Non binarismo di genere, bisessualità e pansessualità: ne parlo con Davide Andrea Amato

Io: Ciao, Davide Andrea. Benvenuta e grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
D.A.: Grazie a te.

Io: Tu ti definisci trans, bigenere, non binaria. Mi spieghi cosa s’intende con gli ultimi due termini?

D.A.: Sì. Mi definisco bigenere perché non mi sento solo maschio o solo donna. Non binary perché sono sempre stata al di fuori di quello che la società ha proposto a livello di genere. Il bigenere è la compresenza di queste due mie parti. Non binary perché sono sempre state inserite dentro di me ma non come le intende la società.

Io: Quali altre categorie possiamo trovare sotto l’”ombrello” del non binarismo?

D. A.: Moltissime. Per esempio, le persone demigender, genderfluid, pangender, agender. Ci sono anche persone genderqueer. C’è anche chi si definisce solo trans. Vi rientrano tutte quelle sfumature lontane dal binarismo di genere, diverse per funzionalità ed espressività di chi le vive. Ci sono anche le persone genderflux, le persone intergender anche. La differenza tra i non binary e le persone transessuali conformi è che le persone transessuali binarie, seguono un percorso di transizione medicalizzata per riassegnare il proprio corpo al genere di elezione. Genere che è diverso rispetto a quello assegnato loro alla nascita. Hanno necessità, quindi, di modifica di tutto il fisico, anche della voce, per poter esternare tutto l’interno della propria persona. Invece le persone non binary spaziano in tutte le sfumature del genere, al di fuori del binarismo, e quindi non per forza necessitano di conformare l’aspetto esteriore al proprio genere di elezione. Molte infatti non ne avvertono la necessità, mentre altre ancora prediligono solo isolati interventi estetici oppure assunzione di microdosing ormonale. Le persone non binary fanno molta fatica ad essere concepite dalla società.

Io: Quanto è forte la discriminazione nei confronti delle persone enby anche all’interno della comunità Lgbt+?

D. A.: Purtroppo ancora tanta. L’ultimo episodio che mi è capitato di recente è stato all’interno di un gruppo Lgbt+. La mia richiesta di usare grammaticalmente l’asterisco o la u è stata vista come un capriccio, come il voler essere puntigliosa, un non volermi conformare. Molti gruppi si dicono inclusivi e invece termini come non binary risultano estranei. Alla mia semplice definizione deriva l’essere derisa, segue l’invalidazione. Il fatto di riuscire a parlare di me viene visto come voler essere al centro dell’attenzione. Questi sono solo alcuni esempi. La discriminazione avviene anche all’interno del mondo transessuale, da parte delle persone transessuali binarie che si sentono in diritto di dare patentini di persona trans solo a chi fa un percorso di medicalizzazione. Oppure deridono chi non rientra nella concezione canonica di transessuale. Per fortuna c’è anche massima apertura in certi ambienti in cui mi sento sicura. Vorrei chiarire che il termine femminile che considero per me è perché mi sento molto più vicina a questa parte della mia identità. Tuttavia ciò non si esaurisce nella concezione di essere solo femmina o solo donna. Per me è un bene che mi si pongano queste domande da parte di chi vuole mettere in discussione le proprie convinzioni. La discriminazione avviene all’interno delle comunità Lgbt+ perché ancora non si è raggiunta consapevolezza sulle diverse identità sessuali. Ci sono cis-etero, cis-gay, cis-lesbiche, cis-bisessuali alleati che fanno fatica ad uscire dal binarismo della cultura. Questo dimostra come la transfobia sia più trasversale rispetto all’omofobia. Lo stesso si può dire della bifobia. Non è detto che in un gruppo Lgbt+ ci sia inclusività. Purtroppo accade il contrario. Le persone non binary come me si trovano a vivere in una condizione di stigma doppio, triplo. Bisogna essere molto fortunati per trovare gruppi positivi e accoglienti.

Io: Cosa ne pensi del dibattito su asterisco, scevà e altre desinenze usate per cercare di usare un linguaggio più inclusivo?

D. A.: Penso sia molto importante. Finalmente una certa parte di comunità formata, da un decennio, da persone non binary cerca di portarsi avanti in modo inclusivo. Credo che l’uso sia dell’asterisco, sia della scevà sia della u possa essere importante dal punto di vista grammaticale. Molte persone si mettono in gioco con un immaginario della grammatica che mette insieme tutte le personalità che finora erano escluse. Non sarà un passaggio immediato, ci vorrà tempo. L’Accademia della Crusca e altre società di grammatica italiana contribuiscono al dibattito dimenticando che, dietro il bisogno di usare un linguaggio più inclusivo, vi sono delle persone, vi sono delle identità, vi sono dei vissuti. Sono contenta che questo dibattito ci sia. E’ importante, però, andare con i piedi di piombo e portare avanti ciò rispettando i tempi di assimilazione di chi per la prima volta vede questo tipo di processo.

Io: Qualche anno fa, in un’intervista sul blog Progetto genderqueer dell’attivista Nathan Bonnì, raccontavi il tuo percorso da ex etero Lgbt friendly fino alla scoperta dell’orientamento bisessuale. Oggi ti definisci, tra l’altro, trans e pansex. Quando è avvenuta quest’ulteriore scoperta sul tuo orientamento sessuale e identità di genere?

D. A.: Direi recentemente, negli ultimi tre anni. In realtà è stato un crescendo. Ho scoperto la mia bisessualità circa cinque-sei anni fa poi mi sono resa conto che quel termine era poco rappresentativo di quello che sentivo. Più andavo avanti nel mio bagaglio personale più mi rendevo conto che il termine utilizzato prima era sbagliato. Ancora oggi non ho chiaro quali siano i confini del mio orientamento sessuale per questo il termine pansessuale è molto più indicativo. Per quanto riguarda la parte trans, io ho sempre saputo di essere al di fuori del binarismo di genere. C’è stata una riscoperta, un susseguirsi di occasioni e opportunità, di incontri con soggettività che per la prima volta usavano il termine non binary. Questo ha fatto viaggiare pari passo la mia autodeterminazione con il mio attivismo. Sto usando ultimamente i termini non binary e pansessuale nel fare coming out. Voglio adesso essere me stessa, nel senso di descrizione, al 100%.

Io: Molti attivisti bisessuali si sentono tenuti fuori dal dibattito sul ddl Zan, per via del termine omotransfobia usato di più rispetto ad altri più inclusivi ma più lunghi. Condividi queste preoccupazioni o le consideri polemiche sterili?

D. A.: Condivido queste preoccupazioni perché il nuovo disegno di legge, che altro non è se non l’estensione di una precedente legge sulle discriminazioni razziali, di religione o etniche, ancora non è completo e fatto in modo tale da salvaguardare chiunque sia al di fuori dell’orientamento eterosessuale o al di fuori dell’essere solo uomo o solo donna. E’ ancora limitato e limitante. Non a caso è stato usato il termine omotransfobia escludendo la richiesta di chi voleva inserire la bi nel termine. In più, il decreto di legge non chiarisce quali siano esattamente i termini con i quali ci si può esprimere in modo contrario a tutto ciò che è al di fuori dell’orientamento eterosessuale e dell’identità di solo donna e solo uomo. Di questo si è discusso in molti gruppi. Quindi sono d’accordo con questo dibattito perché non è chiaro quali potrebbero essere le azioni discriminatorie compiute e messe in atto.

Io: Cosa ne pensi del dibattito tra chi vuole includere la pansessualità sotto il termine ombrello della bisessualità e chi, invece, vorrebbe distinguere i due termini?

D. A.: Penso che, come dire, personalmente, ma questa è una mia personale considerazione, indubbiamente, la bisessualità rispetto al passato ha, finalmente, una rappresentazione molto più inclusiva rispetto agli anni ’50. Ma non trovo utile che la pansessualità venga inclusa nella bisessualità almeno fino a che non ci siano molti più gruppi che aprano un dibattito, non di tifoseria, ma per ampliare le vedute affinché persone bisessuali e pansessuali possano collaborare perché si trovi un termine anche più inclusivo dei due. Tuttavia trovo interessante questo dibattito perché ci sono tante persone che preferiscono restare nel termine bisessuale mentre ce ne sono tante altre che preferiscono che il termine pansessualità non venga associato alla bisessualità.

Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

D. A.: Sì. Voglio invitare la maggior parte delle persone che leggeranno ad andare a ricercare pagine, canali, notizie, articoli e che si diano la possibilità di ampliare le proprie conoscenze sulla sessualità in generale e in particolare su chi si considera non binary. Ce ne è assolutamente bisogno in termini di comunità. E soprattutto di rispettare tutte le modalità con le quali ogni singola persona si autodetermina e autodefinisce. E soprattutto capire che non esistono solo persone trans medicalizzate e che le persone trans non vogliono siano date loro patenti di transessualità.

D. Q. 

Bandiera NB

Bandiera non binary (dal  sito http://www.transmediawatchitalia.info/

Bisexuality VS Pansexaulity | LGBTQ TEENS+ Amino(Dal web)

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Poliamore e non monogamie etiche: ne parlo con un’attivista

Io: Ciao, Car. Sono Donatella. Grazie per aver accolto la mia richiesta di un’intervista.

Car: Ciao, Donatella.

Io: Da quanto tempo sei un’attivista?

Car: Se si parla di attivismo nel senso più ampio del termine, credo di essermi resa conto di volermi unire alle voci delle persone meno privilegiate più o meno all’età di 15 anni, in quanto donna femminista e appartenente alla comunità LGBT+. All’inizio mi limitavo a condividere esperienze e parlare di femminismi e tematiche queer alle persone che mi stavano attorno. Verso i 18 anni ho cominciato a prendere parte a cortei e iniziative e una volta all’università mi sono unita prima ad associazioni e poi a collettivi politici autogestiti, percorso che seguo ancora oggi. Polycarenze nasce invece nell’aprile 2019, dalla necessità di parlare da persona giovane a* giovan* (ma non solo) della realtà poliamorosa che vivo, e in generale delle non monogamie etiche, della sessualità alternativa e delle identità sessuali non normate, considerate mostruose, fuori dai binari e di conseguenza invisibilizzate.

Io: Su Instagram ti occupi di poliamore e non monogamie etiche. I due termini sono sinonimi o la sigla NME è uno spettro in cui collocare diversi modi di vivere relazioni non monogame, fermo restando il consenso tra tutti i soggetti coinvolti?

Car: Il poliamore è solo una sfumatura delle tante non monogamie etiche che rappresentano un termine ombrello per tutti gli orientamenti relazionali che coinvolgono l’interazione emotiva tra più persone con il consenso di tutt* i/le coinvolt*. Mi identifico come persona poliamorosa per una questione principalmente politica, perché il termine poliamore è ad oggi il più conosciuto e rappresentato dai media (anche se con alcune difficoltà e criticità), ma in realtà mi sento molto vicina anche all’anarchia relazionale.

Anarchia relazionale, relazioni aperte, scambismo, sono altre forme di non monogamie etiche.

Io: In caso di relazioni miste, cioè persone non monogame che instaurano un rapporto con persone monogame, le dinamiche relazionali, secondo la tua opinione o eventuale esperienza, sono più complesse?

Car: Sono convinta che sia possibile instaurare relazioni mono-poly: la mia relazione attualmente più duratura è cominciata così. Il mio partner prima di intraprendere una relazione con me si identificava come monogamo, perché monogame erano state tutte le sue precedenti relazioni. Nonostante ciò, si è messo in ascolto e ha scelto di cominciare insieme a me questo nuovo percorso che non conosceva, perché a detta sua non aveva senso dire di no a qualcosa di nuovo senza mai averlo provato. Sicuramente ci sono delle difficoltà e spesso noto che la parte poly si ritrova un po’ a fare da “mentore”, soprattutto durante i primi tempi, e a dover gestire insicurezze e paranoie dovute alla novità e al cambio di schema relazionale che magari con una persona poly sarebbero state di minore impatto. Molto spesso le persone poliamorose rifiutano relazioni monogame perché le hanno già sperimentate e sono quindi a conoscenza del fatto che la monogamia non sia l’orientamento relazionale fatto per loro, cosa che invece non accade per la maggior parte delle persone monogame che sentono per la prima volta il termine “poliamore” e hanno idee confuse a riguardo. E’ molto facile che una persona poly desideri relazionarsi con una persona monogama, considerando il fatto che nella maggior parte delle città ancora non esistono gruppi di supporto per persone NME, quindi ci si trova per forza in questa situazione controversa e c’è bisogno di gestirla nel migliore dei modi per evitare che nessuna delle due parti si senta costretta ad intraprendere una relazione forzata. Con questo ovviamente non voglio affermare che tutte le persone monogame dovrebbero provare il poliamore prima di dire che non fa per loro: l’orientamento relazionale è simile a quello sessuale. “Se non ce n’è, non ce n’è”, e va bene così, ognun* per la propria strada.

 Io: Come consideri il rapporto tra il movimento del poliamore e la comunità Lgbtqia+?

 Car: Considero il poliamore parte della comunità LGBTQIA+ dal momento in cui rientra nelle minoranze non normate relative all’identità sessuale, quindi quella parte della nostra identità che comprende sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, espressione di genere e orientamento relazionale. Ci sono scetticismi da parte di alcune persone queer perché una persona poly può essere un uomo bianco cisgender ed eterosessuale e quindi la domanda che sorge spontanea è: può far parte della comunità? O è solamente un alleato? è sicuramente un dibattito interessante, perché sicuramente un uomo cis etero e poly non subisce le discriminazioni che magari subisce una donna della stessa comunità. Si pensi solo allo slut shaming. Gli stessi miei partner uomini raccontano che spesso la prima reazione dei loro amici è una pacca sulla spalla perché “Grande, rimorchi tantissimo”. Il punto è che questa non può essere altro che, per l’appunto, una prima reazione portata avanti da persone che del poliamore hanno un’idea errata. Le non monogamie etiche sono talmente tanto marginalizzate e poco rappresentate che nel momento in cui un uomo cisgender ed etero si trova a spiegare esattamente in cosa consistono, e quindi a parlare di tutto ciò che va oltre l’aspetto sessuale, le domande e i giudizi che riceve sono tendenzialmente simili a quelli che potrebbe subire una donna, slut shaming a parte. Sebbene il patriarcato abbia un ruolo predominante per la maggior parte delle discriminazioni che le minoranze subiscono, in questo caso viene direttamente attaccata l’intera comunità. Che tu sia un uomo cis, una donna cis, una persona trans* o non binaria, sarai comunque considerata una persona poco seria, incapace di amare, facile, senza desiderio di impegnarsi.

Dato che quindi il discorso su chi può rientrare all’interno o meno della comunità sembra essere incentrato su chi è più o meno discriminat*, viste le circostanze io penso che la cosa migliore sarebbe fare rete tutt* assieme, perché la comunità LGBT+ potrebbe davvero dare una mano a quella NME e viceversa. Gira e rigira, l’oppressore è lo stesso.

Io: Cosa risponderesti a chi pensa che tutti i poliamorosi siano necessariamente bisessuali o che siano solo persone fissate col sesso e in particolare con quello di gruppo? 

Car: Ci sono alcune persone non monogame che amano fare sesso di gruppo, così come ci sono persone poliamorose e bisessuali. Il punto è che una questione non implica per forza l’altra. Posso essere appassionat* di orge ed essere monogam*, così come posso essere una persona poly ed essere asessuale e sex repulsed! Non esiste alcuna associazione tra l’essere bisessuale, l’essere poly e l’amare il sesso di gruppo. Sono stereotipi che danneggiano la comunità e la riducono ad un solo elemento, il sesso, che può esserci o può non esserci. All’interno della comunità non monogama, però, è facile trovare persone con orientamenti non monosessuali (bisessuali, pansessuali, poli e omnisessuali) come è facile trovare persone che praticano BDSM. La motivazione che mi dò rispetto a ciò, è semplicemente relativa al fatto che nel momento in cui ci si approccia ad una comunità molto “ghettizzata” come quella non monogama, che richiede comunque una buona dose di apertura ed elasticità mentale per essere compresa e accettata, alcuni schemi binari e normati tendono un po’ a cadere, e vengono sostituiti da alcuni più fluidi.

Io: Cosa ti sentiresti di dirmi su poliamore e genitorialità?

Car: Non sono genitrice, quindi non posso riportare un’esperienza diretta. Conosco però alcuni polygenitori e ho ascoltato diverse storie di persone poly con figl*. Si può fare e anche bene. Anzi, vedo solo vantaggi a riguardo: un bambin* circondato da più adult* può avere accesso a diversi punti di vista e ricevere un’educazione completa e un maggiore senso di protezione in tenera età. Per di più, sono dinamiche che già si vedono tutti i giorni: ci sono famiglie dove amici dei genitori, nonni, zii e parenti sono all’interno dello stesso nucleo familiare. A volte vivono sotto lo stesso tetto o comunque si vedono spesso, si aiutano e tutt* contribuiscono alla crescita del bambin*. Cosa ci sarebbe di tanto diverso da una triade, o da una relazione con più partner? Il figli* crescerà sin da piccolo con l’idea che non esista solo una forma d’amore e personalmente non vedo come questo potrebbe essere un problema, anzi. Dal punto di vista legale invece, siamo ancora troppo indietro per parlarne e pensare a soluzioni, perlomeno in Italia.

Io: In che modo la pratica dello scambismo ha a che fare con le non monogamie etiche?

Car: Lo scambismo fa parte delle non monogamie etiche dal momento in cui c’è un’interazione emotiva tra più partner consenzienti. Ne ho parlato recentemente sulla mia pagina, mi piacerebbe che si smettesse di associarlo alla pura trasgressione.

 

Io: E’ vero che anche le persone poliamorose possono provare gelosia all’interno delle loro relazioni, né più né meno delle persone monogame?

Car: Certo, le persone poliamorose possono provare gelosia. Siamo esseri umani e viviamo in una società figlia della cultura del possesso, e chi più chi meno, ci portiamo appresso schemi difficili da eliminare totalmente. Provare gelosia non è un problema.Trovo che diventi problematico nel momento in cui la gelosia diventa parte della propria identità personale (“Sono una persona gelosa, punto”) perché chiudersi all’interno di uno schema rigido non permette di accedervi facilmente e lavorarci sopra.  La gelosia cosiddetta “tossica” non dovrebbe appartenere ad alcun orientamento relazionale, monogamia inclusa. Ritengo che affermazioni come “Sei mia/o, sei tutta la mia vita, non vivo senza di te, nessun* ti deve guardare o apprezzare, se non è gelos* vuol dire che non ti ama” e tutto ciò che porta a considerare due persone come la metà dell’altr* siano pericolose sempre e comunque. La gelosia va bene nel momento in cui è possibile razionalizzarla, in modo da non utilizzare l’altr* come pungiball per le nostre paure e insicurezze. Dovremmo chiederci da dove proviene, perché proviene, scavarne le radici.

Io:  Mi spieghi cosa s’intende con il termine compersione?

Car: Con compersione si intende un mix di sensazioni comprendenti gioia, felicità e benessere provate nel momento in cui si vede l* propri* partner interagire ed essere  felice con un altr* partner.

Io: E con il termine anarchia relazionale?

Car: L’anarchia relazionale è una forma di non monogamia etica che consiste nel considerare le relazioni come fluide, esenti da qualsiasi schema amatonormativo (as possible and pratictable). Un classico esempio è l’uso del termine partner come termine neutro, in risposta alla microcategorizzazione delle relazioni che spesso sono poste in ordine di importanza (prima quelle romantiche, poi quelle sessuali, poi tutto il resto) e all’uso di termini come scopamic*, fidanzat*, amic* occasionale di letto, ragazz*, etc).
Io: Cosa si potrebbe fare, secondo te, per contrastare il polishaming e fare in modo che ci siano meno discriminazioni verso la comunità poli?

Car: Rete, rete, rete, informazione, informazione, informazione, divulgazione, rappresentazione sempre più frequente nei media, presa di posizione politica nelle piazze da parte delle persone poly.

Io: Mi racconti brevemente la storia della vostra bandiera? 

Car: La bandiera poliamorosa è fatta da tre strisce orizzontali dall’alto verso il basso di colore blu, rosso, nero e in mezzo un pi greco, oppure un cuore con l’infinito di colore oro.Il blu rappresenta la trasparenza e l’onestà tra tutt* i/le coinvolt*, la rossa simboleggia l’amore e la passione, la nera è per solidarietà a chi è in una relazione NME ma si trova costrett* a nascondere le proprie relazioni. Il pi greco ha diversi significati. C’è chi lo interpreta come semplice lettera iniziale della parola Poliamore. Io preferisco pensarlo come numero irrazionale, come l’amore. Il colore oro invece rappresenta l’importanza che viene data all’emotività dei rapporti.
Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di questa intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

Car: Sicuramente di seguire @polycarenze e sostenere il mio progetto di divulgazione, e poi di esprimere gratitudine verso le persone appartenenti alle minoranze che si mettono in gioco per fare informazione nonostante ci siano effettivamente dei rischi (soprattutto in alcune parti del mondo)e restare in ascolto se non si conosce una tematica. Abbiamo bisogno di più alleat* e meno giudizi.

Io: Ti ringrazio per la tua disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato. Buon proseguimento!

 

D. Q. 

 

Bandiera del poliamore (da https://www.wikisessualita.org/)

 

Intervista ad un’attivista aroace su asessualità e afobia

Oggi ho contattato un’attivista aroace che mi ha concesso un’intervista.
Di seguito il testo:
“Io: La pagina è gestita da un collettivo o da una persona singola?
stop.afobia_ita: La pagina è gestita solo da me (sono donna).
Io: Sei un’attivista asex, aroace? Come definisci il tuo impegno?
stop.afobia_ita: Sono un’attivista aroace (precisamente gray-A, cioè non provo né attrazione sessuale né romantica, se non in particolari e rare circostanze), gestisco due pagine: “Aroaceitalia”, che si occupa di trasmettere visibilità, consapevolezza e informazione positiva sull’asessualità e sull’aromanticismo; “L’afobia esiste”, il cui scopo è quello di sensibilizzare le persone all’esistenza dell’odio e delle discriminazioni nei confronti delle persone aro/ace.
Io: Ti va di descrivere brevemente le diverse sfumature all’interno dello spettro dell’asessualità?
stop.afobia_ita: Le sfumature dell’asessualità si dividono in due categorie: quelle per orientamento sessuale e quelle per comportamento sessuale.
Quelle per orientamento sessuale ci dicono quanto spesso l’asessuale prova attrazione sessuale o se questo accade in particolari circostanze. “Graysessualita’ “è un termine-ombrello che si utilizza per definire tutta l’area grigia dello spettro dell’asessualità, una delle cui sottocategorie è la famosa “demisessualità”, che consiste nel non provare attrazione sessuale finché non si ha un coinvolgimento emotivo con una determinata persona.
Quelle per comportamento sessuale indicano che rapporto ha l’asessuale con la sessualità: gli asessuali sex-repulsed sono totalmente repulsi dal sesso; gli asessuali sex-indifferent sono indifferenti rispetto agli atti sessuali; gli asessuali sex-favorable farebbero o avrebbero rapporti sessuali volentieri, ma comunque il sesso non è per loro un interesse primario.
C’è, inoltre, una differenziazione tra gli asessuali con una con una libido alta o bassa.
Io: Come gestisci il tuo orientamento sessuale nelle relazioni sentimentali?
stop.afobia_ita: Gestire il mio orientamento sessuale (così come quello romantico) è assai difficile, tanto da farmi preferire una vita da single.
Sono sex-favorable, a volte mi è capitato di avere delle esperienze sessuali positive, anche grazie al fatto che provavo attrazione sessuale per la persona con cui le ho intrattenute, ma si è trattato di una rarità, dell’eccezione che conferma la regola.
Io: In quali circostanze capita più spesso di subire afobia?
stop.afobia_ita: Generalmente succede dopo un coming out o quando si parla di questi argomenti dal vivo o su internet. L’asessualità e l’aromanticismo, non essendo sempre così evidenti, hanno bisogno di venire allo scoperto per essere discriminate.
Io: Gli asessuali sono ormai parte integrante della comunità Lgbtqia+, come si evincerebbe dalla stessa sigla.  E’ sempre così o c’è discriminazione e/o emarginazione anche all’interno della comunità? Se sì, quanto è frequente?
 
stop.afobia_ita: ebbene, come detto da te, ormai la maggior parte delle associazioni LGBT+ ci includa nella comunità, c’è comunque una buona parte di singole persone appartenenti alla comunità che non sono per niente favorevoli alla nostra inclusione e che ci discriminano. Ne sono un chiaro esempio attivisti come Francesco Mangiacapra (che definisce l’asessualità come un disturbo simile a pedofilia, zoofilia e necrofilia curabile con lo stupro), Giovanni Dall’Orto (che ci ritiene privilegiati per via della nostra presunta “castità”, che ci porterebbe a essere santificati dalla Chiesa; sostiene anche che l’asessualità non avrebbe senso di esistere perché è una negazione della sessualità); Iconize (che ha descritto noi asessuali come dei gay con un problema).
Ultimamente c’è anche una corrente del femminismo radicale lesbico e bisessuale che tende a escluderci e discriminarci appellandosi ai principi radicali. Questa corrente viene denominata “aerf” (aroace exclusionary radical feminism).
Io: Alcune di queste discriminazioni mi sembrano quantomeno discutibili. Come si pone il resto della comunità Lgbtqia+ in proposito?
stop.afobia_ita: La parte della comunità che ci supporta si schiera contro queste discriminazioni (per esempio, Arcigay ha inserito l’afobia nella campagna contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, parlando proprio delle posizioni prese dal sedicente attivista Francesco Mangiacapra), al contrario gli “esclusionisti” le considerano come una sciocchezza in confronto a ciò che hanno passato e passano tuttora le persone appartenenti alle prime quattro lettere della sigla. Secondo loro, non siamo abbastanza oppressi per essere parte della comunità.
Io: Che mi dici del Collettivo Asessuale Carrodibuoi? Ne esistono altri simili in Italia?
stop.afobia_ita: Il Collettivo Asessuale Carrodibuoi è l’unica associazione interamente dedicata all’asessualità esistente in Italia e si occupa, anch’essa, di trasmettere informazione sulle varie sfaccettature del tema in questione.
Io: Che tu sappia, all’estero c’e’ la stessa discriminazione nei confronti degli aroace?
stop.afobia_ita: Ovunque si parli di asessualità o aromanticismo e le persone aroace facciano coming out, purtroppo il trattamento è lo stesso. Probabilmente nelle nazioni in cui l’emancipazione della donna non è ancora arrivata ai livelli dell’Occidente la situazione potrebbe essere ben peggiore per le donne asessuali, ma anche per gli uomini, anch’essi vittime del patriarcato.
Io: Se il ddl Zan fosse approvato, secondo te, migliorerebbe la situazione di voi attivisti aroace fuori e dentro la comunità Lgbtqia+?
stop.afobia_ita: La nostra situazione potrebbe migliorare leggermente, ma non del tutto, purtroppo la strada è ancora tanta da fare. Non c’è abbastanza consapevolezza sull’asessualità e sull’aromanticismo, non vengono neanche visti come orientamenti veri e propri dalla maggior parte delle persone, quindi, secondo queste, non dovrebbero essere contemplate dal ddl Zan.
Io: In Italia ci sono associazioni di psicologi che vi sostengono?
stop.afobia_ita: No e spesso anche gli psicologi LGBT-friendly non sono informati dell’esistenza dei nostri orientamenti, molte persone aroace hanno avuto esperienze molto negative con professionisti della salute mentale che hanno patologizzato la loro asessualità e il loro aromanticismo. Tuttavia ci sono anche molti psicologi interessati a studiare questi temi e a portare un po’ di informazione, posso fare il nome della dottoressa Giulia Alleva, la quale, con il mio aiuto, ha compiuto degli studi sul tema o del dottor Antonio Prunas, che ha diffuso informazioni corrette sul tema.
Io: Quali altri tipi di attrazione esistono oltre a quella sessuale e a quella romantica che possono essere provati da una persona asex?
stop.afobia_ita: Lo SAM (Split Attraction Model) divide i tipi di attrazione in due gruppi: l’attrazione fisica e quella emotiva. Dell’attrazione fisica fanno parte:
-l’attrazione estetica, il desiderare di guardare una persona perché si trova piacevole il suo aspetto;
-l’attrazione sensoriale, il desiderare di avere un contatto non sessuale con una persona (baci, abbracci, coccole);
-l’attrazione sessuale, cioè il desiderare di avere un contatto sessuale con una persona.
Dell’attrazione emotiva fanno parte:
-l’attrazione platonica, il desiderio di instaurare una profonda amicizia con una persona;
-l’attrazione romantica, il desiderio di instaurare una relazione romantica con qualcuno;
-l’attrazione alterous, un tipo di attrazione emotiva diverso sia dall’attrazione platonica che da quella romantica.
Le persone asessuali possono sperimentare tutti i tipi di attrazione eccezion fatta per quella sessuale, lo stesso vale per gli aromantici con l’attrazione romantica.
Aggiungo che, solitamente, l’attrazione alterous è prerogativa degli aromantici.
Io: Conosci persone aroace nonbinary? Se sì, sono meno discriminate all’interno della comunità Lgbtqia+?
stop.afobia_ita: Durante il mio percorso da attivista ho avuto modo di conoscere diverse persone non-binary. Si tratta di persone doppiamente discriminate sia dentro che fuori dalla comunità LGBTQ+, poiché anche le persone enby sono molto malviste dalle prime quattro lettere. Spesso queste persone, che non rientrano nella divisione di genere binaria e che non provano né attrazione sessuale né romantica sono disumanizzate, trattate come delle piante o dei robot.
Io: Secondo te una persona aroace può essere sex positive e perché?
stop.afobia_ita: La sex-positivity consiste nell’avere un’opinione positiva della sessualità, nel vederla come un qualcosa di sano e di piacevole, se fatto tra persone consapevoli e consenzienti. Io mi ritengo sex-positive e penso che tutte le persone, indipendentemente dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, dovrebbero esserlo.
Io: Mi accenni brevemente alla storia della vostra bandiera?
stop.afobia_ita: All’inizio si utilizzava principalmente il triangolo dello spettro asessuale di AVEN (il maggior portale d’informazione internazionale sull’asessualità). Nel 2010 è stata proposta su AVEN stesso quella che è l’attuale bandiera asessuale, composta da quattro strisce orizzontali: una nera (a indicare l’asessualità), una grigia (per la graysessualità e la demisessualità), una bianca (per i partner allosessuali, cioè non-asessuali) e, infine, una viola (che sta a significare “comunità”).
 
Io: Ti ringrazio molto per per le tue risposte esaustive. Vuoi chiudere quest’intervista con un’ulteriore riflessione o appello per chi la leggerà?
stop.afobia_ita: Ringrazio te per avermi dato quest’opportunità. L’unica cosa che voglio aggiungere riguarda la petizione che ho creato alcuni mesi fa. Il suo scopo è quello di far aggiungere nella Treccani i termini “asessuale”, “aromantico” e “afobia” e le rispettive definizioni corrette. La risposta che ho ricevuto da parte dei destinatari della petizione è che, per ora, ufficializzeranno solo il primo, poiché ci sono abbastanza attestazioni nei media. È un traguardo molto importante per la comunità asessuale, finalmente esisteremo, secondo la lingua italiana. La petizione rimane aperta, per chi volesse firmarla e condividerla. Perciò, ciò che chiedo a chi leggerà, è di parlare più spesso di aromanticismo e di afobia soprattutto su internet: se in futuro ci saranno maggiori riconoscimenti per questi termini, potrebbero venire inseriti anch’essi nella Treccani.
Io: Ancora grazie per tutte le informazioni. Buon attivismo!
stop.afobia_ita: Grazie a te e buon lavoro!”
D. Q.
Qui la petizione citata nell’articolo:
Bandiera asessuale
La bandiera asessuale (dal sito https://www.carrodibuoi.it/)
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Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo

di Alessandra Vescio

Il 25 luglio scorso, il giornalista Mattia Feltri ha dedicato la sua rubrica “Buongiorno” sul quotidiano La Stampa al tema dell’asterisco e dello schwa [ndr, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale], soluzioni di cui da anni si discute negli studi di genere e in linguistica nell’ottica di creare un linguaggio inclusivo. Sarcasticamente intitolato “Allarmi siam fascistə”, nel suo pezzo Feltri ha schernito le proposte, considerandole di difficile applicazione, uso e pronuncia, e ha attribuito la soluzione dello schwa a “un’accademica della Crusca” che ne avrebbe – a suo dire – parlato su Facebook.

Pochi giorni dopo, il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini ha inviato una lettera di risposta al direttore de La Stampa Massimo Giannini per fare alcune precisazioni: “La notizia che un’accademica della Crusca si sarebbe pronunciata a favore dell’utilizzo dello schwa e dell’asterisco […] è falsa in tutti i sensi”, non solo perché “la persona con cui Mattia Feltri polemizzava non è affatto accademica della Crusca” e non lo è “da parecchio tempo”, ma anche perché “nessun accademico […] ha sostenuto quelle tesi”, anzi in più occasioni l’istituzione ha manifestato la stessa linea espressa da Feltri. Concludendo con “Ci riserviamo di difendere comunque nelle sedi opportune il buon nome dell’Accademia”, il presidente Marazzini ha dunque criticato l’operato del giornalista in particolar modo per aver associato l’istituzione a una (ex) collaboratrice e alle sue tesi, ma ha anche fatto emergere una certa affinità con Feltri e non soltanto per le posizioni sulle questioni linguistiche. Com’è stato infatti fatto notare dalla scrittrice Carolina Capria e dalla giornalista e autrice Loredana Lipperini, né il Presidente dell’Accademia della Crusca né Mattia Feltri hanno fatto il nome della donna di cui stavano parlando, mostrando così non solo la volontà di dissociarsi da lei e dai temi di cui si occupa, ma anche di svilirne il lavoro e la dignità personale e professionale. Una posizione che l’Accademia ha ribadito anche in un post successivo, pubblicato il 3 agosto, in cui il Presidente Marazzini ha parlato di “disinvolta leggerezza” con cui La Stampa ha attribuito la qualifica di accademica a “persona che non aveva nessun diritto a tale titolo”.

Chi è del settore o conosce l’ambiente, ha capito presto che Marazzini e Feltri stavano parlando di Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice e docente universitaria, che – come ha tenuto a precisare nuovamente l’Accademia in un post con scopo di chiarimento – ha interrotto la collaborazione con l’istituzione nel 2019. Gheno, autrice di numerosi saggi di linguistica e comunicazione tra cui “Potere alle parole” e “Femminili singolari”, da tempo studia alcuni fenomeni linguistici molto dibattuti come il superamento del binarismo di genere e del maschile sovraesteso nella lingua italiana.

Il maschile sovraesteso

L’italiano è una lingua flessiva con due soli generi, il maschile e il femminile, e in caso di moltitudini miste prevede che si ricorra al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato: basta che un solo uomo sia presente in un gruppo numeroso, infatti, per declinare il plurale al maschile.

L’Enciclopedia Treccani, in un approfondimento sul rapporto tra genere e lingua, spiega i modi diversi con cui il maschile sovraesteso si applica nella lingua italiana: con il ricorso a termini maschili che indicano gruppi composti da uomini e donne (“i politici italiani”, per indicare donne e uomini in politica); con quella che viene definita “servitù grammaticale”, ovvero l’accordo al maschile in presenza di parole maschili e femminili (“bambini e bambine erano tutti stretti ai loro genitori”) o tramite l’utilizzo di espressioni fisse al maschile che possono però anche riferirsi alle donne (“i diritti dell’uomo”, per indicare “i diritti umani”). “Ancora più particolare”, prosegue Treccani, “è l’uso di termini, professionali e no, al maschile, quando il referente, noto e specifico, è donna”.

Dei nomina agentis (o nomi professionali) al femminile si discute in Italia da molto tempo: ne hanno parlato ad esempio Alma Sabatini, nel suo saggio “Il sessismo nella lingua italiana” nel 1987, e Cecilia Robustelli, nelle “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, sottolineando la validità linguistica e l’importanza politica di declinare al femminile le professioni svolte da una donna. In uno dei suoi ultimi lavori, anche Vera Gheno ha mostrato come da un punto di vista linguistico l’italiano ammetta e preveda la formazione dei femminili. Le forzature e le stonature che alcune persone dichiarano di percepire quando si declinano certi termini al femminile, perciò, non possono essere ricondotte a motivazioni grammaticali e morfologiche quanto a una questione di abitudine o a un fatto socio-culturale, per cui il ricorso al femminile – stereotipicamente considerato come più debole rispetto al maschile – porta a immaginare uno svilimento della carica o del ruolo professionale.

Se la lingua evolve, però, è perché la società in cui viviamo sta cambiando: fino a non molto tempo fa, infatti, la presenza delle donne era limitata in alcuni settori e posizioni lavorative, per cui la necessità di declinare i nomi delle professioni in maniera corretta non era così ampiamente diffusa. Oggi che invece ci sono molte più avvocate, ministre, sindache, assessore, chiamarle con il loro nome diventa un’affermazione di esistenza, oltre che un’operazione linguisticamente esatta.

Come fa notare poi Gheno nel suo lungo e articolato post di risposta al “Buongiorno” di Feltri, il maschile sovraesteso viene spesso confuso con il genere neutro, che però in italiano non esiste: la nostra lingua infatti, come si è detto, comprende solo due generi, il maschile e il femminile, motivo per cui si parla anche di binarismo linguistico.

Il binarismo di genere e il rapporto con la lingua

Il binarismo di genere è un concetto che deriva dai gender studies e riconosce l’esistenza di due sole categorie, uomo e donna, a cui sono associati ruoli e caratteri specifici: all’uomo corrisponde tutto ciò che nell’immaginario comune è considerato maschile, alla donna tutto ciò che è definito come stereotipicamente femminile.

Il binarismo di genere non ammette, dunque, l’esistenza di identità di genere altre rispetto a quelle di uomo e donna, rinnega la distinzione tra sesso e genere e si basa su preconcetti che ci portano a definire per esempio la forza e l’autorevolezza come tratti tipicamente maschili e la sensibilità e la predisposizione alla cura come caratteristiche femminili. Il sesso e il genere invece sono ormai anche a livello istituzionale concepiti come entità separate: il sesso è l’insieme di caratteristiche fisiche, biologiche e anatomiche che caratterizzano un individuo mentre il genere è un costrutto sociale, che cambia nel tempo e nello spazio, e riguarda i comportamenti che la società attribuisce a un determinato sesso (ovvero il ruolo di genere), ma anche la percezione che ciascuno ha di sé (l’identità di genere). Il superamento del binarismo implica la concezione del genere non più come una classificazione fatta da due soli elementi, bensì come uno spettro di più possibilità. Coloro che non si identificano nelle categorie uomo-donna, ad esempio, possono riconoscersi come persone non binarie. Anche le persone transgender, ovvero coloro che hanno un’identità di genere diversa rispetto al sesso assegnato alla nascita, possono non rivedersi nel binarismo; e lo stesso vale per le persone intersex, ovvero chi nasce con caratteristiche cromosomiche, anatomiche e/o ormonali che non possono essere definite rigidamente come maschili o femminili.

Negli studi di genere e in certi ambiti della linguistica, ci si sta dunque interrogando su come costruire un linguaggio inclusivo che tenga conto di tutte le soggettività.

Le proposte per un linguaggio inclusivo

Nel saggio “Femminili singolari”, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice effequ, l’autrice Vera Gheno propone – a suo stesso dire, in modo scherzoso – l’introduzione dello schwa, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale. Per fare un esempio, nella frase “Buonasera a tutti” rivolta a un gruppo misto di persone, si potrebbe sostituire il maschile sovraesteso espresso dalla desinenza “-i” con lo schwa e dire dunque “Buonasera a tuttə”. La pronuncia corrisponde a un suono vocalico neutro, indistinto, già presente in molti dialetti del centro e sud Italia.

A prendere spunto da questa riflessione è stata proprio la casa editrice effequ in un’altra delle sue pubblicazioni. In “Il contrario della solitudine”, scritto dall’autrice brasiliana Marcia Tiburi e tradotto da Eloisa Del Giudice, effequ ha infatti introdotto lo schwa in riferimento a una moltitudine mista. Nel testo originale Tiburi ha adottato una delle soluzioni più utilizzate dai movimenti femministi e dalla comunità LGBTQIA+ di lingua spagnola, ovvero sostituire la desinenza maschile “-o” e quella femminile “-a” con una neutra “-e”, scrivendo per esempio “todes” al posto di “todos”. Per mantenere la neutralità del linguaggio e rispettare la scelta politica dell’autrice, effequ ha perciò deciso di tradurre “todes” con “tuttə”.

Per quanto al momento lo schwa appaia come la soluzione più praticabile poiché si tratta di un fonema neutro, già esistente e applicabile, presenta anch’esso dei limiti. Come spiega infatti proprio Gheno in un articolo uscito su La Falla, magazine del Cassero LGBT Center di Bologna, lo schwa “non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer”, ma solo nella sezione dei simboli e caratteri speciali dei programmi di scrittura: conseguenza di ciò è che scrivere un testo con lo schwa può risultare piuttosto macchinoso. Inoltre, essendo un suono presente solo in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, può risultare difficile da comprendere e pronunciare per coloro che non conoscono e non parlano quei dialetti. Per provare a far fronte a queste difficoltà, è nata “Italiano inclusivo”, una piattaforma che ha lo scopo di promuovere l’introduzione dello schwa e superare il binarismo linguistico. “Italiano inclusivo” infatti offre diversi strumenti utili per conoscere, scrivere e pronunciare il fonema.

Nel frattempo, molte altre sono le proposte di cui si discute nell’ambito degli studi di genere, come l’asterisco o la vocale “-u” (che però in alcuni dialetti italiani indica il maschile). In una nota introduttiva al suo saggio “Post porno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali” (Eris Edizioni), ad esempio, l’autrice Valentine Wolf chiarisce che, “in un’ottica di inclusività”, nel testo si è preferito non ricorrere al maschile generalizzato ma utilizzare l’asterisco e la desinenza “-u”. Proprio pochi giorni prima dell’uscita del “Buongiorno” di Feltri in cui si è parlato dello schwa, anche la condivisione di questa nota sui social ha generato una serie di reazioni polemiche e sprezzanti.

Il linguaggio inclusivo negli altri paesi

Mentre l’Accademia della Crusca ha manifestato ritrosia nei confronti della presa in considerazione di soluzioni inclusive, in molti altri paesi il tema dell’inclusività e il rispetto delle soggettività sono centrali anche da un punto di vista linguistico. Nel 2019 il celebre vocabolario statunitense Merriam-Webster ha scelto il pronome “They” come parola dell’anno. Nella lingua inglese infatti si sta sempre più diffondendo l’uso di “they” e “them” come pronomi singolari, per riferirsi alle persone non binarie e che dunque non si riconoscono nei pronomi “he/him” (lui), “she/her” (lei).

In Svezia, invece, nel 2015 l’Accademia che ogni dieci anni aggiorna il dizionario ufficiale della lingua, ha introdotto il pronome neutro “hen”, da utilizzare in relazione a persone che non si identificano nel pronome maschile (“han”) o femminile (“hon”) o laddove non si voglia fare riferimento al genere di qualcuno. Per quanto riguarda la Germania, dove il dibattito è da tempo molto acceso, il ministero della Giustizia ha di recente invitato gli uffici pubblici a utilizzare un linguaggio neutro nelle comunicazioni ufficiali. E ancora, nello spagnolo, oltre alla già citata desinenza “-e”, si sta diffondendo l’uso del simbolo “-@” e della lettera “-x” per sostituire il maschile generalizzato.    

Una nuova esigenza sociale

Ogni scelta linguistica è una scelta politica”, ha scritto la giornalista Jennifer Guerra nel suo saggio femminista “Il corpo elettrico” (edizioni Tlon). In una vera e propria “Nota alla traduzione”, infatti, l’autrice parla della necessità di un continuo confronto che durante la stesura del libro, proprio come fa di solito chi traduce un testo, ha dovuto mettere in atto con il linguaggio e con le parole, affinché la complessità potesse essere raccontata al meglio.

Di complessità ha parlato anche la stessa Vera Gheno nel suo intervento a “Prendiamola con filosofia”, evento organizzato dall’Associazione Tlon il 23 luglio scorso. “Saper vivere la complessità del presente”, infatti, è una delle competenze che la linguista definisce essenziali per essere pienamente cittadini, da aggiungere a “saper leggere, scrivere e far di conto”, menzionate da Don Milani. Saper vivere la complessità del presente vuol dire, secondo la studiosa, anche riconoscere il cambiamento e provare curiosità nei suoi confronti, anziché rifiutarlo a priori. Proprio le discussioni attorno allo schwa, continua Gheno, testimoniano che qualcosa attorno a noi si sta muovendo: “C’è una nuova esigenza sociale alla quale la lingua sta cercando di stare dietro”, ha detto la studiosa, e ha aggiunto che se una lingua viva continua a creare parole nuove è perché “la realtà continua a cambiare”.

Immagine in anteprima via breezy.hr

 

Fonte:

https://www.valigiablu.it/linguaggio-inclusivo-dibattito/

 

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Yulia Tsvetkova, l’artista e attivista russa che rischia 6 anni di galera per i suoi disegni della vagina. La mobilitazione per fermare il processo

10 Luglio 2020

Yulia Tsvetkova è un’artista e un’attivista russa impegnata nella difesa dei diritti delle donne e Lgbt. Il suo lavoro ha provocato cambiamenti positivi nelle discussioni sulla body positivity (il movimento che vuole trasmettere un messaggio ottimista nei confronti del proprio corpo) e sugli stereotipi di genere. Eppure questo successo l’ha resa un bersaglio.

Il 9 giugno scorso Tsvetkova è stata accusata di “produzione e diffusione di materiale pornografico” per aver pubblicato, nel 2018, sul social network russo VKontakte alcuni disegni stilizzati di vagine per promuovere una campagna sulla body positivity nella pagina del suo gruppo “Monologhi della vagina”, che prende il nome dal titolo dell’opera teatrale di Eve Ensler e che si pone come obiettivo celebrare il corpo femminile e protestare contro i tabù che lo circondano.

Se condannata, la donna rischia sei anni di carcere.

Residente a Komsomolsk-on-Amur, una cittadina della Russa orientale, in un’area della Siberia che ospitava i gulag, il 22 novembre 2019 Tsvetkova è stata messa agli arresti domiciliari revocati quattro mesi dopo, il 16 marzo 2020, ed è tuttora sottoposta a severe restrizioni di viaggio.

Da quando le autorità l’hanno pesa di mira la 27enne non può più esercitare le sue attività.

A marzo dello scorso anno è stata infatti costretta a cancellare il Festival delle arti della gioventù da lei curato perché la polizia lo ha ritenuto un gay pride camuffato.

In Russia la “propaganda omosessuale” viene punita in base a una legge controversa entrata in vigore nel 2013 e condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2017 perché omofoba.

In un’intervista telefonica rilasciata alla CNN, Tsvetkova ha raccontato che i problemi con la polizia sono cominciati all’inizio del 2019, quando ha portato in scena, con la compagnia teatrale Merak da lei diretta, due spettacoli che affrontavano temi particolarmente scottanti per le autorità: gli stereotipi di genere e il militarismo.

«Non so quale sia stato lo spettacolo peggiore per loro, se quello sul genere, che non capiscono e di cui hanno paura, o l’altro, che era piuttosto politico, molto acuto. Immagino sia stata la combinazione di entrambi», ha detto.

Da quel momento la donna è stata convocata alla stazione di polizia periodicamente. All’inizio ogni settimana, poi ogni due settimane, per essere interrogata sui suoi disegni, una serie di vignette sulle donne accompagnate da didascalie come “Le donne vere hanno i peli sui propri corpi ed è normale” o “Le donne vere hanno i muscoli ed è normale”.

A novembre dello scorso anno la polizia ha perquisito la sua abitazione, sequestrando materiale informatico e documenti.

«Mi hanno fatto molte domande e poi hanno trovato il mio lavoro su Internet e hanno capito in che modo poter costruire il caso», ha dichiarato. «È uno schema abbastanza comune: la polizia va alla ricerca di un reato che può trovare nel lavoro dell’attivista e poi apre il caso».

A causa di un disegno raffigurante due famiglie dello stesso sesso con bambini, accompagnato dalla didascalia “La famiglia è dove c’è amore. Sostieni le famiglie Lgbt!”, a gennaio 2020 Tsvetkova è stata inoltre accusata di “propaganda omosessuale”.

Tsvetkova – che organizza conferenze per la comunità Lgbt e che tiene lezioni sull’educazione sessuale vietata nelle scuole russe – ha dichiarato di non essersi stupita per l’accusa di propaganda sessuale e per aver ricevuto una sanzione (50.000 rubli russi che corrispondono a circa 620 euro), ma di essere rimasta molto sorpresa per l’incriminazione del reato di pornografia. «So che cos’è la pornografia e non è quella», ha detto riferendosi ai suoi disegni.

L’attivista, che nel frattempo ha ricevuto e continua a ricevere minacce, non è molto ottimista sul processo: «Sto cercando di non perdere la speranza, ma in Russia solo l’1% dei casi è assolto. Questo significa che ho solo l’1% [di possibilità] di essere prosciolta».

Insignita lo scorso 17 aprile del premio Freedom of Expression 2020 nella categoria “arte” conferitole da Index on Censorship (un’organizzazione per la difesa della libertà di espressione con sede a Londra), la donna ritiene di essere stata accusata dalle autorità di diffondere materiale pornografico perché si tratta di un reato “infamante”, che può ridurre al minimo il sostegno in suo favore dell’opinione pubblica, e pensa che la “vaghezza” della legge sulla pornografia sia un buon pretesto per reprimere il suo attivismo.

 

In Russia, le autorità promuovono fortemente i valori familiari tradizionali. Non è un caso che gli emendamenti costituzionali recentemente approvati con una consultazione referendaria abbiano incluso un articolo in cui si afferma che il matrimonio è esclusivamente quello celebrato tra un uomo e una donna, vietando di fatto i matrimoni omosessuali.

Come riportato da Deutsche Welle, un recente sondaggio condotto da Levada Center, il principale istituto indipendente che si occupa di rilevazioni in Russia, ha rivelato che il 50% delle persone intervistate pensa che gli omosessuali debbano essere “liquidati” o tenuti isolati dalla società. La percentuale scende al 27% se si tratta di femministe, poiché il concetto di “femminismo” è spesso visto come appartenente all’Occidente ed estraneo alla Russia. Eppure, in passato, il paese è stato a lungo all’avanguardia nell’uguaglianza di genere, garantendo nel 1917 pari diritti alle donne e diventando nel 1920 il primo paese a legalizzare l’aborto.

Nonostante si sia aperta una caccia alle streghe, è grande il sostegno mostrato nei confronti di Yulia Tsvetkova.

Associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani come Amnesty International e la ONG russa Memorial l’hanno dichiarata prigioniera di coscienza e una petizione lanciata su change.org, in cui viene chiesto il ritiro delle accuse, ha raccolto quasi 240.000 firme.

Il 27 giugno, Giornata nazionale della gioventù in Russia, oltre cinquanta agenzie di stampa hanno organizzato lo “sciopero dei media per Yulia”, chiedendo che il procedimento giudiziario contro di lei venga fermato. Scrittori, giornalisti, attori, influencer e blogger hanno pubblicato post con l’hashtag #forYulia (#заЮлю) e #FreeJuliaTsvetkova (#СвободуЮлииЦветковой).

Durante l’ultimo fine settimana di giugno circa quaranta manifestanti sono stati arrestati a Mosca e a San Pietroburgo nel corso di una manifestazione pacifica a sostegno dell’attivista russa. A riferirlo OVD-info, un gruppo che fornisce assistenza legale alle vittime di arresti arbitrari. La maggior parte dei dimostranti sarebbe stata fermata per aver violato il regolamento sui raduni pubblici, incluso il divieto di organizzare eventi di massa introdotto nel paese a marzo scorso per bloccare la diffusione del COVID-19.

Sui social tantissime donne hanno mostrato il proprio sostegno all’attivista russa pubblicando foto in cui mostrano i propri corpi o immagini e disegni femministi o oggetti di uso quotidiano, come fiori o frutti, che sembrano vagine, accompagnate dallo slogan “il mio corpo non è pornografia”.

Di recente, l’Alto commissario dei diritti umani della Federazione Russa, Tatyana Moskalkova, ha annunciato che a seguito del grande “riscontro pubblico” sollevato dal caso intende seguirlo personalmente inviando un membro del suo staff a monitorare il processo.

Per Tsvetkova il supporto nazionale e internazionale è “incredibile” e rappresenta un’ancora di salvezza. «Mi aiuta a non sentirmi sola. L’anonimato è la cosa più spaventosa. Lo so perché ero sola all’inizio e questo significava che quando andavo alla stazione di polizia, sapevo che avrebbero potuto fare quello che volevano e nessuno lo avrebbe mai scoperto», ha detto.

L’attenzione suscitata nell’opinione pubblica ha dimostrato che l’attivismo della giovane donna russa ha colpito nel segno mostrando quanto il paese abbia bisogno di una discussione pubblica sull’uguaglianza di genere e la comunità Lgbt.

«Voglio continuare a lavorare come attivista. E il fatto di essere stata incriminata aumenta soltanto il mio desiderio di cambiare le cose e combattere le ingiustizie».

Immagine anteprima “Le donne non sono bambole”, 2018 – Yulia Tsvetkova/TAN via Ministry of Counterculture

Fonte:
https://www.valigiablu.it/yulia-tsvetkova-artista-russa-processo/
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SPAZZA L’ODIO – per la legge contro omotransfobia e misoginia

6 Luglio 2020

Sabato 11 luglio alcune piazze italiane saranno occupate da chi vuole “restare libero” di discriminare e seminare odio, opponendosi al disegno di legge contro l’omotransfobia e la misoginia.

Noi vogliamo invece riempire il web di colori e messaggi positivi con un grande evento diffuso che coinvolga piazze virtuali e reali.

Durante l’intera giornata, in particolare dalle ore 11:00 alle ore 17:00 di Sabato 11 Luglio, ti invitiamo a pubblicare su facebook, instagram e twitter una foto, un piccolo video, un tuo contributo che ci aiuti a “spazzare l’odio” da questo Paese utilizzando gli hastag: #spazzalodio #davocealrispetto.
Libera la tua fantasia e scegli la modalità migliore per comunicare a tutte e tutti la necessità di spazzare via dal nostro paese l’odio omotransfobico e misogino.

Se siete un’associazione, un gruppo di amici, un’organizzazione o un collettivo vi invitiamo ad organizzare flash mob nella vostra città o paese (nel rispetto delle norme di distanziamento e di sicurezza), realizzare fotografie o piccoli video da pubblicare in rete con gli hashtag #spazzalodio#davocealrispetto, usando i cartelli della nostra campagna.

Se decidete di annunciare il flashmob pubblicamente, vi chiediamo di comunicarci quanto prima luogo, ora ed eventuali eventi pubblicati sui social network per poterli promuovere anche sui canali della campagna.

Trovate i materiali della campagna sulla home page del nostro sito www.davocealrispetto.it

L’approvazione di una buona ed efficace legge contro l’omotransfobia e la misoginia dipende anche da noi. Mobilitiamoci tutte e tutti insieme per fare un importante passo di civiltà.

(ELENCO IN CONTINUO AGGIORNAMENTO)

→ROMA←

La piazza di Roma organizzata da AGEDO ROMA – NO all’omotransfobia:

Sabato 11 ore 11

presso piazza del Pantheon Roma

→VICENZA←

La piazza di Vicenza organizzata dal Vicenza Pride:

Sabato 11 alle ore 11:30

presso Piazza Matteotti Vicenza

→VARESE←

L’iniziativa fotografica organizzata da Associazione Cuori InVersi – Circolo ARCO

dal 5 all’11luglio alle ore 17

presso Il Salotto Viale Belforte 178

→CREMONA←

Il turno di Cremona, organizzata da Arcigay Cremona La Rocca:
Domenica 12 luglio alle ore 18

presso Piazza Roma

→LIVORNO←

L’iniziativa organizzata da Agedo Livorno-Toscana e L.E.D. Arcigay Livorno

Sabato 11 luglio 2020 alle ore 11

presso Terrazza Mascagni

→BRESCIA←

L’iniziativa organizzata da Arcigay Orlando Brescia

Sabato 11 luglio dalle ore 17 alle 18

presso Campo Marte via Ugo Foscolo

→PADOVA←

L’iniziativa organizzata da Arcigay Tralaltro Padova

Sabato 11 lug alle ore 11:00

Venerdì 14 set alle ore 13:00

presso Palazzo Moroni, Via VIII Febbraio

→TARANTO←

L’iniziativa organizzata da Arcigay Strambopoli – QueerTown

sab 11 luglio dalle ore 18:00 alle 21:30

presso Piazza Maria Immacolata

→BERGAMO←

L’iniziativa organizzata da Bergamo Pride

Sabato 11 luglio alle ore 17:00

presso Piazza Pontida

→PALERMO←

L’iniziativa organizzata da Ali d’aquila – persone cristiane LGBT

Sabato 11 luglio dalle ore 11 alle ore 13:30

presso Via Generale Magliocco

 

 

 

Fonte:

https://www.davocealrispetto.it/2020/07/06/spazza-lodio-per-la-legge-contro-omotransfobia-e-misoginia/

 

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Riflessioni sull’uso dei termini “eterofobia” e “cishet”.

(Immagine presa dal web)

Il 27 luglio prossimo approderà alla Camera il ddl Zan,  disegno di legge in materia di prevenzione e contrasto alle discriminazioni per orientamento sessuale, identità di genere e genere. Per saperne di più potete leggere il seguente articolo, in cui è anche contenuto il testo unificato del ddl:

http://www.gaynews.it/2020/06/30/ddl-omofobia-sblocca-stallo-zan-deposita-testo-unificato-commissione-giustizia/

Questa legge è sostenuta da una campagna nazionale dal titolo  Da’ voce al rispetto! alla quale tante associazioni e singoli (tra cui la sottoscritta) hanno aderito e continuano ad aderire. Trovate la campagna a questo link

https://www.davocealrispetto.it/

e potete seguirla anche sui social.

All’immediata depositazione del ddl, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha commentato chiedendo che fosse presentata anche una legge contro l’eterofobia. Qui potete leggere le sue dichiarazioni:

https://www.lapresse.it/politica/salvini_ddl_omofobia_allora_presentiamo_anche_legge_contro_eterofobia-2749188/news/2020-07-01/
A quest’evidente provocazione, in tanti hanno risposto sul web in modo più o meno indignato e/o ironico. Fra tutti segnalo il video ironico contro l’eterofobia dell’attore Paolo Camilli che – a proposito di libertà d’espressione – è stato prontamente censurato da Facebook. Potete vederlo a questo link:

https://www.gaypost.it/video-eterofobia-paolo-camilli-facebook-oscurato

Ora, – al di là delle ovvie considerazioni sul perché non si possa pensare che una persona eterosessuale e/o cisgender sia picchiata o uccisa per strada; cacciata di casa; dal lavoro;  le venga negato l’affitto o una vacanza; sia condannata al carcere o alla pena di morte dal governo del proprio paese; le venga negato di sposarsi e avere figli;  subisca stupri correttivi o altri tipi di torture fisiche e/o psicologiche, ecc., a causa della propria eteronormatività  – ci sarebbe chi spingerebbe la questione su di un altro piano. C’è chi avanza l’ipotesi di possibili forme di razzismo al contrario e a tal proposito si avvale di un altro termine, stavolta usato all’interno della comunità Lgbtqia+: il termine cishet. Si tratta di un aggettivo che dovrebbe essere solo un’abbreviazione di cisgender ed eterosessuale ma assume una connotazione negativa qualora sia usato come sinonimo di persona di genere maschile, bianca, eterosessuale, cisgender e borghese. Chi sottolinea quest’accezione lo fa perché considera ciò una forma di razzismo.

Ora, pur provando a comprendere il ragionamento che sarebbe alla base di tale pensiero, non condivido il concetto di razzismo nel significato che si vorrebbe dare in questi casi.  Il termine “cishet”, nonostante possa, talvolta, assumere una connotazione negativa, non credo implichi una qualche forma di razzismo. Considerare qualcuno come privilegiato, anche se lo si fa sulla base di categorie che la persona privilegiata non può aver scelto, comporta un pregiudizio nei confronti di tale persona ma che non chiamerei razzismo. Il concetto di razzismo si basa su una presunta superiorità di un modo di essere su di un altro. Chi è razzista si considera superiore a chi è diverso e questa sua idea può assumere tante sfaccettature fino ad arrivare alla violenza estrema nei confronti del diverso causata da sentimenti di odio. Chi considera un altro come privilegiato rischia di attribuire all’altro delle colpe che potrebbe non avere, sulla base del pensiero pregiudizievole che chi nasce privilegiato possa approffittarsi sempre e in ogni modo del suo privilegio, lasciando indietro chi questo privilegio non c’e’ l’ha. Questo è un pregiudizio ma non credo possa essere considerato come una forma di razzismo al contrario. Chi sente questo pregiudizio non si considera superiore all’altro né prova odio nei suoi confronti, o almeno non una forma d’odio particolarmente violenta. Questo perché alla base di questo tipo di pregiudizio sta il fatto di vivere sulla propria pelle una serie sistematica di discriminazioni dovute ad una condizione di diversità rispetto ad una presunta normativita’. Tale pregiudizio non esisterebbe se, appunto, non ci fossero categorie sociali privilegiate e ogni tipo di condizione fosse considerata da tutti ugualmente dignitosa. Concludo, dunque, affermando che l’omolesbobitransfobia è una forma di razzismo e l’eterofobia, se e nella misura in cui esista, non lo è.

 

D. Q. 

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Egitto, si suicida l’attivista Sarah Hegazi: arrestata per una bandiera arcobaleno

Rifugiata in Canada dopo il carcere, non è riuscita a superare il trauma delle torture e degli abusi subiti.
ROMA – Non ce l’ha fatta Sarah Hegazi, rifugiata di origine egiziana che tre anni fa ha dovuto lasciare il suo Paese e trasferirsi in Canada dopo essere stata incarcerata per il fatto di essere lesbica. Dietro le sbarre la donna aveva denunciato violenze e torture, poi una volta fuori si erano aggiunte pressioni e stigma sociale. Due giorni fa la 30enne si e’ tolta la vita, e come riferisce il quotidiano ‘Egypt today’, prima di morire ha lasciato un biglietto con su scritto: “Ho cercato di sopravvivere, ma non ce l’ho fatta”.

La donna era un’attivista per i diritti umani e della comunita’ Lgbt. Le difficolta’ per lei avevano avuto inizio nel 2017, quando era stata arrestata con l’accusa di aver esposto una bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo. A incriminare lei e un suo amico, una foto che la ritraeva sorridente mentre sventolava il simbolo della comunita’ Lgbt. La procura del Cairo accuso’ entrambi di far parte di un movimento che intendeva diffondere l’ideologia omosessuale nel Paese.

In Egitto non esiste una legge che criminalizza esplicitamente gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma queste persone possono incorrere in denunce e arresti per aver tenuto “comportamenti immorali”, giudicati come “attacchi” alla cultura tradizionale.

In carcere, Hegazi ha raccontato di aver subito torture, anche dalle altre detenute, con accuse di violenze sessuali.
Nel 2018 l’attivista era stata rilasciata ma qualche tempo dopo aveva chiesto l’asilo politico in Canada, poiche’ temeva nuovi procedimenti penali e soprattutto stava ricevendo pressioni da parte della societa’ egiziana, prevalentemente conservatrice. In Canada, pero’, la donna sarebbe caduta in uno stato depressivo.

Qualche giorno prima di togliersi la vita, Hegazi ha pubblicato una foto su Instagram accompagnata dal commento: “Il cielo e’ meglio della terra, e io voglio il cielo, non la terra”.

“I segni e il ricordo della tortura non ti lasciano in pace neanche in esilio” ha dichiarato all’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. Secondo Noury, questa e’ “un’altra storia che chiama in causa le autorita’ egiziane”.

 

Fonte:

https://www.dire.it/15-06-2020/473930-egitto-si-suicida-lattivista-sarah-hegazi-arrestata-per-una-bandiera-arcobaleno/?fbclid=IwAR3S1bdiulYBctLwJ0PF3_PYXgBvFF-gXxnY3a6_rENBl7sxct5WiGlUK4Q

Ancora armi italiane all’Egitto

10 GIUGNO 2020 | IN CONFLITTI GLOBALI.

 Il 9 giugno il parlamento italiano ha autorizzato la vendita di due fregate militari all’Egitto, navi da guerra prodotte da Finmeccanica e parte di un più ampio pacchetto bellico da 9 miliardi.

Ancora una volta la politica italiana si è macchiata della vendita di armi al regime militare di Al Sisi. Questo episodio, più delle tante altre commesse militari che il nostro paese esporta per il mondo, ci mostra limpidamente l’ipocrisia dell’intero arco parlamentare.

Com’è noto nel 2016, i servizi segreti militari dell’esercito egiziano, nel più ampio esercizio di reprimere le lotte sociali del paese, hanno anche sequestrato, torturato e ucciso il ricercatore universitario Giulio Regeni.

Pochi mesi fa il 7 febbraio 2020, un altro ricercatore universitario dell’università di Bologna: Patrick Zaki, di nazionalità egiziana viene arrestato all’aeroporto del Cairo e messo in carcere con le accuse di ‘diffusione di notizie false’, ‘incitamento alla protesta’ e ‘istigazione alla violenza e ai crimini terroristici’.

Senza prove, se non il suo costante attivismo politico in difesa delle lotte sociali e dei diritti LGBTQ*, Patrick si trova in carcere da ormai 4 mesi. Le timide pressioni istituzionali e il moltiplicarsi di appelli della società civile non hanno inciso sulla sua detenzione.

La morte di Giulio e l’arresto di Patrick possono strappare delle parole di circostanza del ministro degli esteri di turno, ma non possono certamente fermare gli interessi miliardari di Finmeccanica-Leonardo.

In questi giorni di rinnovata protesta contro razzismo, violenza e discrezionalità poliziesca la storia di Giulio e la liberazione di Patrick devono trovarvi posto.

#FreePatrick

#VeritàperGiulioRegeni

 

Fonte:

https://www.infoaut.org/conflitti-globali/ancora-armi-italiane-all-egitto

17 maggio, giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia: la campagna di Arcigay Rete Donne Transfemminista

Dalla pagina Facebook di Arcigay Rete Donne Transfemminista:

Per celebrare il #17maggio abbiamo scelto storie d’odio per raccontare #omofobia#lesbofobia#transfobia#bifobia e #afobia esattamente nelle forme in cui le incontriamo, tutti i giorni, nella realtà. Le cinque storie sono tratte dalla cronaca degli ultimi 12 mesi, mostrano l’attitudine dell’odio a cambiare forma, sembianze, linguaggio, attori, occasioni. Ma sempre odio resta, anche quando chi lo pratica lo rivendica in nome di una fraintesa libertà, quasi fosse un diritto.

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https://www.facebook.com/retedonnetransfemminista/

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