Intervista ad autistic_red, ballerinə e attivistə

Dal web: immagine libera da diritti

Ciao, autistic_red. Grazie per aver accettato l’ intervista.

1) Tu sei statə diagnosticatə in età scolare o da adultə?

Ho ricevuto la diagnosi a 31 anni.

2) Una delle caratteristiche delle persone neuroatipiche è quella di avere solitamente delle stereotipie motorie. Questa particolarità influisce sulla tua professione di ballerinə?

Le stereotipie mi aiutano nella danza e la danza mi aiuta nelle mie stereotipie. Grazie alle stereotipie creo passi nuovi e grazie alla danza posso utilizzare le stereotipie, che per me sono fondamentali, per sfogarmi, autoregolarmi e concentrarmi a tempo di musica!

3) Qual è il tuo rapporto con i cambiamenti?

Vivo malissimo i cambiamenti, soprattutto quelli che per la maggior parte delle persone vengono visti come banali.  
Anche il cambio di una luce, il cambio di disposizione in una stanza, se non vengo avvisata, mi scatenano malessere e non riesco a concentrarmi. Arrivano emozioni sgradevoli e tutto sembra in disordine. Soprattutto i pensieri.

4) Da un po’ di anni viene usato un pezzo di puzzle blu come simbolo delle persone neurodivergenti ma che non è stato scelto da loro. Lu attivist3 autistic3, tra cui ci sei anche tu, scelgono invece di usare altri simboli, come l’infinito con i colori dell’arcobaleno. Ti va di spiegare l’origine e il significato di quest’ultimo?

Il simbolo dell’infinito con i colori dello spettro autistico si riferisce alle diversità che ci sono tra le persone autistiche. Proprio come lo spettro autistico sta ad indicare un’ infinita gamma di diversità fra tutte le persone nello spettro, nessuna di noi è uguale all’ altra. Invece il pezzo di puzzle blu, non scelto dalla comunità autistica, ci indica come persone con pezzi mancanti, persone tristi, persone fatte a pezzi, enigmi.

5) Tu ti definisci gender fluid/agender. Ti va di parlarci della tua identità di genere?

Io mi indentifico in primis come persona e questa per me è la cosa più importante. Spesso mi viene da utilizzare il maschile nei miei confronti, poche volte il femminile. Purtroppo, in questa società, sono costretta ad utilizzare il femminile in tante situazioni formali e la mia identità di genere non viene compresa. Preferisco usare il neutro nei miei confronti, quanto più è possibile. Ad esempio lo avrei voluto fare anche per questa intervista, ma ho sempre timore della reazione delle altre persone.

6) C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

Vorrei che le persone si ricordassero che siamo tutti esseri umani diversi, sarebbe bello non aver timore di ascoltare chi viene reputato come ancora più diverso dagli altri da questa società.

Intervista a Carmen Ferrara, attivista non-binary e ricercatrice in formazione

 

Carmen Ferrara

Io: Ti definisci un’attivista per i diritti LGBTI non-binary. Ti va di spiegarci cosa significa?

C.F.: Certo. Io sono una persona non binaria, non colloco la mia identità di genere in maniera binaria, non sono un mix di maschile e femminile, rifiuto proprio di definirmi in relazione a questi parametri. Per convenzione e per una scelta politica utilizzo i pronomi femminili. Rispetto alla mia identità di attivista, innanzitutto ci tengo a dire che non si fa attivismo, ma si è attiviste. Quando ero al terzo anno di liceo mi sono innamorata della mia compagna di banco. Non ho fatto coming-out come lesbica, perché questo presupponeva che io fossi donna. Ho semplicemente detto di provare dei sentimenti per una ragazza. Provengo da un piccolo paese vesuviano e non avevo internet a casa, ma lo usavo a casa di amici. Tramite un sito di incontri ho scoperto l’esistenza di associazioni e ho iniziato a frequentare Antinoo Arcigay Napoli, ormai quasi dieci anni fa. Ho preso consapevolezza dei miei diritti e delle ingiustizie sociali, per cui è stato naturale iniziare ad impegnarmi attivamente.

Io: Rispetto al tuo percorso di studi, cosa ti ha spinto al punto da voler intraprendere un dottorato di ricerca nell’ambito degli studi di genere?

C.F.: Ho fatto un liceo delle scienze umane, che all’epoca di chiamava socio-psico-pedagogico. Per la mia famiglia era strano che dopo il liceo volessi fare l’Università perché provengo da un contesto umile. La mia famiglia non aveva possibilità economiche e mi sono mantenuta facendo vari lavori: il call center, la cameriera, le pulizie, la badante. Sapevo che studiare era un modo per migliorare la qualità della mia vita, per prendere le distanze da modalità violente che caratterizzavano l’ambiente in cui sono cresciuta e soprattutto per potermi difendere. Sia alla triennale che alla magistrale ho studiato Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, volevo comprendere la società e imparare l’inglese per ampliare le mie opportunità. Durante la stesura della tesi mi sono approcciata alla ricerca e me ne sono appassionata. La prima è stata sui migranti LGBTI, la seconda è stata sulla pianificazione strategica delle politiche di inclusione a Malta. Dopo di che ho iniziato a collaborare con un think tank, spin-off dell’Università di Cambridge che si chiama GenPol- Gender & Policy Insights. Un dottorato in studi di genere mi sembrava la naturale evoluzione del mio percorso e quindi ho fatto domanda per un dottorato transdisciplinare dal titolo “Mind, Gender and Language” sempre alla Federico II di Napoli.

Io: Nel libro che hai pubblicato sottolinei l’importanza dell’intersezionalità, cos’è e perché è importante?

C.F.: L’intersezionalità è un concetto spesso abusato, ma se applicato con criterio consente di rendere visibili forme di oppressione che altrimenti sarebbero neutralizzate. Nel caso delle donne trans nere, ad esempio, è fondamentale adottare un approccio intersezionale per comprendere le discriminazioni che possono subire. Facciamo il caso che in un progetto per l’inclusione lavorativa delle persone trans e delle persone migranti i datori di lavoro accettino di assumere solo persone trans bianche e persone migranti cisgender. Cisgender, per intenderci, è il contrario di transgender. Come ci insegna Kimberlé Crenshaw, che è colei che ha teorizzato questo concetto, se una donna trans nera non viene assunta da nessuna azienda e per leggere l’accaduto si utilizza la lente dell’identità di genere, i datori di lavoro potranno dire che non hanno fatto alcuna discriminazione di genere, perché loro hanno assunto delle persone trans. Se guardiamo alla razza, loro diranno che non sono stati razzisti, perché hanno assunto persone migranti. Però non hanno assunto nessuna donna trans nera e questa discriminazione può essere vista solo se si osservano contestualmente le dimensioni del genere e della razza e il  loro punto di intersezione. Nelle pratiche politiche è importantissimo adottare un approccio intersezionale, perché non ci si può battere per i diritti delle persone LGBTI senza considerare le persone LGBTI migranti e/o disabili e, aggiungo, è controproducente impegnarsi per i diritti di una minoranza senza fare fronte comune.

Io: C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

C.F.: Sì, un altro aspetto importante da considerare è legato alla povertà, alla lotta di classe. E quando parlo di povertà ovviamente parlo di povertà economica, educativa, deprivazione materiale e affettiva. Noi che siamo meridionali lo sappiamo bene. In questo momento, tra le varie cose, mi sto occupando di una particolare forma di violenza di genere, che è la violenza domestica nelle relazioni con partner LGBTI ed è sconvolgente il numero di survivors senza fissa dimora, per cui non esistono servizi, né rifugi. Questo è un dato che come associazione conosciamo bene, ma supportare la ricerca vuol dire raccogliere dati e avere contezza di un fenomeno consente di fare pressione sul legislatore e di porre in essere politiche e servizi che tengano conto dei bisogni specifici.

Raccogliere informazioni è propedeutico alla creazione di una società più giusta. Poi credo sia importante che chiunque lo faccia (come te hai un blog, da poco ne ho aperto uno anch’io) per sensibilizzare in più ambiti possibili.
In conclusione vorrei dire che in questo momento di pandemia, è fondamentale più che mai non dimenticare tutte le persone che vivono ai margini, in spazi senza privacy e senza poter accedere ai paracaduti sociali, pensa alle sex workers senza cittadinanza.
Io sono senza dubbio una persona privilegiata sotto tanti punti di vista e, tra l’altro, posso dirti che oltre ai legami di sangue che lasciano il tempo che trovano se non coltivati, per molte persone queer come me la comunità diventa la tua famiglia. Quando sono stata a Malta per il periodo di ricerca etnografica non conoscevo nessuno, ma il fatto che fossi un’attivista mi ha fatto trovare lì una comunità che mi ha accolta come se mi conoscesse da sempre. Mi ritengo veramente una persona molto fortunata.

Non binarismo di genere, bisessualità e pansessualità: ne parlo con Davide Andrea Amato

Io: Ciao, Davide Andrea. Benvenuta e grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
D.A.: Grazie a te.

Io: Tu ti definisci trans, bigenere, non binaria. Mi spieghi cosa s’intende con gli ultimi due termini?

D.A.: Sì. Mi definisco bigenere perché non mi sento solo maschio o solo donna. Non binary perché sono sempre stata al di fuori di quello che la società ha proposto a livello di genere. Il bigenere è la compresenza di queste due mie parti. Non binary perché sono sempre state inserite dentro di me ma non come le intende la società.

Io: Quali altre categorie possiamo trovare sotto l’”ombrello” del non binarismo?

D. A.: Moltissime. Per esempio, le persone demigender, genderfluid, pangender, agender. Ci sono anche persone genderqueer. C’è anche chi si definisce solo trans. Vi rientrano tutte quelle sfumature lontane dal binarismo di genere, diverse per funzionalità ed espressività di chi le vive. Ci sono anche le persone genderflux, le persone intergender anche. La differenza tra i non binary e le persone transessuali conformi è che le persone transessuali binarie, seguono un percorso di transizione medicalizzata per riassegnare il proprio corpo al genere di elezione. Genere che è diverso rispetto a quello assegnato loro alla nascita. Hanno necessità, quindi, di modifica di tutto il fisico, anche della voce, per poter esternare tutto l’interno della propria persona. Invece le persone non binary spaziano in tutte le sfumature del genere, al di fuori del binarismo, e quindi non per forza necessitano di conformare l’aspetto esteriore al proprio genere di elezione. Molte infatti non ne avvertono la necessità, mentre altre ancora prediligono solo isolati interventi estetici oppure assunzione di microdosing ormonale. Le persone non binary fanno molta fatica ad essere concepite dalla società.

Io: Quanto è forte la discriminazione nei confronti delle persone enby anche all’interno della comunità Lgbt+?

D. A.: Purtroppo ancora tanta. L’ultimo episodio che mi è capitato di recente è stato all’interno di un gruppo Lgbt+. La mia richiesta di usare grammaticalmente l’asterisco o la u è stata vista come un capriccio, come il voler essere puntigliosa, un non volermi conformare. Molti gruppi si dicono inclusivi e invece termini come non binary risultano estranei. Alla mia semplice definizione deriva l’essere derisa, segue l’invalidazione. Il fatto di riuscire a parlare di me viene visto come voler essere al centro dell’attenzione. Questi sono solo alcuni esempi. La discriminazione avviene anche all’interno del mondo transessuale, da parte delle persone transessuali binarie che si sentono in diritto di dare patentini di persona trans solo a chi fa un percorso di medicalizzazione. Oppure deridono chi non rientra nella concezione canonica di transessuale. Per fortuna c’è anche massima apertura in certi ambienti in cui mi sento sicura. Vorrei chiarire che il termine femminile che considero per me è perché mi sento molto più vicina a questa parte della mia identità. Tuttavia ciò non si esaurisce nella concezione di essere solo femmina o solo donna. Per me è un bene che mi si pongano queste domande da parte di chi vuole mettere in discussione le proprie convinzioni. La discriminazione avviene all’interno delle comunità Lgbt+ perché ancora non si è raggiunta consapevolezza sulle diverse identità sessuali. Ci sono cis-etero, cis-gay, cis-lesbiche, cis-bisessuali alleati che fanno fatica ad uscire dal binarismo della cultura. Questo dimostra come la transfobia sia più trasversale rispetto all’omofobia. Lo stesso si può dire della bifobia. Non è detto che in un gruppo Lgbt+ ci sia inclusività. Purtroppo accade il contrario. Le persone non binary come me si trovano a vivere in una condizione di stigma doppio, triplo. Bisogna essere molto fortunati per trovare gruppi positivi e accoglienti.

Io: Cosa ne pensi del dibattito su asterisco, scevà e altre desinenze usate per cercare di usare un linguaggio più inclusivo?

D. A.: Penso sia molto importante. Finalmente una certa parte di comunità formata, da un decennio, da persone non binary cerca di portarsi avanti in modo inclusivo. Credo che l’uso sia dell’asterisco, sia della scevà sia della u possa essere importante dal punto di vista grammaticale. Molte persone si mettono in gioco con un immaginario della grammatica che mette insieme tutte le personalità che finora erano escluse. Non sarà un passaggio immediato, ci vorrà tempo. L’Accademia della Crusca e altre società di grammatica italiana contribuiscono al dibattito dimenticando che, dietro il bisogno di usare un linguaggio più inclusivo, vi sono delle persone, vi sono delle identità, vi sono dei vissuti. Sono contenta che questo dibattito ci sia. E’ importante, però, andare con i piedi di piombo e portare avanti ciò rispettando i tempi di assimilazione di chi per la prima volta vede questo tipo di processo.

Io: Qualche anno fa, in un’intervista sul blog Progetto genderqueer dell’attivista Nathan Bonnì, raccontavi il tuo percorso da ex etero Lgbt friendly fino alla scoperta dell’orientamento bisessuale. Oggi ti definisci, tra l’altro, trans e pansex. Quando è avvenuta quest’ulteriore scoperta sul tuo orientamento sessuale e identità di genere?

D. A.: Direi recentemente, negli ultimi tre anni. In realtà è stato un crescendo. Ho scoperto la mia bisessualità circa cinque-sei anni fa poi mi sono resa conto che quel termine era poco rappresentativo di quello che sentivo. Più andavo avanti nel mio bagaglio personale più mi rendevo conto che il termine utilizzato prima era sbagliato. Ancora oggi non ho chiaro quali siano i confini del mio orientamento sessuale per questo il termine pansessuale è molto più indicativo. Per quanto riguarda la parte trans, io ho sempre saputo di essere al di fuori del binarismo di genere. C’è stata una riscoperta, un susseguirsi di occasioni e opportunità, di incontri con soggettività che per la prima volta usavano il termine non binary. Questo ha fatto viaggiare pari passo la mia autodeterminazione con il mio attivismo. Sto usando ultimamente i termini non binary e pansessuale nel fare coming out. Voglio adesso essere me stessa, nel senso di descrizione, al 100%.

Io: Molti attivisti bisessuali si sentono tenuti fuori dal dibattito sul ddl Zan, per via del termine omotransfobia usato di più rispetto ad altri più inclusivi ma più lunghi. Condividi queste preoccupazioni o le consideri polemiche sterili?

D. A.: Condivido queste preoccupazioni perché il nuovo disegno di legge, che altro non è se non l’estensione di una precedente legge sulle discriminazioni razziali, di religione o etniche, ancora non è completo e fatto in modo tale da salvaguardare chiunque sia al di fuori dell’orientamento eterosessuale o al di fuori dell’essere solo uomo o solo donna. E’ ancora limitato e limitante. Non a caso è stato usato il termine omotransfobia escludendo la richiesta di chi voleva inserire la bi nel termine. In più, il decreto di legge non chiarisce quali siano esattamente i termini con i quali ci si può esprimere in modo contrario a tutto ciò che è al di fuori dell’orientamento eterosessuale e dell’identità di solo donna e solo uomo. Di questo si è discusso in molti gruppi. Quindi sono d’accordo con questo dibattito perché non è chiaro quali potrebbero essere le azioni discriminatorie compiute e messe in atto.

Io: Cosa ne pensi del dibattito tra chi vuole includere la pansessualità sotto il termine ombrello della bisessualità e chi, invece, vorrebbe distinguere i due termini?

D. A.: Penso che, come dire, personalmente, ma questa è una mia personale considerazione, indubbiamente, la bisessualità rispetto al passato ha, finalmente, una rappresentazione molto più inclusiva rispetto agli anni ’50. Ma non trovo utile che la pansessualità venga inclusa nella bisessualità almeno fino a che non ci siano molti più gruppi che aprano un dibattito, non di tifoseria, ma per ampliare le vedute affinché persone bisessuali e pansessuali possano collaborare perché si trovi un termine anche più inclusivo dei due. Tuttavia trovo interessante questo dibattito perché ci sono tante persone che preferiscono restare nel termine bisessuale mentre ce ne sono tante altre che preferiscono che il termine pansessualità non venga associato alla bisessualità.

Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

D. A.: Sì. Voglio invitare la maggior parte delle persone che leggeranno ad andare a ricercare pagine, canali, notizie, articoli e che si diano la possibilità di ampliare le proprie conoscenze sulla sessualità in generale e in particolare su chi si considera non binary. Ce ne è assolutamente bisogno in termini di comunità. E soprattutto di rispettare tutte le modalità con le quali ogni singola persona si autodetermina e autodefinisce. E soprattutto capire che non esistono solo persone trans medicalizzate e che le persone trans non vogliono siano date loro patenti di transessualità.

D. Q. 

Bandiera NB

Bandiera non binary (dal  sito http://www.transmediawatchitalia.info/

Bisexuality VS Pansexaulity | LGBTQ TEENS+ Amino(Dal web)

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Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo

di Alessandra Vescio

Il 25 luglio scorso, il giornalista Mattia Feltri ha dedicato la sua rubrica “Buongiorno” sul quotidiano La Stampa al tema dell’asterisco e dello schwa [ndr, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale], soluzioni di cui da anni si discute negli studi di genere e in linguistica nell’ottica di creare un linguaggio inclusivo. Sarcasticamente intitolato “Allarmi siam fascistə”, nel suo pezzo Feltri ha schernito le proposte, considerandole di difficile applicazione, uso e pronuncia, e ha attribuito la soluzione dello schwa a “un’accademica della Crusca” che ne avrebbe – a suo dire – parlato su Facebook.

Pochi giorni dopo, il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini ha inviato una lettera di risposta al direttore de La Stampa Massimo Giannini per fare alcune precisazioni: “La notizia che un’accademica della Crusca si sarebbe pronunciata a favore dell’utilizzo dello schwa e dell’asterisco […] è falsa in tutti i sensi”, non solo perché “la persona con cui Mattia Feltri polemizzava non è affatto accademica della Crusca” e non lo è “da parecchio tempo”, ma anche perché “nessun accademico […] ha sostenuto quelle tesi”, anzi in più occasioni l’istituzione ha manifestato la stessa linea espressa da Feltri. Concludendo con “Ci riserviamo di difendere comunque nelle sedi opportune il buon nome dell’Accademia”, il presidente Marazzini ha dunque criticato l’operato del giornalista in particolar modo per aver associato l’istituzione a una (ex) collaboratrice e alle sue tesi, ma ha anche fatto emergere una certa affinità con Feltri e non soltanto per le posizioni sulle questioni linguistiche. Com’è stato infatti fatto notare dalla scrittrice Carolina Capria e dalla giornalista e autrice Loredana Lipperini, né il Presidente dell’Accademia della Crusca né Mattia Feltri hanno fatto il nome della donna di cui stavano parlando, mostrando così non solo la volontà di dissociarsi da lei e dai temi di cui si occupa, ma anche di svilirne il lavoro e la dignità personale e professionale. Una posizione che l’Accademia ha ribadito anche in un post successivo, pubblicato il 3 agosto, in cui il Presidente Marazzini ha parlato di “disinvolta leggerezza” con cui La Stampa ha attribuito la qualifica di accademica a “persona che non aveva nessun diritto a tale titolo”.

Chi è del settore o conosce l’ambiente, ha capito presto che Marazzini e Feltri stavano parlando di Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice e docente universitaria, che – come ha tenuto a precisare nuovamente l’Accademia in un post con scopo di chiarimento – ha interrotto la collaborazione con l’istituzione nel 2019. Gheno, autrice di numerosi saggi di linguistica e comunicazione tra cui “Potere alle parole” e “Femminili singolari”, da tempo studia alcuni fenomeni linguistici molto dibattuti come il superamento del binarismo di genere e del maschile sovraesteso nella lingua italiana.

Il maschile sovraesteso

L’italiano è una lingua flessiva con due soli generi, il maschile e il femminile, e in caso di moltitudini miste prevede che si ricorra al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato: basta che un solo uomo sia presente in un gruppo numeroso, infatti, per declinare il plurale al maschile.

L’Enciclopedia Treccani, in un approfondimento sul rapporto tra genere e lingua, spiega i modi diversi con cui il maschile sovraesteso si applica nella lingua italiana: con il ricorso a termini maschili che indicano gruppi composti da uomini e donne (“i politici italiani”, per indicare donne e uomini in politica); con quella che viene definita “servitù grammaticale”, ovvero l’accordo al maschile in presenza di parole maschili e femminili (“bambini e bambine erano tutti stretti ai loro genitori”) o tramite l’utilizzo di espressioni fisse al maschile che possono però anche riferirsi alle donne (“i diritti dell’uomo”, per indicare “i diritti umani”). “Ancora più particolare”, prosegue Treccani, “è l’uso di termini, professionali e no, al maschile, quando il referente, noto e specifico, è donna”.

Dei nomina agentis (o nomi professionali) al femminile si discute in Italia da molto tempo: ne hanno parlato ad esempio Alma Sabatini, nel suo saggio “Il sessismo nella lingua italiana” nel 1987, e Cecilia Robustelli, nelle “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, sottolineando la validità linguistica e l’importanza politica di declinare al femminile le professioni svolte da una donna. In uno dei suoi ultimi lavori, anche Vera Gheno ha mostrato come da un punto di vista linguistico l’italiano ammetta e preveda la formazione dei femminili. Le forzature e le stonature che alcune persone dichiarano di percepire quando si declinano certi termini al femminile, perciò, non possono essere ricondotte a motivazioni grammaticali e morfologiche quanto a una questione di abitudine o a un fatto socio-culturale, per cui il ricorso al femminile – stereotipicamente considerato come più debole rispetto al maschile – porta a immaginare uno svilimento della carica o del ruolo professionale.

Se la lingua evolve, però, è perché la società in cui viviamo sta cambiando: fino a non molto tempo fa, infatti, la presenza delle donne era limitata in alcuni settori e posizioni lavorative, per cui la necessità di declinare i nomi delle professioni in maniera corretta non era così ampiamente diffusa. Oggi che invece ci sono molte più avvocate, ministre, sindache, assessore, chiamarle con il loro nome diventa un’affermazione di esistenza, oltre che un’operazione linguisticamente esatta.

Come fa notare poi Gheno nel suo lungo e articolato post di risposta al “Buongiorno” di Feltri, il maschile sovraesteso viene spesso confuso con il genere neutro, che però in italiano non esiste: la nostra lingua infatti, come si è detto, comprende solo due generi, il maschile e il femminile, motivo per cui si parla anche di binarismo linguistico.

Il binarismo di genere e il rapporto con la lingua

Il binarismo di genere è un concetto che deriva dai gender studies e riconosce l’esistenza di due sole categorie, uomo e donna, a cui sono associati ruoli e caratteri specifici: all’uomo corrisponde tutto ciò che nell’immaginario comune è considerato maschile, alla donna tutto ciò che è definito come stereotipicamente femminile.

Il binarismo di genere non ammette, dunque, l’esistenza di identità di genere altre rispetto a quelle di uomo e donna, rinnega la distinzione tra sesso e genere e si basa su preconcetti che ci portano a definire per esempio la forza e l’autorevolezza come tratti tipicamente maschili e la sensibilità e la predisposizione alla cura come caratteristiche femminili. Il sesso e il genere invece sono ormai anche a livello istituzionale concepiti come entità separate: il sesso è l’insieme di caratteristiche fisiche, biologiche e anatomiche che caratterizzano un individuo mentre il genere è un costrutto sociale, che cambia nel tempo e nello spazio, e riguarda i comportamenti che la società attribuisce a un determinato sesso (ovvero il ruolo di genere), ma anche la percezione che ciascuno ha di sé (l’identità di genere). Il superamento del binarismo implica la concezione del genere non più come una classificazione fatta da due soli elementi, bensì come uno spettro di più possibilità. Coloro che non si identificano nelle categorie uomo-donna, ad esempio, possono riconoscersi come persone non binarie. Anche le persone transgender, ovvero coloro che hanno un’identità di genere diversa rispetto al sesso assegnato alla nascita, possono non rivedersi nel binarismo; e lo stesso vale per le persone intersex, ovvero chi nasce con caratteristiche cromosomiche, anatomiche e/o ormonali che non possono essere definite rigidamente come maschili o femminili.

Negli studi di genere e in certi ambiti della linguistica, ci si sta dunque interrogando su come costruire un linguaggio inclusivo che tenga conto di tutte le soggettività.

Le proposte per un linguaggio inclusivo

Nel saggio “Femminili singolari”, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice effequ, l’autrice Vera Gheno propone – a suo stesso dire, in modo scherzoso – l’introduzione dello schwa, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale. Per fare un esempio, nella frase “Buonasera a tutti” rivolta a un gruppo misto di persone, si potrebbe sostituire il maschile sovraesteso espresso dalla desinenza “-i” con lo schwa e dire dunque “Buonasera a tuttə”. La pronuncia corrisponde a un suono vocalico neutro, indistinto, già presente in molti dialetti del centro e sud Italia.

A prendere spunto da questa riflessione è stata proprio la casa editrice effequ in un’altra delle sue pubblicazioni. In “Il contrario della solitudine”, scritto dall’autrice brasiliana Marcia Tiburi e tradotto da Eloisa Del Giudice, effequ ha infatti introdotto lo schwa in riferimento a una moltitudine mista. Nel testo originale Tiburi ha adottato una delle soluzioni più utilizzate dai movimenti femministi e dalla comunità LGBTQIA+ di lingua spagnola, ovvero sostituire la desinenza maschile “-o” e quella femminile “-a” con una neutra “-e”, scrivendo per esempio “todes” al posto di “todos”. Per mantenere la neutralità del linguaggio e rispettare la scelta politica dell’autrice, effequ ha perciò deciso di tradurre “todes” con “tuttə”.

Per quanto al momento lo schwa appaia come la soluzione più praticabile poiché si tratta di un fonema neutro, già esistente e applicabile, presenta anch’esso dei limiti. Come spiega infatti proprio Gheno in un articolo uscito su La Falla, magazine del Cassero LGBT Center di Bologna, lo schwa “non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer”, ma solo nella sezione dei simboli e caratteri speciali dei programmi di scrittura: conseguenza di ciò è che scrivere un testo con lo schwa può risultare piuttosto macchinoso. Inoltre, essendo un suono presente solo in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, può risultare difficile da comprendere e pronunciare per coloro che non conoscono e non parlano quei dialetti. Per provare a far fronte a queste difficoltà, è nata “Italiano inclusivo”, una piattaforma che ha lo scopo di promuovere l’introduzione dello schwa e superare il binarismo linguistico. “Italiano inclusivo” infatti offre diversi strumenti utili per conoscere, scrivere e pronunciare il fonema.

Nel frattempo, molte altre sono le proposte di cui si discute nell’ambito degli studi di genere, come l’asterisco o la vocale “-u” (che però in alcuni dialetti italiani indica il maschile). In una nota introduttiva al suo saggio “Post porno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali” (Eris Edizioni), ad esempio, l’autrice Valentine Wolf chiarisce che, “in un’ottica di inclusività”, nel testo si è preferito non ricorrere al maschile generalizzato ma utilizzare l’asterisco e la desinenza “-u”. Proprio pochi giorni prima dell’uscita del “Buongiorno” di Feltri in cui si è parlato dello schwa, anche la condivisione di questa nota sui social ha generato una serie di reazioni polemiche e sprezzanti.

Il linguaggio inclusivo negli altri paesi

Mentre l’Accademia della Crusca ha manifestato ritrosia nei confronti della presa in considerazione di soluzioni inclusive, in molti altri paesi il tema dell’inclusività e il rispetto delle soggettività sono centrali anche da un punto di vista linguistico. Nel 2019 il celebre vocabolario statunitense Merriam-Webster ha scelto il pronome “They” come parola dell’anno. Nella lingua inglese infatti si sta sempre più diffondendo l’uso di “they” e “them” come pronomi singolari, per riferirsi alle persone non binarie e che dunque non si riconoscono nei pronomi “he/him” (lui), “she/her” (lei).

In Svezia, invece, nel 2015 l’Accademia che ogni dieci anni aggiorna il dizionario ufficiale della lingua, ha introdotto il pronome neutro “hen”, da utilizzare in relazione a persone che non si identificano nel pronome maschile (“han”) o femminile (“hon”) o laddove non si voglia fare riferimento al genere di qualcuno. Per quanto riguarda la Germania, dove il dibattito è da tempo molto acceso, il ministero della Giustizia ha di recente invitato gli uffici pubblici a utilizzare un linguaggio neutro nelle comunicazioni ufficiali. E ancora, nello spagnolo, oltre alla già citata desinenza “-e”, si sta diffondendo l’uso del simbolo “-@” e della lettera “-x” per sostituire il maschile generalizzato.    

Una nuova esigenza sociale

Ogni scelta linguistica è una scelta politica”, ha scritto la giornalista Jennifer Guerra nel suo saggio femminista “Il corpo elettrico” (edizioni Tlon). In una vera e propria “Nota alla traduzione”, infatti, l’autrice parla della necessità di un continuo confronto che durante la stesura del libro, proprio come fa di solito chi traduce un testo, ha dovuto mettere in atto con il linguaggio e con le parole, affinché la complessità potesse essere raccontata al meglio.

Di complessità ha parlato anche la stessa Vera Gheno nel suo intervento a “Prendiamola con filosofia”, evento organizzato dall’Associazione Tlon il 23 luglio scorso. “Saper vivere la complessità del presente”, infatti, è una delle competenze che la linguista definisce essenziali per essere pienamente cittadini, da aggiungere a “saper leggere, scrivere e far di conto”, menzionate da Don Milani. Saper vivere la complessità del presente vuol dire, secondo la studiosa, anche riconoscere il cambiamento e provare curiosità nei suoi confronti, anziché rifiutarlo a priori. Proprio le discussioni attorno allo schwa, continua Gheno, testimoniano che qualcosa attorno a noi si sta muovendo: “C’è una nuova esigenza sociale alla quale la lingua sta cercando di stare dietro”, ha detto la studiosa, e ha aggiunto che se una lingua viva continua a creare parole nuove è perché “la realtà continua a cambiare”.

Immagine in anteprima via breezy.hr

 

Fonte:

https://www.valigiablu.it/linguaggio-inclusivo-dibattito/

 

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SPAZZA L’ODIO – per la legge contro omotransfobia e misoginia

6 Luglio 2020

Sabato 11 luglio alcune piazze italiane saranno occupate da chi vuole “restare libero” di discriminare e seminare odio, opponendosi al disegno di legge contro l’omotransfobia e la misoginia.

Noi vogliamo invece riempire il web di colori e messaggi positivi con un grande evento diffuso che coinvolga piazze virtuali e reali.

Durante l’intera giornata, in particolare dalle ore 11:00 alle ore 17:00 di Sabato 11 Luglio, ti invitiamo a pubblicare su facebook, instagram e twitter una foto, un piccolo video, un tuo contributo che ci aiuti a “spazzare l’odio” da questo Paese utilizzando gli hastag: #spazzalodio #davocealrispetto.
Libera la tua fantasia e scegli la modalità migliore per comunicare a tutte e tutti la necessità di spazzare via dal nostro paese l’odio omotransfobico e misogino.

Se siete un’associazione, un gruppo di amici, un’organizzazione o un collettivo vi invitiamo ad organizzare flash mob nella vostra città o paese (nel rispetto delle norme di distanziamento e di sicurezza), realizzare fotografie o piccoli video da pubblicare in rete con gli hashtag #spazzalodio#davocealrispetto, usando i cartelli della nostra campagna.

Se decidete di annunciare il flashmob pubblicamente, vi chiediamo di comunicarci quanto prima luogo, ora ed eventuali eventi pubblicati sui social network per poterli promuovere anche sui canali della campagna.

Trovate i materiali della campagna sulla home page del nostro sito www.davocealrispetto.it

L’approvazione di una buona ed efficace legge contro l’omotransfobia e la misoginia dipende anche da noi. Mobilitiamoci tutte e tutti insieme per fare un importante passo di civiltà.

(ELENCO IN CONTINUO AGGIORNAMENTO)

→ROMA←

La piazza di Roma organizzata da AGEDO ROMA – NO all’omotransfobia:

Sabato 11 ore 11

presso piazza del Pantheon Roma

→VICENZA←

La piazza di Vicenza organizzata dal Vicenza Pride:

Sabato 11 alle ore 11:30

presso Piazza Matteotti Vicenza

→VARESE←

L’iniziativa fotografica organizzata da Associazione Cuori InVersi – Circolo ARCO

dal 5 all’11luglio alle ore 17

presso Il Salotto Viale Belforte 178

→CREMONA←

Il turno di Cremona, organizzata da Arcigay Cremona La Rocca:
Domenica 12 luglio alle ore 18

presso Piazza Roma

→LIVORNO←

L’iniziativa organizzata da Agedo Livorno-Toscana e L.E.D. Arcigay Livorno

Sabato 11 luglio 2020 alle ore 11

presso Terrazza Mascagni

→BRESCIA←

L’iniziativa organizzata da Arcigay Orlando Brescia

Sabato 11 luglio dalle ore 17 alle 18

presso Campo Marte via Ugo Foscolo

→PADOVA←

L’iniziativa organizzata da Arcigay Tralaltro Padova

Sabato 11 lug alle ore 11:00

Venerdì 14 set alle ore 13:00

presso Palazzo Moroni, Via VIII Febbraio

→TARANTO←

L’iniziativa organizzata da Arcigay Strambopoli – QueerTown

sab 11 luglio dalle ore 18:00 alle 21:30

presso Piazza Maria Immacolata

→BERGAMO←

L’iniziativa organizzata da Bergamo Pride

Sabato 11 luglio alle ore 17:00

presso Piazza Pontida

→PALERMO←

L’iniziativa organizzata da Ali d’aquila – persone cristiane LGBT

Sabato 11 luglio dalle ore 11 alle ore 13:30

presso Via Generale Magliocco

 

 

 

Fonte:

https://www.davocealrispetto.it/2020/07/06/spazza-lodio-per-la-legge-contro-omotransfobia-e-misoginia/

 

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Riflessioni sull’uso dei termini “eterofobia” e “cishet”.

(Immagine presa dal web)

Il 27 luglio prossimo approderà alla Camera il ddl Zan,  disegno di legge in materia di prevenzione e contrasto alle discriminazioni per orientamento sessuale, identità di genere e genere. Per saperne di più potete leggere il seguente articolo, in cui è anche contenuto il testo unificato del ddl:

http://www.gaynews.it/2020/06/30/ddl-omofobia-sblocca-stallo-zan-deposita-testo-unificato-commissione-giustizia/

Questa legge è sostenuta da una campagna nazionale dal titolo  Da’ voce al rispetto! alla quale tante associazioni e singoli (tra cui la sottoscritta) hanno aderito e continuano ad aderire. Trovate la campagna a questo link

https://www.davocealrispetto.it/

e potete seguirla anche sui social.

All’immediata depositazione del ddl, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha commentato chiedendo che fosse presentata anche una legge contro l’eterofobia. Qui potete leggere le sue dichiarazioni:

https://www.lapresse.it/politica/salvini_ddl_omofobia_allora_presentiamo_anche_legge_contro_eterofobia-2749188/news/2020-07-01/
A quest’evidente provocazione, in tanti hanno risposto sul web in modo più o meno indignato e/o ironico. Fra tutti segnalo il video ironico contro l’eterofobia dell’attore Paolo Camilli che – a proposito di libertà d’espressione – è stato prontamente censurato da Facebook. Potete vederlo a questo link:

https://www.gaypost.it/video-eterofobia-paolo-camilli-facebook-oscurato

Ora, – al di là delle ovvie considerazioni sul perché non si possa pensare che una persona eterosessuale e/o cisgender sia picchiata o uccisa per strada; cacciata di casa; dal lavoro;  le venga negato l’affitto o una vacanza; sia condannata al carcere o alla pena di morte dal governo del proprio paese; le venga negato di sposarsi e avere figli;  subisca stupri correttivi o altri tipi di torture fisiche e/o psicologiche, ecc., a causa della propria eteronormatività  – ci sarebbe chi spingerebbe la questione su di un altro piano. C’è chi avanza l’ipotesi di possibili forme di razzismo al contrario e a tal proposito si avvale di un altro termine, stavolta usato all’interno della comunità Lgbtqia+: il termine cishet. Si tratta di un aggettivo che dovrebbe essere solo un’abbreviazione di cisgender ed eterosessuale ma assume una connotazione negativa qualora sia usato come sinonimo di persona di genere maschile, bianca, eterosessuale, cisgender e borghese. Chi sottolinea quest’accezione lo fa perché considera ciò una forma di razzismo.

Ora, pur provando a comprendere il ragionamento che sarebbe alla base di tale pensiero, non condivido il concetto di razzismo nel significato che si vorrebbe dare in questi casi.  Il termine “cishet”, nonostante possa, talvolta, assumere una connotazione negativa, non credo implichi una qualche forma di razzismo. Considerare qualcuno come privilegiato, anche se lo si fa sulla base di categorie che la persona privilegiata non può aver scelto, comporta un pregiudizio nei confronti di tale persona ma che non chiamerei razzismo. Il concetto di razzismo si basa su una presunta superiorità di un modo di essere su di un altro. Chi è razzista si considera superiore a chi è diverso e questa sua idea può assumere tante sfaccettature fino ad arrivare alla violenza estrema nei confronti del diverso causata da sentimenti di odio. Chi considera un altro come privilegiato rischia di attribuire all’altro delle colpe che potrebbe non avere, sulla base del pensiero pregiudizievole che chi nasce privilegiato possa approffittarsi sempre e in ogni modo del suo privilegio, lasciando indietro chi questo privilegio non c’e’ l’ha. Questo è un pregiudizio ma non credo possa essere considerato come una forma di razzismo al contrario. Chi sente questo pregiudizio non si considera superiore all’altro né prova odio nei suoi confronti, o almeno non una forma d’odio particolarmente violenta. Questo perché alla base di questo tipo di pregiudizio sta il fatto di vivere sulla propria pelle una serie sistematica di discriminazioni dovute ad una condizione di diversità rispetto ad una presunta normativita’. Tale pregiudizio non esisterebbe se, appunto, non ci fossero categorie sociali privilegiate e ogni tipo di condizione fosse considerata da tutti ugualmente dignitosa. Concludo, dunque, affermando che l’omolesbobitransfobia è una forma di razzismo e l’eterofobia, se e nella misura in cui esista, non lo è.

 

D. Q. 

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17 maggio, giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia: la campagna di Arcigay Rete Donne Transfemminista

Dalla pagina Facebook di Arcigay Rete Donne Transfemminista:

Per celebrare il #17maggio abbiamo scelto storie d’odio per raccontare #omofobia#lesbofobia#transfobia#bifobia e #afobia esattamente nelle forme in cui le incontriamo, tutti i giorni, nella realtà. Le cinque storie sono tratte dalla cronaca degli ultimi 12 mesi, mostrano l’attitudine dell’odio a cambiare forma, sembianze, linguaggio, attori, occasioni. Ma sempre odio resta, anche quando chi lo pratica lo rivendica in nome di una fraintesa libertà, quasi fosse un diritto.

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https://www.facebook.com/retedonnetransfemminista/

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La marcia trans nel nome di Hande Kader

Hande Kader era diventata l’icona del movimento lgbt in Turchia. I fotografi l’avevano immortalata al gay pride dell’estate 2015, a Istanbul, mentre resisteva alla repressione della polizia: una giovane transessuale di 22 anni contro l’«ordine» del sultano Recep Erdogan, che non tollerava quel genere di manifestazione blasfema nel mese del Ramadan. Lo scorso agosto è stata uccisa, in circostanze non ancora chiarite e che difficilmente si chiariranno. A lei è idealmente dedicata la Trans freedom march, il corteo per i diritti e le libertà delle persone transessuali, giunto alla terza edizione, che attraverserà oggi pomeriggio le strade di Torino (partenza ore 16,30 da Piazza Vittorio Veneto).

La manifestazione è solo l’evento principale fra una serie di appuntamenti che si svolgono nel capoluogo in occasione della giornata internazionale in memoria delle vittime della transfobia: ad organizzare è il Coordinamento Torino pride, con patrocinio di comune e regione (oggi sfilerà anche la sindaca 5stelle Chiara Appendino con famiglia e fascia tricolore»), e con il supporto di Cgil, Cisl e Uil.

Lo stesso drammatico destino dell’attivista turca è stato condiviso,fra ottobre 2015 e settembre 2016, da altre 294 persone in tutto il mondo, come rilevato nel rapporto stilato da Transgender Europe, rete internazionale per i diritti delle persone trans. Il primato lo detiene il Brasile, seguito da Messico e Stati Uniti. Nel Vecchio continente la macabra classifica è guidata da Italia e Turchia, con 5 morti violente in ciascun Paese. Statistiche che riguardano solo gli omicidi accertati, e dunque che vanno arrotondate per eccesso.

Dal 2008, cioè da quando si celebra il giorno della memoria delle vittime della transfobia, le morti violente di cui si è avuta notizia sono state 2264: anche nel computo assoluto gli stati europei dove la situazione è più grave sono gli stessi, Turchia (44 vittime) e Italia (32). Proprio alla situazione in questi due Paesi è dedicato il convegno in programma domattina (ore 9,30 Museo della Resistenza), che vedrà la partecipazione di due esponenti dell’organizzazione lgbt turca Pembe Hayat e dell’eurodeputato Daniele Viotti (Pd).

Obiettivi della violenza omicida – rivelano i dati di Transgender Europe – sono nella stragrande maggioranza dei casi le persone trans che si prostituiscono. E i più indifesi tra gli indifesi, in un intreccio di transfobia e razzismo, sono i migranti: in Europa, gli stranieri sono un terzo di tutte le vittime conteggiate dal 2008.

Nei nomi di Hande Kader e delle altre 294 trans uccise che verranno letti al termine del corteo torinese risuonerà forte la richiesta di giustizia, ma anche la ribellione alle discriminazioni, nella Turchia di Erdogan come ovunque. Non solo: la memoria delle vittime sarà anche rivendicazione orgogliosa della propria identità, contro chi riduce le vite delle persone trans a «devianza» da compatire, a malattia da curare o a fenomeno da baraccone.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/la-marcia-trans-nel-nome-di-hande-kader/

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