Intervista ad Alithia Maltese, insegnante di shibari ed educatrice di sessualità alternativa

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Credits Vazkor

1)      Com’è nato il tuo interesse per la sessualità alternativa e il bondage in particolare?

Da piccola amavo legare le cose. Usavo quella che doveva essere una corda per saltare: sedie, tavoli, bottiglie, niente poteva stare al suo posto. Costruivo fortini, tende, castelli. Raggiunta la maturità sessuale ho iniziato a fantasticare di legare le persone. Nel giro di poco tempo la fantasia è diventata realtà. Sentivo, però, che mancava qualcosa. Usare sciarpe e cinture non era così soddisfacente. Giocare con la cera e fare sesso estremo con le persone che frequentavo non raccontava tutto di me. Inoltre avevo bisogno di parlare con qualcuno che avesse i miei stessi istinti, avevo bisogno di confronto. Così ho chiesto consiglio a un’amica che sapevo avere i miei stessi interessi e lei mi ha suggerito di iscrivermi a FetLife, un social network dedicato al BDSM che conta quasi nove milioni di iscritti in tutto il mondo. Qui ho scoperto dell’esistenza della comunità torinese, dei party e dei corsi di bondage. Mancava ancora un evento dedicato ai più giovani e così ho deciso di impegnarmi in prima persona fondando il TNG Torino, l’aperitivo informale dedicato al BDSM per persone tra i 18 e i 35 anni. A un certo punto mi è capitato di essere invitata a eventi pubblici, come il Fish&Chips Film Festival del cinema erotico, a parlare di temi quali il consenso, la violenza, il BDSM. Sono stata chiamata in quanto organizzatrice di eventi a tema sia come persona con un bel po’ di esperienza alle spalle. Non mi andava di arrivare a questi incontri impreparata, così ho cominciato a studiare educazione sessuale e a sviluppare un metodo personale per trattare argomenti connessi alla sessualità alternativa. Così ho avviato la mia attività di insegnante di shibari. Collegata all’attività di educazione e divulgazione è venuta fuori l’esigenza di accostare alla teoria la pratica e non avrei potuto scegliere altro strumento che le corde.

2)    Essendo un’educatrice di sessualità alternativa quali sono le tematiche che tratti nei tuoi corsi?

Il tema principale è sempre la comunicazione. Che stia tenendo una conferenza sul consenso o un workshop sul bondage per l’intimità, la comunicazione col partner è alla base di tutto. La comunicazione è uno strumento potentissimo attraverso cui possiamo esercitare in modo efficace il nostro consenso e che quindi permette di condurre una sessione BDSM in modo genuinamente soddisfacente. E il dialogo con l’altro passa soprattutto attraverso il corpo, anche se non siamo abituati a farci caso. E la comunicazione passa soprattutto attraverso il corpo. Per me legare vuol dire avere un dialogo. Trasmetto il mio stato d’animo, comunico i miei desideri alla persona che sto legando e contemporaneamente mi metto in ascolto. Il corpo parla, basta saperlo osservare.

3)      Quanto è ancora forte il tabù verso le pratiche BDSM?

Dal mio punto di vista il tabù è ancora molto forte e temo che per questo si debba ringraziare per questo l’immagine mainstream del BDSM, che è fuorviante e per nulla rappresentativa del mondo che vorrebbe mostrare. Troppo spesso il cinema e la letteratura d’intrattenimento hanno dipinto chi pratica BDSM come persone violente, con traumi irrisolti. Finché questo mondo verrà guardato dal buco della serratura, parlandone con pregiudizio e senza reale interesse nel comprendere di che cosa si tratti, questa visione persisterà. A me non interessa che il BDSM venga accettato o considerato normale. Quello che mi piacerebbe è che chi vuole avvicinarsi a questo mondo possa avere la possibilità di farlo in maniera consapevole. Sarebbe preferibile che il BDSM non venisse rappresentato per nulla invece che mostrato come una patologia psichiatrica.

4)      Perché in tanti credono che il BDSM sia violenza?

Alla base di tutte le pratiche del BDSM c’è il consenso. La violenza è, per definizione, un’azione volontaria esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà. Questo rende BDSM e violenza mutualmente esclusivi.

5)      Il bondage è meramente connesso alle pratiche sessuali kinky o può essere considerato anche un’arte a sé stante?

Intanto dovremmo chiederci se tutte le pratiche kinky sono necessariamente sessuali e in che senso. Questa domanda ha molte risposte. Molti ti direbbero che non giocano con persone con cui non andrebbero a letto. Qualcuno pratica solo col proprio partner. In effetti alcune pratiche sono esplicitamente sessuali. Personalmente per me il BDSM non è per forza collegato al sesso o al mio desiderio sessuale ma senza ombra di dubbio ha a che fare con l’intimità e con la ricerca del piacere, di qualunque tipo esso sia. Il bondage è una pratica BDSM, è proprio lì, nella prima lettera dell’acronimo. Gioco spesso con alcune delle persone per me più care, mi piace condividere con loro momenti di intimità unici e irripetibili, ci piace prenderci cura gli uni degli altri anche attraverso queste pratiche, soprattutto nelle corde. Per me chi dice che il bondage è un’arte a sé mente sapendo di mentire. Probabilmente lo fa per renderlo più accettabile agli occhi della società. Il bondage, dicevo, è una pratica BDSM. Se si lega qualcosa o qualcuno per altri motivi, con altri obiettivi, artistici o promozionali per esempio, allora non rientra più nel BDSM e non è più bondage: è performance, è altro.

6)    Il termine shibari è un sinonimo o una tipologia di bondage?

Il bondage è la pratica in cui si limita o si impedisce temporaneamente la possibilità di movimento di una persona e/o la sua capacità sensoriale. Il rope bondage è il bondage fatto con le corde. Lo shibari, chiamato anche kinbaku, è il bondage giapponese: lo strumento principale sono le corde, le legature realizzate seguono la tradizione, l’estetica e la filosofia giapponese. Se mettessimo a confronto due foto, una di western bondage (rope bondage all’occidentale) e una di shibari anche chi non ha mai preso una corda in mano sarebbe in grado di capire che, pur trattandosi comunque di rope bondage, ci sono delle nette differenze tra le due pratiche, già a partire dall’estetica.

7)    Da persona facente parte di ambedue i contesti, come consideri il rapporto tra la comunità LGBTQ+ e il mondo BDSM?

Sono bisessuale, vengo dall’associazionismo LGBTQ+, non posso fare a meno di continuare a guardare a quel mondo, di cui faccio parte e con il quale collaboro. Negli anni ho riscontrato una certa resistenza da parte della comunità LGBTQ+ a interagire con la scena BDSM. Una resistenza sempre minore, per fortuna; negli ultimi anni molte persone giovani, soprattutto bisessuali, si stanno avvicinando a questa realtà. La mia percezione è che le persone LGBTQ+ talvolta pensino di trovare un ambiente non accogliente, anzi, magari anche discriminante, soprattutto per via degli stereotipi che il BDSM si porta addosso. La letteratura e la cinematografia alla quale siamo esposti sono ancora infarcite di cliché e storture: il masterone maschione seduce e sottomette la giovane e bella ragazza inesperta, la mistress in latex frusta violentemente un uomo, possibilmente di mezza età. La pornografia non ci viene in aiuto. Tutte le scene sono estremizzate, le interazioni sessualizzate in modo eteronormato o secondo il gusto eteronormato. Chiunque ci penserebbe due volte prima di rischiare di trovarsi in un ambiente composto da macchiette. La verità è che non siamo così. Certo, questi stereotipi da qualche parte sono saltati fuori, e forse dovremmo guardare più a romanzi come Histoire d’O (romanzo pubblicato nel 1954 e film realizzato nel 1975) che alle opere del Marchese de Sade o di Leopold Von Sacher-Masoch per cercare una spiegazione. La letteratura rosa, con quelle storie di procaci maschioni rapitori di svenevoli fanciulle, gli Harmony, così vicini alle casalinghe degli anni Ottanta, il successo delle 50 sfumature e il caso dei 365 giorni hanno contribuito a fare in modo che il vecchio immaginario BDSM, tanto basato sul genere e sui ruoli, si perpetrasse anche nell’epoca contemporanea. In un’intervista che mi ha rilasciato Rita Pierantozzi su scena BDSM e comunità LGBTQ+ https://www.alithiamaltese.com/scena-bdsm-e-comunita-lgbtq/, lei mi diceva che “molta della comunità GLBTQ+ è chiusa in un tentativo di normalizzazione che percorre vie eteronormate e fa fatica ad accettare realtà alternative. Si fa fatica ad accogliere bisessuali, persone trangender e non binary, figuriamoci persone kinkster. Il doppio stigma è difficile da portare”. Molto spesso persone LGBTQ+ mi chiedono: “Come posso fare ad avvicinarmi al BDSM in un ambiente queer?” In realtà il nostro aperitivo è queer. Io e Médou, che organizza con me il TNG Torino, siamo bisessuali, un altro degli organizzatori è non binary, ci sono molte persone LGBTQ+ e speriamo che, un po’ col passaparola, un po’ grazie ai miei interventi nelle associazioni LGBTQ+, ce ne siano sempre di più. È giusto che tutte e tutti abbiano uno spazio sicuro di confronto in cui poter sperimentare e conoscere persone.

8)    Secondo te quanto c’è ancora da fare per diffondere un’autentica cultura del consenso?

C’è un unico modo perché si diffonda la cultura del consenso: fare della propria vita il proprio attivismo. Non basta parlare di consenso se poi non ci impegniamo a mettere in pratica tutto quello che ci diciamo durante le dirette instagram o su twitch. La divulgazione, la diffusione della cultura del consenso è molto importante ma abbiamo bisogno di gesti concreti, quotidiani, per fare in modo che l’idea di consenso attecchisca. E poi c’è un altro aspetto che per me è strettamente legato al consenso, ovvero l’autodeterminazione. Sono convinta che nel momento in cui ci autodeterminiamo riconosciamo il nostro valore e questo riconoscimento ci rende più forti, rende più forte il nostro messaggio, rende più forti i nostri sì e i nostri no. Senza dubbio è importante continuare a lavorare sulla società ma non dobbiamo dimenticarci di lavorare prima di tutto su noi stessi.

9)    C’è qualcosa che vorresti aggiungere al termine di quest’intervista?

Sì, consigli per chi vuole avvicinarsi al BDSM.

A chi volesse saperne di più o volesse iniziare la propria esplorazione in questo mondo consiglio di informarsi sugli eventi presenti nella propria zona ed entrare in contatto con la comunità locale. Conoscere dal vivo persone già esperte o che si stanno affacciando a questo mondo permette di confrontarsi, farsi un’idea non solo sul tipo di pratiche che ci possono interessare ma anche sul tipo di rapporto che vogliamo avere con quelli che saranno i nostri compagni di viaggio. Inoltre far parte di una comunità ti dà la possibilità di avere informazioni di prima mano sulle persone con le quali ti rapporti, cosa che non sarebbe possibile con l’online dating. Questo è il motivo per cui ho fondato il TNG Torino.

Premesso che non mi interessa cercare di convincere le persone a entrare a far parte di questo mondo, ritengo che anche chi non ne ha mai sentito parlare potrebbe prendere come esempio per la propria vita personale e di coppia alcuni aspetti del BDSM, per esempio l’educazione al consenso o come esplorare più liberamente le proprie fantasie. Chi lo pratica ha come obiettivo la ricerca del piacere e durante la sessione di gioco è possibile portare avanti questa ricerca con i mezzi più disparati. All’interno della pratica possiamo esplorare i nostri desideri e condividerli con la persona con cui giochiamo. Possiamo provare vergogna, piangere, rilassarci, godere, avere paura, lasciare il controllo in totale libertà, senza preoccuparci del giudizio di chi è lì con noi in quel momento. Questo ci permette di avvicinarci, di entrare maggiormente in intimità con il/la partner. Non condivido con te solo il mio corpo ma apro una finestra sui miei segreti e ti permetto di vedere cose di me che in altre occasioni non mostro. In più, come singole e singoli, praticare il BDSM ci porta a domandarci che cosa cerchiamo in una relazione (che duri nel tempo di una sessione di gioco o che sia il rapporto con il/la partner), chi siamo, che cosa vogliamo. Insomma, dal mio punto di vista è uno strumento di autodeterminazione in piena regola.

Intervista a Luca Borromeo, escort di alto livello bisessuale

  • Luca Borromeo                   Tu ti definisci un escort di alto livello. Cosa intendi con ciò?
  •       Il discorso sull’alto livello potrebbe essere una locuzione che mi serve per specificare che svolgo quest’attività in modo professionale. Anche il mio nome d’arte è stato scelto guardando alle strategie di marketing. Cerco sempre di usare delle parole che facciano capire che mi pongo in maniera professionale e anche elegante. Poi quello che si fa privatamente non è detto che sia pure elegante.
  •        Cosa ti ha spinto ad intraprendere questa professione?

            Come ho dichiarato in altre interviste, a differenza di altre cose che nascono dalla necessità, ho cominciato a fare questo lavoro per gioco. Un mio amico mi ha fatto visitare un sito dove c’erano non solo donne ma anche uomini. Fino ad allora non sapevo che anche gli uomini potessero fare questo lavoro in modo professionale, pensavo fosse qualcosa di relegato solo a casi cinematografici come al film American gigolò con Richard Gere o a Ragazzi di vita di Pasolini. Avevo un’amicizia cameratesca con questo mio amico. Ci iscrivemmo a quel sito e cominciai come una sfida col mio amico a chi ricevesse più telefonate. Ma a differenza del mio amico che ricevette telefonate ma aveva paura di presentarsi agli appuntamenti, io decisi di andarci e trovai la cosa divertente. Le persone con cui mi incontravo pensavano che lo facessi da tanto tempo. Penso che non basti essere belli e discreti ma che bisogna avere anche un certo livello di disinibizione, per sentirsi a perfetto agio in intimità con sconosciuti. A proposito io penso di avere un dono, come una sorta di talento. All’inizio l’aspetto economico non era fondamentale ma poi è diventato un vero e proprio lavoro, anche ben remunerato, e continua ad esserlo, covid permettendo.

          Mi capita spesso che certuni mi chiamino per chiedermi consigli per fare questo lavoro solo perché rimasti disoccupati. In questi casi io cerco di far capire che questo non è un lavoro che si può improvvisare, per farlo bisogna essere convinti per non sentirsi a disagio e non far sentire a disagio le altre persone.

  • Che ruolo occupa il tuo orientamento sessuale nel tuo lavoro?

       Io faccio tesoro della mia bisessualità nel mio lavoro. Sono credente e penso di poter ringraziare Dio di essere bisessuale perché questo mi permette di fare il mio lavoro sia con uomini che con donne, sia passivamente che attivamente. Penso che se non fossi stato bisessuale e non avessi avuto la possibilità di mettere in atto diverse fantasie, sarei stato io stesso un cliente di lavoratori sessuali.

         Mi è capitato che mi abbia contattato un mio collega eterosessuale che fa questo lavoro non con piacere ma in attesa di essere selezionato per qualche casting di reality show. Io non considero un bene fare questo lavoro solo per soldi o in attesa di altro. A me piace il confronto, sono molto combattivo e non me ne faccio un problema se qualcuno mi insulta se scopre quello che faccio. Ma chi non è combattivo come me può sentirsi male se non fa questo lavoro andando fino in fondo. Poi a me non interessa che mi si giudichi perché vado sia con gli uomini che con le donne, non considero un problema avere una clientela variegata.

  • Da chi è costituita, nello specifico, la tua clientela?

      Uomini, donne. L’età varia da persone giovani a persone anziane. C’è chi mi chiama per avere una prima esperienza sessuale o chi, persone di 30, 40, 50 anni, mi chiamano perché vogliono avere la loro prima esperienza gay ma non vogliono viverla in altro modo perché sono sposati e non vogliono correre rischi di essere scoperti o ricattati se si fanno l’amante.

  • Quando accompagni persone legate sentimentalmente ad altri ciò avviene in segretezza o con il consenso dellu altrui partner?
  •       Può avvenire sia in segretezza sia con il consenso dei partner. Mi capita anche di essere contattato da coppie sposate, da coppie di amanti e anche da coppie separate che vogliono vivere in questo modo la trasgressione. C’è una coppia separata, per esempio, che mi viene spesso a trovare, in cui lui si eccita a guardarmi mentre ho rapporti sessuali con lei e partecipa solo passivamente. Ci sono coppie etero in cui la donna ha la fantasia di andare con due uomini e quindi si rivolge a me. Poi ci sono le persone gay latenti che hanno piacere di vedere me mentre scopo le loro donne perché in quel momento si sostituiscono mentalmente alla loro compagna e vivono l’appagamento gay in questa forma sublimata.  Io nel mio lavoro mi limito a fare quello che mi viene richiesto senza chiedermi il perché o se sia strano. Mi chiedo solo se sono in grado di soddisfare quella specifica fantasia che in quel momento mi viene richiesta, ovviamente nei limiti del codice penale.
  • Come escort maschio percepisci minore il rischio di slut-shaming rispetto alle colleghe donne?

       È interessante questa domanda. Di solito dagli uomini eterosessuali vengo visto come una specie di mito perché ho rapporti sessuali e ci guadagno. C’è una certa ammirazione da parte degli uomini. Da parte delle donne mi è capitato di essere visto come un uomo possente, non necessariamente dotato, interessante ma sentono di non poter accettare del tutto un uomo che fa questa professione, perché loro vedono sempre in prospettiva di una relazione. Lo slut-shaming l’ho subito da parte di alcuni gay. Paradossalmente i gay possono vedere l’uomo che fa l’escort solo come un marchettaro e provano un certo astio o competizione. Mi fa specie che a volte, non sempre ovviamente, proprio i gay abbiano questo tipo di atteggiamento con cui o ti considerano una feccia o ti mettono su un piedistallo. Poi ci sono alcuni gay che sono contro i bisessuali perché li considerano come dei gay latenti o persone in una situazione transitoria. Ma mi fa specie che questo tipo di considerazioni provengano più spesso da gay che dagli etero. Mi piacerebbe che, così come c’è stata l’emancipazione delle donne e il riconoscimento dei diritti civili, nel 21° secolo si instauri un certo livello di tolleranza da parte dei gay verso chi si dichiara bisessuale.

  • Pensi che ci sia bisogno di una legge per regolamentare e soprattutto tutelare i e le sex workers dimodoché il vostro sia riconosciuto a tutti gli effetti un lavoro come un altro?

       Sì, certo. Questa è una cosa che mi è stata chiesta tante volte e penso che sarebbe giusto che ci sia. C’è, per fare un esempio semplice, il problema fiscale. Io non posso con la mia partita iva dichiarare tutto quello che guadagno. Poi io spesso per lavoro devo viaggiare ma non posso dichiarare i miei viaggi per lavoro. Inoltre, essendo con il mio lavoro più esposto alle malattie veneree, se ci fosse una legge potrei avere delle tutele sanitarie anche in quel senso. Io non sono per la riapertura delle case chiuse. Si potrebbero creare delle agenzie. La mia vita sarebbe tutelata e la mia professione sarebbe riconosciuta a livello sociale, senza essere presa per un passatempo e senza passare come uno che si è montato la testa emulando modelli cinematografici. Credo che il mio sia un lavoro socialmente utile. Non sono io che vado a cercare i miei potenziali clienti, sono loro che mi cercano. Se c’è una domanda, una richiesta evidentemente c’è bisogno anche di una figura del genere. Una volta mi è capitata una persona che, avendo dei blocchi psicologici, dopo essere stata da un analista, questi le avrebbe suggerito di farsi aiutare anche da un professionista sessuale. Credo, pertanto, che il riconoscimento del mio lavoro debba essere un atto dovuto perché non è una cosa che mi sono inventato io.

 

 

Non binarismo di genere, bisessualità e pansessualità: ne parlo con Davide Andrea Amato

Io: Ciao, Davide Andrea. Benvenuta e grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
D.A.: Grazie a te.

Io: Tu ti definisci trans, bigenere, non binaria. Mi spieghi cosa s’intende con gli ultimi due termini?

D.A.: Sì. Mi definisco bigenere perché non mi sento solo maschio o solo donna. Non binary perché sono sempre stata al di fuori di quello che la società ha proposto a livello di genere. Il bigenere è la compresenza di queste due mie parti. Non binary perché sono sempre state inserite dentro di me ma non come le intende la società.

Io: Quali altre categorie possiamo trovare sotto l’”ombrello” del non binarismo?

D. A.: Moltissime. Per esempio, le persone demigender, genderfluid, pangender, agender. Ci sono anche persone genderqueer. C’è anche chi si definisce solo trans. Vi rientrano tutte quelle sfumature lontane dal binarismo di genere, diverse per funzionalità ed espressività di chi le vive. Ci sono anche le persone genderflux, le persone intergender anche. La differenza tra i non binary e le persone transessuali conformi è che le persone transessuali binarie, seguono un percorso di transizione medicalizzata per riassegnare il proprio corpo al genere di elezione. Genere che è diverso rispetto a quello assegnato loro alla nascita. Hanno necessità, quindi, di modifica di tutto il fisico, anche della voce, per poter esternare tutto l’interno della propria persona. Invece le persone non binary spaziano in tutte le sfumature del genere, al di fuori del binarismo, e quindi non per forza necessitano di conformare l’aspetto esteriore al proprio genere di elezione. Molte infatti non ne avvertono la necessità, mentre altre ancora prediligono solo isolati interventi estetici oppure assunzione di microdosing ormonale. Le persone non binary fanno molta fatica ad essere concepite dalla società.

Io: Quanto è forte la discriminazione nei confronti delle persone enby anche all’interno della comunità Lgbt+?

D. A.: Purtroppo ancora tanta. L’ultimo episodio che mi è capitato di recente è stato all’interno di un gruppo Lgbt+. La mia richiesta di usare grammaticalmente l’asterisco o la u è stata vista come un capriccio, come il voler essere puntigliosa, un non volermi conformare. Molti gruppi si dicono inclusivi e invece termini come non binary risultano estranei. Alla mia semplice definizione deriva l’essere derisa, segue l’invalidazione. Il fatto di riuscire a parlare di me viene visto come voler essere al centro dell’attenzione. Questi sono solo alcuni esempi. La discriminazione avviene anche all’interno del mondo transessuale, da parte delle persone transessuali binarie che si sentono in diritto di dare patentini di persona trans solo a chi fa un percorso di medicalizzazione. Oppure deridono chi non rientra nella concezione canonica di transessuale. Per fortuna c’è anche massima apertura in certi ambienti in cui mi sento sicura. Vorrei chiarire che il termine femminile che considero per me è perché mi sento molto più vicina a questa parte della mia identità. Tuttavia ciò non si esaurisce nella concezione di essere solo femmina o solo donna. Per me è un bene che mi si pongano queste domande da parte di chi vuole mettere in discussione le proprie convinzioni. La discriminazione avviene all’interno delle comunità Lgbt+ perché ancora non si è raggiunta consapevolezza sulle diverse identità sessuali. Ci sono cis-etero, cis-gay, cis-lesbiche, cis-bisessuali alleati che fanno fatica ad uscire dal binarismo della cultura. Questo dimostra come la transfobia sia più trasversale rispetto all’omofobia. Lo stesso si può dire della bifobia. Non è detto che in un gruppo Lgbt+ ci sia inclusività. Purtroppo accade il contrario. Le persone non binary come me si trovano a vivere in una condizione di stigma doppio, triplo. Bisogna essere molto fortunati per trovare gruppi positivi e accoglienti.

Io: Cosa ne pensi del dibattito su asterisco, scevà e altre desinenze usate per cercare di usare un linguaggio più inclusivo?

D. A.: Penso sia molto importante. Finalmente una certa parte di comunità formata, da un decennio, da persone non binary cerca di portarsi avanti in modo inclusivo. Credo che l’uso sia dell’asterisco, sia della scevà sia della u possa essere importante dal punto di vista grammaticale. Molte persone si mettono in gioco con un immaginario della grammatica che mette insieme tutte le personalità che finora erano escluse. Non sarà un passaggio immediato, ci vorrà tempo. L’Accademia della Crusca e altre società di grammatica italiana contribuiscono al dibattito dimenticando che, dietro il bisogno di usare un linguaggio più inclusivo, vi sono delle persone, vi sono delle identità, vi sono dei vissuti. Sono contenta che questo dibattito ci sia. E’ importante, però, andare con i piedi di piombo e portare avanti ciò rispettando i tempi di assimilazione di chi per la prima volta vede questo tipo di processo.

Io: Qualche anno fa, in un’intervista sul blog Progetto genderqueer dell’attivista Nathan Bonnì, raccontavi il tuo percorso da ex etero Lgbt friendly fino alla scoperta dell’orientamento bisessuale. Oggi ti definisci, tra l’altro, trans e pansex. Quando è avvenuta quest’ulteriore scoperta sul tuo orientamento sessuale e identità di genere?

D. A.: Direi recentemente, negli ultimi tre anni. In realtà è stato un crescendo. Ho scoperto la mia bisessualità circa cinque-sei anni fa poi mi sono resa conto che quel termine era poco rappresentativo di quello che sentivo. Più andavo avanti nel mio bagaglio personale più mi rendevo conto che il termine utilizzato prima era sbagliato. Ancora oggi non ho chiaro quali siano i confini del mio orientamento sessuale per questo il termine pansessuale è molto più indicativo. Per quanto riguarda la parte trans, io ho sempre saputo di essere al di fuori del binarismo di genere. C’è stata una riscoperta, un susseguirsi di occasioni e opportunità, di incontri con soggettività che per la prima volta usavano il termine non binary. Questo ha fatto viaggiare pari passo la mia autodeterminazione con il mio attivismo. Sto usando ultimamente i termini non binary e pansessuale nel fare coming out. Voglio adesso essere me stessa, nel senso di descrizione, al 100%.

Io: Molti attivisti bisessuali si sentono tenuti fuori dal dibattito sul ddl Zan, per via del termine omotransfobia usato di più rispetto ad altri più inclusivi ma più lunghi. Condividi queste preoccupazioni o le consideri polemiche sterili?

D. A.: Condivido queste preoccupazioni perché il nuovo disegno di legge, che altro non è se non l’estensione di una precedente legge sulle discriminazioni razziali, di religione o etniche, ancora non è completo e fatto in modo tale da salvaguardare chiunque sia al di fuori dell’orientamento eterosessuale o al di fuori dell’essere solo uomo o solo donna. E’ ancora limitato e limitante. Non a caso è stato usato il termine omotransfobia escludendo la richiesta di chi voleva inserire la bi nel termine. In più, il decreto di legge non chiarisce quali siano esattamente i termini con i quali ci si può esprimere in modo contrario a tutto ciò che è al di fuori dell’orientamento eterosessuale e dell’identità di solo donna e solo uomo. Di questo si è discusso in molti gruppi. Quindi sono d’accordo con questo dibattito perché non è chiaro quali potrebbero essere le azioni discriminatorie compiute e messe in atto.

Io: Cosa ne pensi del dibattito tra chi vuole includere la pansessualità sotto il termine ombrello della bisessualità e chi, invece, vorrebbe distinguere i due termini?

D. A.: Penso che, come dire, personalmente, ma questa è una mia personale considerazione, indubbiamente, la bisessualità rispetto al passato ha, finalmente, una rappresentazione molto più inclusiva rispetto agli anni ’50. Ma non trovo utile che la pansessualità venga inclusa nella bisessualità almeno fino a che non ci siano molti più gruppi che aprano un dibattito, non di tifoseria, ma per ampliare le vedute affinché persone bisessuali e pansessuali possano collaborare perché si trovi un termine anche più inclusivo dei due. Tuttavia trovo interessante questo dibattito perché ci sono tante persone che preferiscono restare nel termine bisessuale mentre ce ne sono tante altre che preferiscono che il termine pansessualità non venga associato alla bisessualità.

Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

D. A.: Sì. Voglio invitare la maggior parte delle persone che leggeranno ad andare a ricercare pagine, canali, notizie, articoli e che si diano la possibilità di ampliare le proprie conoscenze sulla sessualità in generale e in particolare su chi si considera non binary. Ce ne è assolutamente bisogno in termini di comunità. E soprattutto di rispettare tutte le modalità con le quali ogni singola persona si autodetermina e autodefinisce. E soprattutto capire che non esistono solo persone trans medicalizzate e che le persone trans non vogliono siano date loro patenti di transessualità.

D. Q. 

Bandiera NB

Bandiera non binary (dal  sito http://www.transmediawatchitalia.info/

Bisexuality VS Pansexaulity | LGBTQ TEENS+ Amino(Dal web)

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17 maggio, giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia: la campagna di Arcigay Rete Donne Transfemminista

Dalla pagina Facebook di Arcigay Rete Donne Transfemminista:

Per celebrare il #17maggio abbiamo scelto storie d’odio per raccontare #omofobia#lesbofobia#transfobia#bifobia e #afobia esattamente nelle forme in cui le incontriamo, tutti i giorni, nella realtà. Le cinque storie sono tratte dalla cronaca degli ultimi 12 mesi, mostrano l’attitudine dell’odio a cambiare forma, sembianze, linguaggio, attori, occasioni. Ma sempre odio resta, anche quando chi lo pratica lo rivendica in nome di una fraintesa libertà, quasi fosse un diritto.

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