L’eredità siriana di Alois Brunner, il nazista protetto da Damasco

  • 11 Gen 2017 17.08

Alois Brunner, senza data. - Afp
Alois Brunner, senza data. (Afp)

Alois Brunner, il criminale di guerra nazista più ricercato dal 1945, due volte condannato a morte in Francia negli anni cinquanta e giudicato responsabile dello sterminio di più di 135mila ebrei, è rimasto nazista fino alla fine ed è morto a Damasco nel dicembre 2001 a 89 anni. Lo racconta la rivista francese XXI in un’inchiesta esclusiva che esce l’11 gennaio 2017, e che sarà pubblicata anche da Internazionale il 13 gennaio e dalla rivista svizzera Reportagen.

L’inchiesta si basa sulle testimonianze esclusive di tre guardie del corpo addestrate nella scuola dei servizi segreti siriani e distaccate al settore 300 – quello incaricato del controspionaggio e della protezione di Brunner – e rivela il ruolo centrale svolto dall’ex nazista nel regime di Assad.

Il braccio destro di Adolf Eichmann, che alla fine degli anni cinquanta aveva messo la sua “esperienza” al servizio del clan Assad, è stato sepolto dal regime di Damasco di notte e in gran segreto al cimitero di Al Afif, nella capitale siriana, a meno di due chilometri dalla sede dove il nazista aveva vissuto le sue ultime ore. Il suo corpo è stato lavato secondo il rito musulmano. “Le strade erano state bloccate in modo che nessuno vedesse, solo otto persone avevano il diritto di assistere alla cerimonia”, racconta un ex agente dei servizi di sicurezza siriani. “È stato lui a formare tutti i responsabili del regime siriano”, confida una delle ex guardie del corpo di Brunner, citando i nomi dei direttori dei servizi di sicurezza siriani addestrati proprio da Brunner.

“Al suo arrivo in Siria è andato direttamente a incontrare Hafez al Assad presentandosi come intimo collaboratore di Hitler e da allora è stato scelto come uno dei suoi consiglieri”, afferma un’altra delle sue ex guardie del corpo. “Era stato mandato a Wadi Barada, che era una base dei servizi segreti, e lì ha addestrato tutti i responsabili”.

Queste testimonianze si trovano in un documento dei servizi segreti francesi pubblicati dalla rivista XXI. Il documento, che porta la data del 21 gennaio 1992 ed è stato trasmesso alla sezione ricerche della gendarmerie, afferma che “secondo un’informazione del febbraio 1988 Alois Brunner era all’epoca consigliere del governo siriano in materia di sicurezza”. Altri documenti dell’ufficio del procuratore di Francoforte, della Cia e del Bnd, i servizi segreti tedeschi, confermano che all’epoca queste informazioni erano conosciute da diversi stati.

Il patto formale dell’ex nazista con lo stato siriano risale al 1966, quando Hafez al Assad era arrivato al ministero della difesa in seguito a un colpo di stato militare. Con Brunner l’uomo forte della Siria aveva costruito un apparato repressivo di rara efficacia. E questo è il sistema che alla sua morte nel 2000 ha ereditato il figlio, l’attuale presidente siriano Bashar al Assad.

Il regime di Damasco ha sempre negato la presenza di Brunner in territorio siriano.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2017/01/11/siria-nazista-internazionale

UN POETA NELLE CARCERI DI ASSAD

 

Faraj Bayrakdar è stato torturato per quasi 14 anni in quanto scrittore dissidente. Oggi, pluripremiato e libero, sente che le sue sofferenze sono niente rispetto al dolore del popolo siriano

di Joshua Evangelista*

Dalla “festa di benvenuto”, la haflet al-istiqbal, inizia una lenta agonia che molto spesso porta alla morte. Il rapporto di Amnesty International racconta come si vive, e si muore, nelle carceri di Assad. Da decenni il regime siriano usa la tortura per stroncare gli oppositori, o presunti tali. Come è successo al poeta Faraj Bayrakdar, che ha passato quasi 14 anni dietro le sbarre, dal 1987 al 2000. «Tra un anno o due, dieci o venti la libertà si metterà la minigonna e mi accoglierà», scriveva in cella sul cartoncino delle sigarette, sperando di non essere visto dalle guardie. Oggi, rifugiato politico in Svezia, gira il mondo raccontando l’efferatezza del regime baathista, prima che la spettacolarizzazione della violenza plastica dei militanti dell’Isis renda definitivamente sopportabile le ingiustizie della dittatura all’opinione pubblica. «La memoria collettiva degli occidentali è piena di buchi e il regime è riuscito a trovare qualcuno peggiore per ripulirsi l’immagine. Così si dimenticano i passaggi che hanno portato a questa tragedia e si insiste con la retorica del male minore. È come se a un killer togli il pugnale insanguinato, gli dai una pacca sulla spalla e gli chiedi gentilmente di non farlo più».

Non ritiene inevitabile che l’attenzione sia concentrata sulla minaccia dell’Isis, soprattutto dopo gli ultimi attentati in Europa?

Nessuno può battere Isis, Jabhat al Nusra o le altre fazioni di matrice fondamentalista. Almeno finché non si rovescia Assad, che è l’altra faccia della medaglia. Mentre il mondo chiude gli occhi e sotto banco tratta con i terroristi, i media dimenticano che i massacri non vengono perpetuati solo dall’Isis.

Nel frattempo la guerra contro Isis sembra ben lontana dalla fine.

Potrebbero toglierli di mezzo subito, ma non conviene. Costa troppo. E chi paga? Arabia Saudita o Qatar? Prima che la guerra finisca si arriverà a un collasso totale. A quel punto il popolo tornerà alla vita di tutti i giorni, ma sarà una calma apparente. Non si dimenticherà cosa ha fatto il regime per mezzo secolo e come si è arrivati a questa spirale di fanatismo. Milioni di persone ogni notte incontrano nei loro incubi i propri morti e questo non è un problema che risolvi in venti anni. Gli incubi si tramandano di generazione in generazione.

Incubi che accompagnano i siriani anche nei disperati tentativi di raggiungere l’Europa.

L’Europa sta totalmente perdendo il controllo dei flussi migratori. Eppure tutti sapevano che rimuovendo il regime di Assad nel 2011 ciò non sarebbe accaduto. Ma evidentemente è più conveniente tenere milioni di disperati alle porte del continente.

Come siamo arrivati a questo?

Due settimane prima delle rivolte del 2011 ho scritto una lettera aperta all’Europa in cui criticavo Bruxelles per aver deciso di sostenere i “nostri” dittatori a discapito dei diritti umani. Erano le premesse per un’invasione di persone disperate, dissi.

Così è stato.

Non posso non ricordare i silenzi che hanno accompagnato i primi mesi della rivoluzione, quando centinaia di migliaia di persone laiche marciavano nelle strade chiedendo più diritti. Poi sono arrivate le bombe. E cosa hanno fatto gli occidentali? Invece di sostenere i giovani che sognavano una Siria libera, hanno destinato i propri soldi ai movimenti fondamentalisti: armi, cibo e medicine solo per loro.

Eppure molti di quei giovani hanno deciso di unirsi proprio ai quei movimenti.

È normale: sono i movimenti più ricchi. A Idlib conosco persone totalmente laiche che hanno deciso di combattere per l’Isis. Succede quando devi provvedere alla tua famiglia e gli altri non hanno nemmeno i soldi per darti un po’ di pane. E le potenze cosa fanno? Sostengono coloro che sono funzionali ai loro interessi, a occhi chiusi.

Non pensa che sia colpa anche di alleanze e scelte strategiche quanto meno discutibili da parte del fronte anti-assadiano?

Anche se i nostri rivoluzionari non fossero incappati in così tanti errori strategici, il risultato non sarebbe cambiato. Era stato già tutto deciso. Del resto anche il regime ha fatto tanti errori, eppure è lì, sempre forte.

Dalle sue parole traspare molto pessimismo.

Eppure non ho paura del futuro. Prima o poi i siriani ricostruiranno la Siria. Ma la soluzione inizia con la fine del regime. La storia insegna che siamo diversi da come veniamo dipinti dai media europei: non siamo mai stati paurosi delle minoranze. Faccio un esempio: da chi è stata gestita la transizione post francese? Da Fares al-Khoury, un cristiano, che è stato ministro, presidente e molto altro ancora. E per essere rappresentati nelle assemblee, i musulmani si rivolgevano a lui.

Se non ha paura del futuro, avrà immaginato come sarà ricostruzione. Quale sarà il ruolo della diaspora?

La diaspora tornerà in Siria, sosterrà la rinascita con soldi, training, con il know how appreso all’estero. Ma sarà chi è rimasto a costruire la nuova Siria. Ma, come per le crisi degli anni passati, dipenderà tutto dagli accordi che la nuova classe dirigente prenderanno con le potenze internazionali e dal “conto” economico e di persone che queste chiederanno. Noi, da fuori, faremo lobby, manderemo soldi: se necessario lavoreremo 14 ore al giorno e la metà del salario la destineremo alla ricostruzione.

A proposito di superpotenze impegnate in Siria, avrà sicuramente seguito il tentato golpe in Turchia. Le purghe che sono seguite hanno ricordato, a qualcuno, quelle che Hafez perpetrò nel 1982 nei confronti degli insorti della Fratellanza musulmana. 

Due cose sopra tutte le altre mi preoccupano della Turchia. La libertà d’espressione e la questione curda. Ma i paragoni non reggono: il regime turco non ha ancora perpetrato crimini di un livello equiparabile a quello siriano. Nel 1982 Assad bombardava Hama e faceva almeno 14000 morti. L’Erdogan del post golpe non ha ancora fatto nulla di simile, sebbene abbia arrestato migliaia di persone, ma è presto per farsi un’idea completa. Lo tengo d’occhio, può diventare una feroce dittatura.

Cosa ne pensa dell’accoglienza turca verso i migranti siriani?

A passarsela peggio sono i siriani in Libano. Dovremmo prima di tutto preoccuparci per le loro condizioni. I turchi sono stati accoglienti, anzi: il popolo ha dato più di quello che ha ricevuto. Sappiamo bene che un’Europa così attenta ai soldi e che non vuole spendere nell’accoglienza conviene mantenere i rifugiati in Turchia, questo è ovvio. Ma allora io lancio una provocazione: se è chiaro che nella società turca i siriani hanno maggiori possibilità di integrazione, i soldi europei per l’accoglienza ai rifugiati dovrebbero essere molti di più.

Nel frattempo però, la Turchia è scesa prepotentemente in campo contro i curdi del Rojava. Che idea si è fatto del confederalismo democratico curdo e, più in generale, del ruolo dei curdi nel conflitto?

Li stanno usando e quando la guerra sarà finita il mondo si dimenticherà di loro. Ha sempre fatto così. I curdi sono utopici, hanno grandi sogni. Eppure in tutto il corso della storia qualcuno li ha sfruttato. Li usano e poi li abbandonano. Io sono sempre stato, in Siria, un attivista per i diritti dei curdi. Lo ero quando Assad impediva di parlare la loro lingua, di preservare la loro cultura. Molti in Siria mi considerano un poeta curdo, addirittura. Lo dico, non stimo Saleh (co-presidente del PYD, ndr), non mi piace la sua ambiguità verso Assad. Ma penso che quando la guerra finirà la Siria dovrà fare i conti con la voglia d’indipendenza dei curdi. Andrà fatto un referendum per capire cosa vuole la popolazione delle regioni a prevalenza curda. Ma sono sincero, non credo che le super potenze permetteranno la creazione di uno stato del Kurdistan. Indipendenza o meno, io sarò sempre dalla loro parte e mi batterò affinché abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.

A Stoccolma lei è un punto di riferimento per i migranti che riescono a raggiungere la Svezia. Vede in loro lo stesso popolo che ha dovuto lasciare dodici anni fa?

Quasi tutti i siriano che arrivano qui hanno il mio numero e ricevo molte chiamate da chi è stato in prigione, hanno bisogno di parlare con qualcuno che ha vissuto lo stesso dramma. Non sono più gli stessi. Vedo nei loro occhi solo dolore e sofferenza, fatico a identificarli come siriani. Ma non vale solo per loro, dopo il 2011 tutti siamo cambiati in peggio. Anche la Svezia non è più la stessa rispetto a quando sono arrivato io.

E lei come è cambiato dopo 13 anni di segregazione e torture?

In carcere ero stato annullato e per questo motivo avevo dimenticato molte abitudini del vivere in comunità. Una volta uscito non sapevo più vestirmi, mi dimenticavo di salutare. Soprattutto: non sapevo più ridere. Non mi riesce bene nemmeno ora. Quando lo faccio mi sento graffiare la gola.

C’è un filo conduttore tra la sofferenza di allora e quella che prova ogni giorno vedendo il suo popolo sotto assedio?

No. È come se avessi sofferto per niente. Tutte le umiliazioni e le torture che ho subito sono nulla rispetto a quello che vive oggi il mio popolo. Mentre i miei aguzzini volevano vedermi agonizzante, sapevo che fuori da quelle mura c’era una famiglia che nonostante tutto sarebbe sopravvissuta. Oggi non è così. Tutti sanno che da un momento all’altro chiunque potrà ammazzarli.

Ha ancora senso fare poesia di fronte a una tragedia di queste dimensioni?

Alcuni miei colleghi riescono a produrre sulla Siria anche tre poesie al giorno. Io no. Negli ultimi cinque anni ho scritto pochi versi. E tra questi solo alcuni sulla Siria. In prigione avevo 24 ore al giorno per comporre. Ho pubblicato sette antologie, per intenderci. Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza.

E oggi come dà senso all’esistenza?

Dopo il 2011 la mia situazione è diventata ben più complicata. Perché la rivoluzione “impegna”. Passo le giornate sui social network per capire come sta il mio popolo. Inoltre ritengo che il mio ruolo di autore sia cambiato. In carcere scrivevo per me, cercavo la forma, una qualità di scrittura che appagasse la mia tribolazione. Oggi invece serve una dialettica semplice, devo raggiungere il popolo. Meglio fare video, postare foto sui social e rinunciare a un arabo ricercato. Ho scritto una canzone nel dialetto di Homs, su YouTube ha avuto tantissime visualizzazioni e al Jazeera ha fatto un documentario su di me che ha raggiunto milioni di persone. La gente è disinformata, il mio nuovo ruolo è creare consapevolezza. È un modo per non rendere vano il sacrificio dei 400 mila sognatori che nel 2011 erano scesi in piazza a Homs. O dei 600 mila di Hama. A questo punto della mia vita non ho più pretese personali. Mi basta sapere che sto facendo qualcosa per aiutare il mio popolo.


*Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata su “Il Dubbio” del 20 agosto 2016.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/09/siria-faraj-bayrakdar-poeta-carceri-assad/

Il massacro di Hama

Sono passati trentatre anni dal massacro di Hama in Siria a opera di Hafez al Assad. A distanza di decenni la storia continua quotidianamente a ripetersi perchè la famiglia Assad è ancora al governo.
Riporto un post pubblicato l’anno scorso sul blog di Asmae Dachan:

 

Hama 2 febbraio 20142 febbraio 1982 – 2 febbraio 2014

A Hama, 32 anni fa, si scriveva una delle pagine più sanguinose nella storia della Siria, firmata dal padre dell’attuale presidente/dittatore bashar al assad, hafiz al assad. Oltre 30 mila civili, tra cui donne e bambini, vennero uccisi; i loro corpi finirono nelle fosse comuni. Migliaia di persone vennero arrestate, altre migliaia fuggirono; interi quartieri vennero rasi al suolo, con case, scuole, luoghi di culto bombardati mentre le persone erano al loro interno.

Una strage taciuta, che non è mai entrata nei libri di storia; un genocidio che si è consumato in un arco di tempo breve, di circa un mese, di cui si venne a conoscenza solo grazie alle testimonianze dei sopravvissuti che riuscirono a fuggire e alla successiva scoperta delle fosse comuni. Di quel periodo esistono poche foto, scatti rubati e nascosti per decenni per paura di ritorsioni. Ciò che scatenò la furia omicida di assad padre furono alcune iniziative di opposizione messe in atto dagli abitanti della città, che rivendicavano il riconoscimento dei propri diritti civili e sociali.

Hama, 32 anni dopo, è una città che non ha dimenticato; i suoi abitanti, che per un trentennio hanno dovuto tacere e convivere con il proprio dolore in silenzio, sono stati particolarmente motivati, nel 2011, a prendere parte alle manifestazioni antigovernative. Uno dei giovani simbolo delle proteste pacifiche in Siria, ribattezzato l’usignolo della rivolta, era proprio un trentenne di Hama, Ibrahim Qashoush; per punirlo dei suoi canti, il regime lo condannò a morte: il 4 luglio 2011 il suo corpo venne ritrovato abbandonato su una strada, con le corde vocali recise.

Chi ha commesso il massacro nell’82 è chi, ancor oggi, detiene il potere politico ed economico in Siria; la mano che ha ucciso oltre 30 mila civili allora è la stessa che, in 3 anni, ha ucciso oltre 150 mila persone: la stessa dinastia, gli assad, con il passaggio di consegne di padre in figlio e lo stesso partito,  il baa’th, che continua a calpestare i diritti del popolo siriano. 32 anni dopo, cosa è rimasto di Hama, la città conosciuta per i suoi millenari mulini, “ribattezzata la città dei martiri”? E’ rimasta l’amarezza del silenzio, scrivono in Siria, è rimasto il senso di un’ingiustizia che si protrae nel tempo, per quelle vittime a cui nessuno ha potuto rendere omaggio, per quei dispersi di cui si è ormai persa la memoria, per quegli innocenti finiti nelle carceri del regime, come la famigerata prigione sotterranea di Tadmor, Palmira, per reati d’opinione, torturati e privati dei loro più elementari diritti umani.

Riesaminare gli accadimenti di Hama dell’82 significa comprendere meglio anche ciò che accade dal 2011 ad oggi: il regime degli assad, che ha preso il potere in Siria con un colpo di Stato, imponendo la sua bandiera, prendendo il pieno controllo politico, sociale ed economico del paese,  ricorrendo alla violenza, alla tortura, alla violazione dei diritti umani per eliminare ogni forma d’opposizione, è lo stesso che ha scatenato una feroce e sanguinaria repressione contro i manifestanti inermi che hanno chiesto libertà e democrazia. La differenza è che oggi, nell’epoca della tecnologia, di internet, della diffusione su larga scala di fotocamere e videocamere connesse in rete, dispositivi satellitari che riprendono dall’alto in tempo reale, ciò che accade in Siria è documentato, istante per istante. La devastazione, le fosse comuni, i bombardamenti, sono ripresi e immortalati e immediatamente condivisi in rete.

Sono passati 32 anni da quel genocidio. La Siria continua a sanguinare. Gli assad e il partito baa’th sono ancora al governo. La comunità internazionale, che non ha mai condannato quel massacro, continua ad assistere indifferente al genocidio del popolo siriano. Nessun minuto di silenzio per i morti di allora, nessua presa di posizione per i morti di oggi. Tutto ciò rende la ricorrenza di oggi, agli occhi dei siriani, in particolare degli abitanti di Hama, ancor più dolorosa.

 

 

Fonte:

https://diariodisiria.wordpress.com/2014/02/02/il-massacro-di-hama-32-anni-dopo-tra-oblio-e-dolore-video/

 

“SALVATE I SUPERSTITI”, IN SIRIA PIU’ DI 80MILA DETENUTI SPARITI – SABATO 31 GENNAIO PRESIDIO DELLA CAMPAGNA “SAVE THE REST” A ROMA

a. a lettere (Nota: questa foto non era presente sull’edizione cartacea de Il Garantista, solo in quella on-line e proviene in realtà dalla Palestina, non dalla Siria. Lo scrivo per correttezza d’informazione. Ciò non muta il contenuto dell’articolo. D. Q.)

 

Sembravano banconote da 500 lire siriane, piegate e abbandonate negli angoli delle vie di Damasco. Una volta aperti, i foglietti si rivelavano volantini della campagna Inquzu al baqia, ”Salvate i Superstiti”. Siamo a dicembre del 2014 e un gruppo di attivisti vuol riaccendere i riflettori sulla questione dei prigionieri e dei dispersi dall’inizio della rivolta contro Assad, dal marzo del 2011. «Sono 215.000 i detenuti di cui si ha certezza nelle carceri del regime, lo ha verificato sulla base agli standard internazionali, il Syrian Network for Human Rights (SN4HR)» ci dice Susan Ahmad, la portavoce della campagna.

Numeri che si riferiscono ad un rapporto del SN4HR dell’aprile del 2013, l’ultimo che è stato possibile realizzare, e riguardano solo le persone di cui sono noti il nome, la data e le circostanze dell’arresto. Nello stesso rapporto di parla di 80.000 persone sparite, ma questo numero, come quello dei prigionieri, è ben al di sotto di quello reale. «In molti casi non possiamo registrare gli arresti sommari o le detenzioni perché i parenti hanno paura di parlarne» prosegue la Ahmad «I prigionieri non sono arrestati in virtù di un crimine, tutt’altro. Non sono rari i casi di arresti arbitrari e casuali ai check point, è persino nato un mercato intorno agli arresti: quando una persona viene presa, spesso i famigliari vengono contattati e ricattati da militari che si offrono di “aiutare” a far uscire il loro caro in cambio di una ricompensa a a sei zeri. Ci sono famiglie che hanno venduto casa e rinunciato a tutto, per poi scoprire che loro figlio era morto sotto tortura da tempo».

Capita anche il contrario: quando il regime comunica la morte di un detenuto, i famigliari devono recarsi a recuperare la carta d’identità della vittima e firmare, volenti o nolenti, una dichiarazione in cui si dice che il loro congiunto è morto per cause naturali, rinunciando quindi ad ogni ipotesi di rivalsa legale. «Spesso il cadavere non viene consegnato ed è accaduto più volte che un prigioniero dato per morto bussasse alla porta di casa dopo mesi. Sono migliaia le famiglie che non hanno certezza della morte dei loro cari».

”Salvate i superstiti” chiede la liberazione dei prigionieri di coscienza, di quelli in mano agli estremisti (una goccia nel mare), la fine degli arresti arbitrari e che i colpevoli di abusi siano processati. L’ obiettivo immediato è che tutti i luoghi di detenzione siano rivelati e resi accessibili alle ispezioni e all’intervento della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa siriana e che siano rivelati anche i luoghi di sepoltura. La campagna ha raggiunto l’apice nell’ultima settimana di gennaio, con manifestazioni nel nord della Siria ma anche all’estero, in Libano, Canada, negli USA, o qui in Europa a Londra, Istanbul e Parigi, mentre a Roma e Berlino si muoveranno il 31. Durante le iniziative in piazza si leggono lettere dei prigionieri e si rappresentano le condizioni di detenzione. La protesta si è espressa anche attraverso i social network, invasi di testimonianze, interviste, vignette, e col“twitter storm” del 26 di questo mese. Uno sforzo coordinato dalla società civile che resiste in Siria, ma che ha visto coinvolti i siriani della diaspora sparsi ormai in tutto l’occidente ed il mondo arabo.

La prigionia

Oltre alle carceri, ci sono prigionieri chiusi nelle strutture dei servizi segreti e in luoghi sconosciuti. Basta poco per finire in questi gironi infernali: poche righe scritte da qualche informatore in un “taqrir”, un rapporto, magari una parola di troppo davanti al fruttivendolo sotto casa, la foto di una manifestazione o i contatti sbagliati nella rubrica del cellulare. Può bastare anche solo il trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le condizioni di detenzione variano, ma sono sempre disumane. Nelle carceri destinate ai prigionieri politici e nelle sedi dei servizi segreti la brutalità delle torture fisiche e psicologiche raggiungono il loro picco. Alle percosse continue e gli elettroshock si aggiungono il freddo, il sovraffollamento, la fame, la mancanza di assistenza sanitaria e condizioni igieniche drammatiche: ogni giorno c’è chi muore di stenti o per banali infezioni. Anche l’umiliazione fa parte della quotidianità, anche le più elementari esigenze fisiologiche sono strumento di tortura, in celle con 50 persone ed oltre in cui si dorme a turno, corpi straziati che si incastrano gli uni con gli altri in cerca di riposo prima di un altro giorno di agonia. Diffuse anche le torture relative alla sfera sessuale, dai “semplici” stupri fino ai casi di detenuti costretti ad assistere o persino a partecipare allo stupro di propri congiunti. In alcune strutture detenuti privilegiati possono comprare, corrompendo i carcerieri, un po’ di dignità, ma si tratta di una esigua minoranza.

Le testimonianze

 Già nell’estate del 2012, un rapporto basato su 200 interviste ad ex detenuti realizzato da Human Right Watch (HRW) denunciava il sistematico ricorso alla tortura da parte del regime di Assad, svelando la collocazione di 27 delle numerose strutture segrete e descrivendo nei dettagli i più comuni metodi di tortura riportati dai superstiti. Nel settembre del 2013 HRW ha avuto accesso ad alcuni di questi luoghi dopo la conquista di Raqqa da parte delle forze ribelli. Qui sono stati trovati strumenti di tortura e documenti che provano i crimini descritti nel precedente rapporto. Le prove più consistenti sono però nel cosiddetto “rapporto Caesar”: un documento di 31 pagine con le foto di 11.000 corpi, trafugate dal disertore chiamato Caesar, che tra settembre 2011 ed agosto 2013 aveva il compito di fotografare e catalogare i morti nelle prigioni di Assad di un’area del Paese. Immagini esaminate da giuristi e procuratori del calibro di Desmon De Silva, ex procuratore capo del Tribunale Speciale per la Sierra Leone, che ha detto al quotidiano britannico The Guardian che le prove «documentano uccisioni su scala industriale» e ha aggiunto: «Questa è la pistola fumante che non avevamo mai avuto prima » mentre David Crane, anche lui tra i procuratori del Tribunale Speciale, ha affermato che: «Si tratta esattamente del tipo di prove che un procuratore cerca e si augura di trovare. Ci sono foto con numeri che corrispondono a documenti governativi e c’è la persona che le ha scattate. Sono prove che vanno al di là di ogni ragionevole dubbio». Tuttavia, nonostante le foto siano state mostrate al Congresso USA ed al Consiglio di Sicurezza dell’ Onu, non ci sono state conseguenze per il regime di Assad che oggi sembra sempre più riabilitato, quasi un alleato dell’occidente nella lotta contro il sedicente “Stato Islamico”.

Presente e memoria

Le foto trafugate da Caesar mostrano corpi emaciati, con chiari segni di percosse e torture elettriche, alcuni hanno gli occhi cavati o altre mutilazioni. Foto che ricordano tragicamente quelle scattate dall’Armata Rossa 70 anni fa nel campo di Auschwitz. C’è un filo rosso che lega il 27 gennaio del ‘45 ed il nostro presente e non è solo nella similitudine tra quelle foto: il regime di Hafiz al Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, si era servito della consulenza di vari criminali di guerra nazisti nel formare ed addestrare i servizi segreti e le forze speciali. Il più noto era l’austriaco Alois Brunner, la cui morte è stata accertata solo quest’anno. Il gerarca, ritenuto responsabile dell’uccisione di 140.000 ebrei, giunse in Siria nel 1954 dove divenne consigliere di Hafiz al Assad col nome di Dr. Georg Fischer. Nella sua ultima intervista, rilasciata nell’ 87 dalla sua casa di Damasco, Brunner dichiarò «Tutti gli ebrei meritavano di morire, erano agenti del demonio e la feccia dell’umanità. Non mi pento e lo rifarei ancora».

Forse dovremmo ripensare il senso della Giornata della Memoria: si dice che, quando l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz, il mondo scoprì le dimensioni tragiche dell’olocausto nazi-fascista. Stavolta non ci sono scuse, sappiamo in dettaglio cosa sta succedendo in Siria, continueremo a ripeterci, con aria contrita, “Mai più!” o faremo qualcosa per fermare lo sterminio in atto ?

 

 

Fonte:

 http://ilgarantista.it/2015/01/27/salvate-i-superstiti-in-siria-piu-di-80mila-detenuti-spariti/

 

 

Sabato 31 gennaio 2015 ci sarà a Roma un presidio della campagna Save The Rest:

Sabato dalle ore 9.45 alle ore 14.30
Accogliamo l’invito a mobilitarci che ci giunge dalla società civile siriana, il grido di dolore per coloro che vivono un esperienza da molti descritta come peggiore della morte: la prigionia e la tortura nelle carceri, nelle celle segrete di Assad e nelle sedi dei servizi segreti.
Con un pensiero anche per i prigionieri delle altre forze controrivoluzionarie o sedicenti rivoluzionarie, che tuttavia tradiscono gli ideali di Libertà e Dignità in nome dei quali il popolo siriano era sceso in piazza fin dal marzo 2011, rapendo o detenendo cittadine e cittadini senza un giudizio equo e/o in condizioni disumane.Ecco il messaggio che abbiamo raccolto e fatto nostro e che ripeteremo di fronte alla sede ONU qui a Roma, in piazza San Marco, sul lato destro di piazza Venezia guardando l’altare della patria.-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_
Una campagna per i Diritti Umani, per salvare migliaia di detenuti innocenti e di rapiti nelle prigioni siriane. Salviamoli!”Questa testimonianza non potrà ridarmi indietro ciò che ho perduto. Ho perso parte della mia vita e momenti preziosi con la mia famiglia. Ho perso alcuni tra i miei più cari amici, morti sotto i miei occhi, nonostante io abbia tentato disperatamente di salvarli.
Ma la morte è stata più svelta di me e la ferocia dei carcerieri più forte dei miei tentativi”.Queste sono poche righe da una lettera di un detenuto politico nelle carceri di Assad, ottenuta con grande difficoltà. Mentre leggete queste righe, forse quell’uomo potrebbe essere ancora torturato, umiliato, sofferente ed affamato. Chiuso ed avvolto in tenebre in cui avvengono cose difficili persino da immaginare.

Con il crescere della violenza e brutalità delle forze di Assad, il numero di prigionieri siriani e di desaparecidos è in aumento: solo nell’agosto del 2014, 250 persone sono morte sotto tortura, mediamente 8 persone ogni giorno!

Il regime di Assad non ha ratificato lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale e, nonostante la detenzione arbitraria e l’uccisione sotto tortura di cui si è reso colpevole siano tra i crimini più documentati di sempre, gli Stati del “mondo libero” non si sono assunti le loro responsabilità.

In un rapporto presentato anche alle Nazioni Unite, il fotografo che ha disertato le fila dell’esercito siriano regolare noto come “Caesar”, ha documentato l’uccisione sotto tortura di 11.000 persone attraverso le foto che ha trafugato.
Di fronte a tali evidenze, non possiamo restare a guardare gli uomini di Assad mentre uccidono altre migliaia di innocenti sotto tortura.

Con la campagna #SaveTheRest , “Salvate i superstiti”, chiediamo:

– La liberazione di tutti i prigionieri di coscienza e di sapere dove sono e quali siano le sorti degli scomparsi.

– La fine dei processi sommari che rappresentano un flagrante oltraggio ai Diritti Umani.

– La persecuzione e il processo di tutti coloro che si sono macchiati del crimine di tortura o hanno abusato dei detenuti.

In attesa che si realizzi quanto detto, chiediamo urgentemente:

– L’invio di commissioni investigativa per constatare le condizioni di detenzione dei prigionieri, sia nelle carceri che negli altri luoghi di detenzione noti o segreti.

– Provvedere alle cure mediche necessarie, sotto la supervisione della Croce Rossa Internazionale e della Mezzaluna Rossa siriana.

– Che siano rivelati i luoghi di prigionia o la sorte di tutti gli scomparsi.

– Conoscere i luoghi di sepoltura delle vittime della tortura.

Link su Facebook:

Tell al Zaater, agosto 1976: 3000 morti palestinesi per mano siriana

Dal blog di Valentina Perniciaro:

 

12 agosto 2013

 

3000 cadaveri…un migliaio in più di quelli di Sabra e Chatila: il paese è lo stesso, il Libano, ed anche il sangue è lo stesso,
sangue palestinese, sangue di profughi palestinesi.
La mano non è la stessa però: mentre a Sabra e Chatila i quasi duemila morti vengono fatti sotto ordine israeliano ( a gestire l’operazione c’è Ariel Sharon) e per mano cristiano maronita,
la strage di Tell al-Zaater, la collina del timo libanese, è mossa da mano siriana ( i servi tagliagole maroniti ci son sempre eh!),
visto che era proprio il generale Hafez Al-Assad, al potere dal 1970, che non poteva assistere silenzioso alla possibilità di un governo arabo-palestinese nella sua sfera influenza: il Libano.
Il massacro porta la data di oggi, 12 agosto,
ma già dal 1 giugno diecimila soldati siriani, con l’aiuto di milizie cristiane e dei reparti di Al-Saiqa (organizzazione palestinese di formazione baathista), mettono sotto assedio il campo profughi, con dentro più di 50.000 abitanti.
Un assedio privo di pertugi, dove nemmeno l’acqua e il pane riuscivano a passare,
un assedio di 52 giorni che vide anche molti palestinesi morire di fame e sete.
Fino al 12 agosto, data in cui si entrò nel campo e tremila persone morirono in meno di 24 ore.

Un massacro rimosso,
rimosso dalla memoria araba, che si ostina a mettere sotto il tappeto il sangue palestinese versato per mano araba,
rimosso dalla memoria di chi, asservito alla geopolitica, trova amici ed alleanze nel baathismo come se la storia non c’avesse insegnato nulla,
rimosso dalla memoria di chi si occupa di Palestina ma solo in senso anti-israeliano,
dimenticando questo massacro come i tanti che dal Settembre Nero del 1970 hanno mietuto migliaia e migliaia di vittime palestinesi per mano e scelta dei governi arabi.
I morti della collina del timo continuano ad essere morti di serie B,
anche tra di noi.
Un “noi” che grazie ai deliri geopolitici diventa sempre più pronto a schierarsi con i massacri del figlio di Assad, le milizie armate sciite del Partito di Dio Hezbollah e quelle iraniane, come se potessero essere la controparte alle milizie jihadiste sunnite di Nusra e delle altre componenti qaediste che hanno scippato la rivolta dalle strade siriane trasformandola in guerra civile religiosa.
Stiamo proprio messi male,
povera Palestina, disperata Siria.

a QUESTO LINK, la “ballata di Tell al Zaater” che ho dedicato ad Arrigoni quando fu ucciso.

 

 

 

Fonte:

http://baruda.net/2013/08/12/tell-al-zaater-agosto-1976-3000-morti-palestinesi-per-mano-siriana/

SIRIA, TORTURE QUOTIDIANE

agosto 4, 2014

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di Elena Calogiuri

Lo scorso 31 luglio un disertore dell’esercito regolare siriano detto “Caesar” si è presentato dinanzi alla Commissione degli Affari esteri a Capitol Hill, Washinghton, con lo scopo di denunciare i crimini compiuti dal governo siriano. L’ex soldato, che negli ultimi due anni ha lavorato in un ospedale militare, ha raccolto in questo periodo 55,000 foto dei civili, in vita e non, metodicamente torturati nelle carceri siriane. Tra questi ci sono bambini, donne, anziani e suoi stessi conoscenti e amici. “Sono stati lasciati morire di fame, sembravano scheletri” ha detto Caesar attraverso l’interprete Mouaz Mustafa del Syrian American Task Force, “In tutta la mia vita non ho mai visto corpi soggetti a simili atrocità eccetto quando vidi le foto delle vittime dell’Olocausto compiuto dai Nazisti.

Il disertore ha affermato che sino ad ora sono morti 11,000 civili a seguito di torture disumane e di privazioni di cibo e di acqua e che attualmente sono ancora 150,000 i civili rinchiusi nelle carceri del regime siriano. Appellandosi al Congresso e all’amministrazione di Obama ha chiesto loro di fare tutto il necessario per fermare questi crimini. A supportare Ceaser il più democratico della Commissione, il Rep. Eliot Engel che ha dichiarato, senza mezzi termini: “Questo sta avvenendo ora in Siria, mentre parliamo, e noi possiamo fare molto di più per fermarlo”.

Intanto, la Russia e la Cina, le maggiori potenze extra-mediorientali che sostengono il regime siriano, hanno ribadito il veto già espresso nel mese di maggio per impedire l’accusa del governo siriano alla Corte internazionale dei crimini contro l’umanità. Gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno così preso altre vie focalizzandosi sui Paesi che hanno la giurisdizione; ognuno di questi dovrebbe raccogliere le testimonianze di propri cittadini che potrebbero essere stati vittime o carnefici in Siria. Tra i 150,000 detenuti nelle carceri siriane ci sono anche importanti attivisti per i diritti umani, come la veterana Samira al Khalil impegnata a denunciare i soprusi del regime siriano da quando al potere c’era il padre dell’attuale dittatore: Hafez al Assad.

Di Samira, così come di Razan Zaitouneh, rapita il 10 dicembre 2013 con il marito e due suoi colleghi, Nazem Hammadi e Wael Hammadi, non si sa più nulla. Tenendo conto che gli attivisti siriani pubblicano assiduamente le morti dei detenuti nelle carceri del regime e che nulla è stato mai menzionato circa il decesso degli attivisti, rimane viva la speranza che questi possano presto godere della libertà, valore per cui stanno dando la vita. Fonti: The Wall Street Journal, Foreign Policy, The Washington Post

 

 

Tratto da:

http://caratteriliberi.eu/2014/08/04/mondo/siria-torture-quotidiane/

SIRIA: STORIA DI UNA PERCENTUALE ‘BULGARA’

4 giugno 2014

 

Hafez al Asad, al potere dal 1970 al 2000

 

Bashar al Asad rimane formalmente presidente della Repubblica araba di Siria fino ad almeno il 2021, ottenendo l’88,7% dei voti alle “elezioni” svoltesi il 3 giugno 2014. L’affluenza alle urne è stata del 73%.

Secondo i conteggi ufficiali non verificabili in maniera indipendente, sono undici milioni i siriani che hanno votato. Lo stesso numero di siriani aveva detto “sì” nel 2007 al referendum confermativo per la rielezione di Asad.

Per la prima volta dopo decenni, non è più un nove la prima cifra delle decine della percentuale della vittoria di un Asad ai vertici del regime.

L’altra novità di queste “elezioni” è stata rappresentata dalla presenza di altri candidati: Maher Hajjar (4,3%) e Hasan Nuri (3,2%) si sono prestati a interpretare il ruolo di “sfidanti” per assicurare quel pizzico di “pluralismo” alle consultazioni.

Andando a ritroso nella storia delle “vittorie elettorali” degli Asad, al potere dal novembre del 1970, si scopre che fino a oggi la percentuale più bassa si era registrata sette anni fa: per Asad c’erano stati ‘solo’ il 97,6% dei “sì”.

Nel 2000, il novantanove-virgola-sette-per-cento. Quella era però la “prima” di Asad figlio dopo la morte del padre Hafez (foto in alto), il “duce immortale”. Difficile pensare a una percentuale più bassa.

Ma Hafez era stato confermato presidente solo un anno prima, nel 1999, con la cifra tonda del 100%. Così andò anche nel 1991 e nel 1985. Mai sotto il cento-per-cento dal 1985 al 1999: non male.

Per registrare una leggera inflessione bisogna tornare al 1978: 99%. Un altro ‘imperfetto’ 99% si registrò nel marzo del 1971, quando Asad padre si presentò per la prima volta al “popolo” per chiedere la conferma della decisione del Baath e del parlamento.  Era solo l’inizio.

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/short-news/storia-percentuale-bulgara.html

 

1948 – 2014: LA NAKBA DI IERI E QUELLA DI OGGI

Dal blog di Germano Monti:

 

yarmouk unrwa

GIOVEDI’ 15 MAGGIO, ALLE 16.30, a Roma. allo spazio occupato COMMUNIA, in Viale dello Scalo San Lorenzo n. 33,

DIBATTITO PUBBLICO

“LA NAKBA DEL XXI SECOLO. YARMOUK E’PALESTINA!”

Intervengono:

Cinzia NACHIRA – Docente Università di Lecce

Domenico CHIRICO – Un ponte per…

Iyad HAFEZ – Presidente della Comunità Araba di Perugia

Ali – Rifugiato palestinese da Yarmouk

Germano MONTI – Comitato Romano di Solidarietà con il Popolo Siriano

Renato SCAROLA – Comune Umanista Socialista

Coordina Fouad Roueiha

Proiezione del video realizzato dai rifugiati di Yarmouk appositamente per questa iniziativa

A seguire, dalle 20.30, cena siriana-palestinese a sottoscrizione in Via di Porta Labicana n. 56a

 

Quello di Yarmouk, a Damasco, è il più grande campo dei rifugiati palestinesi, quelli che la pulizia etnica israeliana costrinse ad abbandonare le proprie case e la propria terra in quella che i Palestinesi definiscono la “Nakba”, la “Catastrofe”, vale a dire la nascita dello Stato di Israele su un territorio di gran lunga superiore a quello che prevedeva la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite.
La storia dei rifugiati palestinesi è costellata di episodi di violenza, persecuzione e veri e propri massacri ad opera non solo delle forze israeliane, ma anche da parte di quei regimi arabi che si sono sempre venduti l’immagine di sostenitori della causa palestinese, dal “Settembre Nero” in Giordania alle stragi di Tall El Zaatar e della “Guerra dei Campi” in Libano, ad opera di milizie libanesi palestinesi alle dipendenze del regime del clan Assad, tuttora al potere in Siria.
Dall’inizio della rivoluzione in Siria, più di tre anni fa, i rifugiati palestinesi sono stati solidali e partecipi con la lotta dei loro fratelli del popolo siriano. Per questo motivo,  il regime di Assad, che ha risposto con la guerra alle manifestazioni pacifiche della popolazione nel 2011, dopo aver perso il controllo del campo di Yarmouk, lo ha trasformato in terreno di battaglia, come tutte le città ed i villaggi siriani, stringendolo in un assedio sempre più feroce, fino a sigillarlo completamente nel luglio dello scorso anno.
I Palestinesi assassinati in Siria dalle forze del regime sono ormai più di 2.200 (circa sei volte quelli uccisi dagli Israeliani nello stesso lasso di tempo), più della metà dei quali residenti a Yarmouk. Da quando il regime, lo scorso dicembre, ha imposto anche il blocco all’ingresso nel campo dei generi alimentari, a Yarmouk sono morti per fame e disidratazione più di 200 rifugiati palestinesi.

***

La situazione a Yarmouk e negli altri campi palestinesi in Siria è talmente drammatica che non è esagerato parlare di una seconda “Nakba”. La popolazione di Yarmouk si è ridotta da 150.000 residenti a meno di 30.000 e si calcola che gli sfollati dai campi siano più della metà dei circa 500.000 Palestinesi precedentemente residenti in Siria: solo in Europa, alla fine dello scorso anno, erano arrivati almeno 30.000 rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria, mentre altre decine di migliaia sono andati a cercare scampo in Turchia, Libano, Giordania, Egitto e persino nella Striscia di Gaza.
A fronte di questa tragedia, l’iniziativa da parte dei movimenti di solidarietà con il popolo palestinese è stata del tutto assente, salvo eccezioni tanto lodevoli, quanto rare. La complessità della crisi siriana e la persistenza di pregiudizi ideologici accecanti hanno indotto molti al silenzio, quando non all’aperta complicità con il regime siriano, considerato – contro ogni evidenza -“antimperialista” e addirittura “socialista”.
Questo silenzio è inaccettabile. Questo silenzio è una ferita nel corpo del movimento di solidarietà con il popolo palestinese. Questo silenzio deve finire.
Come soggetti impegnati nella solidarietà con il popolo siriano, il popolo palestinese e con tutti i popoli in lotta per la libertà e la dignità, invitiamo tutte e tutti gli amici della Palestina, della pace e della giustizia a parlare di Yarmouk, dei rifugiati palestinesi e della necessità di costruire insieme sostegno e solidarietà. Perché anche Yarmouk è Palestina. 

Comitato Romano di Solidarietà con il Popolo Siriano

 

 

 

Fonte:

http://vicinoriente.wordpress.com/2014/05/02/1948-2014-la-nakba-di-ieri-e-quella-di-oggi/