annunciarlo a Luciano Della Mea, antifascista e militante storico della sinistra pisana del quale era divenuto amico tempo prima. Ed è sempre lui che si incarica di farne delle fotocopie.
La morte
Prima delle elezioni del 7 maggio 1972 si susseguono le iniziative dei vari partiti e movimenti politici. Sono giornate molto animate e “calde”. Franco e gli anarchici decidono di partecipare ad una contestazione, indetta a Pisa per il 5 maggio da Lotta Continua, contro un comizio fascista. Durante la protesta antifascista la polizia comincia a caricare pesantemente i militanti della sinistra extraparlamentare che contestavano il comizio, per consentire al fascista Giuseppe Niccolai di portare a termine il suo discorso, causando decine di feriti e procedendo a 20 arresti.

Umanità Nova annuncia la morte di Franco Serantini (n. 17 del 13 maggio 1972)

Franco, dopo essersi inspiegabilmente fermato di fronte ad una carica della polizia, viene raggiunto dai celerini del 2° e 3° plotone della Terza compagnia del I° raggruppamento celere di Roma, picchiato con una ferocia inaudita con i calci dei fucili, pugni e calci e quindi caricato su una camionetta in stato di arresto.
«Erano circa le 20. Io mi trovavo alla finestra di un appartamento[…] in lungArno Gambacorti […] Ho sentito le sirene delle camionette venire dalla parte del comune […] si son fermate sotto la casa mia dalla parte delle spallette dell’Arno […] sotto la mia finestra, una quindicina di celerini gli sono saltati addosso e hanno cominciato a picchiarlo con una furia incredibile. Avevano fatto un cerchio sopra di lui […] si capiva che dovevano colpirlo sia con le mani che con i piedi, sia con i calci del fucile. Ad un tratto alcuni celerini […] sono intervenuti sul gruppo di quelli che picchiavano, dicendo frasi di questo tipo: Basta, lo ammazzate![…] poi uno che sembrava un graduato [6]è entrato nel mezzo e con un altro celerino lo hanno tirato su […] lo hanno poi trascinato verso le camionette…» (Testimonianza di Moreno Papini, Lungarno Gambacorti n°12) [7]
Nonostante le condizioni fisiche in cui è stato ridotto dal pestaggio (aveva evidenti ecchimosi in tutto il corpo), viene trattenuto nel carcere Don Bosco ed interrogato dal magistrato Giovanni Sellaroli, al quale rivendica la propria appartenenza al movimento anarchico:
«Ho partecipato alla manifestazione del 5 maggio, sono un anarchico e un antifascista militante, è forse un delitto?» (Ammazzato due volte di Laura Landi)
Completamente abbandonato al suo destino, ritorna nella sua cella nella completa indifferenza di tutt. Di lì a poche ore la morte lo raggiungerà: alle 9.45 del 7 maggio Franco Serantini muore. Il certificato medico del dottor Alberto Mammoli parla genericamente di «emorragia cerebrale». Nel tentativo di nascondere ogni prova dell’omicidio, il pomeriggio dello stesso giorno le autorità carcerarie cercano di ottenere dal comune l’autorizzazione al seppellimento del ragazzo. L’obiettivo è quello di occultare cadavere e prove connesse, ma il tentativo viene respinto da un funzionario dell’ufficio del Comune che riteneva illegale la procedura subdolamente portata avanti.
Intanto, Luciano Della Mea ed il professore Guido Bozzoni, sostenuti dagli avvocati Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, prendono l’iniziativa di costituirsi parte civile e danno vita ad un’intensa campagna di controinformazione. Nei giorni seguenti, in tuta Italia, si terranno numerose manifestazioni di protesta contro la violenza delle forze dell’ordine.
Il 9 maggio 1972 si svolgono i funerali dell’anarchico sardo. Migliaia di persone lo accompagnano in mezzo ad una marea di pugni chiusi e di bandiera nere con la rossa A cerchiata nel mezzo.
Indagini
Le indagini furono due: la prima contro gli arrestati (tra cui, oltre a Serantini, c’erano 4 studenti greci, di cui uno – Tsolinas Evangelos – fu brutalmente pestato nonostante fosse poliomelitico); la seconda contro ignoti per la morte dell’anarchico. La prima indagine si concluse con il proscioglimento di tutti gli imputati, Serantini fu prosciolto in quanto morto. Egli era stato accusato di oltraggio (avrebbe urlato alle forze di polizia: «Porci!» e «Fascisti»), resistenza e violenza contro le forze dell’ordine. Le brevi indagini non dimostrarono mai se Serantini avesse o meno partecipato agli scontri; sicuramente stava nel cuore degli scontri, ma non vi sono prove se egli abbia o meno effettivamente partecipato al lancio di molotov o sassi contro le forze dell’ordine (anche per gli altri imputati fu impossibile dimostrare la loro effettiva partecipazione agli scontri). Le indagini misero anche in luce che egli si era del tutto inspiegabilmente fermato di fronte alla carica della polizia e per questo fu raggiunto e pestato a morte dalla polizia.
La seconda indagine fu più complessa e si scontrò con i comportamenti omertosi delle forze di polizia e dei medici, degli infermieri e delle autorità del carcere Don Bosco. Ci fu inoltre un tentativo da parte del procuratore generale, Mario Calamari, di trasferire 3 magistrati di Magistratura democratica (l’associazione di sinistra dei magistrati dell’Associazione Nazionale Magistrati) per impedir loro di portare avanti alcune indagini, tra cui quella su Serantini, in cui venivano messe in luce gravi responsabilità ed illegalità delle forze dell’ordine e di uomini dello Stato.
Nel novembre 1972 il medico del carcere Alberto Mammoli ricevette comunque un avviso di procedimento per omicidio colposo, mentre il giudice istruttore Funaioli (uno dei magistrati che Calamari cercò di trasferire) si espresse in favore di un’azione penale contro Albini Amerigo e Lupo Vincenzo, capitano e maresciallo di PS del I° celere di Roma, e la guardia Colantoni Mario, per aver affermato il falso e taciuto «ciò che era a loro conoscenza […] per assicurare l’impunità agli agenti responsabili dell’omicidio di Franco Serantini».
Nella sentenza depositata nell’aprile 1975 il giudice Nicastro dichiarò «non doversi procedere in ordine al delitto di omicidio preterintenzionale in persona di Serantini Franco per esserne ignoti gli autori». Lupo e Mammoli vennero prosciolti. Albini e Colantoni, condannati per falsa testimonianza a 6 mesi e 10 giorni con la condizionale e la non iscrizione nel casellario giudiziale, furono assolti nel gennaio 1977. Nel marzo dello stesso anno il dottor Mammoli venne ferito alle gambe da militanti di Azione Rivoluzionaria.
Concludendo si può affermare che, nonostante formalmente non si siano trovati gli esecutori materiali dell’omicidio di Franco Serantini, a causa dei tanti “non ricordo” da parte degli uomini appartenenti ai vari apparati dello Stato (polizia, carceri e arte della magistratura), il procedimento ha dimostrato inequivocabilmente le responsabilità delle forze dell’ordine che si accanirono contro il giovane anarchico. Ha inoltre evidenziato la disumanità del magistrato (Sellaroli) che lo interrogò nonostante le varie ecchimosi che gli ricoprivano tutto il corpo (rilevati ufficialmente anche dall’autopsia) e la completa indifferenza di tutto il sistema carcerario di fronte all’agonia di Serantini, che fu ricoverato solo in punto di morte (un ricovero immediato gli avrebbe probabilmente salvato la vita). Ha scritto Corrado Stajano nel suo Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Franco Serantini:
«Lo Stato, stupito dalle reazioni dell’opinione pubblica democratica in difesa di un uomo senza valore, un rifiutato sociale privo di ogni forza di scambio politico, si è obiettivaamente confessato colpevole. Lo accusano i suoi comportamenti, i suoi continui e impudenti tentativi di mascherare e di insabbiare le responsabilità e di chiudere un caso che ha assunto un valore di simbolo del rapporto tra cittadino e stato di diritto, fra autoritarismo e libertà».

In ricordo di Serantini 
Il 13 maggio del 1972, durante una manifestazione, viene posta, senza alcuna autorizzazione, sul palazzo Touhar – sede del riformatorio che aveva “ospitato” Serantini in libertà vigilata, senza alcuna motivazione giuridica – una lapide sulla quale si poteva leggere:
«Un compagno di 20 anni \ morto tra le mani \ della giustizia borghese \ visse in questa \ che ora i proletari chiamano \ piazza \ Franco Serantini».

Monumento in ricordo di Franco Serantini

Nel 1974, per merito di Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, si costituisce a Pisa il “Comitato giustizia per Franco Serantini” che promuove la pubblicazione di Franco Serantini, un assassinio firmato (di Luciano Della Mea) e Giustizia per Franco Serantini (a cura dell’Amministrazione Provinciale di Pisa).
Queste sono solo alcune delle iniziative atte a promuovere la memoria di Franco Serantini: nel corso del tempo si susseguirono manifestazioni, articoli di giornali, circoli in suo ricordo (1982 nasce il “circolo Franco Serantini“), scuole a lui intitolate ecc.
Il monumento
Nel maggio del 1982, in piazza San Silvestro, a Pisa, fu collocato un monumento in sua memoria che riporta la seguente scritta: «Franco Serantini / 1951-72 / Anarchico ventenne / colpito a morte dalla polizia / mentre si opponeva / ad un comizio fascista».

Manifesto per l’inaugurazione della Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1979

La Biblioteca Franco Serantini
Nel 1979 nasce la biblioteca Franco Serantini per ricordare la figura dell’anarchico assassinato dalla polizia a Pisa.
La biblioteca è specializzata in storia del movimento anarchico dalle origini ai giorni nostri, del movimento operaio e sindacale, di quello antifascista e della Resistenza, dei movimenti studenteschi e di opposizione degli anni Sessanta e Settanta. [8]
Il libro
L’opera teatrale
Video
Audio
  • Wir, Franco Seratini (in tedesco) [11]
  • Ballata per Franco Serantini, di Ivan Della Mea, che ne compose due diverse versioni con diverse musica e parole ma dallo stesso titolo
Collegamenti esterni
Note
  1. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 2
  2. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 7
  3. Corrado Stajano, Il sovversivo, , Einaudi, pag 9
  4. Corrado Stajano, Il sovversivo, , Einaudi, pag 13, 14
  5. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 15
  6. Si tratta di Giuseppe Piromonte, commissario di Polizia. In seguito si dimetterà dal suo incarico e abbandonerà la polizia.
  7. Corrado Stajano, Il sovversivo, pag 86, 87
  8. Sito web: Biblioteca Franco Serantini
  9. Una morte legale
  10. S’era tutti sovversivi
  11. Wir, Franco SeratiniFonte:

    http://ita.anarchopedia.org/Franco_Serantini

 

*
A questo link un omaggio del musicista Daniele Sepe  a Serantini:

https://soundcloud.com/mistergo/la-ballata-di-franco-serantini

Gaetano Amoroso

 

 

Gaetano Amoroso, insieme ad altri compagni del Comitato rivoluzionario antifascista di porta Venezia, fu aggredito e accoltellato la sera del 27 aprile 1976, in via Uberti, da un gruppo di fascisti.
Aveva 21 anni, lavorava all’Acfa come disegnatore di fibbie e, studente-lavoratore, di sera frequentava l’ultimo anno del corso serale presso la Scuola artistica del Castello che oggi porta il suo nome.
Era entrato giovanissimo a far parte della lega degli artisti del Vento rosso, organismo di massa del Partito comunista marxista leninista, nella quale aveva trovato il modo di esprimere le sue esigenze politiche e artistiche, dipingendo murales.
Nella fabbrica, in cui lavorava col padre, si era impegnato con altri operai in una autogestione di mesi contro la chiusura della stessa; nel quartiere si batteva contro le speculazioni edilizie, partecipando all’ occupazione della casa di piazza Risorgimento.
La presenza fascista all’interno del quartiere in cui viveva e una forte spinta antifascista dopo l’uccisione di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi lo spinsero a creare ed organizzare, insieme ad altri compagni, il Comitato antifascista di porta Venezia.

 

Fu a causa del suo impegno democratico e antifascista che, la sera del 27 aprile venne aggredito da un gruppo di noti squadristi (Cavallini, Folli, Cagnani, Pietropaolo, Terenghi, Croce, Frascini, Forcati), tutti provenienti alla sede del Msi di via Guerrini.
Gli otto assassini fascisti furono arrestati poche ore dopo il fatto: l’accusa iniziale di aggressione fu trasformata, quando il 30 aprile Gaetano morì per le ferite subite, in quella di omicidio premeditato e tentato omicidio pluriaggravato, quest’ultima per il ferimento di due compagni di Amoroso.

 

 

Fonte:

 

http://www.reti-invisibili.net/gaetanoamoroso/