Il Ban di Trump e la Guerra Santa del nerd canadese

31 gennaio 2017

Pubblicato da

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. L’ordine mondiale è scosso dal Ban di Trump, che impedisce l’ingresso negli Stati Uniti a i cittadini di Iran, Iraq, Libya, Somalia, Sudan, Syria and Yemen. Sulla prima pagina del New York Times tiene banco il conflitto istituzionale circa la nomina del nuovo Attorney General, in relazione alla legalità del Ban e dell’opportunità che i legali del Dipartimento della Giustizia lo dichiarino ammissibile. La nostra agenda ci porta, però, in Canada, a Quebec City, appresso ad una notizia che sta riscuotendo attenzione molto inferiore alla portata del fatto, di gravità pari, se non superiore a vari altri che abbiamo seguito e discusso. Si tratta dell’attentato alla moschea locale, nel corso del quale sono morte sparate sei persone e otto altre sono rimaste ferite. Il fatto, del quale si trova traccia soltanto nei tagli bassi delle testate di tutto il mondo, avrebbe di certo suscitato una diversa attenzione, qualora l’obiettivo fosse stato altro, cioè uno dei riferimenti dell’occidente libero e democratico e l’attentatore fosse stato un musulmano qualunque, uno di quelli che urlano “Allah Akbar”, per capirci, che poi hanno spesso e volentieri urlato altro, come s’è detto e ridetto. Gli elementi di interesse, almeno per noi, sono moltissimi. Prima di tutto il profilo di questo Alexandre Bissonnette, un vero freak da tutti i punti di vista, poi il fatto che questo episodio abbia luogo in Canada all’inizio dell’era Trump, in relazione alla posizione liberal che Trudeau ha assunto sulla questione dell’immigrazione, quindi, forse soprattutto, il tema della “Guerra Santa”, che, misteriosamente, non affiora a titoloni cubitali sulle prime pagine dei giornali. Anche limitandoci allo squallido teatrino di casa nostra viene soprattutto da domandarsi dove sia l’editoriale di Panebianco, dove siano i memi di Oriana che aveva previsto tutto e perché oggi la guerra santa non “la fa l’ACI” (lo so, ce lo devo mettere ogni volta, è un po’ un tormentone, ma fa troppo ride’). Inoltre, e questo è l’aspetto che ci ricollega a tutta la questione delle fake news, nelle prime ore seguenti l’attentato circolava nei mezzi d’informazione la notizia che l’autore dell’attentato fosse un marocchino non meglio identificato, di quelli che appunto urlano “Allah Akbar” prima di ammazzare la gente.

Lorenzo. Mettiamo due cose una dietro l’altra, concedendoci il tempo di fare quello che abbiamo fatto con Masharipov, Amri e tutta la compagnia. E ripetendo il mantra delle 36 ore, prima delle quali dire qualcosa di sensato è sostanzialmente inutile e dopo le quali è quasi del tutto inutile dire qualcosa, perché le idee e le emozioni sul fatto si sono già ampiamente formate. Primo: appiccico un po’ di cose su questo “allah akbar”, riguardo al cui uso e alla cui diffusione in quanto meme – lo ricordo anche qui – ho già abbondantemente dato (e quindi un knowledge base purchessia ce l’ho). Al centro commerciale di Monaco il 18enne tedesco-iraniano aveva urlato “sono tedesco, turchi di merda” ma un testimone giurava di averlo sentito urlare “allah akbar”. Chi sa il tedesco afferma che l’assassino avesse anche un certo accento del sud. Nell’agguato nella metropolitana, sempre a Monaco, uno squilibrato aveva urlato davvero “Allah Akbar” ma non era neanche lontanamente mai stato musulmano, né aveva mai avuto un legame famigliare con quel mondo. Non sappiamo se dimostrasse di avere un qualche accento particolare. Di Amri, l’assassino di Berlino abbattuto a Sesto S. Giovanni, si era detto che avesse urlato “allah akbar” ma invece poi fu confermato che aveva detto “poliziotti bastardi”. Questa volta un testimone afferma che l’attentatore aveva un forte accento del Quebec e urlava “allah akbar”. La nota sull’accento rende il testimone credibile. In più la cosa avviene in una moschea, un luogo dove è abbastanza facile che ci siano persone che “Allah Akbar” lo dicono un bel po’ di volte al giorno, poiché pregano. Ricordando poi un numero elevato di casi in cui l’espressione è stata usata per scopi che vanno dallo scherzo stupido al sarcasmo pesante, giungo a pensare che il Gemello abbia davvero urlato “Allah akbar”, per un suo qualche oscuro motivo. Ciò certifica definitivamente, se ce ne fosse bisogno, che il lanciare l’urlo “Allah Akbar” prima di un fatto violento non segnala assolutamente niente di rilevante al fine di stabilire le responsabilità ultime dell’atto, almeno dal punto di vista delle affiliazioni ideologiche, cosa che va tanto per la maggiore quando bisogna dire che siamo soldati crociati ecc. in stile Panebianco. Resta da capire, se l’ha fatto, perché Alexandre Bissonnette l’ha fatto. Ma diciamo che a questo punto ci può interessare il giusto, cioè niente. Però è da segnalare che a un certo punto ieri si è capito che questo killer con l’ISIS non c’entrava davvero una mazza e dunque i giornali online hanno iniziato a togliere dai titoli quell’”allah akbar” (sbagliando, secondo me, ma va bene). A quel punto c’è stato, come il commentatore di un pezzo di Repubblica, chi ha sollevato dubbi e paventato gombloddi. Arrivando tardi alla lettura del pezzo “Sikomoro” scrive: “Perchè non è stato scritto, come su tutti gli altri giornali, che gli attentatori gridavano Allah Akbar? Si vuole per caso nascondere qualcosa? Si vuole per caso influenzare l’opinione?”. La parola che trovo – ricordo che la usava Jaime intorno al 1988 – per definire tutto questo è “inquietante”.

Anatole. Tragicamente inquietante, ma la cosa che, per usare un’altra espressione del tempo, è ancora più flesciante è il rilievo che la notizia assume nell’opinione pubblica. Cioè, detto senza mezzi termini, appare confermato che se spari dentro una moschea e ammazzi sei persone non gliene frega letteralmente un cazzo a nessuno! E questo fatto sembrerebbe contraddire anche le tradizionali leggi del giornalismo, secondo le quali “cane morde uomo” dovrebbe interessare meno di “uomo morde cane”. Ora, volendo anche applicare questo criterio utterly incorrect alla situazione attuale, ma con trump al potere e i nazi alla casa bianca va di moda, senza meno un canadese bianco, pallidissimo anzi, con nome e cognome da film dei Cohen, per dire, che spara in una moschea dovrebbe essere “uomo morde cane”, stante l’agenda corrente, no? Eppure niente, non fa notizia. Il che dimostra che la forte polarizzazione ideologica ha smantellato le regole basilari dell’attenzione, la legge di mercato della comunicazione, a vantaggio di un meccanismo di allarme orientatissimo, e lo dico anche in senso proprio etimologico (occidentatissimo sarebbe il contrario, diciamo). Come dice Alessandro Lanni qua:

Una ventina d’anni fa, il giurista Cass Sunstein poneva la questione in questi termini: il web prima e i social network poi stanno peggiorando la qualità della democrazia perché ci fanno vivere dentro bolle ermetiche che escludono voci diverse da quelle che condividiamo. Se il filtro siamo noi, se siamo noi a scegliere la nostra dieta informativa tendenzialmente lasciamo fuori ciò che mette in crisi le nostre opinioni che diverranno man mano sempre più cristallizzate e granitiche. Il risultato è la polarizzazione e la radicalizzazione delle opinioni politiche, scrive Sunstein nel suo libro ormai classico Republic.com.

Il filtro informativo individuale opera in una direzione secondo la quale le notizie vere, quelle “uomo morde cane”, non fregano a nessuno, poiché obbligano a fare un ragionamento del tipo di quello che stiamo facendo noi da un anno, dunque a preoccuparsi di una situazione che stiamo contrastando con strumenti inadatti, con guerre sbagliate, eleggendo figure pericolosissime, in ragione dell’incapacità di identificare i problemi in ordine ai quali la situazione corrente si viene a determinare, tanto sul piano economico che su quello sociale, che ancora su quello culturale.

Lorenzo. Passo alla seconda che consiste nel ricordare che c’è un assassino solitario di massa occidentale dal profilo molto simile: Anders Behring Breivik. Ho letto un bel po’, ieri, su Bissonnette e noto, con crescente senso di inquietudine, che i tratti in comune sono fin troppi. Entrambi hanno un curriculum di destra molto “classico”, una destra stile Trump se si guarda agli Stati Uniti, e una destra nazionalista se l’attenzione cade sull’Europa, oggi soprattutto in Francia. Una destra che però guarda a Israele con una certa ammirazione: entrambi i profili ci raccontano questo (qui Bissonnette, qui Breivik). Anche nel caso di Bissonnette dire “nazista” o “neonazista” è un po’ riduttivo, non è proprio esattissimo. C’è quel quid di islamofobo e ultraliberistissimo che ci riconduce agli stereotipi di – chessà – un Salvini e di un Borghezio e financo di un Beppegrilllo. Insomma non un antisemita dichiarato, lo definirei un criptoantisemita in un certo senso. Uno che sul modello antisemita fonda un suo nazismo ufficialmente non-antisemita, stavolta islamofobo. Certamente c’è un aggiornamento del profilo, data l’età. Bessonnette, ad esempio, è il classico troll del cazzo che ti entra nella tua pagina normale, in cui dici cose belle, per disturbare e far perdere tempo alle persone brave.

Anatole. Da quello che si capisce si tratta comunque di uno di quei coglioni che ci vanno sotto alla propaganda di destra (estrema o no, è tutta uguale) sugli immigrati. Molto attivo sui siti xenofobi, grande fan della Le Pen, era stato anche a sentirla durante la sua visita in Quebec. È anche preparato quanto basta da sostenere gli argomenti classici della destra che ci circonda, grazie ad un curriculum di studi a cavallo tra Scienze Politiche e Antropologia, un tempo bastione dell’ultrasinistra, ma oggi, per ragioni che abbiamo più volte sottolineato (ad esempio qua), praticatissimo anche da quella destra che ha fatto benchmark sull’ultrasinistra (tipo Spencer, per capirci). Cioè, un matto sicuro, non meno lupo solitario degli altri, magari integrato in un sistema di relazioni labili e liquide, come avrebbe detto Bauman, attorno alle quali un’identità te la crei, certo, ma sempre molto da solo, in quella solitudine che, come abbiamo detto in tutte le salse, si consuma nella rete telematica, offrendo un’ombra di appartenenza a persone bisognose di attenzione. Di sicuro: «He was not a leader and was not affiliated with the groups we know», come ha spiegato François Deschamps, il job counselor di Carrefour Jeunesse, un’organizzazione che aiuta a trovare lavoro, ma anche attivista di Bienvenue aux Réfugiés, che ha avuto modo di tracciare l’attività di pubblicista anti-immigrazione dell’attentatore.

Lorenzo.  Sulla questione dell’estremismo di destra in Canada è uscito un bell’articolo, molto documentato sul Montreal Gazzette: “L’effetto Trump e la normalizzazione dell’odio in Quebec”. Vale la pena dargli una letta e visionare la tabella, molto esplicativa:
1111-city-hate-gr1

Certo oggi i destrorsi operano in un contesto “garantito” a tutti gli effetti dalla presidenza americana. Cioè, c’è Steve Bannon nel Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti d’America, per dire. Non a caso Richard Spencer non ha perso l’occasione di trollare Trudeau a proposito del suo discorso ispirato a seguito della sparatoria alla moschea di Quebec City, rilanciando l’analogia con la Francia, anche in cerca di simpatie transoceaniche:

 

specer

 

Anatole. Il quadro in cui questi figuri operano oggi è molto diverso, ma non dissimile da quello che si ricostruisce attorno al classico attentatore islamico. Voglio dire che c’è un quadro di riferimento istituzionale rispetto al quale questi personaggi si sforzano di apparire conformi, l’ISIS per gli uni, gli USA di Trump, Bannon e Spencer per gli altri. Lo si poteva già vedere nel corso della campagna elettorale americana con i bersagli accesi dalla propaganda antiliberal, soprattutto nel formato del Pizzagate, di cui abbiamo già parlato qua. Il qualcunismo omicida non è più una semplice forma di appartenenza contro i valori liberal che stanno abbattendo le frontiere tra ciò che “la tradizione” (un costrutto ideologico folle, come sappiamo, una cosa mai esistita) ci ha consegnato come una cosa che ci appartiene e tutto quello che invece no e quindi deve restarsene fuori dal posto che identifichiamo come ”casa nostra”, anche se poi a casa nostra i siriani non ci vengono e non ne abbiamo mai visto uno manco per sbaglio. È quello che capita quando la destra nazi prende il potere, che i mezzi matti si sentono appartenenti ad una milizia che opera in un quadro di ”legalità”. lo si vedeva già all’indomani dell’elezione di Trump, con le migliaia di piccoli atti di bullismo rivoltante ai danni di ebrei, musulmani, neri, omosessuali, donne di ogni razza e ceto sociale, perpetrati da maschi bianchi, ritornati in pieno controllo di una prospettiva identitaria ”forte”. In sostanza, una cosa molto simile al fascismo.

Lorenzo. Esatto. Il modulo è quello del lupo solitario, forse ancor più di prima, perché oggi anche lo xenofobo fascista ha il suo quadro di riferimento ideale proiettato in uno scenario istituzionale.

Anatole. Penso che alla fine quello che abbiamo detto e ridetto, che cioè questa guerra santa la stanno combattendo un pugno di mezzi matti sobillati da altri mezzi matti (i Panebianco di tutto il mondo, per capirci) è una cosa vera. Quello che oggi è cambiato è che, come dici tu, alcuni di questi mezzi matti, della prima e della seconda categoria, sono oggi al potere in tutto il mondo. Ma non mi sembra un messaggio rassicurante sul quale concludere.

Lorenzo. Possiamo peggiorare la visione, rendendola ancora più fosca.

Anatole. Facciamolo.

Lorenzo. Ragioniamo anche un po’ sulla ricezione del fatto, voglio dire. L’altra volta dicevo delle vittime del Reina, che erano più o meno tutte di origine musulmana, tranne mi sembra due canadesi (dei quali non conosciamo l’appartenenza religiosa). Dicevo che c’è stato questo intitolarsi le vittime, questo parlare di crociate mentre, come dicevi all’inizio, oggi non vedo quest’ansia di intitolatura, anzi. Quindi, giusto per mettere un po’ le cose in chiaro, completerei – dopo aver citato l’articolo sul Canada – il ragionamento con questo progetto sulla mappatura dell’islamofobia negli Stati Uniti e quest’altro sull’islamofobia in Europa. Cioè, detta fuori dai denti: i nostri simpatici amici teorici del conflitto di civiltà, i crociati da poltrona in pantofole, hanno effettivamente contribuito ad elaborare un paradigma di crociato che trova riscontro nella società. Ma ciò facendo non hanno descritto una cosa che esiste come tale di per sé. Cioè, nessuno dei potenziali crociati è di per sé un crociato, così come nessuno dei potenziali estremisti del cosiddetto jihad islamico lo è in quanto è nato così o perché le sue condizioni di esistenza lo portano naturalmente a diventarlo. È il quadro ideologico di riferimento, elaborato dai nostri amici del conflitto di civiltà, quelli che la Guerra Santa “la fa l’ACI”, che offre un contesto all’interno del quale situare azioni come quelle sulle quali ragioniamo da più di un anno. Quindi, perlomeno, la prossima volta, evitino di parlare di timidezze e buonismi, di occidenti pavidi e altre idiozie, ché manca poco all’aperto incitamento all’odio razziale. E, quasi quasi, sembrano aver letto i manuali di Abu Mus’ab al-Suri (sistema vs organizzazione, del quale dicevamo l’altra volta). Qui, come abbiamo detto ormai fino alla noia, il tema sarebbe un altro, collegato, come abbiamo ripetuto alla nausea, al dramma identitario in cui sprofonda la piccolissima borghesia promossa dal debito e messa in ginocchio dalla crisi.

Anatole. A questo proposito abbiamo prodotto un congruo pregresso.

Lorenzo. Talmente congruo che, come alcuni nostri detrattori auspicano, ce la potremmo anche far finita.

Anatole. Sarei d’accordo con loro, se solo si alzasse ogni tanto mezza voce da qualche parte a far notare le cose che stiamo ripetendo. Personalmente avrei anche da fare, diciamo. Mi blinderei volentieri nel XII secolo, per dire.

Lorenzo. Eh, infatti, a chi lo dici. E vi sono segnali che dimostrano quanto ripetitivi stiamo diventando.

Anatole. Forse perché diciamo una cosa vera? Potrebbe anche darsi.

Lorenzo. La verità è ripetitiva, questo di sicuro. E noiosa.

Anatole. Infatti abbiamo chiuso questo pezzo in un’ora. Per noia.

Lorenzo. Speriamo che si sia capito il concetto.

Anatole. Io penso di sì. E sinceramente me la farei finita volentieri, se non temessi che  l’episodio di oggi potrebbe essere solo uno dei primi accenni di una cosa sinistra che sta per accadere. Non l’ho mai pensato fino ad ora, ma la strizza a questo punto sale per davvero. Non già la paura di una Guerra Santa, quanto piuttosto il terrore che questi qualcunisti, quelli di casa nostra soprattutto, abbiano trovato un’identità forte dietro la quale nascondere il loro microscopico cazzetto, ecco. Perché a questa cosa dell’allarme democratico non ci avevamo alla fine mai creduto davvero, diciamolo. Oggi forse un po’ di più ci crediamo, sinceramente. Leggendo questo, ad esempio, non mi viene da ridere. Ne mi tranquillizza questo, pur straordinario, capolavoro artistico:

 

capitan america

 

Lorenzo. No, neanche a me. Sì, c’è una certa strizza e anche una certa rabbia per come le cose sono state fatte deteriorare. Forse dobbiamo capire, nei prossimi tempi, se proprio siamo circondati, se le cose sono già andate avanti troppo, se c’è un rimedio.

Anatole. La Women’s March è il rimedio. L’unico vero. Forse. Speriamo. Perché il movimento femminista è l’unica forza capace di metterti in discussione per quello che sei, per come vivi davvero, invece che per quanto figo ti senti su un social network o dove che sia. In quest’epoca qualcunista è davvero un ancoraggio straordinario ad un piano di verità basata su scelte di vita, sincerità di quello che provi, coraggio di affrontare gli aspetti meno evidenti e più scomodi della realtà che ti disegni attorno. Per questa ragione è probabile che sia l’unica forza propulsiva di un rinnovamento democratico progressista, capace di demistificare i meccanismi di idealizzazione del quotidiano grazie ai quali la demagogia populista fa presa, ritraendo maschi disperati e miserabili come campioni dell’emancipazione di masse inascoltate, che in realtà non hanno niente da dire. Sono donne come Kamala Harris e Cecile Richards che devono stare davanti oggi, in America e in tutto il mondo, e tutti quelli che vogliono combattere questo orrore devono limitarsi a sostenerle.

Lorenzo. …. [sgrana gli occhi]

Anatole. …. [guarda altrove, un po’ come se questa cosa che ha appena detto non l’avesse detta lui]

Lorenzo. Si è riaccesa la luce della stanza. Proprio mi sono visto davanti questo libro di Valentina Fedele che indaga sui modelli maschili nel mondo islamico, specie nelle comunità di migranti maghrebine in Europa. “Islam e mascolinità”. Cose di cazzetti piccoli se vogliamo metterla così. Fuori dallo stupidario delle robe che girano, davvero.

Anatole. Ecco.

Lorenzo. Daje.

Anatole. Daje sì.

 

 

Fonte:

https://www.nazioneindiana.com/2017/01/31/ban-trump-la-guerra-santa-del-nerd-canadese/

Brexit, per la Ue 18 mesi per il negoziato e a ottobre 2018 il divorzio. Intanto pubblico un’analisi sulla Brexit

La premier britannica Theresa May

Per il negoziato sulla  Brexit i tempi si restringono a un anno e mezzo. È il negoziatore della Commissione europea Michel Barnier a indicare la tabella di marcia. Se la notifica da parte di Londra arriverà entro marzo 2017, «si può dire con una certa sicurezza che i negoziati potranno partire qualche settimana dopo e un accordo ex articolo 50 (del Trattato sull’Unione Europea, ndr) dovrà essere concluso nell’ottobre 2018» per permettere le ratifiche da parte degli Stati membri entro marzo 2019.

I due anni di negoziati previsti dal Trattato possono essere allungati solo con decisione unanime dei «27». «Il governo britannico non intende estendere i negoziati per la Brexit oltre i due anni», risponde la premier britannica Theresa May. Più tardi il suo portavoce ha però precisato che non è corretto indicare in modo rigido la scadenza anticipata dell’ottobre 2018.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/brexit-per-la-ue-18-mesi-per-il-negoziato-e-a-ottobre-2018-il-divorzio/

 

Qui un’analisi sulla Brexit dell’ingegnere Paolo Menossi tratta dal blog di Eva Menossi:

domenica 26 giugno 2016

Brexit

Mi è parso necessario affrontare la questione Brexit e sospendere per un attimo gli articoli sull’Africa. Ho la fortuna di avere un padre che si intende di economia e dopo 3 giorni di conferenza massacrante mi ha mandato una mail con una breve analisi che non ho intenzione di cambiare. Ringrazio L’ingegner paolo Menossi per la disponibilità e l’affetto che ha per me.  Spero che vi lasci soddisfatti

Gentili lettori,
da una posizione privilegiata prima di Amministratore Delegato di una multinazionale e oggi di consulente, che da quarant’anni opera nel manifatturiero italiano a diretto contatto con gli imprenditori e partecipa costantemente a importanti conferenze nazionali e internazionali, esprimo alcuni commenti a caldo sul Brexit.
Tali commenti raccolgono mie valutazioni tarate anche secondo pareri di eminenti analisti nel corso di un interessante dibattito avuto ieri sull’argomento.
Premettiamo che la Gran Bretagna non ha voluto entrare nella moneta unica europea (Euro) e ha sempre manifestato l’idea che non avrebbe mai approvato e tantomeno partecipato a un’unione politica, che è il solo e vero presupposto di una Europa unita (o Stati Uniti di Europa) per fare una similitudine con gli USA.
Premettiamo anche che la vittoria LEAVE su REMAIN è stata molto stretta di misura, ma per fascie nette e distinte. Per LEAVE gli anziani e il centro Inghilterra, per REMAIN Londra City, Scozia e Irlanda.
Questo la dice già lunga su come abbiano influito emozioni o ragione. Le emozioni popolari di un ritorno al vecchio e glorioso se non addirittura coloniale United Kingdom, hanno di stretta misura prevalso sulla ragione dell’industria, della finanza e dei giovani proiettati in un EUROPA unita, la sola in grado di confrontarsi con le imponenti realtà esistenti quali USA e CINA, o possibili emergenti quali INDIA.
La pancia della vecchia Inghilterra ha prevalso cavalcando l’onda della paura dell’immigrazione, non solo di quella extra comunitaria, ma soprattutto di quella del resto dell’Europa.
Le ragioni vere e profonde sono invece rappresentate dal rifiutare una possibile futura unione politica e legislativa/governativa e nell’immediato un giusto rifiuto dello strapotere tedesco.
Purtroppo una stretta e ben identificata maggioranza di inglesi ha scelto di uscire dall’Europa invece di combattere per un cambiamento e per il futuro di una Europa Unita.
Abbiamo subito visto le reazioni dei mercati. Nonostante ci vorranno almeno un paio di anni per fare questo difficile percorso a ritroso, in un giorno le Borse hanno bruciato quasi il 10% e la Sterlina ha perso un analogo valore sul Dollaro.
Le difficoltà anche pratiche di questo percorso sono enormi. Dai permessi di soggiorno, forme di lavoro e pensioni, dei numerosi lavoratori europei in Gran Bretagna (500.000 solo a Londra) e viceversa degli Inglesi che lavorano in Europa ( financo negli uffici europei di Bruxelles). Per non parlare degli studenti stranieri (Erasmus) che sono numerosi quanto gli inglesi.
Tornando alla svalutazione, non è una cosa da poco. Chiedetelo a tutti gli operatori internazionali che devono ricevere pagamenti in sterline e si ritrovano ad aver perso il 10% del valore che aspettavano, per beni venduti o servizi prestati. Non credo siano contenti e presteranno ben attenzione nelle prossime vendite (che tra l’altro saranno ben poco remunerative per gli europei che vendono, o molto costose per gli inglesi che comprano).
Il valore degli immobili e delle proprietà in Inghilterra anche essi svalutati, i beni o materie prime che si devono comperare più costosi … e così via. Ma non soffermiamoci su cose così ovvie, come sul fatto che sarà invece favorita l’esportazione di merci prodotte in Inghilterra o meno costoso un viaggio in quel Paese.
Vedremo in un prossimo futuro, a seconda del tipo di bilancio nel rapporto col Mondo Esterno che l’Inghilterra stabilirà, vantaggi e svantaggi.
Una cosa è sicura: le probabilità di una recessione interna sono altissime, e questa non è mai una bella cosa, portando impoverimento e disoccupazione.
Altra possibile conseguenza pesante per il Regno Unito, è che rischi di non essere più tale se le velleità separatiste ed europeiste di Scozia, Irlanda e magari Galles riusciranno ad andare in porto.
Inoltre per fronteggiare questa situazione, non hanno nemmeno un Governo stabile che possa agire prontamente e unitamente, in quanto Cameron si è dimesso.
Del resto era un atto dovuto data la sua piena responsabilità di aver permesso (se non addirittura promosso, con l’idea di rafforzarsi) un tale folle referendum. Folle per l’eventuale possibile risultato di LEAVE che ha avuto, ma folle anche perché non si può e non si deve dare a un referendum popolare una responsabilità che è e deve essere del Governo (democraticamente eletto dalla popolazione anche perché prenda queste decisioni a seconda di avvedute valutazioni economiche e politiche che lui solo è in grado di fare).
Detto quanto sopra, cerchiamo di analizzare le conseguenze di una Europa senza Inghilterra, data la scelta dell’Isola.
Gli scenari sono diversi a seconda che certi effetti domino si verifichino o no.
Il primo è economico/valutario. La reazione immediata è stata molto negativa, con crollo di borsa e sterlina, come detto all’inizio. Bisognerà monitorare attentamente l’evoluzione nei prossimi giorni.
I recuperi sono probabili, il rischio è che come spesso avviene in queste situazioni, il recupero sia minore della perdita…e così via per cicli successivi, portando a un consolidato impoverimento e a una possibile recessione, anche in Europa quindi e non solo in Gran Bretagna, o quello che resterà di lei.
Purtroppo il rischio che a pagare colpe di una politica egemonica tedesca e di una rinuncia e uscita inglese siano altri stati membri quali Grecia, Spagna e Italia, economicamente più deboli e indebitati, è molto alto.
Non sottovalutiamo poi l’effetto disgregante per l’Europa di imitazioni da parte delle crescenti frange euroscettiche Lepeniane, Salviniane e così via. Non credo possano prevalere, ma creeranno molto disturbo e confusione.
Essendo impossibile fare previsioni realistiche così a caldo, in quanto dobbiamo vedere come i Mercati e i Governi interessati reagiranno, mi limiterei a dire che sarà molto importante vedere quale sarà la reazione della Germania, attore principale in Europa, non solo per la più numerosa popolazione, ma soprattutto per la sua di gran lunga più forte economia.
La Germania è come già detto anche in parte responsabile di quanto è successo, avendo imposto troppo la sua visione di Europa e le sue regole (valide e favorevoli alla sua economia forte, non altrettanto per altre economie più deboli e fortemente indebitate).
La Gran Bretagna, altra economia in salute (e quindi la sola che poteva permettersi di rischiare una uscita, anche se potrebbe finire per rimetterci molto), forte anche della sua Finanza e non volendo sottomettersi ai dictat tedeschi, ha operato come reazione questa scelta dirompente.
A questo punto la Germania dovrebbe mettere a frutto la lezione permettendo se non favorendo la crescita dell’Europa senza Gran Bretagna nel suo complesso (Europa di cui anche lei ha fortemente bisogno per le sue esportazioni), e questa è la visione ottimistica.
Potrebbe anche sentirsi ancora più forte, non più contrapposta dalla Gran Bretagna e ormai non più dalla indebolita Francia, e rafforzare ancora la sua egemonia, portando l’Europa agli Stati Uniti di Germania, che sarebbe la fine della Europa stessa. Questo è lo scenario pessimistico.
Sul piano oltre Oceano è chiaro che gli Stati Uniti hanno bisogno ( e Obama lo aveva detto chiaramente a Cameron ) di un Europa forte come alleato e partner di scambio, quindi tiferanno e si daranno da fare nei limiti del possibile e senza ovviamente interferire nelle nostre politiche, per questa soluzione.
Questo è lo scenario, a voi trarre ulteriori considerazioni.

Ing. Paolo Menossi
Global Consulting Team Srl, President

Fonte:

http://silenceinchains.blogspot.it/2016/06/brexit_26.html

 

 

Calais,migliaia di migranti iniziano ad essere deportati in una Europa avara di solidarietà

Lunedì 24 Ottobre 2016 14:50

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Si parla all’ attuale di 1051 migranti evacuati da Calais secondo la prefettura, a oltre 15 ore dall’ inizio delle operazioni di sgombero della Jungle, che procedono a rilento rispetto alle tempistiche dichiarate. Llo smantellamento e la demolizione delle strutture si affianca dunque lo spostamento forzato di migliaia di persone che lì ci hanno vissuto.

I media nostrani si stanno applicando a fare da sponda ai colleghi generalisti d’oltralpe, con l’ ANSA che ha definito “un inferno” la Jungle, luogo diventato patria quasi forzata per approssimativamente 10mila persone migranti.

Le resistenze all’ interno del campo sono state al momento neutralizzate dall’ ingente presenza di forze dell’ ordine armate, aggiuntesi a quelle già presenti nel circondario di Calais con l’ utilizzo di grossi bus a più piani.
Nel vortice della disputa francese e non solo, nell’ incalzare di una propaganda mediatica nazionalista senza esclusioni di colpi e con pochi riguardi di umanità per le migliaia di persone giunte dopo infiniti esodi rifuggendo povertà e situazioni a rischio per la propria esistenza, l’aria attorno alla Jungle si è fatta man mano pesante fino a diventare irrespirabile nelle ultime settimane.
Irrespirabile come i lacrimogeni lanciati ieri notte contro i migranti che si sono frapposti all’ inizio delle operazioni o come quelli destinati a chi si è ribellato al muro della vergogna voluto a Calais dal Governo Inglese.

Calais come simbolo della cristallizzazione dell’ innalzarsi di nuove barriere e della incapacità di forme di solidarietà efficaci a poterne contrastare il loro sorgere in un contesto globale che tra crisi in “occidente” da una parte, e focolai di guerre per le risorse strategiche dall’ altra, mette all’ ultimo posto la dignità degli uomini poveri e l’umanità nei loro confronti.

Ora ci si chiede di prestare attenzione acché i bambini sgomberati non finiscano nelle mani di trafficanti; pare che siano 1291 i minori non accompagnati che resteranno a Calais in attesa di una collocazione certa, il che la dice lunga sulla preparazione di questa operazione, portata a livello militare ma senza alcuna strategia pregressa effettivamente mirata di collocamento di persone, se non di un eventuale reinserimento in una società che in buona parte li sta ripudiando e in cui peraltro non vorrebbero stare. Citando una frase apparsa in queste ore sul web: “Radunati all’alba. Impacchettati e spediti altrove. Questa è l’idea di “accoglienza” della Fortezza Europa”.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/migranti/item/17768-calaismigliaia-di-migranti-iniziano-ad-essere-deportati-in-una-europa-avara-di-solidariet%C3%A0

Hotspot, strutture al collasso. A Pozzallo rinchiusi 180 minori

L’hotspot di Pozzallo, in Sicilia, è al collasso. Nei giorni scorsi sono sbarcati oltre 650 immigrati, tra i quali un centinaio di minori. La situazione diventa sempre più critica: a fronte di una capienza di 180 persone, al centro ci sono ancora 182 minori. La Protezione civile ha allestito tende per circa 200 persone, i migranti senza una sistemazione adeguata, seppur provvisoria, sono restati a bordo. L’emergenza in corso non fa che peggiorare la situazione già degradante, uno delle quattro strutture volute dall’Ue e aperte in Italia – gli altri sono a Lampedusa, Trapani e Taranto – dove i migranti dovrebbero rimanere 72 ore per essere identificati e fotosegnalati, per poi essere trasferiti in centri più idonei. A Luglio, la Commissione parlamentare d’inchiesta sui Centri di accoglienza aveva bocciato senza mezzi termini la struttura. L’ hotspot risulta ospitato in un capannone in cemento armato piantato alla fine del porto commerciale, completamente protetto da una recinzione metallica che in alcuni punti è integrata con delle assi di legno che impediscono di vedere all’esterno. Tutto attorno alla recinzione non c’è un filo di verde, solo cemento. Una struttura non adatta ad ospitare vite umane e dove, invece, si trovano centinaia di uomini, donne e minori, tutti insieme. L’hotspot è arrivato ad “accogliere” anche 400-500 persone. Con soli 5 bagni. Come se non bastasse, all’interno del Centro restano per settimane decine di minori non accompagnati: soggetti che dovrebbero essere protetti e trasferiti in strutture sicure. Il presidente della Commissione, Federico Galli, non aveva potuto far altro che evidenziare le carenze: infrastrutture inadeguate, sovraffollamento e permanenze troppo prolungate, soprattutto dei minori.
La Commissione aveva anche ascoltato il prefetto, Maria Carmela Librizzi, il responsabile della cooperativa che gestisce la struttura ed il sindaco di Pozzallo, Luigi Ammatuna. «Ho fatto il possibile per mantenere su buoni standard l’hotspot durante questi anni di emergenza, ma con fondi ridotti e senza aiuti dallo Stato non è possibile fare di più – ha sottolineato quest’ultimo – Ho rappresentato le difficoltà del Comune e non ho strutture alternative dove sistemare i minori. Il centro avrebbe bisogno di interventi di manutenzione, ma questi non possono essere a carico del bilancio comunale, già critico». Nonostante i problemi non risolti, la struttura continua ad essere aperta e operativa per contenere i nuovi arrivi.

Le norme
Gli immigrati minori non accompagnati non dovrebbero, per legge, essere rinchiusi negli hotspot. Si trovano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Si applicano per loro le norme previste in generale dalla legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori e, tra le altre, le norme riguardanti: il collocamento in luogo sicuro del minore che si trovi in stato di abbandono; la competenza in materia di assistenza dei minori stranieri, attribuita, come per i minori italiani, all’ente locale (in genere il Comune), l’affidamento del minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo a una famiglia o a una comunità. L’affidamento può essere disposto dal Tribunale per i minorenni (affidamento giudiziale) oppure, nel caso in cui ci sia il consenso dei genitori o del tutore, dai servizi sociali e reso esecutivo dal giudice tutelare (affidamento consensuale). La legge non prevede che per procedere all’affidamento si debba attendere la decisione del Comitato per i minori stranieri sulla permanenza del minore in Italia.
E quindi perché ci sono minori non accompagnati rinchiusi negli hotspot? Dovrebbero essere inseriti immediatamente in strutture protette, andrebbe avvertito il tribunale dei minori, il giudice tutelare dovrebbe nominare qualcuno che faccia le veci del genitore. Invece dimorano in questo stato per più di un mese. Questi centri sono una zona d’ombra dove è vietato – per ordine del ministro degli interni Alfano – fare entrare i giornalisti. Sono luoghi ancora più oscuri dei Cie, che invece hanno una copertura legislativa affinata e migliorata negli anni anche grazie alle battaglie della società civile.

Status giuridico
Come già denunciato da Il Dubbio, i nuovi hotspot – centri di contenimento e di selezione dei migranti appena arrivati in Italia – risultano luoghi privi di uno status giuridico certo, nei quali si realizzano forme diverse di limitazione della libertà personale, dove c’è il rilevamento forzato delle impronte digitali. Delle vere e proprie carceri in miniatura. La questione era stata sollevata da un’interrogazione presentata in Parlamento dal senatore Luigi Manconi, che, nel chiedere chiarimenti al governo su queste violazioni, ha ricordato l’articolo 13 della Costituzione, secondo cui «la libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».
Gli hotspot sono il fulcro della nuova strategia dell’unione europea per fronteggiare l’emergenza immigrazione. Si tratta di strutture già esistenti, ma ampliate. In teoria, dovrebbero funzionare trattenendo i migranti fino all’identificazione rapida – entro 48 ore dall’arrivo, prorogabili a 72 – e alla registrazione, prendendo anche le impronte digitali. Sono strutture che funzionano da filtro: vengono selezionati solamente i richiedenti asilo e rimpatriati gli immigrati giunti nel paese per motivi economici. Il dossier di LasciateCIEntrare – gruppo di associazioni che si occupano della detenzione amministrativa dei migranti – denuncia un grave problema di discriminazione: si garantisce la possibilità di accesso a forme di protezione solo a coloro che provengono da paesi i cui profughi sono almeno nel 75% dei casi considerati aventi diritto. Significa che gran parte dei Paesi, tutt’ora in guerra o in situazione politica, economica o ambientale critica, saranno considerati paesi sicuri in cui poter rimpatriare con la forza gli immigrati. Procedure rigide, coercitive e discriminanti. E in questo caso ce lo chiede anche l’Europa.

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/carcere/29209_hotspot_strutture_al_collasso_a_pozzallo_rinchiusi_180_minori/

Appello per una mobilitazione nazionale a Roma il 24 Settembre a sostegno del popolo curdo e della rivoluzione democratica in Rojava, per la liberazione di Ocalan

Appello per una mobilitazione nazionale a Roma il 24 Settembre a sostegno del popolo curdo e della rivoluzione democratica in Rojava, per la liberazione di Ocalan

Da oltre un anno nelle zone curde della Turchia è in corso una sporca guerra contro la popolazione civile. Dopo il successo elettorale del Partito Democratico dei Popoli (HDP), che ha bloccato il progetto presidenzialista di Erdogan, il governo turco intraprende un nuovo percorso di guerra ponendo termine al processo di pace per una soluzione duratura della irrisolta questione curda. Intere città – Diyarbakir, Cizre, Nusaybin, Sirnak, Yuksekova, Silvan, Silopi, Hakkari, Lice – vengono sottoposte a pesanti coprifuochi e allo stato di emergenza, con migliaia tra morti, feriti, arrestati e deportati.

Dopo il fallito “tentativo di golpe” del 15 Luglio, attribuito ai seguaci di Gülen, Erdogan dà il via al terrore che sta eliminando qualsiasi parvenza di democrazia, con il repulisti di accademici, insegnanti, giornalisti, magistrati, militari, medici, amministratori, impiegati statali, invisi al regime: 90.000 tra licenziamenti e rimozioni, 30.000 arresti; chiusura di giornali, stazioni radio-televisive, centri di cultura e sedi di partito.

Inoltre vi è la forte preoccupazione per le condizioni di sicurezza e di salute del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan, di cui non si hanno più notizie certe: dal 5 aprile 2015 Öcalan è segregato in isolamento, gli vengono negati il diritto a comunicare e a incontrare i familiari e gli avvocati in spregio e alle convenzioni e ai diritti internazionali. Abdullah Öcalan, legittimo rappresentante del popolo curdo, è indispensabile alla risoluzione della questione curda nell’ambito della democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente, così come tracciato nel disegno del Confederalismo Democratico.

Il 24 agosto 2016 l’esercito turco ha invaso la città di Jarablus con il pretesto di combattere il terrorismo e lo Stato Islamico (IS) che ha consegnato la città all’esercito turco e alle organizzazioni jihadiste a loro fianco, come Jabhat Fatah al-Sham e a gruppi come Ahrar El-Sham, senza colpo ferire. Gli attacchi dell’esercito turco non sono diretti contro ISIS ma contro le Forze Democratiche Siriane (SDF), esclusivamente ai danni dell’insorgenza liberatrice curda nei territori del Rojava.

È un dato di fatto che gli Stati Uniti e l’Europa non solo hanno chiuso un occhio su questi attacchi, ma stanno fornendo il sostegno allo Stato turco che con la complicità dell’UE continua a usare i profughi come arma di ricatto. L’invasione turca del nord della Siria aumenta il caos esistente nella regione inferocendo la guerra civile, creando nuovi rifugiati e nuovi disastri umanitari.

TUTTO QUESTO DEVE FINIRE! RIFIUTANDO IL VERGOGNOSO ACCORDO UE-TURCHIA, CHE LEDE I DIRITTI UMANI DEI PROFUGHI E FINANZIA LA GUERRA SPORCA CONTRO IL POPOLO CURDO.

Il popolo curdo insieme agli altri gruppi etnici, religiosi e culturali ha costituito una Confederazione Democratica nel nord della Siria, il Rojava, dove coesistono pacificamente e nel rispetto reciproco popoli e fedi religiose diverse tra loro: assiri, siriani, armeni, arabi, turcomanni. Questa Confederazione rappresenta una prospettiva ed un valido esempio per una Siria democratica; per questo è necessario sostenere questa esperienza di rivoluzione sociale di cui sono state protagoniste in primo luogo le donne.

Ora questa decisiva esperienza democratica per le sorti di un altro Medio Oriente rischia di essere cancellata dall’invasione turca. E’ dunque urgente la mobilitazione internazionale a fianco del Rojava e della resistenza del popolo curdo.

Rispondendo all’appello internazionale sottoscritto da intellettuali, scrittori, artisti, politici e difensori dei diritti umani, invitiamo tutti e tutte coloro che in questi anni hanno sostenuto la lotta di liberazione del popolo curdo e la rivoluzione democratica, A SCENDERE IN PIAZZA IL 24 SETTEMBRE A ROMA

* Per fermare l’invasione turca del Rojava; contro la sporca guerra della Turchia al popolo curdo e sulla pelle dei profughi e rifugiati
* Contro la repressione della società civile, del movimento curdo e di tutte le forze democratiche in Turchia
* Contro la barbarie dell’Isis per l’universalismo dei valori umani;
* Per il Confederalismo Democratico
* Per bloccare il supporto delle potenze internazionali e locali, in particolare USA e UE alla Turchia e mettere fine al vergognoso accordo sui profughi
* Per la fine dell’isolamento e per la liberazione del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan

IN PIAZZA PER IL KURDISTAN
ROMA – PORTA PIA ORE 14.00
SABATO 24 SETTEMBRE

Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia
Rete Kurdistan Italia

Per Adesioni :

[email protected][email protected]

 

 

 

Fonte:

http://www.uikionlus.com/appello-per-una-mobilitazione-nazionale-a-roma-il-24-settembre-a-sostegno-del-popolo-curdo-e-della-rivoluzione-democratica-in-rojava-per-la-liberazione-di-ocalan/

UN POETA NELLE CARCERI DI ASSAD

 

Faraj Bayrakdar è stato torturato per quasi 14 anni in quanto scrittore dissidente. Oggi, pluripremiato e libero, sente che le sue sofferenze sono niente rispetto al dolore del popolo siriano

di Joshua Evangelista*

Dalla “festa di benvenuto”, la haflet al-istiqbal, inizia una lenta agonia che molto spesso porta alla morte. Il rapporto di Amnesty International racconta come si vive, e si muore, nelle carceri di Assad. Da decenni il regime siriano usa la tortura per stroncare gli oppositori, o presunti tali. Come è successo al poeta Faraj Bayrakdar, che ha passato quasi 14 anni dietro le sbarre, dal 1987 al 2000. «Tra un anno o due, dieci o venti la libertà si metterà la minigonna e mi accoglierà», scriveva in cella sul cartoncino delle sigarette, sperando di non essere visto dalle guardie. Oggi, rifugiato politico in Svezia, gira il mondo raccontando l’efferatezza del regime baathista, prima che la spettacolarizzazione della violenza plastica dei militanti dell’Isis renda definitivamente sopportabile le ingiustizie della dittatura all’opinione pubblica. «La memoria collettiva degli occidentali è piena di buchi e il regime è riuscito a trovare qualcuno peggiore per ripulirsi l’immagine. Così si dimenticano i passaggi che hanno portato a questa tragedia e si insiste con la retorica del male minore. È come se a un killer togli il pugnale insanguinato, gli dai una pacca sulla spalla e gli chiedi gentilmente di non farlo più».

Non ritiene inevitabile che l’attenzione sia concentrata sulla minaccia dell’Isis, soprattutto dopo gli ultimi attentati in Europa?

Nessuno può battere Isis, Jabhat al Nusra o le altre fazioni di matrice fondamentalista. Almeno finché non si rovescia Assad, che è l’altra faccia della medaglia. Mentre il mondo chiude gli occhi e sotto banco tratta con i terroristi, i media dimenticano che i massacri non vengono perpetuati solo dall’Isis.

Nel frattempo la guerra contro Isis sembra ben lontana dalla fine.

Potrebbero toglierli di mezzo subito, ma non conviene. Costa troppo. E chi paga? Arabia Saudita o Qatar? Prima che la guerra finisca si arriverà a un collasso totale. A quel punto il popolo tornerà alla vita di tutti i giorni, ma sarà una calma apparente. Non si dimenticherà cosa ha fatto il regime per mezzo secolo e come si è arrivati a questa spirale di fanatismo. Milioni di persone ogni notte incontrano nei loro incubi i propri morti e questo non è un problema che risolvi in venti anni. Gli incubi si tramandano di generazione in generazione.

Incubi che accompagnano i siriani anche nei disperati tentativi di raggiungere l’Europa.

L’Europa sta totalmente perdendo il controllo dei flussi migratori. Eppure tutti sapevano che rimuovendo il regime di Assad nel 2011 ciò non sarebbe accaduto. Ma evidentemente è più conveniente tenere milioni di disperati alle porte del continente.

Come siamo arrivati a questo?

Due settimane prima delle rivolte del 2011 ho scritto una lettera aperta all’Europa in cui criticavo Bruxelles per aver deciso di sostenere i “nostri” dittatori a discapito dei diritti umani. Erano le premesse per un’invasione di persone disperate, dissi.

Così è stato.

Non posso non ricordare i silenzi che hanno accompagnato i primi mesi della rivoluzione, quando centinaia di migliaia di persone laiche marciavano nelle strade chiedendo più diritti. Poi sono arrivate le bombe. E cosa hanno fatto gli occidentali? Invece di sostenere i giovani che sognavano una Siria libera, hanno destinato i propri soldi ai movimenti fondamentalisti: armi, cibo e medicine solo per loro.

Eppure molti di quei giovani hanno deciso di unirsi proprio ai quei movimenti.

È normale: sono i movimenti più ricchi. A Idlib conosco persone totalmente laiche che hanno deciso di combattere per l’Isis. Succede quando devi provvedere alla tua famiglia e gli altri non hanno nemmeno i soldi per darti un po’ di pane. E le potenze cosa fanno? Sostengono coloro che sono funzionali ai loro interessi, a occhi chiusi.

Non pensa che sia colpa anche di alleanze e scelte strategiche quanto meno discutibili da parte del fronte anti-assadiano?

Anche se i nostri rivoluzionari non fossero incappati in così tanti errori strategici, il risultato non sarebbe cambiato. Era stato già tutto deciso. Del resto anche il regime ha fatto tanti errori, eppure è lì, sempre forte.

Dalle sue parole traspare molto pessimismo.

Eppure non ho paura del futuro. Prima o poi i siriani ricostruiranno la Siria. Ma la soluzione inizia con la fine del regime. La storia insegna che siamo diversi da come veniamo dipinti dai media europei: non siamo mai stati paurosi delle minoranze. Faccio un esempio: da chi è stata gestita la transizione post francese? Da Fares al-Khoury, un cristiano, che è stato ministro, presidente e molto altro ancora. E per essere rappresentati nelle assemblee, i musulmani si rivolgevano a lui.

Se non ha paura del futuro, avrà immaginato come sarà ricostruzione. Quale sarà il ruolo della diaspora?

La diaspora tornerà in Siria, sosterrà la rinascita con soldi, training, con il know how appreso all’estero. Ma sarà chi è rimasto a costruire la nuova Siria. Ma, come per le crisi degli anni passati, dipenderà tutto dagli accordi che la nuova classe dirigente prenderanno con le potenze internazionali e dal “conto” economico e di persone che queste chiederanno. Noi, da fuori, faremo lobby, manderemo soldi: se necessario lavoreremo 14 ore al giorno e la metà del salario la destineremo alla ricostruzione.

A proposito di superpotenze impegnate in Siria, avrà sicuramente seguito il tentato golpe in Turchia. Le purghe che sono seguite hanno ricordato, a qualcuno, quelle che Hafez perpetrò nel 1982 nei confronti degli insorti della Fratellanza musulmana. 

Due cose sopra tutte le altre mi preoccupano della Turchia. La libertà d’espressione e la questione curda. Ma i paragoni non reggono: il regime turco non ha ancora perpetrato crimini di un livello equiparabile a quello siriano. Nel 1982 Assad bombardava Hama e faceva almeno 14000 morti. L’Erdogan del post golpe non ha ancora fatto nulla di simile, sebbene abbia arrestato migliaia di persone, ma è presto per farsi un’idea completa. Lo tengo d’occhio, può diventare una feroce dittatura.

Cosa ne pensa dell’accoglienza turca verso i migranti siriani?

A passarsela peggio sono i siriani in Libano. Dovremmo prima di tutto preoccuparci per le loro condizioni. I turchi sono stati accoglienti, anzi: il popolo ha dato più di quello che ha ricevuto. Sappiamo bene che un’Europa così attenta ai soldi e che non vuole spendere nell’accoglienza conviene mantenere i rifugiati in Turchia, questo è ovvio. Ma allora io lancio una provocazione: se è chiaro che nella società turca i siriani hanno maggiori possibilità di integrazione, i soldi europei per l’accoglienza ai rifugiati dovrebbero essere molti di più.

Nel frattempo però, la Turchia è scesa prepotentemente in campo contro i curdi del Rojava. Che idea si è fatto del confederalismo democratico curdo e, più in generale, del ruolo dei curdi nel conflitto?

Li stanno usando e quando la guerra sarà finita il mondo si dimenticherà di loro. Ha sempre fatto così. I curdi sono utopici, hanno grandi sogni. Eppure in tutto il corso della storia qualcuno li ha sfruttato. Li usano e poi li abbandonano. Io sono sempre stato, in Siria, un attivista per i diritti dei curdi. Lo ero quando Assad impediva di parlare la loro lingua, di preservare la loro cultura. Molti in Siria mi considerano un poeta curdo, addirittura. Lo dico, non stimo Saleh (co-presidente del PYD, ndr), non mi piace la sua ambiguità verso Assad. Ma penso che quando la guerra finirà la Siria dovrà fare i conti con la voglia d’indipendenza dei curdi. Andrà fatto un referendum per capire cosa vuole la popolazione delle regioni a prevalenza curda. Ma sono sincero, non credo che le super potenze permetteranno la creazione di uno stato del Kurdistan. Indipendenza o meno, io sarò sempre dalla loro parte e mi batterò affinché abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.

A Stoccolma lei è un punto di riferimento per i migranti che riescono a raggiungere la Svezia. Vede in loro lo stesso popolo che ha dovuto lasciare dodici anni fa?

Quasi tutti i siriano che arrivano qui hanno il mio numero e ricevo molte chiamate da chi è stato in prigione, hanno bisogno di parlare con qualcuno che ha vissuto lo stesso dramma. Non sono più gli stessi. Vedo nei loro occhi solo dolore e sofferenza, fatico a identificarli come siriani. Ma non vale solo per loro, dopo il 2011 tutti siamo cambiati in peggio. Anche la Svezia non è più la stessa rispetto a quando sono arrivato io.

E lei come è cambiato dopo 13 anni di segregazione e torture?

In carcere ero stato annullato e per questo motivo avevo dimenticato molte abitudini del vivere in comunità. Una volta uscito non sapevo più vestirmi, mi dimenticavo di salutare. Soprattutto: non sapevo più ridere. Non mi riesce bene nemmeno ora. Quando lo faccio mi sento graffiare la gola.

C’è un filo conduttore tra la sofferenza di allora e quella che prova ogni giorno vedendo il suo popolo sotto assedio?

No. È come se avessi sofferto per niente. Tutte le umiliazioni e le torture che ho subito sono nulla rispetto a quello che vive oggi il mio popolo. Mentre i miei aguzzini volevano vedermi agonizzante, sapevo che fuori da quelle mura c’era una famiglia che nonostante tutto sarebbe sopravvissuta. Oggi non è così. Tutti sanno che da un momento all’altro chiunque potrà ammazzarli.

Ha ancora senso fare poesia di fronte a una tragedia di queste dimensioni?

Alcuni miei colleghi riescono a produrre sulla Siria anche tre poesie al giorno. Io no. Negli ultimi cinque anni ho scritto pochi versi. E tra questi solo alcuni sulla Siria. In prigione avevo 24 ore al giorno per comporre. Ho pubblicato sette antologie, per intenderci. Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza.

E oggi come dà senso all’esistenza?

Dopo il 2011 la mia situazione è diventata ben più complicata. Perché la rivoluzione “impegna”. Passo le giornate sui social network per capire come sta il mio popolo. Inoltre ritengo che il mio ruolo di autore sia cambiato. In carcere scrivevo per me, cercavo la forma, una qualità di scrittura che appagasse la mia tribolazione. Oggi invece serve una dialettica semplice, devo raggiungere il popolo. Meglio fare video, postare foto sui social e rinunciare a un arabo ricercato. Ho scritto una canzone nel dialetto di Homs, su YouTube ha avuto tantissime visualizzazioni e al Jazeera ha fatto un documentario su di me che ha raggiunto milioni di persone. La gente è disinformata, il mio nuovo ruolo è creare consapevolezza. È un modo per non rendere vano il sacrificio dei 400 mila sognatori che nel 2011 erano scesi in piazza a Homs. O dei 600 mila di Hama. A questo punto della mia vita non ho più pretese personali. Mi basta sapere che sto facendo qualcosa per aiutare il mio popolo.


*Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata su “Il Dubbio” del 20 agosto 2016.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/09/siria-faraj-bayrakdar-poeta-carceri-assad/

Migranti, quei muri costruiti dai paesi che hanno vissuto la tragedia del Muro

Migranti, quei muri costruiti dai paesi che hanno vissuto la tragedia del Muro
 
E’ paradossale che vengano eretti muri da quegli Stati che hanno vissuto la tragedia del muro, quello che ha separato il mondo in due. Il muro in Ungheria, quello in Macedonia fino all’ultimo, lungo un chilometro, che verrà eretto a Calais, in Francia, dal governo inglese per “frenare” tutti i rifugiati che “sognano” la Gran Bretagna.

Ma Calais richiama alla memoria immagini della seconda guerra mondiale: i tedeschi che entrano in Francia e le truppe fedeli al governo di Parigi che, proprio su quelle spiagge, battono in ritirata verso la Gran Bretagna che accoglie. Invece, oggi questa parola, “accoglienza”, pare aver poco significato nell’Europa che non ha memoria delle sue radici. Siamo un continente che si è rifondato sulle macerie del secondo conflitto mondiale le cui radici sono ben ferme sulle fosse comuni, i crateri dei bombardamenti e la promessa, fatta dai padri fondatori, che mai più una tragedia simile si sarebbe ripetuta.

Oggi il nazionalismo, quello che per legittimarsi usò la paura verso lo straniero, riaffiora e bussa alla porta dei nostri Paesi. I leader di questi movimenti sono forti dell’amnesia del passato che si fa largo fra la gente. Sarebbero perfino disposti a riscrivere la storia se servisse ai loro fini elettorali. Ci dicono di aver paura e solo questo sentimento ci può salvare dal futuro incerto. Il capro espiatorio di tutti i nostri problemi, come settantanni fa, è qualcuno che è considerato “altro”.

Cacciati loro, concludono, tutti i nostri problemi saranno risolti. E’ come se il nostro benessere fosse proporzionato alla nostra capacità di respingere gli altri: più rifugiati, disperati, riusciamo a respingere e più staremo bene.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/08/migranti-quei-muri-costruiti-dai-paesi-che-hanno-vissuto-la-tragedia-del-muro/3019977/

«A morsi le donne cercavano di vivere»

Arrestiamo umani. Medici senza Frontiere ha raccolto gli aggiaccianti racconti dei superstiti e dei soccorritori della strage di donne a bordo di uno dei due gommoni intercettati giovedì dalla nave Aquarius. Una testimonianza che pubblichiamo integralmente.

«Il fondo del gommone si è rotto, il peso delle persone lo ha lacerato e l’acqua ha cominciato a entrare. Quando l’acqua ha raggiunto l’altezza delle ginocchia, le ragazze che erano sedute al centro sono state prese dal panico, urlavano e gridavano. Alcune di loro hanno provato ad alzarsi ma scivolavano indietro nella pozza di acqua e benzina. Alcune mordevano gli uomini con i denti, perché erano intrappolate sul fondo del barcone».

È l’agghiacciante racconto di David, 30enne nigeriano sbarcato ieri a Trapani con altri 208 superstiti recuperati dalla nave di soccorso Aquarius. È una delle testimonianze raccolte da Msf.

La traversata del Mediterraneo per David è iniziata in Libia di notte. «Mi sono imbarcato sul gommone tre notti fa», inizia così il suo racconto. «È stata una notte orribile, alcuni uomini sparavano colpi in aria, hanno radunato le persone e le hanno spinte verso il mare. Hanno caricato troppe persone sulla nostra barca, troppe persone».

Ricorda il momento della tragedia, del panico assoluto, dopo giorni di navigazione in mare aperto, quando il gommone dove si trovava si è squarciato sul fondo: «Tutti nel gommone si muovevano in modo concitato. Non potevamo andare da nessuna parte ma si spostavano, cercavano di non scivolare, di non rimanere intrappolate nella pozza di benzina e acqua, ma quando si muovevano da un lato o dall’altro entrava sempre più acqua. Abbiamo cominciato a buttare fuori acqua, l’imbarcazione era completamente piena».

Poi i soccorsi: «Quando è arrivata la nave italiana, sono state portate via per prime tutte le donne ancora in vita. C’era una ragazza ancora viva sotto i corpi dei morti. È stata tirata fuori da sotto i corpi senza vita». «Sono salvo e penso che ringraziamo Dio – è la sua conclusione – . Salire sulla barca è davvero pericoloso. Questa è la verità. Non consiglio a nessuno di prendere la barca. Non posso dimenticare quello che ho visto con questi occhi».

Mary, violentata in Libia

La testimonianza di Mary, 24 anni, nigeriana anche lei, anche lei sul gommone sfondato insieme al marito, è persino più cruda. «Durante la traversata, l’acqua entrava nella barca. Stavo annegando – racconta – lottavo per sopravvivere. Invece di aiutarmi le persone mi calpestavano e mi usavano per cercare di stare a galla. Una donna incinta chiedeva aiuto, alcune persone erano già morte.

Continuavo a chiedere aiuto ma nessuno mi aiutava. Non respiravo, ho dovuto mordere per cercare di respirare. Ho detto a Dio che non volevo morire. Poi qualcuno ha urlato “tua moglie ti sta chiamando” e mio marito mi ha preso la mano e mi ha trascinato per farmi riuscire a respirare. Le persone mi camminavano addosso. Alcuni mordevano mio marito, il suo corpo era pieno di morsi. Ha usato tutta la forza che gli rimaneva, mi ha preso e mi ha stretto contro il bordo del gommone. Così l’acqua ha iniziato a uscire dalla mia bocca. Quando è passato un elicottero abbiamo cercato di farci vedere muovendo le mani chiedendo aiuto. Ho pensato che anche la polizia libica sarebbe andata bene. Sarei tornata in quella prigione piuttosto che morire in mare. Dio mi ha dato una seconda possibilità».

«Sulla nave che ci ha salvato ho visto un uomo che non mi aveva aiutato – continua Mary – Mi ha detto che non era colpa sua, stava lottando per la sua stessa vita». Mary ha passato due mesi in Libia. È stata in prigione là e racconta di essere stata violentata dai suoi carcerieri: «Non puoi dire di no. Loro hanno le pistole, urlano, parlano nella loro lingua. Speravo non mi guardassero, che mi vedessero come una donna adulta. Cercano giovani ragazze attraenti. Ti toccano il seno, fanno quello che vogliono, ti picchiano come animali.

Tutti i giorni le persone piangevano, svenivano, se chiedevi aiuto ti ridevano in faccia. Ogni tanto aprivano la prigione e dicevano di scappare, ma poi ti raggiungevano e ti riportavano dentro. Questa è la mia testimonianza – conclude – voglio usarla per dire alle persone quanto grande sia Dio».

Il silenzio dei sopravvissuti

La dottoressa Erna Rijnierse, è a capo dell’èquipe medica di Msf a bordo della Aquarius e racconta: «Quando siamo arrivati ci ha colpito subito il silenzio. Di solito quando ti avvicini a un barcone le persone agitano le braccia, urlano. Stavolta erano tutti in silenzio. Ho chiesto il permesso di salire a bordo.

L’acqua mi arrivava ai polpacci. C’era un odore fortissimo di carburante misto a urina e altro. Era difficilissimo non calpestare i corpi, ma volevo essere assolutamente certa che le donne fossero davvero oltre il punto di una possibile rianimazione. Alcune di loro erano già in rigor mortis. Era chiaro che non erano morte negli ultimi minuti e potevi vedere nei loro occhi che avevano lottato per sopravvivere. Dal punto di vista medico non c’era più niente da fare. Così sono tornata al nostro gommone per vedere i sopravvissuti. Molti avevano bruciore agli occhi dovuto ai gas o al carburante. Altri avevano graffi e morsi sulle gambe, sulla schiena e sulle braccia. Probabilmente glieli avevano procurati le ragazze schiacciate a terra mentre cercavano di liberarsi. Dev’essere stato un inferno».

«I sopravvissuti sono traumatizzati – aggiunge la dottoressa -, guardano nel vuoto, sguardi persi. Quanto hanno vissuto qui è oltre ogni immaginazione. Non riescono nemmeno a riconoscere i propri cari. Quello che davvero non posso sopportare è che queste ragazze siano morte di una morte orribile per l’unica ragione che non avevano altro modo di venire in Europa. Sono furiosa. Sono arrabbiata contro le politiche che tengono lontane queste persone, che non hanno per loro alcuna importanza. Queste ragazze avrebbero potuto comprare un biglietto aereo e fare un viaggio comodo e sicuro. E avrebbero pagato meno della metà di quanto hanno pagato per questa traversata maledetta. Allo stesso tempo sono estremamente triste perché queste persone non avevano commesso alcun crimine. Non erano malate. Erano persone normali con tutta la vita davanti».

Sotto il cumulo dei corpi

Ferry Schippers, coordinatore di Msf a bordo della Aquarius racconta a sua volta: «Dopo la chiamata di emergenza, ci è stato chiesto di dirigerci verso est il più velocemente possibile. Le prime informazioni parlavano di 15 morti su uno dei due gommoni. Il numero di corpi senza vita che abbiamo portato a bordo era poi ancora più alto: ventidue, 22 morti evitabili. I miei pensieri sono subito andati a chi era ancora a bordo del gommone in attesa di essere soccorso mentre fissava i propri cari o le persone conosciute senza vita ai propri piedi. Dovevamo portare queste persone a bordo il più velocemente possibile. Abbiamo soccorso prima i 104 sopravvissuti, poi le 105 persone a bordo dell’altra imbarcazione. Infine, abbiamo recuperato i corpi, forse l’azione più impegnativa».

«Le persone che salivano a bordo – riferisce ancora Schippers – guardavano nel vuoto, verso un punto lontano. La maggior parte di loro non rispondeva nemmeno quando gli chiedevamo che lingua parlassero. Abbiamo dato loro una piccola borsa con una coperta, biscotti energetici, dell’acqua che bevevano d’un fiato, calze e un asciugamano. Un uomo, in francese, mi ha detto: “Mia moglie è morta ed è ancora sul gommone, non so cosa fare…”».

L’ultima parte dell’operazione è stata recuperare i corpi senza vita. «Tre uomini sono scesi sul gommone, pieno di corpi che galleggiavano in una pozza di acqua e carburante – spiega il coordinatore -. Con una barella e una carrucola li abbiamo tirati a bordo uno a uno, nel massimo rispetto. Non importa quanti corpi prendessimo, il gommone sembrava non svuotarsi mai. Nella mia mente c’erano moltissimi pensieri. Ero arrabbiato e pieno di tristezza per quelle persone sfortunate, soprattutto donne, che avevano sofferto così tanto. Non avevano commesso alcun crimine tranne quello di cercare una vita migliore in Europa».

La morte avrà i tuoi occhi

Ablaygalo Diallo è il mediatore culturale dell’équipe di Msf che ha partecipato al Pfa (Psychological First Aid), il supporto psicologico allo sbarco sul molo di Trapani. Ha soccorso tra gli altri l’uomo nigeriano che ha visto la moglie morire davanti ai suoi occhi. «Sono rimasto a lungo vicino a lui – dice – all’interno della tenda di Msf dove garantiamo privacy e senso di sicurezza ai più vulnerabili.

Mi ha raccontato di come insieme alla moglie sono fuggiti dalla Nigeria, hanno attraversato il deserto. La donna, incinta, durante il viaggio ha perso il bambino. Nonostante le enormi difficoltà, sono riusciti a partire insieme, imbarcandosi per una traversata pericolosissima. Il gommone stracarico su cui viaggiavano ha ceduto sotto il peso delle persone, più di cento, creando una falla. Le donne che stavano al centro sono morte asfissiate e affogate, mi ha spiegato lui in lacrime. Non ha più visto sua moglie e si è reso conto solo a bordo dell’Aquarius che era tra i cadaveri, riconoscendola dalla maglietta che indossava».

Diallo è riuscito a farlo sfogare e a calmarlo, convincendolo a chiamare la famiglia a casa, «per dire alla madre che era ancora vivo». «Quando ha sentito la voce della madre dopo mesi, ho visto un sorriso spuntare sul suo viso». «È stato difficilissimo per me – dice il mediatore – spiegargli quale sarà il suo futuro ora che è arrivato qui».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/a-morsi-le-donne-cercavano-di-vivere/

Il Sultano scatenato

“Con la pena di morte non si entra in Europa”. Oggi per il manifesto.

Fonte:

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Di

Centinaia di corpi seminudi ammucchiati per terra, in quello che sembra un hangar o un caravanserraglio, mani legate dietro la schiena, lo sguardo perso senza luce di chi, sconfitto, chiede pietà ma non s’aspetta altro che violenza. Giovanissimi e inermi i soldati che si sono arresi, che hanno rifiutato di sparare sulla folla, che hanno ceduto alle promesse di fraternità dei manifestanti pro-Erdogan nella lunga notte del golpe tentato e fallito, e che ora invece vengono bastonati, diventano la colonna infame della vendetta del Sultano.

In queste ore il presidente turco trionfante aggiunge alla lista di proscrizione tutti i nemici, o quelli che considera tali o a malapena orientati verso la predicazione dell’autoesiliato Gülen, l’ex sodale e potente islamista ora diventato capro espiatorio di ogni malefatta. Da ieri agli arresti, oltre a 650 civili e a più di 6 mila soldati, ci sono anche 8mila agenti di polizia a quanto pare non sufficientemente fedeli, nonostante che la polizia sia stata la guardia pretoriana del regime contro i soldati golpisti. Ai quali si aggiungono 130 generali dello stato maggiore turco finiti in galera insieme a 800 magistrati (di cui due di Corte costituzionale). Più che un repulisti, una vera decimazione e deportazione.

Si riempiono le galere, è il tempo delle sparizioni, della tortura, delle confessioni estorte. E il popolo aizzato e in trionfo chiede il ripristino della pena di morte, che il governo di Ankara aveva eliminato come richiesto dall’Ue per l’ingresso del paese nell’Unione.

Un ingresso sempre rimandato – un tempo perfino sostenuto dal carcere dal leader kurdo Ocalan imprigionato dal 1999, ma come prospettiva di soluzione “europea” della questione kurda – e alla fine abbandonato da Bruxelles. Mentre Stati uniti, Paesi europei e Nato hanno preferito delegare al «nostro» Sultano atlantico il lavoro sporco di destabilizzare la Siria – in rovine – così diventando il santuario dei ribelli anche jihadisti.

È il buio della specie. Queste immagini di deportazione evocano inevitabilmente l’universo concentrazionario e di sterminio che l’Occidente raffinato ha allargato soltanto 70 anni fa nel cuore d’Europa, i fili spinati dell’ultima guerra fratricida balcanica. Così come la declinazione ordinaria di ogni colpo di stato – nonché occidentale – che si rispetti, dalla Grecia, al Cile, all’Argentina.

Fermiamo la mano del boia, delle deportazioni, delle sparizioni e delle torture. Delle esecuzioni a sangue freddo come quella del vice-sindaco di un municipio di Istanbul. Siamo al disprezzo dell’umanità. Ogni civiltà invece si misura sul rispetto del vinto. I governi europee, l’Ue, gli Stati uniti e la Nato sono stati tutti a guardare nella notte del tentato golpe, aspettando partecipi la sua riuscita. Perché non c’è F-16 che si levi in volo da Incirlik senza che i comandi centrali della Nato lo sappiano. Abbiamo assistito come spettatori interessati, per prendere le distanze solo dopo il fallimento del golpe. Il rischio è che staremo a guardare anche adesso lo spettacolo dei campi di concentramento che apre un nuovo sipario di dolore nel sud ferito del nostro Continente. Fermiamo il Sultano.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/il-sultano-scatenato/

Cinque mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo: Amnesty International Italia sollecita maggiore impegno da parte della Farnesina

Manifestazione “Verità per Giulio Regeni” a Milano © Giulio Tonincelli per Amnesty International

 21 giugno 2016

Alla vigilia del 25 giugno, quando saranno trascorsi cinque mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, Amnesty International Italia ha espresso in una lettera al ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni “preoccupazione per la mancanza di significativi progressi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità per la sua tragica uccisione”.

Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo, orrendamente torturato, di Giulio Regeni e di fronte a un obbligo internazionale di svolgere un’inchiesta approfondita e indipendente sulla vicenda e di portarne i responsabili di fronte alla giustizia, le autorità egiziane hanno offerto spiegazioni diverse e contraddittorie, tutte alquanto improbabili, alcune qualificabili come veri e propri depistaggi, e si sono dimostrate nel contempo poco propense a collaborare seriamente con gli organi investigativi e giudiziari italiani.

Negli ultimi mesi, sottolinea Amnesty International, il contesto di violazione dei diritti umani nel quale si colloca la vicenda specifica di Giulio Regeni ha visto un notevole peggioramento: il ricorso alla tortura e alle sparizioni resta pratica comune mentre risulta in aumento la persecuzione ai danni di attivisti e difensori dei diritti umani, tra i quali anche due consulenti dei legali della famiglia Regeni.

Amnesty International Italia ha apprezzato le iniziali prese di posizione del governo italiano, tra cui la scelta di richiamare l’ambasciatore al Cairo e la recente rassicurazione che, per il momento, il nuovo ambasciatore rimarrà in Italia.

Tuttavia, l’organizzazione per i diritti umani ritiene che, con il trascorrere dei mesi, siano maturati i tempi per integrare le risposte sul piano dei rapporti diplomatici con altre misure, indispensabili al fine di assicurare la dichiarata proporzionalità della risposta italiana ai mancati progressi da parte egiziana.

Tra queste, Amnesty International Italia ritiene che costituisca un passo necessario l’interruzione immediata di ogni ulteriore fornitura di armi e altri equipaggiamenti utilizzati per commettere o agevolare gravi violazioni dei diritti umani in Egitto. L’Italia è infatti tra i paesi europei che hanno continuato a esportare in Egitto, anche in tempi assai recenti, sia armi che tecnologie e strumentazioni sofisticate per svolgere attività di sorveglianza, nonostante il rischio elevato che le une e le altre possano essere usate contro il dissenso pacifico.

Sarebbe inoltre opportuno, secondo Amnesty International, che il governo italiano compisse sforzi finalizzati a rafforzare la risposta dell’Unione europea e della comunità internazionale.

L’organizzazione per i diritti umani chiede in particolare al governo italiano di attivarsi affinché l’Unione europea assuma, in coerenza con la risoluzione del parlamento europeo del 10 marzo che definisce opportunamente Giulio Regeni “cittadino europeo”, tutte le iniziative necessarie, tenendo conto che l’accordo di associazione tra Unione europea ed Egitto prevede che il rispetto dei diritti umani sia parte integrante di quell’accordo.

Amnesty International Italia invita inoltre il governo a prendere in considerazione l’ipotesi di promuovere l’adozione di una dichiarazione sulla situazione dei diritti umani in Egitto, che faccia riferimento al caso Regeni, nel Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Un altro meccanismo che Amnesty International Italia invita la Farnesina a valutare, nell’ipotesi che continuassero a mancare progressi nell’accertamento della verità, si colloca nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, di cui Italia ed Egitto sono stati parte: l’articolo 30 prevede infatti che, a fronte di una controversia relativa all’applicazione della Convenzione, ogni stato parte possa promuovere, nell’ordine, un negoziato, un arbitrato internazionale e, infine, un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di giustizia.

Il 25 e 26 giugno, Amnesty International Italia promuoverà una twitter action rivolta al primo ministro Renzi e al ministro degli Affari esteri Gentiloni per chiedere verità per Giulio Regeni.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 21 giugno 2016

 

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/cinque-mesi-dalla-scomparsa-di-giulio-regeni-al-cairo-amnesty-international-italia-sollecita-maggiore-impegno-da-parte-della-farnesina