Informazioni su Per un'informazione libera

Sono Donatella Quattrone. Sono una blogger da alcuni anni . Mi sono occupata prima di cultura generale e poi di controinformazione ( se preferite, vera informazione o informazione alternativa). Avevo un blog su splinder prima che la piattaforma chiudesse. Poi sono passata a iobloggo con http://parolenude.iobloggo.com/ e in seguito a blogspot con il blog http://donatellaquattrone.blogspot.it/ Per problemi tecnici ho abbandonato prima una poi l'altra piattaforma. A febbraio del 2014 sono approdata a altervista.

Sex toys: ne parlo con Alberto Santin, proprietario di una sexy boutique

 

Il testo ha una notte sexy in un gancio di porta(Dal web: immagine libera da diritti)

 Io: Ciao. Grazie per aver accettato quest’intervista. Tu hai una sexy boutique. Come sei arrivato a questa professione e da quanto tempo la svolgi?

 A.: Ho la sexy boutique da 23 anni, da 5 è sexy boutique, prima era il classico sexy shop con video e abbigliamento; ora il video non va più e l’abbigliamento è diventato troppo settoriale, quindi ho fatto la scelta di avere una sexy boutique e di vendere solo toys alta gamma. Ho sempre amato l’autoerotismo e la masturbazione e il suo mondo. Mi sono documentato. Ho fatto corsi e visto mostre poi ne ho fatto un lavoro.

Io: Quanto è forte il pregiudizio nei confronti dei sex toys, di chi li produce, commercializza e ne fa uso?

A.: Fortunatamente sta prendendo piede sempre più la consapevolezza del proprio corpo e con essa anche la scoperta del piacere sessuale. L’autoerotismo è una cosa normale e fortunatamente sempre più donne riscoprono il piacere di trovare una intimità verso sé stesse. I pregiudizi sono più da parte “maschile” in quanto la masturbazione viene vista ancora una “roba da sfigati”. A volte capita poi che gli stessi uomini non accettino di buon grado il fatto che le proprie compagne si masturbino da sole (se proprio deve essere almeno che ci sia io a guardare), lo vedono un po’ come un tradimento. Non ti basto io? Come ultima cosa devo dire che c’è un po’ di reticenza e vergogna da parte delle ragazze più giovani. Ma questo credo sia anche normale…

Io: Quanti tipi ne esistono? Sono adatti a tuttx o ci sono differenze per genere e/o tipologia d’uso?

A.: Di sex toys c’è un vero e proprio mondo. Si parte da quelli vaginali, i classici dildo, per poi passare a quelli clitoridei che possono essere massaggianti o di altro tipo. Ultimamente va molto il womanizer che è una specie di succhiaclitoride. Ci sono poi i toys anali. I plug in che sono fatti a forma di goccia e servono a stimolare l’ano ma anche a “giocare”. Spesso vengono inseriti nell’ano prima di masturbarsi o di avere un rapporto sessuale. Ci sono poi le palline che possono anche servire da “ginnastica vaginale” per migliorare il pavimento pelvico. Poi ci sono anche quelli radiocomandati dal partner. Vanno inseriti in vagina e lasciati li.  Sta poi al partner stesso “decidere” quando la propria partner deve avere un brivido. E molto altro ancora… Ultimamente sono usciti anche degli innovativi succhiacapezzoli che stanno riscuotendo un discreto successo…

Io: La gente, di solito, preferisce acquistarli in un negozio, magari facendosi consigliare, o su internet, senza essere visti da nessuno?

A.: Qui mi trovo ad essere l’oste che vende il proprio vino… È normale che dica in negozio. Tuttavia non ho preconcetti verso chi compra in internet. Se una persona sa bene cosa vuole. Il problema è che spesso chi compra in internet lo fa un po’ per imbarazzo se giovane o alle prime armi e un po’ per risparmiare. Sul primo discorso è ovvio che se sei “neofita” nel mondo dei toys come in ogni ambito il rischio è quello di prendere un oggetto che non soddisfa le tue esigenze e per esperienza posso dire che chi compra per la prima volta nella maggior parte dei casi rimane deluso e qui mi allaccio al secondo motivo. Purtroppo in Italia non c’è nessuna regola per quanto riguarda i materiali usati al contrario ad esempio dei giocattoli per bambini che non possono essere prodotti con plastica tossica (derivata ad esempio dal petrolio). Ecco che si potrebbe acquistare un dildo di materiale sconosciuto a rischio della propria salute. Il consiglio è sempre acquistare da siti affidabili e soprattutto da aziende leader del settore. Poi un piccolo trucco è: quando si acquista un toy annusarlo ed assaggiarlo. Se si sentono odori o sapori strani diffidare. Se proprio si vuole usarlo almeno mettere un condom al toy.

Io: Quale/i sex toy/s consiglieresti a chi si avvicini per la prima volta a questo mondo?

A.: Impossibile consigliare a chi si avvicina per la prima volta. Ogni corpo umano è diverso e reagisce alle stimolazioni, anche sessuali, in maniera diversa. C’è chi raggiunge l’orgasmo con la sola stimolazione dell’ano o dei capezzoli. Non dobbiamo confondere la sessualità con la genitalità. Il percorso per trovare piacere può essere diverso per ognuno di noi. Ci vuole tempo e conoscenze. Un vero professionista in questo può aiutare molto. E un più di venti anni in questo ho avuto molte soddisfazioni.

Io: Come riconoscere dei prodotti di qualità?

A.: È la cosa più difficile. Come già detto, purtroppo, non esiste una legislazione in merito. Chiunque può “inventarsi” produttore. Ecco nascere ad esempio quelli che io chiamo i “tupperware del sesso”. Le famose valige rosse, rosso limone etc. Riunioni a casa di amiche da fantomatiche “esperte del piacere e della salute” che magari fino alla settimana prima lavoravano per AVON o Stanhome. Non si capisce come possano avere questa professionalità. Loro diranno che fanno dei corsi e che se ci sono problemi loro hanno dei “supervisori esperti”. In realtà se si entra nel vero dettaglio e si fanno domande che esulano da quelle classiche per le quali sono preparate casca il palco. Il problema è che per la maggior parte delle “potenziali clienti” non c’è nessuna competenza. Meglio affidarsi a un professionista.

Io: Cosa fare per pulirli e conservarli correttamente?

A.: Pulirli è la cosa più semplice. Nella quasi totalità, essendo fatti di silicone o vinile o plexiglass o acciaio, basta un po’ di acqua e sapone. Ovviamente se c’è qualche componente elettronica meglio non immergere mai completamente in acqua. Evitiamo soluzioni alcoliche.

Io: Qual è la tua esperienza personale sui sex toys?

A.: Se scendiamo nel personale ti dirò che amo masturbarmi. I toys che preferisco tuttavia sono quelli che stimolano ano e perineo. Durante la masturbazione soprattutto quando sono solo mi piace molto sentire stimolato l’ano. L’importante è che il toy non sia troppo rumoroso in quanto questo un po’ mi disturba.

Io: Hai mai testato un prodotto nuovo prima di venderlo e, eventualmente, consigliarlo ax tuox clientx?

A.: La mia clientela è fatta per la quasi totalità di donne quindi potrei riferire di esperienze fatte giocando con partner, tuttavia, come già detto, ogni donna è diversa, quindi preferisco sia lei ad aprirsi a me in fatto di esigenze o esperienze passate per poter meglio consigliare.

Io: Grazie per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

D. Q.

Intervista ad un drag king

Rivestimenti del ` s degli uomini Smoking con i baffi, i vetri, la barba, il tubo ed il cilindro Vestiti di Weddind con il farfal(Dal web: immagine libera da diritti)

Ciao, Nat Tasha. Grazie per aver accettato quest’intervista.

Ciao Donatella, grazie a te.

1) Tu sei una make up artist e drag king. La tua esperienza di performer nasce come un’evoluzione dell’attività di artista o le due cose sono sempre state interconnesse e andate di pari passo?

Penso siano sempre state interconnesse, sono sempre stata una bambina fuori dagli schemi, sceglievo spesso giochi e abiti maschili, senza un motivo specifico, semplicemente perché mi piacevano di più, io da piccola non me ne preoccupavo molto, ma questo agli occhi degli altri mi rendeva “ambigua” e per questo ho sempre fatto fatica ad identificarmi in un gruppo. Crescendo, ho intrapreso degli studi artistici, che mi hanno portato a focalizzarmi sullo studio di artisti “trasformisti”, mi sono sentita parte di quel gruppo e grazie a loro ho iniziato a capire che potevo dare una forma alla mia “ambiguità”, una forma d’arte, ne ho sentito l’esigenza, così nel tempo, certo non senza difficoltà, ho trovato il modo di esprimermi, dapprima con delle foto, sperimentando il trucco e cercando di riconoscerne la mia identità, poi nel 2007 uscendo allo scoperto o meglio, dicevo alle mie amiche “oggi esce Nat” e andavo in serata con il mio lato maschile e poi, attraverso le performance, il teatro e tutto ciò che offre il mondo dell’arte, ho continuato a giocare con il mio lato maschile e quello femminile Nat e Tasha appunto e tutte le loro sfaccettature.

2) I drag king sono meno conosciuti rispetto alle drag queen, almeno in Italia. Secondo te, perché? All’estero è diverso?

Secondo me, culturalmente siamo più abituati a vedere uomini che interpretano donne, anche perché per molti anni le donne non potevano recitare e quando poi hanno iniziato, certamente non potevano fare ruoli maschili, quindi la donna che interpreta l’uomo è arrivata molto tardi in teatro, ma anche nei libri non se ne parla molto. Oggi nel cinema, in tv, se ne vedono ancora poche, se ne parla di meno e se ne vedono meno, quindi sono meno conosciute, anche se iniziano ad essere più presenti. 

Il drag king poi è una forma d’arte meno evidente rispetto alla drag queen, all’estero sicuramente ce ne sono di più, li vediamo anche in alcuni Programmi o Serie Tv e alcuni sono anche più spettacolari, in Italia siamo in pochi e abbiamo meno modo di farci notare nei locali e nei teatri.

3) Le performance dei drag king hanno a che vedere solo con identità di genere/orientamento sessuale o anche con gli stereotipi sul genere?

Penso abbiano a che vedere con tutto il mondo maschile, ma anche femminile e non solo. Ho visto performance e anche conosciuto diversi drag king che interpretavano svariati ruoli, da chi tendeva a stereotipare l’uomo virile e forte, talvolta imitando anche personaggi famosi, a chi sceglieva di stare tra la metà uomo e la metà donna e a chi invece, in chiave sempre performativa, mostrava il seno o i bendaggi per il seno, i genitali veri o finti, usando la provocazione o l’ironia, sempre cercando comunque di esprimere la propria identità o di mandare un messaggio o di creare una mera spettacolarizzazione. 

4) I modelli maschili impersonati in un drag king show sono più spesso figure maschili dominanti o socialmente marginali?

Anche solo pensandolo, se ti dicessi, “ok ora fallo come lo farebbe un uomo”, il passaggio dal femminile al maschile apre una serie di porte, ci si sente in un certo senso più liberi, di poter dire o fare, ci si prende lo spazio con i piedi ben saldi a terra e per questo forse c’è la tendenza a pensare che si debba interpretare una figura maschile dominante, ma poi effettivamente come ogni uomo ha la sua identità, ogni drag king con la sua fisicità, il suo carattere e la sua personalità, si ritrova in uno o più personaggi, li fa suoi e li racconta in una o più storie.  

Personalmente Nat c’è sempre stato per me, ho un corpo minuto e atletico e un viso abbastanza mutevole, ho sempre giocato con le espressioni e con la mimica, quindi mi riconosco in personaggi che passano dall’essere un po’ vivaci e “twink” all’essere un po’ enigmatici e folli.

5) Il momento del travestimento è incentrato in modo particolare sull’abbigliamento, sul trucco e l’applicazione di barba o baffi finti oppure c’è anche un lavoro di destrutturazione del corpo?

Il travestimento, mutamento o trasformismo è un momento per me molto intimo ed evolutivo, mentre mi trucco inizio un lavoro mentale che mi porta a riconoscere l’arrivo di Nat con le sue caratteristiche e inevitabilmente la mimica del mio volto in un certo senso cambia, i movimenti del corpo, la postura, come se fossi in un’altra pelle. All’inizio davo molta importanza al nascondere il seno, invece ultimamente ha iniziato a non essere più un peso, talvolta posso anche non mettere baffi o barba se sento che può essere completo con pochi elementi, altre volte invece ho bisogno di tutto. Faccio ancora fatica a dargli una voce, forse perché in generale la uso poco e questo mi porta a trattenere una certa timidezza. 

Nat cresce con me come tutti i miei personaggi consolidati negli anni, li nascondo nel mio essere ibrido e quando serve li tiro fuori con tutto il lavoro di metamorfosi di cui hanno bisogno.

6) Quanto c’è di “politico” nell’essere un drag king?

Ho sempre pensato alla performance come uno spettacolo estetico visivo che può/deve però anche raccontare qualcosa e mi è sempre piaciuto cercare di fare performance che potessero trasmettere un messaggio più che politico, sociale, in difesa dei diritti LGBTQ+ e delle diversità, trattando varie tematiche annesse, a volte creando una storia personalmente e altre invece prendendo in prestito canzoni particolari o ispirandomi a personaggi dei film/libri.

7) Hai mai avuto difficoltà a far accettare il tuo lavoro ad un* eventuale partner?

Per fortuna no, mi hanno sempre tutte accettato per come sono, e anzi la mia attuale partner mi sostiene e incoraggia sempre, ormai conosce tutti i miei “personaggi” o quasi…

8) Ti esibisci da sola o in gruppo?

Per un bel po’ di anni mi sono esibita insieme ad un’altra ragazza, ci chiamavamo Nat&Rust “Funny Drag King”, le nostre performance erano di carattere spesso comico con un sottofondo sempre di attivismo, ci è capitato anche di performare insieme ad altr* artist*, e insieme ci siamo guadagnate il secondo posto al primo Festival Drag King di Roma.

Dopo un periodo diciamo di pausa o più crisi artistica, ho ripreso ad esibirmi da sola vincendo il terzo posto al Miss Drama Queen e ultimamente ho iniziato a collaborare con alcune drag queen. 

Ho un carattere solitario, ma sono sempre aperta alle collaborazioni, mi caricano di energia, mi fanno crescere e mi permettono di sperimentare.

9) Da chi è composto solitamente il pubblico di un drag king show?

Mi sono spesso esibita durante le serate o eventi queer di diversi club milanesi (Glitter, Toilet…) quindi un pubblico friendly, misto per età, sesso e genere.

10) C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista?

Ti ringrazio per avermi coinvolto in questo progetto e spero di poter essere stata d’aiuto a tutti i giovani Drag King.

Io: Ti ringrazio per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

Grazie ancora a te.

Natascia (Nat Tasha) Lapiana
Artist & Make Up Artist
 *
D. Q. 
What do you want to do ?

New mail

Disabilità ed abilismo: ne parlo con Elena e Chiara del blog “witty_wheels”

flag (2)

flag (1)

bandiera del Disability Pride creata nel 2019 da Ann Magill

 

Ciao, Elena e Chiara. Vi ringrazio per aver accettato quest’intervista.

1)    Sui social vi fate chiamare witty_wheels e trattate i temi della disabilità e del contrasto all’abilismo. Com’è nato il vostro progetto?

Essendo sorelle ed entrambe disabili abbiamo sempre avuto il privilegio di poter discutere e decostruire insieme le nostre esperienze specifiche di persone in carrozzina, quindi abbiamo semplicemente pensato di cominciare a mettere per scritto i nostri pensieri e appunto esperienze. Il blog è nato nel 2015 parallelamente allo studio autonomo sui Disability Studies e sul lavoro di attivisti soprattutto inglesi e americani.

2)    Come spieghereste il termine abilismo a chi lo sentisse per la prima volta?

È il sistema di oppressione verso le persone disabili in cui tutti siamo immersi: comprende lo stigma, la discriminazione e la violenza. In soldoni è l’equivalente del razzismo, è strutturale quindi può avere mille forme. Il termine inglese è ableism, ed è una visione del mondo in cui avere un corpo-mente non disabile è valutato positivamente e in cui la disabilità è un difetto invece che un aspetto della varietà umana.

Qualche esempio per essere più concreti: quando completi estranei per strada danno i buffetti alle persone disabili (molestie abiliste) o quando chi seleziona il personale fa un colloquio a una persona disabile e non la assume per quel motivo. L’inaccessibilità di edifici, trasporti, eventi, eccetera. Il sistema dei servizi sociali che fa sì che sia più semplice trovare assistenza per le persone disabili in strutture chiuse o centri diurni che con servizi che permettano loro di vivere in modo indipendente all’interno della società (ad esempio l’assistenza personale).

3)    Oltre alle barriere architettoniche, quali altre difficoltà ricorrenti le persone disabili si trovano a dover fronteggiare quotidianamente?

Proviamo a fare un quadro in poche righe. Si può parlare di una vera e propria segregazione delle persone disabili. C’è il problema dell’accesso agli spazi e all’informazione, quindi anche delle barriere sensoriali, e ci sono molte limitazioni nell’accesso al trasporto pubblico. Poi in generale le persone disabili hanno bisogni specifici (software, carrozzine particolari, veicoli attrezzati, ausili di vario tipo) che spesso devono essere pagati di tasca propria. Questo si traduce in varie spese extra, infatti la disabilità è spessissimo un fattore di impoverimento. Le persone non autosufficienti poi hanno bisogno di assistenti personali che le aiutino nelle azioni quotidiane e – nella quasi totale ignoranza dell’opinione pubblica – i fondi non sono minimamente sufficienti e la maggior parte delle persone riceve poche ore di assistenza o è costretta a vivere in struttura con gravi limitazioni della libertà o a farsi assistere da familiari, amici o partner. A questo possono aggiungersi la discriminazione a scuola, al lavoro, nei luoghi di divertimento. I tassi di occupazione sono molto bassi per le persone disabili, ed è difficile accedere all’istruzione superiore sia per la scarsità di fondi per assumere assistenti sia per altri bisogni che non vengono soddisfatti dalle università. Anche le persone con le cosiddette “disabilità invisibili” faticano molto a vedersi riconosciuti i propri diritti e bisogni. Queste sono alcune delle difficoltà concrete, poi ovviamente la segregazione fa sì che siano ancora forti i pregiudizi di vario tipo verso le persone disabili, anche se in questo senso le cose stanno lentamente migliorando.

4)    Cosa s’intende per abilismo interiorizzato?

Le persone disabili ricevono dei messaggi forti e costanti dalla società, e possono finire per crederci. Ad esempio l’idea di essere un peso e un disturbo per i propri amici, familiari e partner, che porta le persone disabili a scusarsi perché magari sono più lente. O il pensare di non essere dei partner validi, e quindi di doversi “accontentare”, cosa che porta ad essere potenzialmente più vulnerabili agli abusi. Le difficoltà oggettive a realizzarsi nel lavoro o nello studio (a causa degli ostacoli sociali) possono portare a credere che non ci si riesca per cause intrinseche alla disabilità. Sono solo alcuni esempi di abilismo interiorizzato e se ne può uscire solo prendendo consapevolezza delle oppressioni intorno a noi e attraverso un confronto con altre persone disabili.

5)    Spesso si tende a voler “normalizzare” le persone disabili pensando che questo sia inclusione. Secondo voi, in che modo si potrebbe rendere visibile la disabilità per quello che è, cioè senza edulcorarla, riconoscendone l’intrinseca dignità?

Lasciando parlare le persone disabili: sembra banale, ma ancora non viene fatto a sufficienza. Troppo spesso infatti non vengono messe al centro le voci delle persone disabili sulle questioni che le riguardano. Quando le opinioni delle persone disabili verranno valutate di più potremo avere davvero un dibattito serio e consapevole. Anche la rappresentazione sui media fa tantissimo: finché le persone non disabili credono che la disabilità sia quella di libri come “Io prima di te” (largamente criticato dagli attivisti disabili) non possiamo evolverci più di tanto. Dobbiamo fare in modo che le persone disabili raccontino le proprie storie e essere scettici di chiunque parli al posto loro.

6)    Cosa s’intende con il termine inspiration porn?

Sono immagini o storie che oggettificano le persone disabili cercando di ispirare e motivare chi non è disabile, facendolo sentire fortunato: è una forma di rappresentazione problematica, ce n’è un sacco sui social, sulla stampa e in tv. Tipo la foto di un atleta con una protesi e la scritta “tu che scusa hai?”. Il messaggio implicito è che se può “fare cose” lui – una persona disabile che per forza dovrebbe passarsela peggio (!) – puoi farle anche tu spettatore non disabile. Oppure le notizie delle persone disabili che si laureano. Di solito queste storie non includono le parole della persona disabile e raramente criticano la mancanza di supporti sociali che ha reso eventualmente difficile laurearsi. O quando si parla di coppie in cui c’è una persona disabile e una no, descrivendo quest’ultima come eroica e invitando tutti a commuoversi su queste “coppie speciali”.

In questo modo si fanno passare come eventi eccezionali cose normali e quotidiane e si sottovalutano implicitamente le persone disabili. Non abbiamo bisogno di queste storie, abbiamo bisogno di vivere in pace le nostre vite senza che nessuno faccia diventare i nostri partner eroi sui giornali.

7)    Per le persone disabili è più importante il livello di autonomia personale o di autodeterminazione?

L’autodeterminazione è imprescindibile per ogni persona: per alcune persone disabili è determinata dalla presenza o meno dei giusti strumenti, che per qualcuno possono essere l’assistenza personale, per altri dei software specifici, carrozzine adatte alle proprie esigenze….

L’importante è non valutare l’autonomia (se intesa come il “poter fare le cose da soli”) ad ogni costo. Molte persone disabili fanno tutto da sole, anche a costo di metterci ore, faticando moltissimo, rifiutando aiuto anche quando ne hanno bisogno. Questo per cercare di sottrarsi allo stigma e al giudizio, perché la società spinge continuamente le persone disabili a sembrare il “meno disabili” possibile: ci sono un sacco di messaggi che riceviamo che possono portarci ad agire contro il nostro interesse e benessere.

8)    Quanto è indietro l’Italia, nell’assistenza ai disabili e nel superamento di barriere architettoniche, sensoriali e culturali, rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea?

Beh, dipende a quale paese ci riferiamo: non è certamente il paese peggiore in Europa. Noi abbiamo vissuto a Londra e lì vivere la città è di gran lunga più facile per chi come noi usa carrozzine elettriche (rispetto a gran parte delle città italiane). Per la nostra esperienza si può accedere alla maggior parte dei luoghi salvo delle eccezioni; mentre ad esempio nelle Marche dove viviamo è il contrario: i luoghi sono in gran parte inaccessibili salvo eccezioni. Qui è molto facile sentirsi ingabbiati. Inoltre in Inghilterra i fondi per assumere assistenti personali sono una realtà più consistente e consolidata, e questo fa una differenza enorme.

9)    Cosa mi dite riguardo a sessualità e vita di coppia nella condizione della disabilità?

C’è tanto da dire. C’è un pregiudizio ancora forte secondo cui chi sta, esce o fa sesso con una persona disabile è un eroe o un santo o si “accontenta”, si “sacrifica”.

Inoltre ci sono ancora tante persone attratte da una persona disabile, ma che oltre a farci sesso e stare con lei nel privato non ci uscirebbero pubblicamente, per paura delle reazioni esterne e perché una persona disabile non è il “trofeo” che la società si aspetta da loro. Dinamiche simili accadono alle persone grasse, trans o nere (soprattutto donne in coppie etero). Non si tratta dunque, ovviamente, di essere meno “desiderabili”, ma di avere appiccicato addosso uno stigma.

Inoltre gli ostacoli concreti di cui abbiamo parlato prima inficiano anche le relazioni: se non sei autosufficiente e non hai abbastanza ore di assistenza personale e agli appuntamenti ti deve portare tuo padre è super complicato. L’abilismo si fa sentire anche in ambito medico, in questo caso quando si parla di salute sessuale; esistono ancora i medici che si stupiscono che le persone disabili fanno sesso.

Servono tante cose: un’educazione sessuale davvero completa (per tutti); combattere la segregazione delle persone disabili e promuoverne le opportunità per partecipare alla società alla pari delle persone non disabili; promuovere il supporto alla pari tra persone disabili, dato che sono le altre persone disabili della community che ti danno i migliori consigli su cose molto pratiche e concrete come le posizioni, i sex toys (in particolare quando hai poca mobilità), il dating, l’abilismo nelle relazioni, il ruolo facilitatore degli assistenti personali.

Detto questo, crediamo anche che essere disabile, dati i giusti strumenti, possa contribuire a renderti più “sex positive”, considerando che viviamo in una società che ha problemi con il sesso.

Non essere autosufficienti e dipendere fisicamente da altre persone ti insegna a comunicare meglio, a farti meno “elucubrazioni” mentali e ad essere più assertivi, diretti e schietti. Inoltre la disabilità, introducendoti a marginalizzazioni di vario tipo, può insegnare ad essere più empatici verso le specificità altrui e tutto ciò che non è considerato “standard”. Può renderti più accorto e consapevole delle “red flags” (i segnali di allarme) nelle relazioni, e al tempo stesso più spontaneo. La disabilità può essere infatti un’occasione per essere più liberi dagli standard imposti, non farci dire cosa dobbiamo essere e pensare fuori dagli schemi. O almeno questa è la nostra esperienza.

10) Nel vostro blog e nelle vostre pagine social parlate anche di femminismo, tematiche Lgbt+ e antirazzismo. Quanto è importante, secondo voi, l’intersezionalità delle lotte per il riconoscimento e la salvaguardia dei diritti umani?

È fondamentale, la matrice dell’oppressione è comune. La liberazione è di tutti o di nessuno.

11) C’è qualcosa che volete aggiungere e/o lanciare un appello a chi leggerà quest’intervista?

Visto che siamo in un blog femminista, facciamo un appello alle realtà femministe 😀 perché parlino sempre di più di disabilità e contrasto all’abilismo, ascoltando le voci delle persone disabili e non dei professionisti non disabili. “Niente su di noi senza di noi”, come recita un motto del movimento di liberazione delle persone disabili.

Inoltre ricordiamoci che le molestie abiliste non sono l’unico tema di cui parlare in ambito femminista. L’assistenza personale ad esempio è un tema che riguarda fortemente l’autodeterminazione (se non hai assistenti sufficienti non sei libero neanche di alzarti dal letto, cucinarti quello che vuoi o uscire) e anche le dinamiche di potere (se sei dipendente da altri puoi trovarti più facilmente in dinamiche di abuso), temi prettamente femministi.

*

Vi ringrazio per la disponibilità e per il tempo che mi avete dedicato.

Donatella Quattrone

What do you want to do ?

New mail

Relazioni e intersezionalità dei diritti da un punto di vista anche psicologico: ne parlo con hello_policose (Dott.ssa Dania Piras)

Il cervello umano ha fatto il ‹del †del ‹del †con le maniDal web (immagine libera da diritti)

Donatella Quattrone: Ciao, hello_policose. Grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
Tu sei psicologa ed attivista. Come concili le due cose?

Hello_Policose: grazie a te per avermi pensata e avermela proposta . All’inizio ho avuto mille dubbi su come fare, e ti confesso che non sono particolarmente diminuiti. Ciò che mi guida è la forte credenza che la psicologia non possa essere slegata dal tema dei diritti umani. Il mio è un lavoro di cura, di ascolto, di accoglienza, e non può prescindere dalla comprensione (e non semplice accettazione) della diversità. Ritengo necessario un approccio culturalmente umile a qualsiasi storia io incontri. Trovo questa modalità molto coerente con il mio essere attivista, dove non mi limito solo ad ascoltare, ma alzo anche la voce in difesa delle idee in cui credo. Il mio problema principale, al momento, è che su alcuni temi è faticoso mantenere un’immagine “decorosa” come viene richiesta dalla deontologia e allo stesso tempo esporsi in modo provocatorio per veicolari messaggi (ad esempio usando il corpo come territorio di protesta). Viaggio sempre sul confine e incrocio le dita.

Donatella Quattrone: Ti occupi, tra l’atro, di poliamore, tematiche Lgbtqia+, sex positivity. Quanto è difficile decostruire le convinzioni apprese per poter affrontare queste tematiche, in ambito psicologico, in una modalità il più possibile libera da pregiudizi?

Hello_Policose: Ho iniziato la mia decostruzione personale al liceo , quando ho scoperto la filosofia.
Negli anni mi sono sempre fatta domande, e grandissimi spunti sono arrivati all’università studiando sociologia e antropologia. Ho capito che il mondo che vediamo ogni giorno è solo uno dei tanti mondi che l’essere umano si è costruito nella Storia, e che ciò che crediamo vero o “normale” è assolutamente relativo alle nostre sovrastrutture culturali.
Essere nudi nel centro della foresta amazzonica non ha lo stesso significato che mostrarsi nudi in Europa. Il fatto che qui la nudità sia sessualizzata e scandalosa è una convenzione, il frutto di una serie di storie che si sono evolute e intrecciate, ma non esiste un meglio o un peggio. Lo stesso dicasi per le credenze sulla monogamia, gli orientamenti sessuali e altri concetti!
La parte più difficile della decostruzione è arrivata quando ho deciso di diventare un’attivista su Instagram, dove ho scoperto altre persone nel pieno del loro processo decostruttivo, che mi hanno insegnato tantissimo, sia come contenuti, sia come qualità delle domande che avrei potuto continuare a pormi. Il processo non è finito, ogni giorno scopro qualcosa di nuovo da riconsiderare sotto una nuova luce, e ad oggi posso dirti che è un’attività molto piacevole per me! Mi dà molta gioia. La parte complicata è riuscire a comunicare con chi questo processo non ha le forze o la voglia di iniziarlo.

Donatella Quattrone: Perché, secondo te, è importante l’intersezionalità nel femminismo?

Hello_Policose: Il femminismo è una teoria politica e filosofica complessa, composta da molte sfaccettature. Esistono vari femminismi, non ti nego che alcuni li temo un po’, come quello delle TERF. Esiste anche il femminismo liberale, che in sostanza desidera dare alle donne gli stessi privilegi degli uomini, per rompere il glass ceiling. L’errore fondamentale alla base di questo femminismo è che sembra il pianto di un bambin@ che dice “lo voglio anche io”, invece di rendersi conto che anche poter dire questa frase è un privilegio. Significa perlomeno che avresti la possibilità di ascendere nella tua posizione di classe, che puoi studiare, che sai leggere, che sei abile. Non tutte le donne del mondo hanno questa possibilità. Il femminismo intersezionale invece prende in considerazione l’intersezionalità dell’oppressione, e non si occupa solo di donne, ma vede un problema nel sistema, un sistema che opprime uomini e donne e anche persone non binarie, di qualsiasi etnia, con qualsiasi orientamento sessuale, con qualsiasi disabilità, con qualsiasi tipo di corpo.
E’ un femminismo che tende a decostruire per creare qualcosa di migliore, non per dare solo a chi riesce ad alzare meglio la voce perchè ha il megafono in mano. Oltre al fatto che essendo tutty vittime di varie oppressioni, nell’intersezionalità possiamo trovare una sorellanza e fratellanza che può veramente fare la differenza. Non è una gara a chi sta peggio.
Donatella Quattrone: Da psicologa, quanto consideri importante l’educazione affettiva e sessuale? Andrebbe affrontata nelle scuole e a partire da quale età?
Hello_Policose: Per me l’educazione sessuale e affettiva è FONDAMENTALE.
Vorrei citare un passo del Manifesto degli Esploratori Sessuali di Ayzad: “Non serve essere fini psicologi per capire che una vita sessuale irrisolta – derivante a sua volta da una cattiva o del tutto assente educazione all’affettività – sia all’origine di disagi di ogni scala, da quella individuale alla più ampia scala sociale. Coppie in difficoltà, violenze di genere, discriminazioni, soprusi, conflitti culturali, perfino intere crisi internazionali possono farsi risalire con impressionante evidenza a una grande infelicità erotica di fondo, esacerbata dall’ipersessualizzazione delle informazioni che ci bombardano costantemente.”
Credo che la gigantesca idiosincrasia di un mondo sessuofobico che ci vende persino gli yogurt alludendo al sesso sia veramente una delle cause maggiori di moltissimi problemi sociali. Per non parlare poi di tutto il tema del consenso e dell’attenzione all’Altro, che molte persone non sanno nemmeno cosa sia. Spesso i bimby vengono forzati a ricevere un bacio o un abbraccio, da un coetaneo o dalla zia di turno, e fatti sentire in colpa se rifiutano. Si comincia da qui, dalla prima infanzia, ad insegnare che il proprio corpo è un confine che può essere attraversato solo consensualmente, e che esplorarlo con curiosità, fare domande al riguardo, è assolutamente legittimo.
Ricordiamoci che se non diamo noi le risposte ai bambiny, loro le troveranno da altre parti, in altri modi, e non è detto che siano modi migliori. Per quello che riguarda gli adolescenty, senza ombra di dubbio, io ne farei una materia scolastica o perlomeno uno spazio settimanale di confronto e crescita dove parlare di emozioni, relazioni, comunicazione, sessualità, parità di genere, paure, futuro e studiare anche un minimo la storia delle relazioni nell’essere umano non sarebbe una cattiva idea. Ma io sono una sognatrice utopistica, forse.

Donatella Quattrone: Come si può imparare a riconoscere dipendenza affettiva e relazioni tossiche?
Hello_Policose: Non credo ci sia un metodo universale, ma sicuramente ci sono dei campanelli d’allarme.
Partiamo dal fatto che ognun@ di noi dovrebbe essere sufficientemente centrato e consapevole delle sue fragilità e dei suoi bisogni, ed esserne responsabile.
Ovviamente sarà difficile esserlo al 100%, ma diciamo che almeno in una buona parte… sarebbe auspicabile. Questo permetterebbe di non usare l’altra persona come oggetto con cui colmare i propri vuoti, su cui proiettare le proprie insicurezze, a cui chiedere di soddisfare i propri bisogni. L’Altro non ci appartiene, non ci deve nulla, deve poter scegliere ogni giorno di starci accanto: se resta perchè si sente in colpa, o perchè viene manipolato, o perchè viene ipercontrollato, sicuramente c’è qualcosa che non va. Lo stesso vale per noi, e sarebbe opportuno farsi sempre domande sulle nostre relazioni e sul perché vi restiamo dentro anche quando ci fanno sentire male. In particolare, nella nostra cultura c’è un alto livello di tossicità nel tema della gelosia, che normalizza il possesso e lo fa diventare una prova d’amore. Conosco molte coppie che a parole affermano di non essere possessive, ma poi nella pratica se l’altra persona non si mostra almeno un po’ gelosa, non si sentono amate. Scardinare questa normatività è un lavoro lungo e complesso.
Donatella Quattrone: Come consideri la gestione del tempo e delle energie da dedicare a se stess* e a tutt* i partner all’interno di una famiglia non-monogama?
Hello_Policose: La considero un’impresa titanica se non si impara a comunicare bene! La questione ovviamente non riguarda semplicemente il tempo e le energie, ma il significato che diamo ad esse. Se dedico più tempo a qualcun@, anche accidentalmente, sono consapevole di come potrebbero sentirsi gli altry?
Sono dispost@ a rassicurare, ascoltare, accogliere le eventuali emozioni altrui?
Sono capace di esprimere come mi sento senza essere passiv@-aggressiv@ quando mi sento trascurat@ oppure ho semplicemente un momento di insicurezza? Sono consapevole e responsabile delle mie emozioni, so darci un nome? So cosa mi triggera emotivamente, so spiegarlo?
Queste, e altre, sono le premesse fondamentali ad un buon equilibrio nella relazione, al di là del problema del tempo e delle risorse. Come noterai, non dovrebbero riguardare solo le non monogamie, ma un po’ tutti i tipi di relazione!

 
Donatella Quattrone: Che differenza c’è tra una relazione poliamorosa e una coppia aperta?

 
Hello_Policose: Appartengono entrambe al mondo delle non monogamie consensuali, ma la coppia aperta è più simile ad una coppia monogama che però non richiede esclusività sessuale. Questo può declinarsi in vari modi: si possono condividere partner sessuali oppure vivere una vita sessuale senza rendere conto all’altr@ (DADT: Don’t Ask, Don’t Tell). Resta però fondamentale l’esclusività sentimentale, quindi non si è aperti all’idea di relazioni con altre persone, nè al fatto che un@ dei due possa innamorarsi di altry.
Il poliamore invece esce un po’ da questa dinamica dell’esclusività sentimentale, ed è molto più fluido come modalità relazionale. Ci sono vari modi di “comporre” una relazione poliamorosa, per questo si parla in modo simpatico di “polecole”: sono tutte diverse l’una dall’altra e alcune sono molto complesse! E non è comunque detto che tutty debbano interagire o innamorarsi di tutty. La cosa fondamentale è comunque che si sta parlando di sentimenti, di amore, e di relazioni, e soprattutto di consenso. Si chiamano non monogamie consensuali per questo! 😉

(Non so se sono stata chiarissima in questa risposta).

 
Donatella Quattrone: Sei stata chiara. Come consideri il rapporto tra il movimento del poliamore e la comunità Lgbtqia+?

Hello_Policose: Penso sia un rapporto in evoluzione. Molte persone della comunità LGBTQIA+ sono anche parte della comunità poliamorosa, mentre molte altre no. Tra queste ultime, una parte (non so quanto significativa) ha alcune visioni un po’ radicali, ne cito un paio per capirci: 1) chi crede che la monogamia sia la norma e l’unico tipo di relazione valida (mononormatività) 2) chi non pensa che le persone poliamorose dovrebbero essere considerabili queer e, per esempio, partecipare al Pride (specialmente se sono eterosessuali!). I due punti non si escludono mutuamente, perciò qualcun@ sostiene entrambe le cose.
Fatta eccezione per queste “polemiche”, le due comunità si intersecano spesso e condividono il minority stress, ovvero il fatto di essere soggette a discriminazioni, stigma, patologizzazioni. Anche per questo sarebbe essenziale far fronte comune per la stessa causa, senza per questo smettere di legittimare le diverse identità.

Donatella Quattrone: Cosa si potrebbe fare, secondo te, per contrastare fenomeni come slutshaming e polishaming?

Hello_Policose: Oltre all’educazione affettiva e sessuale nelle scuole ed in famiglia, secondo me è necessario un movimento dal basso (che sta già avvenendo), una nuova rivoluzione sessuale che porti una narrazione diversa, incentrata sulla sex positivity, che smetta di interpretare i corpi e le libere scelte su di essi come qualcosa di giudicabile moralmente o di patologizzabile.
Una libertà consapevole, informata, dove ognun@ è soggetto e non oggetto passivo o vittima impotente. Una quotidianità dove i ruoli di genere vengono messi in discussione, dove gli stereotipi culturali perdono potere.
Per essere parte di questa rivoluzione penso che prima di tutto sia necessaria la forza di sopportare le conseguenze della ribellione… una forza che non è scontata, e averla è un privilegio, ricordiamocelo, perché questa è una battaglia contro un sistema potente, che non possiamo pensare di vincere in campo aperto. Quella che sta avvenendo attualmente è una guerriglia: sono piccoli sabotaggi, estenuanti, che molte persone stanno portando al sistema. Ad esempio, la rivendicazione della parola “puttana” come attributo positivo di una donna libera sessualmente e felice di godere è uno dei tanti modi che alcun@ attivist@ stanno usando per portare l’attenzione sullo slut shaming, sull’oggettificazione dei corpi femminili, sullo stigma che colpisce il mondo dell@ sex workers, sul problema che la società ha ancora con una persona che si dichiara libera di fare ciò che vuole con chi vuole.
Sembra una piccola cosa, ma è un ottimo innesco per aprire un discorso più ampio e complesso, e portare a farsi domande sul perchè le cose stiano come stanno.
Donatella Quattrone: C’’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista?

Hello_Policose: Ti ringrazio per le domande estremamente stimolanti. Vorrei aggiungere una riflessione sulla potenza dei social, che se usati bene portano davvero dei cambiamenti incredibili nelle vite dei singoli e anche – perché no – nella società.
La rete di attivist@ di cui ho parlato è in espansione e io non la vivo solo come una realtà virtuale. Sono persone vere, che spendono tempo (unica cosa che ci appartiene davvero, come dice Seneca) e grande energia per fare divulgazione. La maggior parte sono molto giovani e competenti, fanno letture impegnative, si mettono in gioco per dialogare e imparare da chi capita sulla loro pagina. Tutto questo mi riempie il cuore di gioia e onestamente mi dà molta fiducia nel futuro, perché prima di entrare a far parte di questa fetta di mondo mi sentivo un po’ una specie di Don Chisciotte senza speranza, oltre che priva di mezzi e incapace di sentirmi un agente efficace di cambiamento anche nel mio piccolo. Ora avverto la potenza di questo metterci la faccia, tutty insieme, e di non stare in silenzio o indifferenti di fronte alle cose ingiuste. Su di me, personalmente, tutto questo ha avuto un effetto terapeutico. Il mio augurio è che possa averlo per chiunque altr@ in questo momento si sente sol@ e scoraggiat@ come la sono stata io.

Grazie ancora per l’intervista,

Dott.ssa Dania Piras

Donatella Quattrone: grazie a te per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

D. Q.

Non binarismo di genere, bisessualità e pansessualità: ne parlo con Davide Andrea Amato

Io: Ciao, Davide Andrea. Benvenuta e grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
D.A.: Grazie a te.

Io: Tu ti definisci trans, bigenere, non binaria. Mi spieghi cosa s’intende con gli ultimi due termini?

D.A.: Sì. Mi definisco bigenere perché non mi sento solo maschio o solo donna. Non binary perché sono sempre stata al di fuori di quello che la società ha proposto a livello di genere. Il bigenere è la compresenza di queste due mie parti. Non binary perché sono sempre state inserite dentro di me ma non come le intende la società.

Io: Quali altre categorie possiamo trovare sotto l’”ombrello” del non binarismo?

D. A.: Moltissime. Per esempio, le persone demigender, genderfluid, pangender, agender. Ci sono anche persone genderqueer. C’è anche chi si definisce solo trans. Vi rientrano tutte quelle sfumature lontane dal binarismo di genere, diverse per funzionalità ed espressività di chi le vive. Ci sono anche le persone genderflux, le persone intergender anche. La differenza tra i non binary e le persone transessuali conformi è che le persone transessuali binarie, seguono un percorso di transizione medicalizzata per riassegnare il proprio corpo al genere di elezione. Genere che è diverso rispetto a quello assegnato loro alla nascita. Hanno necessità, quindi, di modifica di tutto il fisico, anche della voce, per poter esternare tutto l’interno della propria persona. Invece le persone non binary spaziano in tutte le sfumature del genere, al di fuori del binarismo, e quindi non per forza necessitano di conformare l’aspetto esteriore al proprio genere di elezione. Molte infatti non ne avvertono la necessità, mentre altre ancora prediligono solo isolati interventi estetici oppure assunzione di microdosing ormonale. Le persone non binary fanno molta fatica ad essere concepite dalla società.

Io: Quanto è forte la discriminazione nei confronti delle persone enby anche all’interno della comunità Lgbt+?

D. A.: Purtroppo ancora tanta. L’ultimo episodio che mi è capitato di recente è stato all’interno di un gruppo Lgbt+. La mia richiesta di usare grammaticalmente l’asterisco o la u è stata vista come un capriccio, come il voler essere puntigliosa, un non volermi conformare. Molti gruppi si dicono inclusivi e invece termini come non binary risultano estranei. Alla mia semplice definizione deriva l’essere derisa, segue l’invalidazione. Il fatto di riuscire a parlare di me viene visto come voler essere al centro dell’attenzione. Questi sono solo alcuni esempi. La discriminazione avviene anche all’interno del mondo transessuale, da parte delle persone transessuali binarie che si sentono in diritto di dare patentini di persona trans solo a chi fa un percorso di medicalizzazione. Oppure deridono chi non rientra nella concezione canonica di transessuale. Per fortuna c’è anche massima apertura in certi ambienti in cui mi sento sicura. Vorrei chiarire che il termine femminile che considero per me è perché mi sento molto più vicina a questa parte della mia identità. Tuttavia ciò non si esaurisce nella concezione di essere solo femmina o solo donna. Per me è un bene che mi si pongano queste domande da parte di chi vuole mettere in discussione le proprie convinzioni. La discriminazione avviene all’interno delle comunità Lgbt+ perché ancora non si è raggiunta consapevolezza sulle diverse identità sessuali. Ci sono cis-etero, cis-gay, cis-lesbiche, cis-bisessuali alleati che fanno fatica ad uscire dal binarismo della cultura. Questo dimostra come la transfobia sia più trasversale rispetto all’omofobia. Lo stesso si può dire della bifobia. Non è detto che in un gruppo Lgbt+ ci sia inclusività. Purtroppo accade il contrario. Le persone non binary come me si trovano a vivere in una condizione di stigma doppio, triplo. Bisogna essere molto fortunati per trovare gruppi positivi e accoglienti.

Io: Cosa ne pensi del dibattito su asterisco, scevà e altre desinenze usate per cercare di usare un linguaggio più inclusivo?

D. A.: Penso sia molto importante. Finalmente una certa parte di comunità formata, da un decennio, da persone non binary cerca di portarsi avanti in modo inclusivo. Credo che l’uso sia dell’asterisco, sia della scevà sia della u possa essere importante dal punto di vista grammaticale. Molte persone si mettono in gioco con un immaginario della grammatica che mette insieme tutte le personalità che finora erano escluse. Non sarà un passaggio immediato, ci vorrà tempo. L’Accademia della Crusca e altre società di grammatica italiana contribuiscono al dibattito dimenticando che, dietro il bisogno di usare un linguaggio più inclusivo, vi sono delle persone, vi sono delle identità, vi sono dei vissuti. Sono contenta che questo dibattito ci sia. E’ importante, però, andare con i piedi di piombo e portare avanti ciò rispettando i tempi di assimilazione di chi per la prima volta vede questo tipo di processo.

Io: Qualche anno fa, in un’intervista sul blog Progetto genderqueer dell’attivista Nathan Bonnì, raccontavi il tuo percorso da ex etero Lgbt friendly fino alla scoperta dell’orientamento bisessuale. Oggi ti definisci, tra l’altro, trans e pansex. Quando è avvenuta quest’ulteriore scoperta sul tuo orientamento sessuale e identità di genere?

D. A.: Direi recentemente, negli ultimi tre anni. In realtà è stato un crescendo. Ho scoperto la mia bisessualità circa cinque-sei anni fa poi mi sono resa conto che quel termine era poco rappresentativo di quello che sentivo. Più andavo avanti nel mio bagaglio personale più mi rendevo conto che il termine utilizzato prima era sbagliato. Ancora oggi non ho chiaro quali siano i confini del mio orientamento sessuale per questo il termine pansessuale è molto più indicativo. Per quanto riguarda la parte trans, io ho sempre saputo di essere al di fuori del binarismo di genere. C’è stata una riscoperta, un susseguirsi di occasioni e opportunità, di incontri con soggettività che per la prima volta usavano il termine non binary. Questo ha fatto viaggiare pari passo la mia autodeterminazione con il mio attivismo. Sto usando ultimamente i termini non binary e pansessuale nel fare coming out. Voglio adesso essere me stessa, nel senso di descrizione, al 100%.

Io: Molti attivisti bisessuali si sentono tenuti fuori dal dibattito sul ddl Zan, per via del termine omotransfobia usato di più rispetto ad altri più inclusivi ma più lunghi. Condividi queste preoccupazioni o le consideri polemiche sterili?

D. A.: Condivido queste preoccupazioni perché il nuovo disegno di legge, che altro non è se non l’estensione di una precedente legge sulle discriminazioni razziali, di religione o etniche, ancora non è completo e fatto in modo tale da salvaguardare chiunque sia al di fuori dell’orientamento eterosessuale o al di fuori dell’essere solo uomo o solo donna. E’ ancora limitato e limitante. Non a caso è stato usato il termine omotransfobia escludendo la richiesta di chi voleva inserire la bi nel termine. In più, il decreto di legge non chiarisce quali siano esattamente i termini con i quali ci si può esprimere in modo contrario a tutto ciò che è al di fuori dell’orientamento eterosessuale e dell’identità di solo donna e solo uomo. Di questo si è discusso in molti gruppi. Quindi sono d’accordo con questo dibattito perché non è chiaro quali potrebbero essere le azioni discriminatorie compiute e messe in atto.

Io: Cosa ne pensi del dibattito tra chi vuole includere la pansessualità sotto il termine ombrello della bisessualità e chi, invece, vorrebbe distinguere i due termini?

D. A.: Penso che, come dire, personalmente, ma questa è una mia personale considerazione, indubbiamente, la bisessualità rispetto al passato ha, finalmente, una rappresentazione molto più inclusiva rispetto agli anni ’50. Ma non trovo utile che la pansessualità venga inclusa nella bisessualità almeno fino a che non ci siano molti più gruppi che aprano un dibattito, non di tifoseria, ma per ampliare le vedute affinché persone bisessuali e pansessuali possano collaborare perché si trovi un termine anche più inclusivo dei due. Tuttavia trovo interessante questo dibattito perché ci sono tante persone che preferiscono restare nel termine bisessuale mentre ce ne sono tante altre che preferiscono che il termine pansessualità non venga associato alla bisessualità.

Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

D. A.: Sì. Voglio invitare la maggior parte delle persone che leggeranno ad andare a ricercare pagine, canali, notizie, articoli e che si diano la possibilità di ampliare le proprie conoscenze sulla sessualità in generale e in particolare su chi si considera non binary. Ce ne è assolutamente bisogno in termini di comunità. E soprattutto di rispettare tutte le modalità con le quali ogni singola persona si autodetermina e autodefinisce. E soprattutto capire che non esistono solo persone trans medicalizzate e che le persone trans non vogliono siano date loro patenti di transessualità.

D. Q. 

Bandiera NB

Bandiera non binary (dal  sito http://www.transmediawatchitalia.info/

Bisexuality VS Pansexaulity | LGBTQ TEENS+ Amino(Dal web)

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

Poliamore e non monogamie etiche: ne parlo con un’attivista

Io: Ciao, Car. Sono Donatella. Grazie per aver accolto la mia richiesta di un’intervista.

Car: Ciao, Donatella.

Io: Da quanto tempo sei un’attivista?

Car: Se si parla di attivismo nel senso più ampio del termine, credo di essermi resa conto di volermi unire alle voci delle persone meno privilegiate più o meno all’età di 15 anni, in quanto donna femminista e appartenente alla comunità LGBT+. All’inizio mi limitavo a condividere esperienze e parlare di femminismi e tematiche queer alle persone che mi stavano attorno. Verso i 18 anni ho cominciato a prendere parte a cortei e iniziative e una volta all’università mi sono unita prima ad associazioni e poi a collettivi politici autogestiti, percorso che seguo ancora oggi. Polycarenze nasce invece nell’aprile 2019, dalla necessità di parlare da persona giovane a* giovan* (ma non solo) della realtà poliamorosa che vivo, e in generale delle non monogamie etiche, della sessualità alternativa e delle identità sessuali non normate, considerate mostruose, fuori dai binari e di conseguenza invisibilizzate.

Io: Su Instagram ti occupi di poliamore e non monogamie etiche. I due termini sono sinonimi o la sigla NME è uno spettro in cui collocare diversi modi di vivere relazioni non monogame, fermo restando il consenso tra tutti i soggetti coinvolti?

Car: Il poliamore è solo una sfumatura delle tante non monogamie etiche che rappresentano un termine ombrello per tutti gli orientamenti relazionali che coinvolgono l’interazione emotiva tra più persone con il consenso di tutt* i/le coinvolt*. Mi identifico come persona poliamorosa per una questione principalmente politica, perché il termine poliamore è ad oggi il più conosciuto e rappresentato dai media (anche se con alcune difficoltà e criticità), ma in realtà mi sento molto vicina anche all’anarchia relazionale.

Anarchia relazionale, relazioni aperte, scambismo, sono altre forme di non monogamie etiche.

Io: In caso di relazioni miste, cioè persone non monogame che instaurano un rapporto con persone monogame, le dinamiche relazionali, secondo la tua opinione o eventuale esperienza, sono più complesse?

Car: Sono convinta che sia possibile instaurare relazioni mono-poly: la mia relazione attualmente più duratura è cominciata così. Il mio partner prima di intraprendere una relazione con me si identificava come monogamo, perché monogame erano state tutte le sue precedenti relazioni. Nonostante ciò, si è messo in ascolto e ha scelto di cominciare insieme a me questo nuovo percorso che non conosceva, perché a detta sua non aveva senso dire di no a qualcosa di nuovo senza mai averlo provato. Sicuramente ci sono delle difficoltà e spesso noto che la parte poly si ritrova un po’ a fare da “mentore”, soprattutto durante i primi tempi, e a dover gestire insicurezze e paranoie dovute alla novità e al cambio di schema relazionale che magari con una persona poly sarebbero state di minore impatto. Molto spesso le persone poliamorose rifiutano relazioni monogame perché le hanno già sperimentate e sono quindi a conoscenza del fatto che la monogamia non sia l’orientamento relazionale fatto per loro, cosa che invece non accade per la maggior parte delle persone monogame che sentono per la prima volta il termine “poliamore” e hanno idee confuse a riguardo. E’ molto facile che una persona poly desideri relazionarsi con una persona monogama, considerando il fatto che nella maggior parte delle città ancora non esistono gruppi di supporto per persone NME, quindi ci si trova per forza in questa situazione controversa e c’è bisogno di gestirla nel migliore dei modi per evitare che nessuna delle due parti si senta costretta ad intraprendere una relazione forzata. Con questo ovviamente non voglio affermare che tutte le persone monogame dovrebbero provare il poliamore prima di dire che non fa per loro: l’orientamento relazionale è simile a quello sessuale. “Se non ce n’è, non ce n’è”, e va bene così, ognun* per la propria strada.

 Io: Come consideri il rapporto tra il movimento del poliamore e la comunità Lgbtqia+?

 Car: Considero il poliamore parte della comunità LGBTQIA+ dal momento in cui rientra nelle minoranze non normate relative all’identità sessuale, quindi quella parte della nostra identità che comprende sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, espressione di genere e orientamento relazionale. Ci sono scetticismi da parte di alcune persone queer perché una persona poly può essere un uomo bianco cisgender ed eterosessuale e quindi la domanda che sorge spontanea è: può far parte della comunità? O è solamente un alleato? è sicuramente un dibattito interessante, perché sicuramente un uomo cis etero e poly non subisce le discriminazioni che magari subisce una donna della stessa comunità. Si pensi solo allo slut shaming. Gli stessi miei partner uomini raccontano che spesso la prima reazione dei loro amici è una pacca sulla spalla perché “Grande, rimorchi tantissimo”. Il punto è che questa non può essere altro che, per l’appunto, una prima reazione portata avanti da persone che del poliamore hanno un’idea errata. Le non monogamie etiche sono talmente tanto marginalizzate e poco rappresentate che nel momento in cui un uomo cisgender ed etero si trova a spiegare esattamente in cosa consistono, e quindi a parlare di tutto ciò che va oltre l’aspetto sessuale, le domande e i giudizi che riceve sono tendenzialmente simili a quelli che potrebbe subire una donna, slut shaming a parte. Sebbene il patriarcato abbia un ruolo predominante per la maggior parte delle discriminazioni che le minoranze subiscono, in questo caso viene direttamente attaccata l’intera comunità. Che tu sia un uomo cis, una donna cis, una persona trans* o non binaria, sarai comunque considerata una persona poco seria, incapace di amare, facile, senza desiderio di impegnarsi.

Dato che quindi il discorso su chi può rientrare all’interno o meno della comunità sembra essere incentrato su chi è più o meno discriminat*, viste le circostanze io penso che la cosa migliore sarebbe fare rete tutt* assieme, perché la comunità LGBT+ potrebbe davvero dare una mano a quella NME e viceversa. Gira e rigira, l’oppressore è lo stesso.

Io: Cosa risponderesti a chi pensa che tutti i poliamorosi siano necessariamente bisessuali o che siano solo persone fissate col sesso e in particolare con quello di gruppo? 

Car: Ci sono alcune persone non monogame che amano fare sesso di gruppo, così come ci sono persone poliamorose e bisessuali. Il punto è che una questione non implica per forza l’altra. Posso essere appassionat* di orge ed essere monogam*, così come posso essere una persona poly ed essere asessuale e sex repulsed! Non esiste alcuna associazione tra l’essere bisessuale, l’essere poly e l’amare il sesso di gruppo. Sono stereotipi che danneggiano la comunità e la riducono ad un solo elemento, il sesso, che può esserci o può non esserci. All’interno della comunità non monogama, però, è facile trovare persone con orientamenti non monosessuali (bisessuali, pansessuali, poli e omnisessuali) come è facile trovare persone che praticano BDSM. La motivazione che mi dò rispetto a ciò, è semplicemente relativa al fatto che nel momento in cui ci si approccia ad una comunità molto “ghettizzata” come quella non monogama, che richiede comunque una buona dose di apertura ed elasticità mentale per essere compresa e accettata, alcuni schemi binari e normati tendono un po’ a cadere, e vengono sostituiti da alcuni più fluidi.

Io: Cosa ti sentiresti di dirmi su poliamore e genitorialità?

Car: Non sono genitrice, quindi non posso riportare un’esperienza diretta. Conosco però alcuni polygenitori e ho ascoltato diverse storie di persone poly con figl*. Si può fare e anche bene. Anzi, vedo solo vantaggi a riguardo: un bambin* circondato da più adult* può avere accesso a diversi punti di vista e ricevere un’educazione completa e un maggiore senso di protezione in tenera età. Per di più, sono dinamiche che già si vedono tutti i giorni: ci sono famiglie dove amici dei genitori, nonni, zii e parenti sono all’interno dello stesso nucleo familiare. A volte vivono sotto lo stesso tetto o comunque si vedono spesso, si aiutano e tutt* contribuiscono alla crescita del bambin*. Cosa ci sarebbe di tanto diverso da una triade, o da una relazione con più partner? Il figli* crescerà sin da piccolo con l’idea che non esista solo una forma d’amore e personalmente non vedo come questo potrebbe essere un problema, anzi. Dal punto di vista legale invece, siamo ancora troppo indietro per parlarne e pensare a soluzioni, perlomeno in Italia.

Io: In che modo la pratica dello scambismo ha a che fare con le non monogamie etiche?

Car: Lo scambismo fa parte delle non monogamie etiche dal momento in cui c’è un’interazione emotiva tra più partner consenzienti. Ne ho parlato recentemente sulla mia pagina, mi piacerebbe che si smettesse di associarlo alla pura trasgressione.

 

Io: E’ vero che anche le persone poliamorose possono provare gelosia all’interno delle loro relazioni, né più né meno delle persone monogame?

Car: Certo, le persone poliamorose possono provare gelosia. Siamo esseri umani e viviamo in una società figlia della cultura del possesso, e chi più chi meno, ci portiamo appresso schemi difficili da eliminare totalmente. Provare gelosia non è un problema.Trovo che diventi problematico nel momento in cui la gelosia diventa parte della propria identità personale (“Sono una persona gelosa, punto”) perché chiudersi all’interno di uno schema rigido non permette di accedervi facilmente e lavorarci sopra.  La gelosia cosiddetta “tossica” non dovrebbe appartenere ad alcun orientamento relazionale, monogamia inclusa. Ritengo che affermazioni come “Sei mia/o, sei tutta la mia vita, non vivo senza di te, nessun* ti deve guardare o apprezzare, se non è gelos* vuol dire che non ti ama” e tutto ciò che porta a considerare due persone come la metà dell’altr* siano pericolose sempre e comunque. La gelosia va bene nel momento in cui è possibile razionalizzarla, in modo da non utilizzare l’altr* come pungiball per le nostre paure e insicurezze. Dovremmo chiederci da dove proviene, perché proviene, scavarne le radici.

Io:  Mi spieghi cosa s’intende con il termine compersione?

Car: Con compersione si intende un mix di sensazioni comprendenti gioia, felicità e benessere provate nel momento in cui si vede l* propri* partner interagire ed essere  felice con un altr* partner.

Io: E con il termine anarchia relazionale?

Car: L’anarchia relazionale è una forma di non monogamia etica che consiste nel considerare le relazioni come fluide, esenti da qualsiasi schema amatonormativo (as possible and pratictable). Un classico esempio è l’uso del termine partner come termine neutro, in risposta alla microcategorizzazione delle relazioni che spesso sono poste in ordine di importanza (prima quelle romantiche, poi quelle sessuali, poi tutto il resto) e all’uso di termini come scopamic*, fidanzat*, amic* occasionale di letto, ragazz*, etc).
Io: Cosa si potrebbe fare, secondo te, per contrastare il polishaming e fare in modo che ci siano meno discriminazioni verso la comunità poli?

Car: Rete, rete, rete, informazione, informazione, informazione, divulgazione, rappresentazione sempre più frequente nei media, presa di posizione politica nelle piazze da parte delle persone poly.

Io: Mi racconti brevemente la storia della vostra bandiera? 

Car: La bandiera poliamorosa è fatta da tre strisce orizzontali dall’alto verso il basso di colore blu, rosso, nero e in mezzo un pi greco, oppure un cuore con l’infinito di colore oro.Il blu rappresenta la trasparenza e l’onestà tra tutt* i/le coinvolt*, la rossa simboleggia l’amore e la passione, la nera è per solidarietà a chi è in una relazione NME ma si trova costrett* a nascondere le proprie relazioni. Il pi greco ha diversi significati. C’è chi lo interpreta come semplice lettera iniziale della parola Poliamore. Io preferisco pensarlo come numero irrazionale, come l’amore. Il colore oro invece rappresenta l’importanza che viene data all’emotività dei rapporti.
Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di questa intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

Car: Sicuramente di seguire @polycarenze e sostenere il mio progetto di divulgazione, e poi di esprimere gratitudine verso le persone appartenenti alle minoranze che si mettono in gioco per fare informazione nonostante ci siano effettivamente dei rischi (soprattutto in alcune parti del mondo)e restare in ascolto se non si conosce una tematica. Abbiamo bisogno di più alleat* e meno giudizi.

Io: Ti ringrazio per la tua disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato. Buon proseguimento!

 

D. Q. 

 

Bandiera del poliamore (da https://www.wikisessualita.org/)

 

Intervista ad un’attivista aroace su asessualità e afobia

Oggi ho contattato un’attivista aroace che mi ha concesso un’intervista.
Di seguito il testo:
“Io: La pagina è gestita da un collettivo o da una persona singola?
stop.afobia_ita: La pagina è gestita solo da me (sono donna).
Io: Sei un’attivista asex, aroace? Come definisci il tuo impegno?
stop.afobia_ita: Sono un’attivista aroace (precisamente gray-A, cioè non provo né attrazione sessuale né romantica, se non in particolari e rare circostanze), gestisco due pagine: “Aroaceitalia”, che si occupa di trasmettere visibilità, consapevolezza e informazione positiva sull’asessualità e sull’aromanticismo; “L’afobia esiste”, il cui scopo è quello di sensibilizzare le persone all’esistenza dell’odio e delle discriminazioni nei confronti delle persone aro/ace.
Io: Ti va di descrivere brevemente le diverse sfumature all’interno dello spettro dell’asessualità?
stop.afobia_ita: Le sfumature dell’asessualità si dividono in due categorie: quelle per orientamento sessuale e quelle per comportamento sessuale.
Quelle per orientamento sessuale ci dicono quanto spesso l’asessuale prova attrazione sessuale o se questo accade in particolari circostanze. “Graysessualita’ “è un termine-ombrello che si utilizza per definire tutta l’area grigia dello spettro dell’asessualità, una delle cui sottocategorie è la famosa “demisessualità”, che consiste nel non provare attrazione sessuale finché non si ha un coinvolgimento emotivo con una determinata persona.
Quelle per comportamento sessuale indicano che rapporto ha l’asessuale con la sessualità: gli asessuali sex-repulsed sono totalmente repulsi dal sesso; gli asessuali sex-indifferent sono indifferenti rispetto agli atti sessuali; gli asessuali sex-favorable farebbero o avrebbero rapporti sessuali volentieri, ma comunque il sesso non è per loro un interesse primario.
C’è, inoltre, una differenziazione tra gli asessuali con una con una libido alta o bassa.
Io: Come gestisci il tuo orientamento sessuale nelle relazioni sentimentali?
stop.afobia_ita: Gestire il mio orientamento sessuale (così come quello romantico) è assai difficile, tanto da farmi preferire una vita da single.
Sono sex-favorable, a volte mi è capitato di avere delle esperienze sessuali positive, anche grazie al fatto che provavo attrazione sessuale per la persona con cui le ho intrattenute, ma si è trattato di una rarità, dell’eccezione che conferma la regola.
Io: In quali circostanze capita più spesso di subire afobia?
stop.afobia_ita: Generalmente succede dopo un coming out o quando si parla di questi argomenti dal vivo o su internet. L’asessualità e l’aromanticismo, non essendo sempre così evidenti, hanno bisogno di venire allo scoperto per essere discriminate.
Io: Gli asessuali sono ormai parte integrante della comunità Lgbtqia+, come si evincerebbe dalla stessa sigla.  E’ sempre così o c’è discriminazione e/o emarginazione anche all’interno della comunità? Se sì, quanto è frequente?
 
stop.afobia_ita: ebbene, come detto da te, ormai la maggior parte delle associazioni LGBT+ ci includa nella comunità, c’è comunque una buona parte di singole persone appartenenti alla comunità che non sono per niente favorevoli alla nostra inclusione e che ci discriminano. Ne sono un chiaro esempio attivisti come Francesco Mangiacapra (che definisce l’asessualità come un disturbo simile a pedofilia, zoofilia e necrofilia curabile con lo stupro), Giovanni Dall’Orto (che ci ritiene privilegiati per via della nostra presunta “castità”, che ci porterebbe a essere santificati dalla Chiesa; sostiene anche che l’asessualità non avrebbe senso di esistere perché è una negazione della sessualità); Iconize (che ha descritto noi asessuali come dei gay con un problema).
Ultimamente c’è anche una corrente del femminismo radicale lesbico e bisessuale che tende a escluderci e discriminarci appellandosi ai principi radicali. Questa corrente viene denominata “aerf” (aroace exclusionary radical feminism).
Io: Alcune di queste discriminazioni mi sembrano quantomeno discutibili. Come si pone il resto della comunità Lgbtqia+ in proposito?
stop.afobia_ita: La parte della comunità che ci supporta si schiera contro queste discriminazioni (per esempio, Arcigay ha inserito l’afobia nella campagna contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, parlando proprio delle posizioni prese dal sedicente attivista Francesco Mangiacapra), al contrario gli “esclusionisti” le considerano come una sciocchezza in confronto a ciò che hanno passato e passano tuttora le persone appartenenti alle prime quattro lettere della sigla. Secondo loro, non siamo abbastanza oppressi per essere parte della comunità.
Io: Che mi dici del Collettivo Asessuale Carrodibuoi? Ne esistono altri simili in Italia?
stop.afobia_ita: Il Collettivo Asessuale Carrodibuoi è l’unica associazione interamente dedicata all’asessualità esistente in Italia e si occupa, anch’essa, di trasmettere informazione sulle varie sfaccettature del tema in questione.
Io: Che tu sappia, all’estero c’e’ la stessa discriminazione nei confronti degli aroace?
stop.afobia_ita: Ovunque si parli di asessualità o aromanticismo e le persone aroace facciano coming out, purtroppo il trattamento è lo stesso. Probabilmente nelle nazioni in cui l’emancipazione della donna non è ancora arrivata ai livelli dell’Occidente la situazione potrebbe essere ben peggiore per le donne asessuali, ma anche per gli uomini, anch’essi vittime del patriarcato.
Io: Se il ddl Zan fosse approvato, secondo te, migliorerebbe la situazione di voi attivisti aroace fuori e dentro la comunità Lgbtqia+?
stop.afobia_ita: La nostra situazione potrebbe migliorare leggermente, ma non del tutto, purtroppo la strada è ancora tanta da fare. Non c’è abbastanza consapevolezza sull’asessualità e sull’aromanticismo, non vengono neanche visti come orientamenti veri e propri dalla maggior parte delle persone, quindi, secondo queste, non dovrebbero essere contemplate dal ddl Zan.
Io: In Italia ci sono associazioni di psicologi che vi sostengono?
stop.afobia_ita: No e spesso anche gli psicologi LGBT-friendly non sono informati dell’esistenza dei nostri orientamenti, molte persone aroace hanno avuto esperienze molto negative con professionisti della salute mentale che hanno patologizzato la loro asessualità e il loro aromanticismo. Tuttavia ci sono anche molti psicologi interessati a studiare questi temi e a portare un po’ di informazione, posso fare il nome della dottoressa Giulia Alleva, la quale, con il mio aiuto, ha compiuto degli studi sul tema o del dottor Antonio Prunas, che ha diffuso informazioni corrette sul tema.
Io: Quali altri tipi di attrazione esistono oltre a quella sessuale e a quella romantica che possono essere provati da una persona asex?
stop.afobia_ita: Lo SAM (Split Attraction Model) divide i tipi di attrazione in due gruppi: l’attrazione fisica e quella emotiva. Dell’attrazione fisica fanno parte:
-l’attrazione estetica, il desiderare di guardare una persona perché si trova piacevole il suo aspetto;
-l’attrazione sensoriale, il desiderare di avere un contatto non sessuale con una persona (baci, abbracci, coccole);
-l’attrazione sessuale, cioè il desiderare di avere un contatto sessuale con una persona.
Dell’attrazione emotiva fanno parte:
-l’attrazione platonica, il desiderio di instaurare una profonda amicizia con una persona;
-l’attrazione romantica, il desiderio di instaurare una relazione romantica con qualcuno;
-l’attrazione alterous, un tipo di attrazione emotiva diverso sia dall’attrazione platonica che da quella romantica.
Le persone asessuali possono sperimentare tutti i tipi di attrazione eccezion fatta per quella sessuale, lo stesso vale per gli aromantici con l’attrazione romantica.
Aggiungo che, solitamente, l’attrazione alterous è prerogativa degli aromantici.
Io: Conosci persone aroace nonbinary? Se sì, sono meno discriminate all’interno della comunità Lgbtqia+?
stop.afobia_ita: Durante il mio percorso da attivista ho avuto modo di conoscere diverse persone non-binary. Si tratta di persone doppiamente discriminate sia dentro che fuori dalla comunità LGBTQ+, poiché anche le persone enby sono molto malviste dalle prime quattro lettere. Spesso queste persone, che non rientrano nella divisione di genere binaria e che non provano né attrazione sessuale né romantica sono disumanizzate, trattate come delle piante o dei robot.
Io: Secondo te una persona aroace può essere sex positive e perché?
stop.afobia_ita: La sex-positivity consiste nell’avere un’opinione positiva della sessualità, nel vederla come un qualcosa di sano e di piacevole, se fatto tra persone consapevoli e consenzienti. Io mi ritengo sex-positive e penso che tutte le persone, indipendentemente dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, dovrebbero esserlo.
Io: Mi accenni brevemente alla storia della vostra bandiera?
stop.afobia_ita: All’inizio si utilizzava principalmente il triangolo dello spettro asessuale di AVEN (il maggior portale d’informazione internazionale sull’asessualità). Nel 2010 è stata proposta su AVEN stesso quella che è l’attuale bandiera asessuale, composta da quattro strisce orizzontali: una nera (a indicare l’asessualità), una grigia (per la graysessualità e la demisessualità), una bianca (per i partner allosessuali, cioè non-asessuali) e, infine, una viola (che sta a significare “comunità”).
 
Io: Ti ringrazio molto per per le tue risposte esaustive. Vuoi chiudere quest’intervista con un’ulteriore riflessione o appello per chi la leggerà?
stop.afobia_ita: Ringrazio te per avermi dato quest’opportunità. L’unica cosa che voglio aggiungere riguarda la petizione che ho creato alcuni mesi fa. Il suo scopo è quello di far aggiungere nella Treccani i termini “asessuale”, “aromantico” e “afobia” e le rispettive definizioni corrette. La risposta che ho ricevuto da parte dei destinatari della petizione è che, per ora, ufficializzeranno solo il primo, poiché ci sono abbastanza attestazioni nei media. È un traguardo molto importante per la comunità asessuale, finalmente esisteremo, secondo la lingua italiana. La petizione rimane aperta, per chi volesse firmarla e condividerla. Perciò, ciò che chiedo a chi leggerà, è di parlare più spesso di aromanticismo e di afobia soprattutto su internet: se in futuro ci saranno maggiori riconoscimenti per questi termini, potrebbero venire inseriti anch’essi nella Treccani.
Io: Ancora grazie per tutte le informazioni. Buon attivismo!
stop.afobia_ita: Grazie a te e buon lavoro!”
D. Q.
Qui la petizione citata nell’articolo:
Bandiera asessuale
La bandiera asessuale (dal sito https://www.carrodibuoi.it/)
What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

INFERNO A BEIRUT

Stanno susseguendosi ininterrottamente, da quando è avvenuta, informazioni contrastanti e incerte sull’esplosione che ieri ha devastato Beirut, sia per quanto riguarda la causa scatenante sia la natura del materiale che avrebbe provocato  quest’immane catastrofe. Pressoché tutti gli organi di stampa, sia locali sia internazionali, fanno riferimento a circa 2700/2750 tonnellate di nitrato di ammonio che sarebbero state sequestrate ad una nave nel 2013 e da allora sarebbero state stoccate, senza sicurezza, vicino al porto di Beirut. Tale informazione deriverebbe  dal sito di opensource intelligence Bellingcat, considerato come fonte attendibile:

Left: image claimed to show Ammonium Nitrate shipment at port of Beirut. Right: still from video of fire

https://www.bellingcat.com/news/mena/2020/08/04/what-just-blew-up-in-beirut/

Unica voce a sollevare dubbi sarebbe finora quella di Danilo Coppe, fra i più importanti esperti di esplosivistica in Italia, che, in un’intervista al Corriere della Sera, espone la sua tesi dell’esplosione di un deposito di armamenti:

https://www.corriere.it/esteri/20_agosto_05/beirut-esperto-esplosivi-la-nuvola-arancione-scoppi-ecco-perche-credo-ci-fossero-anche-armi-6da4a01e-d71b-11ea-93a6-dcb5dd8eef08.shtml?fbclid=IwAR3K-PRrr9vU7iWcStDtpcRkQ5pQ2FKsW6VFiue2C-oZrFgoi_2GDZ4OlcA

Sulle cause poi girano diverse ipotesi, anche da penne autorevoli, ma nessuna di queste finora  può essere definita per ora certa: né l’ipotesi di uno scoppio accidentale né quella di un attentato alla vigilia del pronunciamento del tribunale internazionale, dopo quindici anni di attesa e di depistaggi e sabotaggi, sull’assassinio del politico e imprenditore libanese Rafiq Hariri, avvenuto Il 14 febbraio 2005. Per questa strage (insieme all’ex premier rimasero uccise altre 21 persone) sono imputati quattro miliziani di Hezbollah rimasti latitanti dal giorno del rinvio a giudizio.Su queste tesi ha scritto un articolo Riccardo Cristiano:

https://formiche.net/2020/08/beirut-libano-11-settembre/?fbclid=IwAR2BmD0AsBIlHIitq53dgsy_pP-VgZgnRrTNK9ixOqPR3u__CC3lifTJhTc

Il presidente Trump pensa ad una bomba:

https://www.theguardian.com/world/video/2020/aug/05/donald-trump-claims-lebanon-explosion-looks-like-a-terrible-attack-video

Israele ed Hezbollah si accusano a vicenda:

https://www.huffingtonpost.it/entry/accuse-incrociate-di-sabotaggio-tra-israele-ed-hezbollah_it_5f2a53a0c5b68fbfc889696b

L’unica cosa certa finora è l’immensità di questa tragedia che ha colpito un popolo già duramente provato dalla pandemia, da una gravissima crisi economica e che ora rischia anche la carestia: l’esplosione ha distrutto i silos di grano che contenevano l’85% delle riserve di cereali del Libano (https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-lesplosione-ha-distrutto-i-silos-di-grano-li-cera-85-delle-riserve-di-cereali-del-libano/5890923/). Il giornalista italiano, Lorenzo Forlani, presente a Beirut, ha provato, con un suo articolo su Il Fatto Quotidiano, a raccontare la disperazione in cui è precipitata la popolazione di Beirut. Al netto delle ipotesi rimangono, infatti, una città sventrata, il numero dei morti che sale di ora in ora, così come quello dei feriti e degli sfollati e,soprattutto, il dolore dei corpi martoriati.

Qui l’articolo di Lorenzo Forlani:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-devastata-dallesplosione-visi-insanguinati-urla-e-strade-scomparse-la-disperazione-di-una-citta-senza-pace/5890370/?fbclid=IwAR0iNH2eknawxDnKbkK1KgGfP1PZwfcZmsDtYZ7-cjS_2sG6_Eun0nW11zw

A ciò si aggiunge l’emergenza sanitari negli ospedali – di cui alcuni distrutti o danneggiati dall’esplosione – che non riescono a contenere il gran numero di feriti, come si legge in quest’ altro articolo di Forlani:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-dopo-lesplosione-ora-e-emergenza-sanitaria-negli-ospedali-dimessi-anche-i-pazienti-gravi-e-in-molti-fanno-rotta-verso-tripoli/5891079/?fbclid=IwAR0nONifKKyvulG7inSs9ETm18wVRsh7yialtbsoNgohOxHHV_d9qM6ca4U

Beirut, ospedali al collasso dopo l’esplosione: feriti curati nei corridoi e nei parcheggi: “Una catastrofe”

D. Q. 

 

 

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo

di Alessandra Vescio

Il 25 luglio scorso, il giornalista Mattia Feltri ha dedicato la sua rubrica “Buongiorno” sul quotidiano La Stampa al tema dell’asterisco e dello schwa [ndr, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale], soluzioni di cui da anni si discute negli studi di genere e in linguistica nell’ottica di creare un linguaggio inclusivo. Sarcasticamente intitolato “Allarmi siam fascistə”, nel suo pezzo Feltri ha schernito le proposte, considerandole di difficile applicazione, uso e pronuncia, e ha attribuito la soluzione dello schwa a “un’accademica della Crusca” che ne avrebbe – a suo dire – parlato su Facebook.

Pochi giorni dopo, il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini ha inviato una lettera di risposta al direttore de La Stampa Massimo Giannini per fare alcune precisazioni: “La notizia che un’accademica della Crusca si sarebbe pronunciata a favore dell’utilizzo dello schwa e dell’asterisco […] è falsa in tutti i sensi”, non solo perché “la persona con cui Mattia Feltri polemizzava non è affatto accademica della Crusca” e non lo è “da parecchio tempo”, ma anche perché “nessun accademico […] ha sostenuto quelle tesi”, anzi in più occasioni l’istituzione ha manifestato la stessa linea espressa da Feltri. Concludendo con “Ci riserviamo di difendere comunque nelle sedi opportune il buon nome dell’Accademia”, il presidente Marazzini ha dunque criticato l’operato del giornalista in particolar modo per aver associato l’istituzione a una (ex) collaboratrice e alle sue tesi, ma ha anche fatto emergere una certa affinità con Feltri e non soltanto per le posizioni sulle questioni linguistiche. Com’è stato infatti fatto notare dalla scrittrice Carolina Capria e dalla giornalista e autrice Loredana Lipperini, né il Presidente dell’Accademia della Crusca né Mattia Feltri hanno fatto il nome della donna di cui stavano parlando, mostrando così non solo la volontà di dissociarsi da lei e dai temi di cui si occupa, ma anche di svilirne il lavoro e la dignità personale e professionale. Una posizione che l’Accademia ha ribadito anche in un post successivo, pubblicato il 3 agosto, in cui il Presidente Marazzini ha parlato di “disinvolta leggerezza” con cui La Stampa ha attribuito la qualifica di accademica a “persona che non aveva nessun diritto a tale titolo”.

Chi è del settore o conosce l’ambiente, ha capito presto che Marazzini e Feltri stavano parlando di Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice e docente universitaria, che – come ha tenuto a precisare nuovamente l’Accademia in un post con scopo di chiarimento – ha interrotto la collaborazione con l’istituzione nel 2019. Gheno, autrice di numerosi saggi di linguistica e comunicazione tra cui “Potere alle parole” e “Femminili singolari”, da tempo studia alcuni fenomeni linguistici molto dibattuti come il superamento del binarismo di genere e del maschile sovraesteso nella lingua italiana.

Il maschile sovraesteso

L’italiano è una lingua flessiva con due soli generi, il maschile e il femminile, e in caso di moltitudini miste prevede che si ricorra al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato: basta che un solo uomo sia presente in un gruppo numeroso, infatti, per declinare il plurale al maschile.

L’Enciclopedia Treccani, in un approfondimento sul rapporto tra genere e lingua, spiega i modi diversi con cui il maschile sovraesteso si applica nella lingua italiana: con il ricorso a termini maschili che indicano gruppi composti da uomini e donne (“i politici italiani”, per indicare donne e uomini in politica); con quella che viene definita “servitù grammaticale”, ovvero l’accordo al maschile in presenza di parole maschili e femminili (“bambini e bambine erano tutti stretti ai loro genitori”) o tramite l’utilizzo di espressioni fisse al maschile che possono però anche riferirsi alle donne (“i diritti dell’uomo”, per indicare “i diritti umani”). “Ancora più particolare”, prosegue Treccani, “è l’uso di termini, professionali e no, al maschile, quando il referente, noto e specifico, è donna”.

Dei nomina agentis (o nomi professionali) al femminile si discute in Italia da molto tempo: ne hanno parlato ad esempio Alma Sabatini, nel suo saggio “Il sessismo nella lingua italiana” nel 1987, e Cecilia Robustelli, nelle “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, sottolineando la validità linguistica e l’importanza politica di declinare al femminile le professioni svolte da una donna. In uno dei suoi ultimi lavori, anche Vera Gheno ha mostrato come da un punto di vista linguistico l’italiano ammetta e preveda la formazione dei femminili. Le forzature e le stonature che alcune persone dichiarano di percepire quando si declinano certi termini al femminile, perciò, non possono essere ricondotte a motivazioni grammaticali e morfologiche quanto a una questione di abitudine o a un fatto socio-culturale, per cui il ricorso al femminile – stereotipicamente considerato come più debole rispetto al maschile – porta a immaginare uno svilimento della carica o del ruolo professionale.

Se la lingua evolve, però, è perché la società in cui viviamo sta cambiando: fino a non molto tempo fa, infatti, la presenza delle donne era limitata in alcuni settori e posizioni lavorative, per cui la necessità di declinare i nomi delle professioni in maniera corretta non era così ampiamente diffusa. Oggi che invece ci sono molte più avvocate, ministre, sindache, assessore, chiamarle con il loro nome diventa un’affermazione di esistenza, oltre che un’operazione linguisticamente esatta.

Come fa notare poi Gheno nel suo lungo e articolato post di risposta al “Buongiorno” di Feltri, il maschile sovraesteso viene spesso confuso con il genere neutro, che però in italiano non esiste: la nostra lingua infatti, come si è detto, comprende solo due generi, il maschile e il femminile, motivo per cui si parla anche di binarismo linguistico.

Il binarismo di genere e il rapporto con la lingua

Il binarismo di genere è un concetto che deriva dai gender studies e riconosce l’esistenza di due sole categorie, uomo e donna, a cui sono associati ruoli e caratteri specifici: all’uomo corrisponde tutto ciò che nell’immaginario comune è considerato maschile, alla donna tutto ciò che è definito come stereotipicamente femminile.

Il binarismo di genere non ammette, dunque, l’esistenza di identità di genere altre rispetto a quelle di uomo e donna, rinnega la distinzione tra sesso e genere e si basa su preconcetti che ci portano a definire per esempio la forza e l’autorevolezza come tratti tipicamente maschili e la sensibilità e la predisposizione alla cura come caratteristiche femminili. Il sesso e il genere invece sono ormai anche a livello istituzionale concepiti come entità separate: il sesso è l’insieme di caratteristiche fisiche, biologiche e anatomiche che caratterizzano un individuo mentre il genere è un costrutto sociale, che cambia nel tempo e nello spazio, e riguarda i comportamenti che la società attribuisce a un determinato sesso (ovvero il ruolo di genere), ma anche la percezione che ciascuno ha di sé (l’identità di genere). Il superamento del binarismo implica la concezione del genere non più come una classificazione fatta da due soli elementi, bensì come uno spettro di più possibilità. Coloro che non si identificano nelle categorie uomo-donna, ad esempio, possono riconoscersi come persone non binarie. Anche le persone transgender, ovvero coloro che hanno un’identità di genere diversa rispetto al sesso assegnato alla nascita, possono non rivedersi nel binarismo; e lo stesso vale per le persone intersex, ovvero chi nasce con caratteristiche cromosomiche, anatomiche e/o ormonali che non possono essere definite rigidamente come maschili o femminili.

Negli studi di genere e in certi ambiti della linguistica, ci si sta dunque interrogando su come costruire un linguaggio inclusivo che tenga conto di tutte le soggettività.

Le proposte per un linguaggio inclusivo

Nel saggio “Femminili singolari”, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice effequ, l’autrice Vera Gheno propone – a suo stesso dire, in modo scherzoso – l’introduzione dello schwa, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale. Per fare un esempio, nella frase “Buonasera a tutti” rivolta a un gruppo misto di persone, si potrebbe sostituire il maschile sovraesteso espresso dalla desinenza “-i” con lo schwa e dire dunque “Buonasera a tuttə”. La pronuncia corrisponde a un suono vocalico neutro, indistinto, già presente in molti dialetti del centro e sud Italia.

A prendere spunto da questa riflessione è stata proprio la casa editrice effequ in un’altra delle sue pubblicazioni. In “Il contrario della solitudine”, scritto dall’autrice brasiliana Marcia Tiburi e tradotto da Eloisa Del Giudice, effequ ha infatti introdotto lo schwa in riferimento a una moltitudine mista. Nel testo originale Tiburi ha adottato una delle soluzioni più utilizzate dai movimenti femministi e dalla comunità LGBTQIA+ di lingua spagnola, ovvero sostituire la desinenza maschile “-o” e quella femminile “-a” con una neutra “-e”, scrivendo per esempio “todes” al posto di “todos”. Per mantenere la neutralità del linguaggio e rispettare la scelta politica dell’autrice, effequ ha perciò deciso di tradurre “todes” con “tuttə”.

Per quanto al momento lo schwa appaia come la soluzione più praticabile poiché si tratta di un fonema neutro, già esistente e applicabile, presenta anch’esso dei limiti. Come spiega infatti proprio Gheno in un articolo uscito su La Falla, magazine del Cassero LGBT Center di Bologna, lo schwa “non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer”, ma solo nella sezione dei simboli e caratteri speciali dei programmi di scrittura: conseguenza di ciò è che scrivere un testo con lo schwa può risultare piuttosto macchinoso. Inoltre, essendo un suono presente solo in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, può risultare difficile da comprendere e pronunciare per coloro che non conoscono e non parlano quei dialetti. Per provare a far fronte a queste difficoltà, è nata “Italiano inclusivo”, una piattaforma che ha lo scopo di promuovere l’introduzione dello schwa e superare il binarismo linguistico. “Italiano inclusivo” infatti offre diversi strumenti utili per conoscere, scrivere e pronunciare il fonema.

Nel frattempo, molte altre sono le proposte di cui si discute nell’ambito degli studi di genere, come l’asterisco o la vocale “-u” (che però in alcuni dialetti italiani indica il maschile). In una nota introduttiva al suo saggio “Post porno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali” (Eris Edizioni), ad esempio, l’autrice Valentine Wolf chiarisce che, “in un’ottica di inclusività”, nel testo si è preferito non ricorrere al maschile generalizzato ma utilizzare l’asterisco e la desinenza “-u”. Proprio pochi giorni prima dell’uscita del “Buongiorno” di Feltri in cui si è parlato dello schwa, anche la condivisione di questa nota sui social ha generato una serie di reazioni polemiche e sprezzanti.

Il linguaggio inclusivo negli altri paesi

Mentre l’Accademia della Crusca ha manifestato ritrosia nei confronti della presa in considerazione di soluzioni inclusive, in molti altri paesi il tema dell’inclusività e il rispetto delle soggettività sono centrali anche da un punto di vista linguistico. Nel 2019 il celebre vocabolario statunitense Merriam-Webster ha scelto il pronome “They” come parola dell’anno. Nella lingua inglese infatti si sta sempre più diffondendo l’uso di “they” e “them” come pronomi singolari, per riferirsi alle persone non binarie e che dunque non si riconoscono nei pronomi “he/him” (lui), “she/her” (lei).

In Svezia, invece, nel 2015 l’Accademia che ogni dieci anni aggiorna il dizionario ufficiale della lingua, ha introdotto il pronome neutro “hen”, da utilizzare in relazione a persone che non si identificano nel pronome maschile (“han”) o femminile (“hon”) o laddove non si voglia fare riferimento al genere di qualcuno. Per quanto riguarda la Germania, dove il dibattito è da tempo molto acceso, il ministero della Giustizia ha di recente invitato gli uffici pubblici a utilizzare un linguaggio neutro nelle comunicazioni ufficiali. E ancora, nello spagnolo, oltre alla già citata desinenza “-e”, si sta diffondendo l’uso del simbolo “-@” e della lettera “-x” per sostituire il maschile generalizzato.    

Una nuova esigenza sociale

Ogni scelta linguistica è una scelta politica”, ha scritto la giornalista Jennifer Guerra nel suo saggio femminista “Il corpo elettrico” (edizioni Tlon). In una vera e propria “Nota alla traduzione”, infatti, l’autrice parla della necessità di un continuo confronto che durante la stesura del libro, proprio come fa di solito chi traduce un testo, ha dovuto mettere in atto con il linguaggio e con le parole, affinché la complessità potesse essere raccontata al meglio.

Di complessità ha parlato anche la stessa Vera Gheno nel suo intervento a “Prendiamola con filosofia”, evento organizzato dall’Associazione Tlon il 23 luglio scorso. “Saper vivere la complessità del presente”, infatti, è una delle competenze che la linguista definisce essenziali per essere pienamente cittadini, da aggiungere a “saper leggere, scrivere e far di conto”, menzionate da Don Milani. Saper vivere la complessità del presente vuol dire, secondo la studiosa, anche riconoscere il cambiamento e provare curiosità nei suoi confronti, anziché rifiutarlo a priori. Proprio le discussioni attorno allo schwa, continua Gheno, testimoniano che qualcosa attorno a noi si sta muovendo: “C’è una nuova esigenza sociale alla quale la lingua sta cercando di stare dietro”, ha detto la studiosa, e ha aggiunto che se una lingua viva continua a creare parole nuove è perché “la realtà continua a cambiare”.

Immagine in anteprima via breezy.hr

 

Fonte:

https://www.valigiablu.it/linguaggio-inclusivo-dibattito/

 

What do you want to do ?

New mail