La «banda Bellini» perde anche Andrea, protagonista degli anni 70

Dopo il fratello Gianfranco, scomparso quattro anni fa, se ne è andato un altro del Casoretto. Aveva 65 anni. Uno dei leader dell’estrema destra, Valerio «Giusva» Fioravanti, cercò di ucciderlo in un agguato

di Matteo Speroni

Andrea Bellini
Andrea Bellini

La notizia è circolata lunedì nel tardo pomeriggio sui social network e ha subito suscitato il cordoglio di tanti amici e «compagni»: per un male incurabile è morto, a 65 anni, Andrea Bellini, noto a Milano perché tra i fondatori, negli anni Settanta, della cosiddetta «banda Bellini» o «banda del Casoretto», gruppo movimentista spontaneo nato, appunto, nella zona del Casoretto, tra Lambrate e via Padova. Non etichettabile politicamente in modo preciso, la banda Bellini si muoveva, soprattutto con azioni collettive di piazza e di strada, all’interno della galassia comunista ma con spirito autonomo e libertario. Guidata dai fratelli Andrea e Gianfranco Bellini (scomparso nel 2012), la banda era considerata tanto pericolosa dai nemici politici da muovere uno dei leader dell’estrema destra, Valerio «Giusva» Fioravanti, a tendere un agguato ai fratelli armato di fucile e appostato sotto casa loro in un’ambulanza per tre giorni: l’episodio è descritto nel libro «La banda Bellini» di Marco Philopat (edito da Einaudi nel 2007 e ora uscito di nuovo per Agenzia X), che ha raccolto i racconti di Andrea Bellini. «Andrea — dice Philopat — ha sempre cercato di tramandare la memoria di quegli anni ai più giovani, narrando la sua storia e quella della “banda” con i tratti dei film western alla Sam Peckinpah o Sergio Leone. Con la metafora cinematografica è riuscito a creare la mitologia di un’epoca».

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Fonte:
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/16_dicembre_27/banda-bellini-perde-anche-andrea-protagonista-anni-70-ec1acc90-cc0f-11e6-89aa-18ad6a6eb0ec.shtml

Franca Viola, la ragazza che rifiutò il matrimonio riparatore e cambiò la storia d’Italia

Franca Viola venne rapita il giorno di Santo Stefano del 1965. Segregata in casa e stuprata per più di una settimana, una volta liberata rifiutò il matrimonio con il suo aguzzino e si batté per l’abrogazione dell’art. 544 del codice penale che concedeva a violentatori e stupratori la possibilità di scampare alla condanna semplicemente promettendo di sposare la vittima del reato.

26 dicembre 2016 15:27
di Charlotte Matteini

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Il giorno di Santo Stefano riporta alla mente una storia tutta italiana che sconvolse la società del tempo, arrivando a modificare irreparabilmente non solo, in seguito, il codice penale ma anche e soprattutto la mentalità del Belpaese. Correva l’anno 1965 e l’allora 17enne Franca Viola, giovane ragazza siciliana di Alcamo, venne rapita insieme al fratellino di 8 anni, segregata in casa e ripetutamente violentata per otto giorni consecutivi da Filippo Melodia, un ragazzo del posto. Il giorno di capodanno, il padre di Franca Viola fu contattato dai parenti di Melodia sostanzialmente allo scopo di costringere i genitori della ragazza ad accettare le nozze riparatrici tra i due giovani – la cosiddetta “paciata” – all’epoca pratica molto in voga. I genitori di Franca finsero di accettare, ma in accordo con la polizia, il 2 gennaio 1966 fecero intervenire gli agenti per liberare la ragazza, facendo arrestare Melodia e i suoi complici.

Per quale motivo la storia di Franca Viola cambiò per sempre l’Italia? Secondo la morale dell’epoca, una ragazza non più vergine a causa di uno stupro avrebbe dovuto necessariamente sposare il suo rapitore per salvare il suo onore e, soprattutto, quello della famiglia. All’articolo 544 del codice penale, infatti si leggeva: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Traducendo, dunque, all’epoca la legge permetteva di estinguere il reato di sequestro di persona e violenza carnale ai danni di una donna semplicemente accettando di sposarla, da lì l’espressione matrimonio riparatore, riparatore per la fedina penale del reo che in questa maniera riusciva dunque a uscire completamente pulito nonostante avesse commesso un’azione aberrante. All’epoca, però, lo stupro non era considerato un reato contro la persona come oggi, ma un reato contro la morale pubblica e le pene, quindi, erano di molto inferiori rispetto a quelle odierne.

La vicenda di Franca Viola, però, sollevò forti e inaspettate polemiche, che contribuirono a un netto cambio di passo. Melodia fu processato e condannato a 11 anni di carcere, i giudici non credettero alle accuse lanciate dall’uomo per screditare la ragazza sostenendo che lei fosse d’accordo alla “fuitina” per mettere i genitori davanti al fatto compiuto e obbligarli a concedere l’autorizzazione al matrimonio. Il caso di Franca Viola, quindi, portò a manifestazioni e prese di posizione da parte delle femministe e della società civile, che premettero affinché venisse abrogato l’articolo 544 del codice penale che concedeva questa scappatoia a violentatori e stupratori. Così, dopo anni di dibattiti, l’articolo venne successivamente abrogato i 5 agosto del 1981, mentre solo 20 anni fa, nel 1996, lo stupro venne definitivamente riconosciuto in Italia come un reato contro la persona e non più contro la morale pubblica, con conseguente aumento della gravità e delle pene previste. Grazie alla sua battaglia, la giovane Franca Viola divenne – e tuttora è – simbolo dell’emancipazione femminile in Italia, la donna che è riuscita a cambiare per sempre la mentalità di un Paese.

 

 

Fonte:

http://www.fanpage.it/franca-viola-la-ragazza-che-rifiuto-il-matrimonio-riparatore-e-cambio-la-storia-d-italia/

Walter Alasia

Dal blog di Salvatore Ricciardi:

Ancora per ricordare Walter Alasia

Alcuni ricordi non “passano”. Come quello di Walter Alasia 20 anni operaio di Sesto S. Giovanni a Milano, un compagno, un comunista, un rivoluzionario. L’abbiamo ricordato nel post di 2 anni fa  qui. Ho pensato che forse è utile far … Continua a leggere

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In ricordo di Walter Alasia a 35 anni dall’uccisione

quella mattina del 15 dicembre 1976… «… si era trovato davanti quei “marziani”, quei poliziotti bardati con misure protettive, mio padre ha pensato per un attimo che venissero a prendere Walter perché non aveva risposto alla chiamata militare. Invece non … Continua a leggere

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…quella mattina del 15 dicembre 1976…

In ricordo di Walter Alasia a 38 anni dall’uccisione quella mattina del 15 dicembre 1976… «… si era trovato davanti quei “marziani”, quei poliziotti bardati con misure protettive, mio padre ha pensato per un attimo che venissero a prendere Walter … Continua a leggere

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…15 dicembre 1976, ore 5 di mattina, una casa popolare viene circondata da un foltissimo schieramento di forze dell’ordine…

36 anni fa ….  il piombo di stato cercava di spegnere il sorriso di un ragazzo di vent’anni appena compiuti. Il sorriso di Walter sapeva di lotta, di solidarietà, di ribellione, di rivoluzione. Quel sorriso portava con se le parole, … Continua a leggere

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Su Walter Alasia è stato scritto un libro:

Indagine su un brigatista rosso: la storia di Walter Alasia

Edito da Einaudi, Torino, 1991
134 pagine

di Giorgio Manzini

http://www.archivio900.it/it/libri/lib.aspx?id=427

 

20 Dicembre 1973: ETA giustizia Carrero Blanco

Martedì 20 Dicembre 2016 10:03


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Da diversi anni ormai, la dittatura fascista del generale Francisco Franco è scossa da un crescente malcontento sociale, che trova nelle mobilitazioni operaie la valvola di sfogo nei confronti di quello che è diventato il più longevo stato europeo guidato da un’esecutivo dichiaratamente reazionario e conservatore. La lettura di quegli anni, propagandata dal regime, parlava infatti di una crescente tolleranza nei confronti dei conflitti sociali, in un’ottica che aveva come obiettivo quello di smarcare il Governo spagnolo dal ricordo, ancora troppo vivo, degli orrori che i regimi nazionalsocialisti avevano perpetrato nella seconda Guerra Mondiale.

 

Al contrario però, mai come in quegli anni, Franco decide di attuare una feroce repressione contro tutti i suoi oppositori politici, concentrandosi con particolare accanimento nei confronti della popolazione basca in Euskal Herria. Dal 1961 fino alla morte del Caudillo, nel novembre del 1975, il Paese Basco viene sottoposto ben 9 volte allo stato di emergenza nel giro di neanche 13 anni, vivendo un totale di 4 anni e due mesi in condizioni di completa sospensione di ogni diritto civile fondamentale, con un potere di vita e di morte affidato alle Forze di Sicurezza dello Stato.

 

E’ in questo clima che Euskadi Ta Askatasuna, reduce dal grande processo di Burgos e dalle prime importanti vittorie ottenute sul campo politico e militare, decide di giustiziare il successore designato di Franco, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco.

L’operazione, chiamata “Ogro” (“orco” in italiano”) come il soprannome del nuovo presidente spagnolo, dura quasi nove mesi e porta la firma del «Commando Txikia» di ETA.

 

I quattro giovani baschi ai quali è affidata l’azione cominciano a seguire le mosse dell’ammiraglio nell’aprile del ’73, dopo aver affittato un seminterrato al n. 104 di calle Coello a Madrid, dove fingono di svolgere il mestiere di scultori. In realtà, l’idea iniziale era quella di sequestrare Carrero Blanco per chiedere in cambio la liberazione di alcuni detenuti politici, ma quando a luglio l’ammiraglio era divenuto capo del governo la scorta era stata rafforzata ed il piano di sequestro abbandonato.

Poichè dalla sua abitazione di via Hermanos Becquer, l’almirante (come era anche chiamato Blanco) era solito seguire in automobile il medesimo tragitto fino alla chiesa di S. Francisco de Borja di calle de Serrano di fronte all’ambasciata americana, per poi ritornare seguendo sempre lo stesso transito, ETA decide che il modo migliore per uccidero è tramite un attentato dinamitardo.

 

Il lavoro si rivela però lento e dispendioso, dal momento che impegna contemporaneamente tutti i componenti della squadra nello scavo di una galleria di otto metri, dalla casa fino al centro della strada, con un prolungamento a T di tre metri. Mentre uno scava, l’altro passa la terra all’indietro al terzo che ne riempie i sacchi di plastica e il quarto accatasta i sacchi nel locale. Bisogna poi puntellare la galleria e preparare le cariche di dinamite, che sono tre, da quindici chili l’una, predisposte per l’esplosione simultanea con un filo elettrico. Un altro problema è quelllo di allontanare il più possibile l’interruttore che deve comandare l’esplosione stessa, per rendere possibile la fuga. Per questo venne previsto un filo che uscendo dalla finestra prosegua all’altezza del primo piano, fino all’incrocio con la calle Diego de Leon, a 50 metri circa.

 

L’operazione, prevista per il 19 dicembre, viene posticipata al giorno successivo. Poco prima dell’ora stabilita, uno degli “scultori” parcheggia, in seconda fila all’altezza della galleria, una “Morris” carica di dinamite, con il triplo scopo di rafforzare l’esplosione, obbligare l’automobile di Carrero Blanco a passare in mezzo alla strada e dare un punto di riferimento per un osservatore situato all’angolo Coello-Leon (il dispositivo detonatore, alimentato da tre batterie in serie, è sistemato dietro l’angolo e gli addetti, travestiti da operai dell’azienda elettrica, non possono vedere la via Coello). Quando la macchina dell’ammiraglio raggiunge la zona “ideale”, al segnale stabilito il contatto elettrico fa saltare in aria l’auto dell’ammiraglio.

L’automobile di Carrero Blanco vola per sei piani, oltrepassa il tetto di un palazzo e finisce su un balcone interno al terzo piano. Le guardie del corpo, scese malconce dall’automobile di scorta finita contro un muro, non si rendono conto dell’accaduto per molto tempo, mentre i quattro “etarras” hanno tutto il tempo per fuggire in tranquillità dalla capitale.

 

Nei giorni successivi, il Partito Comunista e vari esponenti dell’opposizione antifranchista e democratica, parlarono di provocazione, di possibile azione di “ultrà” fascisti, poi, di fronte alla circostanziata rivendicazione dell’attentato da parte di ETA, di atto irresponsabile che avrebbe fatto il gioco del regime. La realtà fu che tutto il popolo spagnolo, e non solo gli abitanti di Euskal Herria, furono ben felici della morte di colui che, a tutti gli effetti, si era dimostrato degno continuatore delle politiche del regime franchista.

Al governo subentrò Carlos Arias Navarro, estendendo a tutti i settori la sensazione che ci si trovasse di fronte all’imminenza di un passaggio di regime. In realtà apparve chiaro che il regime, per sopravvivere, doveva cambiare forma, mentre la sinistra patriottica basca intuì immediatamente che esso andava incontro ad una sorta di autoriforma verso una democrazia costituzionale “limitata”, evitando così la possibilità di una insurrezione armata popolare.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3549-20-dicembre-1973-eta-giustizia-carrero-blanco

Genocidio Ruanda, Chiesa Cattolica: “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi”

Genocidio Ruanda, Chiesa Cattolica: “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi”
 
La Chiesa Cattolica del Ruanda chiede pubblicamente scusa per il ruolo svolto nel genocidio del 1994, dove quasi un milione di persone vennero brutalmente uccise. “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi. Siamo costernati dal fatto che appartenenti alla chiesa abbiano violato il proprio giuramento con Dio”, recita un comunicato dei vescovi ruandesi.Nel documento si ammette che elementi della chiesa hanno pianificato, aiutato e posto in essere il genocidio, nel quale oltre 800.000 persone di etnia Tutsi e alcuni moderati Hutu vennero massacrati dagli estremisti Hutu. Molte delle vittime vennero uccise nelle chiese dove avevano trovato rifugio, con la complicità di alcuni preti. Come Athanase Seromba, presbitero della chiesa cattolica, condannato all’ergastolo dal Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda.

Secondo quanto riportano le testimonianze, fra 6 aprile e il 20 aprile 1994, Seromba fece abbattere a colpi d’artiglieria la propria chiesa al fine di uccidere circa 2000 Tutsi che visi erano rifugiati attirati dallo stesso sacerdote. Poi, partecipò attivamente anche al successivo massacro dei pochi superstiti. Per sfuggire alla giustizia, Seromba fuggì prima nella Repubblica Democratica del Congo, poi in Toscana sotto falso nome. In Italia, fu accolto nella  parrocchia dell’Immacolata e S. Martino in Montugni di Firenze. Solo nel 2002 si consegnò alla giustizia internazionale che nel 2008 lo condannò all’ergastolo.

Fonte:

La marcia trans nel nome di Hande Kader

Hande Kader era diventata l’icona del movimento lgbt in Turchia. I fotografi l’avevano immortalata al gay pride dell’estate 2015, a Istanbul, mentre resisteva alla repressione della polizia: una giovane transessuale di 22 anni contro l’«ordine» del sultano Recep Erdogan, che non tollerava quel genere di manifestazione blasfema nel mese del Ramadan. Lo scorso agosto è stata uccisa, in circostanze non ancora chiarite e che difficilmente si chiariranno. A lei è idealmente dedicata la Trans freedom march, il corteo per i diritti e le libertà delle persone transessuali, giunto alla terza edizione, che attraverserà oggi pomeriggio le strade di Torino (partenza ore 16,30 da Piazza Vittorio Veneto).

La manifestazione è solo l’evento principale fra una serie di appuntamenti che si svolgono nel capoluogo in occasione della giornata internazionale in memoria delle vittime della transfobia: ad organizzare è il Coordinamento Torino pride, con patrocinio di comune e regione (oggi sfilerà anche la sindaca 5stelle Chiara Appendino con famiglia e fascia tricolore»), e con il supporto di Cgil, Cisl e Uil.

Lo stesso drammatico destino dell’attivista turca è stato condiviso,fra ottobre 2015 e settembre 2016, da altre 294 persone in tutto il mondo, come rilevato nel rapporto stilato da Transgender Europe, rete internazionale per i diritti delle persone trans. Il primato lo detiene il Brasile, seguito da Messico e Stati Uniti. Nel Vecchio continente la macabra classifica è guidata da Italia e Turchia, con 5 morti violente in ciascun Paese. Statistiche che riguardano solo gli omicidi accertati, e dunque che vanno arrotondate per eccesso.

Dal 2008, cioè da quando si celebra il giorno della memoria delle vittime della transfobia, le morti violente di cui si è avuta notizia sono state 2264: anche nel computo assoluto gli stati europei dove la situazione è più grave sono gli stessi, Turchia (44 vittime) e Italia (32). Proprio alla situazione in questi due Paesi è dedicato il convegno in programma domattina (ore 9,30 Museo della Resistenza), che vedrà la partecipazione di due esponenti dell’organizzazione lgbt turca Pembe Hayat e dell’eurodeputato Daniele Viotti (Pd).

Obiettivi della violenza omicida – rivelano i dati di Transgender Europe – sono nella stragrande maggioranza dei casi le persone trans che si prostituiscono. E i più indifesi tra gli indifesi, in un intreccio di transfobia e razzismo, sono i migranti: in Europa, gli stranieri sono un terzo di tutte le vittime conteggiate dal 2008.

Nei nomi di Hande Kader e delle altre 294 trans uccise che verranno letti al termine del corteo torinese risuonerà forte la richiesta di giustizia, ma anche la ribellione alle discriminazioni, nella Turchia di Erdogan come ovunque. Non solo: la memoria delle vittime sarà anche rivendicazione orgogliosa della propria identità, contro chi riduce le vite delle persone trans a «devianza» da compatire, a malattia da curare o a fenomeno da baraccone.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/la-marcia-trans-nel-nome-di-hande-kader/

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Dario Fo, 1926-2016

  • 13 Ott 2016 12.21

 

Nato a Sangiano, in provincia di Varese, Dario Fo è stato un artista eclettico – attore, regista e autore teatrale, scrittore, pittore – che, rifacendosi alla tradizione della commedia dell’arte e sposandola con il suo impegno politico, da sempre controcorrente, ha dato vita a un’opera satirica capace di arrivare a tutti. Spettacoli come Mistero buffo, Morte accidentale di un anarchico o Lu santo jullare Francesco hanno fatto il giro del mondo. Nel 1954 sposò l’attrice Franca Rame che rimase sempre al suo fianco, nell’attività teatrale e nella vita, fino alla sua morte, nel 2013. È proprio a Franca Rame che Fo ha dedicato il premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1997. Dario Fo è morto a Milano il 13 ottobre 2016. Aveva novant’anni.

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/foto/2016/10/13/dario-fo-foto

SHIMON PERES, L’OMBRA DELLA STRAGE DI QANA

Pubblicato il:
28 settembre 2016
Elisa Bianchini

Morto l’ex premier israeliano: fu Nobel per la pace ma sul suo capo pesano anche gravi accuse per crimini commessi contro i palestinesi
Shimon Peres, ex presidente israeliano

La notte scorsa è morto Shimon Peres, colpito da un ictus alla veneranda età di 93 anni. L’ex presidente dello Stato di Israele è ricordato in tutto il mondo per il suo contributo agli accordi di pace in #Palestina, ragion per cui venne insignito dell’apposito premio Nobel. Ci sono altre testimonianze, però, che lo descrivono come uno dei più cruenti fautori di stragi e persecuzioni a carico del popolo palestinese. Il futuro presidente israeliano emigrò con la famiglia dalla Polonia in Palestina, insieme ai suoi genitori, nel 1932 quando aveva 9 anni. Nel 1947, a 24 anni, faceva parte dell’organizzazione Haganah, come responsabile per l’acquisizione di armi. Tale gruppo paramilitare è stato definito terroristico negli anni, perchè accusato di compiere atti violenti contro i palestinesi e di favorire l’immigrazione clandestina israeliana in Medio Oriente. La carriera militare di Peres è poi progredita ed egli ha occupato ruoli di primo piano nella gerarchia dele forze armate: lo ricordiamo come capo della marina israeliana, ruolo che gli permise di stringere rapporti strategici con gli Stati Uniti. Ma anche come responsabile del progetto per la costruzione della centrale nucleare di Dimona, attraverso cui permise ad Israele di acquisire armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa.

Il massacro di Qana

Con Ariel Sharon al capo del governo ebraico, Peres ebbe la possibilità di fermare con la violenza i tentativi indipendentisti palestinesi guidati da Yasser Arafat. Migliaia di persone, per lo più civili, trovarono la morte nella repressione della prima Intifada nel 1987. Inoltre Peres e Sharon favorirono la creazione, definita illegale dalle associazioni internazionali, delle colonie ebraiche su territorio palestinese, favorendo così l’acuirsi dei problemi fra le due popolazioni e l’apartheid palestinese. Uno dei casi più controversi che coinvolse il premio Nobel per la Pace fu il massacro di Qana, il 18 aprile 1996, durante il periodo della sua presidenza. Fu Peres infatti a lanciare l’operazione Grapes of Wrath contro la resistenza libanese, con lo scopo di distruggerla. Le bombe lanciate nella notte e l’intervento dell’artiglieria israeliana distrussero un palazzo di quattro piani e gli edifici circostanti. Più di 200 civili persero la vita, morte nel sonno o nei giorni successivi. Le immagini dei bambini estratti dalle macerie fecero il giro del mondo. Dopo la condanna internazionale dell’operazione, Peres parlò ufficialmente di errore, scusandosi per il dolore provocato. Un’indagine delle Nazioni Unite però dimostrò come i bombardamenti fossero premeditati da Israele, grazie a dei video girati poco prima dell’inizio delle aggressioni.

Fonte:

 

http://it.blastingnews.com/politica/2016/09/shimon-peres-l-ombra-della-strage-di-qana-001123021.html

16 settembre 1976 la “Noche de los lapices” in Argentina

Il 16 settembre del 1976 a La Plata, Argentina, un’operazione della polizia militare portava al sequestro di sei studenti tra i 14 e 17 anni, poi desaparecidos.

I sei giovanissimi liceali, militanti dell’organizzazione peronista Unione degli Studenti Secondari, furono sequestrati dallo Stato e internati in differenti campi di tortura in quanto “sovversivi”, ovvero “colpevoli” di lottare per i diritti degli studenti, nello specifico in quanto promotori di una mobilitazione per il riconoscimento del trasporto gratuito per gli studenti, un decreto approvato un anno prima e poi revocato dal governo militare (lotta che è proseguita fino allo scorso anno, quando è stata finalmente e nuovamente approvata la legge, oggi definanziata dal governo Macri con l’obiettivo di annullarla de facto).

Oltre ai sei desaparecidos, Claudio De Acha, María Clara Ciocchini, María Claudia Falcone, Francisco López Muntaner, Daniel Racero e Horacio Ungaro, in quei giorni furono arrestati altri quattro giovanissimi studenti, anch’essi tra i 14 e i 17 anni, tra cui Pablo Diaz, militante della Gioventù Guevarista, uno dei quattro sopravvissuti del gruppo. Grazie alle sue testimonianze questa storia di desapariciòn e torture di Stato è stata successivamente ricostruita, tanto da essere poi pubblicata nel libro “La noche de los lapices”, da cui fu tratto un omonimo film (in italiano il titolo è stato tradotto “La notte delle matite spezzate”).

Uno dei responsabili dell’operazione e dei centri di tortura dove i ragazzi furono detenuti prima della desapariciòn, Miguel Osvaldo Etchecolatz, condannato a sei ergastoli per crimini di lesa umanità (sia per questi fatti che per le responsabilità in moteplici altri casi di tortura e sparizioni, nell’ambito dello sterminio di una generazione politica combattiva), è salito agli onori delle cronache suscitando proteste in tutto il paese lo scorso luglio per la richiesta, accordata ma non resa effettiva, di scontare il resto della pena ai domiciliari per motivi di salute. Va ricordato inoltre che il testimone chiave del processo che ha condannato il genocida Ethchecolatz è Julio Lopez, sequestrato e sopravvissuto durante la dittatura, nuovamente desaparecido per la seconda volta dieci anni fa, mentre era in corso il processo, in tempi di democrazia. Una mostra d’arte, intitolata “Dieci anni con Julio Lopez: dove sei finito?”, che ha visto la partecipazione di decine di artisti argentini ed internazionali, lo ricorda proprio in questi giorni a Buenos Aires, nell’indifferrenza del governo e dei tribunali, mentre il 18 settembre è stata lanciata una manifestazione per chiedere verità e giustizia che attraverserà il centro della capitale argentina per concludersi a Plaza de Mayo. Il nome di Julio Lopez, così come dei sei desaparecidos della “Notte delle matite spezzate”, appaiono insistentemente in queste settimane su stencil, murales e scritte nelle scuole e sui muri della città.

A 40 anni dai fatti, mentre in tante città argentine si scende in piazza per ricordare i sei ragazzi rivendicando con forza la memoria e la lotta dei giovanissimi studenti torturati e desaparecidos dalla dittatura civico-militare, l’attualità delle loro battaglie continua ad essere lampante. Che l’educazione come pratica di liberazione ed emancipazione costituisca un problema per chi vuole imporre il pensiero unico, ieri come oggi, è evidente dalle recenti dichiarazioni del ministro dell’educazione Bullrich, esponente del governo Macri.

Inaugurando un liceo in Patagonia, Bullrich proprio ieri ha dichiarato: “Inauguriamo con Macri una nuova Campagna del Deserto, questa volta non con le spade ma con l’educazione”. Il riferimento è chiaro: si parla dello sterminio degli indigeni della Patagonia, avvenuto con la cosiddetta “Campagna del deserto” nel 1870 guidata dal generale Roca, recentemente “riabilitato” dal quotidiano conservatore La Nacion e dal governo Macri, che ha rivendicato pubblicamente la figura di un militare passato alla storia come genocida. Il “deserto” a cui si riferisce il nome della campagna militare era la Patagonia: peccato che il cono sud del paese non fosse assolutamente un “deserto”, nè un territorio disponibile ad essere conquistato dalla “civiltà” dello Stato Nazione in formazione, ma una terra abitata da migliaia di persone disposte a lottare per difendere la propria libertà, la propria terra e la propria cultura, infine sterminate dai militari mandati da Buenos Aires in nome della civilizzazione e dello Stato nazione.

Rivendicare quella infame campagna per pubblicizzare il nuovo corso delle politiche del governo conservatore argentino in materia di educazione la dice lunga tanto sulla cultura politica dei ministri del governo in carica quanto sull’attualità delle lotte degli studenti desaparecidos 40 anni fa, così come dell’importanza delle lotte di quelli che oggi in migliaia ne rivendicano proprio in queste ore il ricordo nelle piazze di decine di città, testimoniando ancora una volta l’importanza della memoria come strumento di lotta. L’accostamento della “Conquista del deserto” alla politica educativa è un fatto aberrante, come se gli studenti, le scuole e università fossero un “deserto” da conquistare. Una logica che presuppone una pedagogia violenta ed autoritaria, disconoscendo volutamente il fatto che gli studenti e i docenti siano soggetti attivi e dotati di senso critico, che le scuole e le università siano spazi in cui sviluppare conoscenze, condividere sapere critico, praticare la libertà di apprendimento ed insegnamento e crescere collettivamente: oggi come ieri, il sapere e l’educazione sono un campo di battaglia.

Dato che sappiamo da che parte stare, oggi ricordiamo con forza quei giovanissimi studenti massacrati dallo Stato: coscienti che la memoria debba continuare ad essere uno strumento partigiano di lotta collettiva, noi non dimentichiamo e siamo al fianco degli studenti che lottano oggi, il miglior modo per ricordare gli studenti desaparecidos di ieri.

 

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/16-settembre-1976-la-noche-de-los-lapices-in-argentina