Fascisti italiani in Ucraina, a Donetsk come a Kiev

 

 

fascisti a donetsk

 

giugno 11, 2014

 

Dopo i numerosi articoli che nelle scorse settimane hanno fatto luce sulla presenza di fascisti italiani in Ucraina tra i gruppi armati neonazisti che sostengono e compongono il governo di Kiev, si ricordi in proposito il caso di Francesco Fontana, il 10 giugno RaiNews ha dato notizia dell’arrivo di un gruppo di volontari italiani a Donetsk per combattere le truppe di Kiev. La notizia è stata ripresa anche da altre testate italiane.

 

 

 

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/A-Donetsk-sono-arrivati-volontari-italiani-per-combattere-le-truppe-di-Kiev-9480d2a5-99e6-48d2-b884-36cad0c80999.html?refresh_ce

 


RaiNews indica questi volontari come “membri dell’organizzazione antifascista italiana Millennium” ed afferma che “sono giunti a Donetsk dove saranno inquadrati nelle milizie paramilitari filorusse comandate dal sedicente comandante in capo delle forze armate della Repubblica Popolare di Donetsk, Igor Strelkov.”
Stando all’articolo la notizia sarebbe stata lanciata dal portale russo Lifenes.ru, che avrebbe citato la pagina di Pavel Gubarev, Governatore del popolo della Repubblica di Donetsk.
Secondo quanto riportato da RaiNews, Gubarev afferma “che gli italiani «hanno espresso la volontà di sostenere la Repubblica Popolare di Donetsk nella sua resistenza contro le autorità di Kiev che conducono le operazioni militari contro il proprio popolo nel Sud-Est dell’Ucraina». Gli italiani saranno messi a disposizione del comandante in capo Igor Strelkov e intendono anche attivare un canale per la raccolta in Italia e l’invio a Donbass degli aiuti umanitari.”
L’articolo si chiude riportando che “Il sindaco popolare di Donetsk Pavel Gubarev ha confermato inoltre la presenza dei volontari russi e polacchi in diverse formazioni militari dei separatisti. Sempre secondo Gubarev, in breve i separatisti intendono costituire delle vere e proprie formazioni militari, una sorta di brigate internazionali composte da volontari stranieri, con la partecipazione di italiani, spagnoli, francesi e canadesi.”

 

Chi sono questi volontari?

 

L’articolo di RaiNews è corredato da una foto in cui tre persone tengono una bandiera tricolore italiana in cui campeggia, al centro, una stella rossa. Sullo sfondo una grande scritta “Новороссия” (Nuova Russia), che sovrasta, su una sagoma, la bandiera dell’omonimo Stato nella quale è rappresentata una croce di Sant’Andrea nei colori bianco, rosso e blu.

 

Lo Stato Federale della Nuova Russia è una confederazione nata ufficialmente il 24 maggio scorso in seguito ad un accordo tra le repubbliche di Donetsk e Lugansk, autoproclamatesi indipendenti dall’Ucraina nello scorso Aprile. Stessa bandiera e stesso nome ha il Partito della Nuova Russia, fondato circa un mese fa, di orientamento separatista e Pro-Russo, nonché fortemente influenzato dall’eurasiatismo del fascista russo Aleksandr Dugin, già ideologo del Partito Nazionalbolscevico russo. È proprio il Partito della Nuova Russia ad aver preparato e deciso la nascita del nuovo stato federale, la cui creazione è stata infatti dichiarata durante il primo congresso del partito il 22 maggio scorso, al quale era presente anche Dugin. Il termine Nuova Russia è ripreso dal nome della regione storica che coincide con i territori a nord del Mar Nero che, nel corso del XIX secolo, l’Impero Russo conquistò sottraendoli all’Impero Ottomano. Pavel Gubarev, il Governatore del Popolo della Repubblica di Donetsk che avrebbe accolto i volontari italiani, è anche leader del Partito della Nuova Russia. Gubarev ha militato in passato nel Partito Socialista Progressista d’Ucraina, ma anche nella formazione neonazista Unità Nazionale Russa (Русское Национальное Единство).

 

Ma in questo calderone di nazionalismo russo, neonazismo ed eurasiatismo, cosa c’entrano il tricolore con la stella rossa, un’organizzazione “antifascista” italiana e le “brigate internazionali”?

 

L’organizzazione italiana “Millennium” che ha inviato volontari a Donetsk non è certo antifascista. Il gruppo “Millennium” dichiara sul proprio sito di non essere “né neofascista né antifascista”. Infatti non sono neofascisti, sono nazisti.
“Millennium” ha organizzato assieme al Gruppo Alpha, organizzazione giovanile neonazista degli Hammerskin di Lealtà e Azione, un convegno al Politecnico di Milano il 17 gennaio scorso. In tale occasione 200 compagni intervenuti per fermare l’iniziativa neonazista vennero caricari dalla polizia davanti al Politecnico.
Ma non è tutto. Il gruppo “Millennium” è legato alla rivista “Eurasia” il cui direttore è il noto neofascista Claudio Mutti implicato nello stragismo nero.
Questi volontari italiani sono quindi membri di un gruppo che condivide l’eurasiatismo del fascista russo Aleksandr Dugin e il nazionalismo del Partito della Nuova Russia.
La matrice nazista del gruppo “Millennium” è ancora più chiara se si va a leggere il suo manifesto politico: “I Popoli, depauperati da ogni sovranità e potere decisionale, rendono ogni autorità alle minoranze che dirigono gli affari mondiali secondo il proprio interesse. Culture e religioni muoiono esangui sugli altari dei simulacri postmoderni. La nuova legge è il Caos.
In questo contesto Millennium afferma la propria azione ordinatrice. Millennium si identifica nel ruolo del partito rivoluzionario europeo, impegnato nella liberazione dell’Europa dal giogo unipolare e nell’edificazione di un paradigma culturale europeo. All’entropia incipiente, Millennium contrappone le leggi risorte della Giustizia, della Tradizione e della Comunità.”

 

Non ci è dato sapere se in questo caso è RaiNews ad aver giocato con la fantasia, tirando fuori sedicenti “organizzazioni antifasciste” e addirittura le “Brigate internazionali”, o se siano i neonazisti di “Millennium” a voler creare ulteriore confusione utilizzando simboli e parole d’ordine tipiche dell’antifascismo. Probabilmente sono entrambe le cose.

 

Tuttavia è chiaro che il gruppo “Millennium” fa parte di quella corrente rosso-bruna ed eurasiatista di chiara matrice nazista e che i suoi volontari a Donetsk sono dunque nazisti. La stessa corrente in cui si colloca il Partito della Nuova Russia, fautore dello Stato Federale della Nuova Russia.

 

Si deve quindi fare chiarezza sulla situazione in Ucraina, smascherando i gruppi neofascisti che agiscono nel conflitto. Bisogna rendersi conto che anche a Donetsk come a Kiev i fascisti sono al governo, strumento delle potenze imperialiste che si contendono l’Ucraina.

Il caso dei volontari del gruppo nazista “Millennium” mostra quanto sia urgente riaprire un dibattito serio sulla situazione in Ucraina. Quanto accade oggi in Ucraina ci mostra cosa può accadere quando la classe lavoratrice è ridotta in ginocchio, divisa e disorientata, in questo caso da decenni di capitalismo di stato e da venti anni di capitalismo selvaggio. Per questo è importante chiarire le posizioni in un dibattito che rifiuti la propaganda delle potenze in campo e che metta al centro l’internazionalismo, coscenti che solo la forza dell’unità di classe che rompe le frontiere imposte dagli stati può fermare la guerra e può abbattere i regimi fascisti che oggi si fronteggiano in Ucraina.

 

 

Fonte:

http://collettivoanarchico.noblogs.org/post/2014/06/11/fascisti-italiani-in-ucraina-a-donetsk-come-a-kiev/

RUSSIA: Il nastro di San Giorgio e l’invenzione della tradizione

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«Tradizioni che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta». Così scriveva nel 1983 lo storico Eric Hobsbawm nel suo L’invenzione della tradizione, a proposito di casi quali il tartan dei clan scozzesi. Tali tradizioni inventate sono fondamentali per il consolidamento di un’identità di gruppo nei processi di costruzione della nazione e dello stato (nation-building e state-building) come “comunità immaginate“, nel termine usato da Benedict Anderson.

Tale è anche il caso del nastro di San Giorgio, la georgevaskaya lenta: il nastro nero e arancione nato ai tempi dello zar (fu creato dalla zarina Caterina dopo la prima guerra di Crimea, quella del 1769) e i cui colori probabilmente richiamano lo stemma imperiale dei Romanov, l’aquila nera su sfondo oro. Abolito dai bolscevichi, fu riesumato negli anni ’90 e volutamente confuso con la medaglia sovietica dagli stessi colori, quell’Ordine della Gloria “per la vittoria sulla Germania nella Grande Guerra Patriottica del 1941-45″ (За победу над Германией) conferita a tutti i reduci del fronte orientale al termine del conflitto. Oggi, il nastro di San Giorgio sta acquisendo sempre più valore di un simbolo nazionalista russo, e la sua ricezione negli altri stati post-sovietici sta cambiando.

La stessa celebrazione del Giorno della Vittoria è una “tradizione inventata” in una doppia sequenza trentennale, spiega Adrien Fauve, ricercatore dell’area post-sovietica a SciencesPo Parigi. ”Il 9 maggio, Giorno della Vittoria, è un elemento fondante della società russa e degli altri stati post-sovietici.”  La Russia infatti è solo uno degli stati successori dell’Unione sovietica, e su un piano di parità con gli altri, dall’Ucraina al Kazakhstan, i cui cittadini hanno partecipato allo sforzo bellico sul fronte orientale. Anche per questo motivo, alcuni elementi di legittimità del regime precedente, quali il Giorno della Vittoria, sono serviti da elemento di legittimazione per i nuovi stati indipendenti.

La sacralità della celebrazione del 9 maggio risale al periodo brezhneviano degli anni ’70, quando inizia ad essere celebrato il culto della forza incarnato nel sacrificio dei soldati e nell’eroismo della vittoria. Essa riceve poi nuovo slancio in Russia sotto Putin a partire dal 2005, sessantennale della vittoria, momento nel quale viene ripescato anche il nastro di San Giorgio quale simbolo patriottico. Da allora, il nastro di San Giorgio è distribuito e indossato liberamente dai civili come atto di commemorazione, secondo il motto “ricordiamo, ne siamo fieri!”.

In Kazakhstan, come in altri stati post-sovietici, la celebrazione del 9 maggio si trasforma oggi in una tradizione popolare e familiare di ricordo dei parenti caduti durante il conflitto; le coccarde arancio e nere, pur presenti su poster ed oggetti celebrativi ufficiali, non sono indossate dalla maggioranza dei convenuti. Dal 2014, poi, il governo kazako ha deciso di bandirne l’uso, per la connotazione nazionalista che hanno assunto a partire dagli eventi in Ucraina orientale: “il minimo segno materiale innesca una reazione di posizionamento politico”, continua Fauve. La stessa decisione è stata adottata dalle autorità bielorusse, secondo cui tale simbolo in Ucraina sarebbe attualmente utilizzato “da militanti e terroristi”

In Ucraina, gli stessi veterani del conflitto mondiale (i pochi ancora in vita) hanno contestato l’uso politicizzato del nastro di San Giorgio fatto da nazionalisti e separatisti filo-russi nell’est del paese, ricordando come lo sforzo bellico contro gli occupanti nazi-fascisti sia stato un’impresa comune dei diversi popoli sovietici, e non possa essere appropriato dalla sola Russia, come avvenuto nel momento in cui i membri della Duma russa hanno celebrato l’annessione della Crimea occupata indossando il nastro di San Giorgio.

Foto: liveinternet.ru

 

Fonte:

http://www.eastjournal.net/russia-il-nastro-di-san-giorgio-e-linvenzione-della-tradizione/42836#!prettyPhoto/0/

 

18 maggio 1944: “gira per la città Dante di Nanni”

Domenica 18 Maggio 2014 06:59

Il 18 maggio ricorre l’anniversario della morte di una figura storica dell’antifascismo italiano: quella di Dante Di Nanni, giovane m18 maggioilitante dei GAP torinesi, ucciso nel 1944, all’età di 19 anni, dalle truppe nazifasciste.

 

Figlio di genitori di origine pugliese, fin da giovanissimo comincia a lavorare nelle fabbriche cittadine, proseguendo gli studi alla scuola serale; allo scoppio della seconda guerra mondiale si arruola nell’Areonautica, che abbandona subito dopo l’armistizio del 1943.
Rifugiatosi nelle montagne piemontesi, si unisce inizialmente ad un gruppo partigiano guidato da Ignazio Vian, per poi convergere nei GAP di Giovanni Pesce.
E’ il 17 maggio del ’44 quando Di Nanni, assieme ai compagni Giuseppe Bravin, Giovanni Pesce e Francesco Valentino, effettua un attacco ad una stazione radio che disturbava le comunicazioni di Radio Londra.
Prima dell’azione, il gruppo di Gappisti disarma i militari preposti alla difesa della stazione e decide di graziarli in cambio della promessa di non dare l’allarme; ma i nove soldati tradiscono l’accordo e, ad azione terminata, i quattro partigiani vengono sorpresi ed attaccati da un gruppo di nazifascisti.
Ne segue uno scontro a fuoco in cui Bravin e Valentino vengono feriti e catturati; portati alle carceri Le Nuove, saranno torturati a lungo ed infine impiccati il 22 Luglio: Bravin aveva 22 anni, Valentino 19.
Anche Pesce e Di Nanni vengono colpiti durante lo scontro, ma il primo riesce a portare in salvo il compagno più giovane, gravemente ferito da 7 proiettili.
Di Nanni viene trasportato nella base di San Bernardino 14, a Torino, dove un medico ne consiglia l’immediato ricovero in ospedale; Giovanni Pesce, allora, si allontana dall’abitazione per cercare aiuto e organizzare il trasporto del compagno, ma al suo ritorno trova la casa circondata da fascisti e tedeschi, avvertiti della presenza dei Gappisti dalla soffiata di una spia.
Nonostante le gravi condizioni in cui versava, Di Nanni rifiuta di consegnarsi al nemico e resiste a lungo all’attacco nazifascista, barricandosi nell’appartamento del terzo piano e riuscendo ad eliminare diversi soldati tedeschi e fascisti con le munizioni rimastegli.
La sua eroica resistenza è riportata dalle parole dello stesso Giovanni Pesce che assistette in prima persona alla scena:
«Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio.»
(Giovanni Pesce, Senza tregua – La guerra dei GAP, Feltrinelli, 1967)
Nel 1945 viene insignito della Medaglia d’Oro al valor militare.
A 67 anni di distanza dalla sua morte, vogliamo ricordare Dante Di Nanni come un esempio a cui guardare per la determinazione e la forza con cui, assieme a tanti e tante antifascist*, scelse la strada della resistenza e della lotta contro l’oppressione nazifascista.
Fonte:

 

7 aprile 1944: gli assalti ai forni e le donne di Ponte di Ferro

 

Dal blog di Valentina Perniciaro, http://baruda.net/ Roma, tra il febbraio e l’aprile del 1944, è schiacciata dalla morsa della fame, è una città sfinita, murata dall’occupante nazista. È il momento peggiore della guerra: bombardamenti, attentati, rastrellamenti, rappresaglie, gli Alleati sono fermi ad Anzio, non vanno né avanti né indietro, gli uomini al fronte o prigionieri o nascosti o non se ne sa più niente; i figli e i vecchi da sfamare.
L’approvvigionamento di una città di quasi due milioni di abitanti come Roma si presenta soprattutto come un problema di trasporti, visto che i rifornimenti di viveri arrivano non solo dal Lazio, ma anche da regioni molto più lontane; se fino al gennaio 1944 gli alimenti, nonostante gli attacchi aerei alle linee ferroviarie, erano ancora trasportati con i treni merci, donne_nella_resistenzadopo lo sbarco alleato a Nettuno e l’aggravarsi della situazione per tutte le ferrovie dell’Italia centrale, i trasporti avvengono per mezzo di autocarri. Quotidianamente partono 100 autocarri per il rifornimento della città. Ma i viveri che arrivavano non sono comunque sufficienti, tanto che l’Ufficio alimentare dell’Amministrazione militare vede nella parziale evacuazione della città l’unica possibile “soluzione”, ma, prevedibilmente, il tentativo non viene mai fatto. Interi quartieri restano senza pane. Poveri e ricchi sono ugualmente costretti a ricorrere al mercato nero. I romani mangiano, quando ne trovano, carrube lesse, pane di vegetina, bucce di patate bollite; bruciano mobili d’arredamento per scaldarsi e cucinare. La città sopravvive sospesa in una atmosfera di terrore, fame e freddo.
La situazione economica alimentare va sempre peggiorando e la popolazione trae motivo di ulteriore pessimismo dalle recenti disposizioni circa l’aumento del prezzo del pane e la ritardata distribuzione di parte della già modesta razione di pasta. Si vorrebbe una energica e fattiva azione da parte delle autorità per arrestare la corsa al rialzo dei prezzi che, se favorisce l’ingorda speculazione dei commercianti e dei cosiddetti borsari neri, pregiudica ed esaspera i consumatori ed in special modo wlaresistenzatrasteverequelli appartenenti alle classi meno abbienti o a quelle costrette a vivere del reddito fisso.
A complicare ulteriormente una situazione già inquietante, da una parte gli Alleati, che mitragliavano i convogli di viveri diretti in città, dall’altra gli occupanti che sequestravano per il loro uso, ma soprattutto per una sorta di deontologia dell’occupazione, intere partite di generi alimentari. L’idea che i tedeschi tenessero tutti i depositi sequestrati per il loro uso e consumo, è molto diffusa.
Ulteriori problemi provoca un vertiginoso ma invisibile (perché clandestino, non ufficiale) aumento della popolazione: dai Castelli, da Genzano, da Albano, dalle campagne intorno ad Anzio e Nettuno, arrivano a Roma intere famiglie di disastrati che cercano alloggio nelle scuole, nelle caserme o nell’ala abbandonata di qualche ospedale, un incremento silenzioso che va ad accelerare un andamento già crescente della popolazione romana, prima del ventennio fascista. Si calcola che oltre 200.000 persone vivessero in alloggi di fortuna in condizioni inumane e senza lavoro. E trovare cibo diventa ancora più difficile.
Gli ospedali sono pieni di bambini denutriti, e si contano numerosi casi di piccoli deceduti per fame e malattie da denutrizione: forse più di trecento, una strage, altre vittime innocenti da inserire nell’elenco di atrocità commesse dai nazifascisti a Roma e in Italia.
Dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo, la rappresaglia tedesca non si ferma alla strage delle Fosse Ardeatine, ma vuole colpire il maggior numero di persone possibile. Così, per ordine diretto del generale Maeltzer, la razione di pane dei romani viene ridotta da 150 a 100 grammi al giorno. Oltretutto è pane nero, spesso ammuffito.
Ai primi di aprile del 1944, dopo il catastrofico e lungo inverno, le condizioni alimentari si fanno intollerabili portando allo stremo la popolazione. La situazione nel settore del pane peggiora in modo drammatico con l’approssimarsi del fronte. A metà aprile, a causa delle difficoltà dei trasporti e dei disordini creati dalla lotta partigiana, la distribuzione ufficiale subisce un’ulteriore diminuzione; a quel punto ci si rende conto che non solo circolano 50.000 carte per il pane falsificate, ma anche che ingenti quantitativi di farina sono stati venduti di contrabbando dagli organi addetti alla distribuzione.psiup
Protagoniste di un così oscuro periodo sono le donne che da sole, con ogni mezzo, con l’astuzia o la violenza, cercano di sopravvivere alle miserie della guerra. È così che avvengono i primi assalti ai forni, destinati a diventare sempre più frequenti; sono le donne spinte dal bisogno che li pensano e li organizzano spontaneamente anche se qualche volta c’è dietro l’aiuto e l’impulso dei gruppi femminili della Resistenza. Si passano parola, vanno all’assalto provviste di sporte per metterci dentro quel po’ che riusciranno a prendere, usano i figli come scudo; sono le donne che si organizzano per assalire i forni ove si panifica il pane bianco per fascisti e nazisti.
Gli assalti avvengono nei quartieri di Trionfale, Borgo Pio, Via Leone Quarto. A guidarle in questi quartieri sono le sorelle De Angelis, Maddalena Accorinti ed altre.
In via Leone IV, davanti alla sede della Delegazione rionale, scoppia una rabbiosa protesta contro la sospensione della distribuzione di patate e farina di latte. Nella stessa strada viene assaltato il forno De Acutis, ma qui c’è il consenso dello steso proprietario, che distribuito il pane e la farina, si dà alla clandestinità.
Sempre fra i Prati e il Trionfale, zona di piccola e media borghesia, avvengono assalti ai panifici in via Vespasiano, via Ottaviano e via Candia.
Il 1° aprile 1944, di fronte a un forno di via Tosti, nel quartiere Appio, una forte manifestazione di donne contro la riduzione della razione di pane, dà inizio ad una nuova e disperata serie di assalti ai forni.
“Sabato primo aprile, al forno Tosti, quartiere Appio, la fila era interminabile: le donne attendevano da più di due ore l’arrivo dell’ordine di distribuzione e non si2550_67020193277_618018277_2260848_380951_n capiva perché tardassero tanto ad aprire. Esasperate le donne protestavano ad alta voce, erano furibonde, e c’era tra loro chi temeva che non ci fossero neppure quei cento grammi per tutti. [] aveva cominciato una in prima fila in faccia ai militi [che vigilavano alla porta]: “Ci ho quattro creature che me se magnano puro a me se je porto sta crioletta de cento grammi! Ve volete da’ na mossa! Buffoni!”. Un milite la prese per il braccio e la portò fuori dalla fila, le donne cedettero che la volessero arrestare e cercarono di strapparla dalle mani della GNR: seguì un parapiglia, tutte strillavano, insultavano; poi d’improvviso, rotta la fila, si ammassarono tutte davanti alla porta del forno. La porta forzata cedette e tutte entrarono [] le donne trovarono, oltre al pane nero, anche sacchi di farina bianca, forse pronti per la panificazione per le alte gerarchie fasciste o per le truppe di occupazione tedesche”.
Nei giorni a seguire e per tutto il mese di aprile, furono attaccati camion carichi di pane, come a Borgo Pio dove la folla assale un camion, scortato da militi fascisti, che trasporta pane per una caserma. Tale è l’improvvisa e inaspettata irruenza delle assalitrici che i militi possono fare ben poco e si trovano il camion completamente saccheggiato. Altri assalti hanno lugo a forni in tutti i quartieri, costringendo i tedeschi a scortare ogni convoglio e a presidiare ogni punto di distribuzione.
L’episodio più tragico avviene all’Ostiense, al Ponte di Ferro. Il 7 aprile 1944 decine di persone si ritrovarono di fronte al mulino Tesei per chiedere pane e farina; si diceva che quel mulino producesse pane destinato ai militari tedeschi. Le donne dei quartieri limitrofi (Ostiense, Portuense e Garbatella) avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e che probabilmente aveva grossi depositi di farina. La folla cominciò a reclamare il pane, i cancelli del forno furono sfondati e le donne riuscirono ad entrare. Il direttore del forno, forse d’accordo con quelle disperate, lasciò che entrassero e che si rifornissero di pane e farina, ma qualcuno avvertì la polizia tedesca che arrivò quando le donne erano ancora sul posto. A quel punto i militi fascisti presenti chiesero l’intervento delle SS tedesche, che bloccarono la strada, molte donne riuscirono a scappare, ma dieci di loro furono prese, afferrate di forza, portate sul ponte e lì fucilate in fila, contro la ringhiera. A monito della popolazione i tedeschi ne lasciano i cadaveri sulla spalletta del ponte fino alla mattina dopo quando alcuni lattonieri e sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme su di un camion. Da allora non si è mai saputo dove siano state portate e sepolte.
Le dieci vittime innocenti della furia nazi-fascista furono: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.
Durante un nuovo assalto, quello avvenuto il 2 maggio, all’indomani delle manifestazioni del giorno prima, una guardia della PAI (la Polizia Africa Italiana che funge da servizio d’ordine per conto del Governo fascista repubblicano), accorsa per sedare il tumulto uccide con una fucilata una donna del Tiburtino III, Caterina Martinelli, madre di sei figli.
Cade sul selciato con sei sfilatini nella borsa della spesa, una pagnotta stretta al petto, in braccio una bambina ancora lattante: stramazza a terra sopra la figlia che sopravvive ma che avrà poi la spina dorsale lesionata. Una specie di monumento alla madre affamata.
Il giorno dopo, sul marciapiede ancora insanguinato, un cartello antifascista ricorda la vittima. Quel cartello, subito fatto togliere dalle autorità, tornerà come lapide a Roma liberata.
Mario Socrate, partigiano gappista e poeta, così testimonia di quell’episodio: “… ci fu l’assalto al forno e uno della Pai sparò e uccise una donna. Allora noi facemmo una manifestazione, e io quel giorno stesso ho scritto la lapide e la mettemmo al punto dov’era ancora il sangue a terra”. Fu lui a scrivere le parole che si possone leggere ancora oggi nella lapide sulla facciata di una casa in via del Badile 16:
Il 2 maggio 1944 in questo luogo durante un assalto al forno per cercare il pane per i suoi figli venne uccisa dalla violenza fascista Caterina Martinelli «io non volevo che un po’ di pane per i miei bambini non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme».
Fonti :

 

 

Fosse Ardeatine, dopo 70 anni è stata fatta giustizia?

Di

Non parlo solo della giu­sti­zia dei tri­bu­nali — anch’essa peral­tro abba­stanza ina­de­guata, dalla fuga di Kap­pler con le com­pli­cità sta­tali fino alle vicis­si­tu­dini del pro­cesso Prie­bke e alla farsa seguita alla sua morte. Que­sta giu­sti­zia può, qual­che volta, punire i col­pe­voli, ma non ren­dere giu­sti­zia alle vit­time per­ché ha comun­que un ambito neces­sa­ria­mente e giu­sta­mente limi­tato: tratta il “caso” da un punto di vista stret­ta­mente penale e indi­vi­duale e lascia a noi la respon­sa­bi­lità di una giu­sti­zia più vasta, che riguarda i sen­ti­menti, la società e la sto­ria. Su que­sto piano, l’ingiustizia continua.

 

Ci si aspetta a volte che la con­danna dei col­pe­voli ponga in qual­che modo fine alla sof­fe­renza delle vit­time dirette — le fami­glie, le comu­nità, le per­sone care degli uccisi. Ora, a parte il fatto che que­sta con­danna è stata rilut­tante e insuf­fi­ciente, que­sto non è comun­que vero: dopo la con­danna ci si accorge che nes­suno ti resti­tui­sce quello che hai per­duto. In più, se è vero che la strage delle Fosse Ardea­tine è un cri­mine con­tro l’umanità, allora — in modo certo meno vio­lento e imme­diato — vit­time siamo anche noi, ed è su que­sto piano che l’ingiustizia soprat­tutto continua.

 

Si discute in que­sti giorni dell’introduzione di una legge con­tro il nega­zio­ni­smo sulla Shoah. Ora, a parte le per­ples­sità dif­fuse su que­sta ipo­tesi, resta il fatto che il nega­zio­ni­smo è in larga misura un feno­meno di nic­chia, e che una sen­si­bi­lità di gran luna mag­gio­ri­ta­ria non solo non nega lo ster­mi­nio ma lo rico­no­sce come una delle colpe più spa­ven­tose che l’umanità ha com­messo con­tro se stessa. Sulle Fosse Ardea­tine, invece, per­mane un nega­zio­ni­smo che si fa senso comune: nes­suno andrebbe in tele­vi­sione a dire che la Shoah non è mai avve­nuta, ma per­so­naggi igno­ranti, pro­tervi e molto influenti hanno con­ti­nuato spac­ciare men­zo­gne su via Rasella e le Fosse Ardea­tine senza che su loro si abbat­tesse lo sde­gno della mag­gio­ranza (e senza che venis­sero sbat­tuti fuori per mani­fe­sta incom­pe­tenza professionale).

 

Fino a quando que­sto sarà pos­si­bile — fino a quando le isti­tu­zioni, la scuola, il sistema dell’informazione non sen­ti­ranno loro la ferita delle Fosse Ardea­tine, fino a quando con­ti­nue­remo a non guar­dare in fac­cia la mate­ria­lità del mas­sa­cro per inven­tare e ali­men­tare leg­gende nere sui par­ti­giani, non baste­ranno corone appo­ste per dovere d’ufficio e com­me­mo­ra­zioni di rou­tine. Fino a quando la verità non diven­terà senso comune e il dolore per le Fosse Ardea­tine non diven­terà dolore di noi tutti, le vit­time con­ti­nue­ranno ad essere sole, e giu­sti­zia non sarà stata fatta.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.it/dopo-settantanni-e-stata-fatta-giustizia/