10 luglio 1960: i funerali delle vittime della rivolta di Palermo

Venerdì 10 Luglio 2015 05:21

Il 10 luglio 1960 si svolsero a Palermo i funerali di Francesco Vella e Andrea Gangitano, due delle quattro vittime degli scontri 10 luglioavvenuti due giorni prima.

L’8 luglio la Cgil ha indetto uno sciopero generale per i fatti di Reggio Emilia. A Palermo il centro è presidiato dalla Celere fin dalle prime ore del mattino. Il corteo è scortato da ingenti schieramenti di polizia. Improvvisamente partono le cariche: la celere assalta il corteo, caricandolo con le camionette, lanciate ad alta velocità.

La risposta del corteo non si fa attendere: vengono lanciati sassi, bastoni e quello che si trova in giro. La zona che va da piazza Politeama a piazza Verdi si trasforma in un campo di battaglia. Al centro della strada viene eretta una barricata. E’ a questo punto che le forze dell’ordine cominciano a sparare sulla folla.
Il primo ad essere colpito è un ragazzo di 16 anni, Giuseppe Malleo, che viene colpito al torace da una pallottola di moschetto. Morirà in ospedale pochi giorni dopo.
Poco dopo muoiono Andrea Gangitano (18 anni), colpito da una raffica di mitra, e Francesco Vella, organizzatore delle leghe edili che viene colpito mentre soccorre un ragazzo di 16 anni colpito da un lacrimogeno.
La polizia continua a sparare all’impazzata: la quarta vittima è una donna di 53 anni, Rosa La Barbera, raggiunta in casa da una pallottola mentre chiudeva le imposte.
Successivamente viene indetta un’altra manifestazione, alle 18 davanti al municipio. La polizia respinge i manifestanti con l’impiego di lacrimogeni e nuovamente con l’uso di armi da fuoco.
La mobilitazione durerà fino a tarda notte.
Il bilancio finale della giornata è di 300 fermi, 40 persone medicate per ferite da armi da fuoco, di cui 5 sono in gravi condizioni, centinaia sono i feriti e i contusi.
Alla fine 71 dimostranti saranno arrestati.
Seguiranno tre diversi procedimenti penali, il più importante dei quali sarà quello di Palermo che comincerà il 16 ottobre 1960.
Tutti i 53 imputati saranno condannati, dopo appena 12 giorni di dibattimento, a pene che vanno fino a 6 anni e 8 mesi di reclusione.
I celerini che hanno sparato ed ucciso non saranno mai incriminati.
Lo stesso giorno, sempre l’8 giungo 1960, la polizia spara anche a Catania. In piazza Stesicoro i manifestanti cercano di erigere una barricata. Le jeep si lanciano sul corteo a forte velocità e gli agenti danno il via a d una sparatoria. Vengono colpiti dai proiettili 6 giovani.
Uno di essi, Salvatore Novembre, un ragazzo di 19 anni, viene poi massacrato dalle manganellate.
Si accascia a terra sanguinante: “mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente.Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione”. I poliziotti impediranno, mitra alla mano, a chiunque di portare soccorso al giovane che si dissanguerà lentamente. Solo 45 minuti dopo sarà consentito di accompagnarlo su un’auto privata in ospedale, dove il giovane morirà poco dopo. Le autorità cercheranno poi di imbastire una montatura per “accertare, ove sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti”.
Il 9 luglio si svolgeranno imponenti manifestazioni a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Palermo e Catania.
Tambroni arriverà a collegare le manifestazioni ad un viaggio a Mosca di Togliatti, affermando che “questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino”.

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/2069-10-luglio-1960-i-funerali-delle-vittime-della-rivolta-di-palermo

Genova 30 giugno 1960. No al governo Tambroni e al Congresso dell’MSI

30 giugno 2013 alle ore 11.53

La lotta paga!

A Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza, l’antifascismo è un valore ancora molto vivo nel 1960, quando il Msi (Movimento Sociale Italiano) annuncia che terrà nel capoluogo ligure il proprio Congresso nazionale a partire dal 2 luglio. La sede prescelta è il Teatro Margherita, a pochi passi dal ponte monumentale in ricordo dei Caduti per la libertà. Ad accendere ancor più gli animi la comunicazione che presiederà l’evento quel Carlo Emanuele Basile, ultimo prefetto della Repubblica di Salò, soprannominato il boia per le responsabilità nella morte e deportazione di antifascisti e comunisti. Fu subito chiaro che si trattava di un tentativo di reinserire il fascismo alla guida del paese, manovra resa possibile dalla costituzione ad opera di Ferdinando Tambroni, pochi mesi prima, di un monocolore democristiano eletto grazie ai voti determinanti del Msi, esecutivo che creò contrasti nella stessa Dc.

 

 

All’inizio di giugno prende avvio una mobilitazione che vede uniti operai e intellettuali, portuali e studenti, partigiani e giovani proletari con quelle “magliette a righe” che diverranno il simbolo della rivolta. In un susseguirsi di cortei, comizi, forme di boicottaggio individuale, si arriva allo sciopero provinciale proclamato dalla Cgil per il 30 giugno. La Cisl lascia i propri iscritti liberi di aderire, la Uil si schiera contro. Centomila persone attraversano in corteo la città. Al termine del comizio i sindacalisti invitano i presenti a tornare a casa. In molti non ubbidiscono, e in piazza De Ferrari, lanciando slogan e canti, circondano le camionette della polizia. Idranti, lacrimogeni e caroselli non bastano a sedare la rivolta. La piazza diviene un campo di battaglia. I poliziotti, colpiti da pietre, bottiglie, sedie, sparano colpi di arma da fuoco. Sorgono barricate, vari gipponi sono rovesciati e incendiati. Un ufficiale è gettato in una fontana, molti celerini vengono disarmati. Numerosi i feriti da entrambe le parti. I manifestanti si fanno inseguire nel dedalo dei carruggi, dove la polizia è bersagliata da pietre e vasi di fiori. I lavoratori sono padroni delle strade. L’invito alla calma dei dirigenti dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) viene accettato solo quando la Celere inizia a ritirarsi. Il processo contro i manifestanti si concluderà con 41 condanne fino a 4 anni e 5 mesi.

 

 

Il 1 luglio nuovi reparti di polizia e carabinieri affluiscono in una città blindata: zone bloccate da sbarramenti di filo spinato e cavalli di Frisia. Banche, stazioni, edifici pubblici sono presidiati. Tambroni conferma che il congresso si terrà. Nella notte il clima è pre-insurrezionale: trattori avanzano verso gli sbarramenti, nei quartieri del porto si confezionano molotov, le organizzazioni partigiane creano un comitato pronto a prendere il governo della città. Il congresso missino, inizialmente spostato a Nervi, viene annullato all’alba del 2. La città che nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, restò per due giorni in mano al popolo armato, era riuscita a impedire il congresso. Una grande manifestazione celebra la vittoria.

 

 

Lo scontro sociale e politico rimane però particolarmente aspro. Tambroni emana direttive per impedire con la forza le manifestazioni contro il governo. Il tributo di sangue pagato nei giorni successivi dalle masse popolari sarà molto alto. Il 5 luglio a Licata, in Sicilia, la polizia provoca il primo morto, Vincenzo Napoli. Il 6 luglio squadroni a cavallo caricano gli antifascisti a Roma, a Porta San Paolo, ferendo alcuni deputati di Pci e Psi. Il 7 luglio gli scontri si spostano a Reggio Emilia, dove muoiono cinque operai: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi e Afro Tondelli. L’8 luglio la Cgil indice uno sciopero generale in tutta Italia. A Palermo vengono uccisi Francesco Vella, Rosa La Barbera, Giuseppe Malleo e Andrea Cangitano, a Catania Salvatore Novembre. Centinaia i feriti. Il 19 luglio Tambroni si dimette, dando avvio alla stagione del centrosinistra.

 

 

Scheda di Paola Staccioli , in Piazza bella piazza.

Gli scontri in piazza de FerrariGli scontri in piazza de Ferrari

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/genova-30-giugno-1960-no-al-governo-tambroni-e-al-congresso-dellmsi/10151561303618264

I morti di Reggio Emilia – I morti del luglio 1960

Scheda a cura di Girolamo De Michele
Il 7 luglio 1960, nel corso di una manifestazione sindacale, cinque operai reggiani, tutti iscritti al PCI, sono uccisi dalle forze dell’ordine. I loro nomi, immortalati dalla celebre canzone di Fausto Amodei “Per i morti di Reggio Emilia”: Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. I morti di Reggio Emilia sono l’apice – non la conclusione – di due settimane di scontri con la polizia, alla quale il capo del governo Tambroni ha dato libertà di aprire il fuoco in “situazioni di emergenza”: alla fine si conteranno undici morti e centinaia di feriti. Questi morti costringeranno alle dimissioni il governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno dei fascisti del M.S.I. e dei monarchici, e apriranno la strada ai futuri governi di centro-sinistra. Ma soprattutto, contrassegneranno in modo repentino un radicale mutamento di clima politico nel paese: l’avvento della generazione dei “ragazzi con le magliette a righe”. Sino a quel momento i giovani erano considerati come spoliticizzati, distanti dalla generazione dei partigiani e orientati al mito delle “tre M” (macchina, moglie, mestiere): la giovane età di tre delle cinque vittime testimonia invece la presa di coscienza, in forme ancor più radicali della generazione che aveva resistito negli anni Cinquanta, di un nuovo proletariato giovanile. Di questo mutamento di clima – dalla disperata tristezza per il revanchismo fascista alla rinascita della speranza dopo i fatti di luglio – sono testimonianza la poesia di Pasolini “La croce uncinata” (aprile 1960) e l’articolo “Le radici del luglio” (Vie nuove, 29 ottobre 1960).
Il contesto storico-politico
Il 25 marzo 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi conferisce l’incarico di formare il nuovo governo a un democristiano di secondo piano, Fernando Tambroni, avvocato quasi sessantenne ed esponente della sinistra democristiana, attivo sostenitore di una politica di “legge ed ordine”. La sua designazione segna un punto di svolta all’interno di un’acuta crisi politica, con pesanti risvolti istituzionali. La politica del centrismo è ormai esaurita, ma le trattative con il Partito Socialista di Pietro Nenni per la formazione di un governo di centro-sinistra non sembrano in grado di partorire la svolta politica, auspicata e preparata dall’astro nascente della DC Aldo Moro, che nell’ottobre 1959 aveva aperto ai socialisti affermando il carattere “popolare e antifascista” della DC in occasione del congresso democristiano svoltosi a Firenze. Il governo Tambroni ha al suo interno una forte presenza di uomini della sinistra democristiana, ma ottiene la fiducia alla camera solo grazie ai voti dei fascisti e dei monarchici. La direzione della DC sconfessa l’operato del gruppo parlamentare, e tre ministri (Sullo, Bo e Pastore) aprono una crisi che si conclude col rinvio alle Camere del Governo, con l’invito del presidente Gronchi a sostituire i tre ministri riottosi. In questo modo Gronchi esplicitava la proposta politica di un “governo del Presidente” che cercava spregiudicatamente i suoi consensi in aula con chiunque fosse disponibile ad appoggiarlo: una soluzione autoritaria, come lo era del resto la proposta di un “gollismo italiano” caldeggiata da Fanfani, volta a sminuire le prerogative del Parlamento davanti al rischio di un ingresso dei socialisti nella maggioranza. Degna di nota la presenza nel governo di due uomini del “partito-Gladio”: Antonio Segni (agli Esteri) e Paolo Emilio Taviani, (oltre all’immancabile Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro e Benigno Zaccagnini).
Da Genova a Reggio Emilia
Nel giugno il MSI annuncia che il suo congresso nazionale si terrà a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, e che a presiederlo è stato chiamato l’ex prefetto repubblichino Emanuele Basile, responsabile della deportazione degli antifascisti resistenti e degli operai genovesi nei lager e nelle fabbriche tedeschi. Alla notizia Genova insorge. Il 30 giugno i lavoratori portuensi (i cosiddetti “camalli”) risalgono dal porto guidando decine di migliaia di genovesi, in massima parte di giovane età (i cosiddetti “ragazzi dalle magliette a righe”), in una grande manifestazione aperta dai comandanti partigiani. Al tentativo di sciogliere la manifestazione da parte della polizia, i manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono barricate e di fatto si impadroniscono della città, costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell’ordine. Il prefetto di Genova è costretto ad annullare il congresso fascista. In risposta alla sollevazione genovese Tambroni ordina la linea dura nei confronti di ogni manifestazione: il 5 luglio la polizia spara a Licata e uccide Vincenzo Napoli, di 25 anni, ferendo gravemente altri ventiquattro manifestanti. Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall’olimpionico Raimondo d’Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti.
Il 7 luglio
La sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare. Ma l’unico spazio consentito – la Sala Verdi, 600 posti – è troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti: un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la manifestazione pacifica: “Cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Ricordo un’autobotte della polizia che in piazza cercava di disperdere la folla con gli idranti”, ricorda un testimone, l’allora maestro elementare Antonio Zambonelli. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dalle bombe a gas, dai getti d’acqua e dai fumogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, “dove c’era un cantiere, ricorda un protagonista dei fatti, Giuliano Rovacchi. Entrammo e raccogliemmo di tutto, assi di legno, sassi…”. “Altri manifestanti, aggiunge Zambonelli, buttavano le seggiole dalle distese dei bar della piazza”. Respinti dalla disperata sassaiola dei manifestanti, i celerini impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare: “Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l’isolato San Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall’autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d’uomo”.
In quel punto verrà trovato il corpo di Afro Tondelli (1924), operaio di 35 anni. Si trova isolato al centro di piazza della Libertà. L’agente di PS Orlando Celani estrae la pistola, s’inginocchia, prende la mira in accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Tondelli dice: “Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia”. Partigiano della 76a Sap (nome di battaglia “Bobi”), è il quinto di otto fratelli, in una famiglia contadina di Gavasseto. Sposato, è segretario locale dell’Anpi.
Davanti alla chiesa di San Francesco è Lauro Farioli, 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bimbo. Lo chiamavano “Modugno” grazie alla vaga somiglianza con il cantante. Era uscito di casa con pantaloni corti, una camicetta rossa, le ciabatte ai piedi: ai primi spari si muove incredulo verso i poliziotti come per fermarli. Gli agenti sono a cento metri da lui: lo fucilano in pieno petto. Dirà un ragazzo testimone dell’eccidio: “Ha fatto un passo o due, non di più, e subito è partita la raffica di mitra, io mi trovavo proprio alle sue spalle e l’ho visto voltarsi, girarsi su se stesso con tutto il sangue che gli usciva dalla bocca. Mi è caduto addosso con tutto il sangue”.
Intanto l’operaio Marino Serri, 41 anni, partigiano della 76a brigata si è affacciato piangendo di rabbia oltre l’angolo della strada gridando “Assassini!”: cade immediatamente, colpito da una raffica di mitra. Nato in una famiglia contadina e montanara poverissima di Casina, con sei fratelli, non aveva frequentato nemmeno le elementari: lavorava sin da bambino pascolando le pecore nelle campagne. Militare a 20 anni, era stato in Jugoslavia. Abitava a Rondinara di Scandiano, con la moglie Clotilde e i figli.
In piazza Cavour c’è Ovidio Franchi, un ragazzo operaio di 19 anni. Viene colpito da un proiettile all’addome. Cerca di tenersi su, aggrappandosi a una serranda: “Un altro, racconta un testimone, ferito lievemente, lo voleva aiutare, poi è arrivato uno in divisa e ha sparato a tutti e due”. Franchi è la vittima più giovane (classe 1941, nativo della frazione di Gavassa): figlio di un operaio delle Officine Meccaniche Reggiane, dopo la scuola di avviamento industriale era entrato come apprendista in una piccola officina della zona. Nel frattempo frequentava il biennio serale per conseguire l’attestato di disegnatore meccanico, che gli era stato appena recapitato. Morirà poco dopo a causa delle ferite riportate.
Ma gli spari non sciolgono la manifestazione: sono proprio i più giovani – tra i quali è Rovacchi – a resistere: “La macchina del sindacato girava tra i tumulti e l’altoparlante ci invitava a lasciare la piazza, che la manifestazione era finita. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di ritirarci, qualcuno incitava addirittura alle barricate. Non avremmo sgomberato la piazza almeno fino a quando la polizia non spariva. E così fu. Mentre correvo inciampai su un corpo senza vita, vicino al negozio di Zamboni. Era il corpo di Reverberi, ma lo capii soltanto dopo”.
Emilio Reverberi, 39 anni, operaio, era stato licenziato perché comunista nel 1951 dalle Officine Meccaniche Reggiane, dove era entrato all’età di 14 anni. Era stato garibaldino nella 144a Brigata dislocata nella zona della Val d’Enza (commissario politico nel distaccamento Amendola). Nativo di Cavriago, abitava a Reggio nelle case operaie oltre Crostolo con la moglie e i due figli. Viene brutalmente freddato a 39 anni, sotto i portici dell’Isolato San Rocco, in piazza Cavour. In realtà non è ancora morto: falciato da una raffica di mitra, spirerà in sala operatoria.
Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d’ora, contro gli inermi manifestanti. I morti sono cinque, i feriti centinaia: Zambonelli, riuscito a entrare nell’ospedale, testimonia di “feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull’altro”. Drammatica anche la testimonianza del chirurgo Riccardo Motta: “In sala operatoria c’eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’apprensione e il dolore dei parenti”.
La caduta del governo Tambroni
Nello stesso giorno altri scontri e altri feriti a Napoli, Modena e Parma. Il ministro degli Interni Spataro afferma alla Camera che “è in atto una destabilizzazione ordita dalle sinistre con appoggi internazionali”. Invano il presidente del Senato Cesare Merzagora tenta una mediazione, proponendo di tenere le forze di polizia in caserma e invitando i sindacati a sospendere gli scioperi per “non lasciare libera una moltitudine di gente che può provocare incidenti”: la polizia continua a sparare ad altezza d’uomo. A Palermo la polizia carica con i gipponi senza preavviso, e quando i dimostranti rispondono a sassate, gli agenti estraggono i mitra e le pistole e uccidono Francesco Vella, di 42 anni, mastro muratore e organizzatore delle leghe edili, che stava soccorrendo un ragazzo di 16 anni colpito da un colpo di moschetto al petto, Giuseppe Malleo (che morirà nei giorni successivi) e Andrea Gangitano, giovane manovale disoccupato di 18 anni. Viene uccisa anche Rosa La Barbera di 53 anni, raggiunta in casa da una pallottola sparata all’impazzata mentre chiudeva le imposte. I feriti dai colpi di armi da fuoco sono 40.
A Catania la polizia spara in piazza Stesicoro. Salvatore Novembre di 19 anni, disoccupato, è massacrato a manganellate. Si accascia a terra sanguinante: “mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione”. Il corpo martoriato e sanguinante di Salvatore viene trascinato da alcuni agenti fino al centro della piazza affinché sia da ammonimento. Essi impediscono a chiunque, mitra alla mano, di portare soccorso al giovane il quale, a mano a mano che il sangue si riversa sul selciato, lentamente muore. Le autorità imbastiranno successivamente una macabra montatura disponendo una perizia necroscopica al fine di “accertare, ove sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti”. Altri 7 manifestanti rimangono feriti.
Il 9 luglio imponenti manifestazioni di protesta a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Catania e Palermo rilanciano la protesta. Tambroni arriva a collegare le manifestazioni a un viaggio di Togliatti a Mosca, affermando che “questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino”. Ma il governo è ormai nell’angolo: il 16 luglio la Confindustria firma con i sindacati l’accordo sulla parità salariale tra uomini e donne, il 18 viene pubblicato un documento sottoscritto da 61 intellettuali cattolici che intima ai dirigenti democristiani a non fare alleanza con i neofascisti. Il 19 luglio Tambroni si reca dal presidente Gronchi, il 22 viene conferito ad Amintore Fanfani l’incarico di formare un governo appoggiato da repubblicani e socialdemocratici.
Nel 1964 si svolge a Milano il processo a carico del vice-questore Cafari Panico e dell’agente Celani. Il 14 luglio la Corte d’Assise di Milano, presidente Curatolo, assolve i responsabili della strage: Giulio Cafari Panico, che aveva ordinato la carica, viene assolto con formula piena per non aver commesso il fatto; Orlando Celani, da più testimoni riconosciuto come l’agente che con freddezza prende la mira e uccide Afro Tondelli, viene assolto per insufficienza di prove.
 
 
 
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