Si impicca dopo le accuse di spaccio di droga: tre poliziotti condannati

Anton Alberti si è tolto la vita a Soresina, Cremona, il 15 settembre 2012, dopo essere stato perquisito e sospettato di essere un pusher. Ma era innocente. Gli agenti condannati per violazione di domicilio e falso ideologico

di | 3 luglio 2014

Si impicca dopo le accuse di spaccio di droga: tre poliziotti condannati

 

A Cremona tre poliziotti sono stati condannati per falso ideologico e per avere violato il domicilio di un giovane, morto suicida dopo essere stato ingiustamente accusato di essere uno spacciatore. Il 25enne Anton Alberti – bielorusso di Chernobyl adottato da una famiglia di Soresina, in provincia di Cremona, quando aveva 7 anni – si è tolto la vita il 15 settembre 2012. Prima è stato perquisito dalla polizia a seguito della segnalazione di due extracomunitari che, trovati in possesso di sostanze stupefacenti da un pattuglia della Polstrada di Crema l’11 settembre 2012, accusano il giovane di essere il pusher che li aveva riforniti.

Non essendo del posto e non conoscendo Anton, gli uomini delle forze dell’ordine vanno nella caserma locale dei carabinieri. E anche a loro non risulta che Anton sia uno spacciatore. Arrivati a casa di Anton i poliziotti, che nel frattempo sono diventati cinque per l’arrivo di un’altra pattuglia a supporto, procedono ad una perquisizione. Il ragazzo quel giorno era in casa. Non era andato al lavoro perché aveva mal di schiena. Gli agenti lo portano in Questura “per identificarlo”. Nel tardo pomeriggio il giovane rientra a casa, e anche se in seguito sarà scagionato dalle accuse, è molto scosso da quello che gli è capitato. Il 13 settembre, poi, sulla stampa locale compare un articolo dove viene raccontata la cronaca del fermo e della perquisizione di un “ragazzo di Soresina originario della Bielorussia”, aggiungendo la falsa informazione del rinvenimento a casa dello stesso di sostanze stupefacenti. Era come fare il nome e cognome di Anton Alberti e legarlo a un fatto di droga.

Anton confida tutta la sua amarezza anche al datore di lavoro, che gli consiglia di rivolgersi a un avvocato. Ma sabato 15 settembre 2012 il corpo del ragazzo senza vita viene rinvenuto dalla madre: il giovane si è impiccato. Lascia un messaggio ai parenti in cui dice di “considerarsi indegno” del loro affetto e i carabinieri di Cremona decidono di indagare sui motivi di quel gesto. Vengono così a sapere dell’operazione della Polstrada, della perquisizione e dell’articolo sul giornale e trasmettono gli atti alla Procura. Le indagini, condotte dal Pubblico ministero di Cremona, Francesco Messina, durano 3 mesi e portano al rinvio a giudizio di 5 agenti di polizia.

Escludendo sin da subito l’ipotesi accusatoria dell’istigazione al suicidio, il 10 giugno scorso due agenti sono stati condannati dal Tribunale di Cremona rispettivamente a un anno e due mesi e a nove mesi, per violazione di domicilio e un terzo a nove mesi per falso ideologico. Tutti assolti (compresi altri due agenti) dall’accusa di sequestro di persona. Si attendono le motivazioni delle sentenza, ma per il giudice è chiaro che nessuno poteva violare il domicilio di Anton. “Una decisione che siamo certi verrà ribaltata nei successivi gradi di giudizio”, ha detto Daniel Segre del Sap di Cremona. Per l’avvocato Luca Landi, legale di parte civile in rappresentanza della famiglia di Anton Alberti, si tratta invece di “una sentenza storica, che stabilisce le colpe della Polizia anche quando le violenze sono solo verbali o psicologiche e non fisiche”.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/03/si-impicca-dopo-le-accuse-di-spaccio-di-droga-tre-poliziotti-condannati/1045081/

RUSSIA: Il nastro di San Giorgio e l’invenzione della tradizione

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«Tradizioni che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta». Così scriveva nel 1983 lo storico Eric Hobsbawm nel suo L’invenzione della tradizione, a proposito di casi quali il tartan dei clan scozzesi. Tali tradizioni inventate sono fondamentali per il consolidamento di un’identità di gruppo nei processi di costruzione della nazione e dello stato (nation-building e state-building) come “comunità immaginate“, nel termine usato da Benedict Anderson.

Tale è anche il caso del nastro di San Giorgio, la georgevaskaya lenta: il nastro nero e arancione nato ai tempi dello zar (fu creato dalla zarina Caterina dopo la prima guerra di Crimea, quella del 1769) e i cui colori probabilmente richiamano lo stemma imperiale dei Romanov, l’aquila nera su sfondo oro. Abolito dai bolscevichi, fu riesumato negli anni ’90 e volutamente confuso con la medaglia sovietica dagli stessi colori, quell’Ordine della Gloria “per la vittoria sulla Germania nella Grande Guerra Patriottica del 1941-45″ (За победу над Германией) conferita a tutti i reduci del fronte orientale al termine del conflitto. Oggi, il nastro di San Giorgio sta acquisendo sempre più valore di un simbolo nazionalista russo, e la sua ricezione negli altri stati post-sovietici sta cambiando.

La stessa celebrazione del Giorno della Vittoria è una “tradizione inventata” in una doppia sequenza trentennale, spiega Adrien Fauve, ricercatore dell’area post-sovietica a SciencesPo Parigi. ”Il 9 maggio, Giorno della Vittoria, è un elemento fondante della società russa e degli altri stati post-sovietici.”  La Russia infatti è solo uno degli stati successori dell’Unione sovietica, e su un piano di parità con gli altri, dall’Ucraina al Kazakhstan, i cui cittadini hanno partecipato allo sforzo bellico sul fronte orientale. Anche per questo motivo, alcuni elementi di legittimità del regime precedente, quali il Giorno della Vittoria, sono serviti da elemento di legittimazione per i nuovi stati indipendenti.

La sacralità della celebrazione del 9 maggio risale al periodo brezhneviano degli anni ’70, quando inizia ad essere celebrato il culto della forza incarnato nel sacrificio dei soldati e nell’eroismo della vittoria. Essa riceve poi nuovo slancio in Russia sotto Putin a partire dal 2005, sessantennale della vittoria, momento nel quale viene ripescato anche il nastro di San Giorgio quale simbolo patriottico. Da allora, il nastro di San Giorgio è distribuito e indossato liberamente dai civili come atto di commemorazione, secondo il motto “ricordiamo, ne siamo fieri!”.

In Kazakhstan, come in altri stati post-sovietici, la celebrazione del 9 maggio si trasforma oggi in una tradizione popolare e familiare di ricordo dei parenti caduti durante il conflitto; le coccarde arancio e nere, pur presenti su poster ed oggetti celebrativi ufficiali, non sono indossate dalla maggioranza dei convenuti. Dal 2014, poi, il governo kazako ha deciso di bandirne l’uso, per la connotazione nazionalista che hanno assunto a partire dagli eventi in Ucraina orientale: “il minimo segno materiale innesca una reazione di posizionamento politico”, continua Fauve. La stessa decisione è stata adottata dalle autorità bielorusse, secondo cui tale simbolo in Ucraina sarebbe attualmente utilizzato “da militanti e terroristi”

In Ucraina, gli stessi veterani del conflitto mondiale (i pochi ancora in vita) hanno contestato l’uso politicizzato del nastro di San Giorgio fatto da nazionalisti e separatisti filo-russi nell’est del paese, ricordando come lo sforzo bellico contro gli occupanti nazi-fascisti sia stato un’impresa comune dei diversi popoli sovietici, e non possa essere appropriato dalla sola Russia, come avvenuto nel momento in cui i membri della Duma russa hanno celebrato l’annessione della Crimea occupata indossando il nastro di San Giorgio.

Foto: liveinternet.ru

 

Fonte:

http://www.eastjournal.net/russia-il-nastro-di-san-giorgio-e-linvenzione-della-tradizione/42836#!prettyPhoto/0/

 

Chernobyl

Tratto da “Gaia – Il Pianeta che vive” di Mario Tozzi, 2005.La notte del 25 Aprile 1986 esplose il reattore nucleare di Chernobyl, in Ucraina, al confine con la Bielorussia. L’esplosione avvenne in seguito a gravi errori di valutazione, in seguito ad una esercitazione di simulazione di un incidente.Il video mostra le fasi dell’incidente, la diffusione della nube tossica nell’intero pianeta, l’evacuazione di intere città e gli effetti terribili delle radiazioni sui primi soccorritori e sui soldati che costruirono il “sarcofago”. Le crude immagini di repertorio ci danno un’idea della tragedia che si è consumata, i cui effetti sono visibili ancora oggi. Un vasto territorio è ancora totalmente contaminato e c’è un incremento esponenziale di tumori e leucemie nelle popolazioni limitrofe. Attualmente i più colpiti sono i bambini.

Il filmato si conclude con gli ancora insoluti interrogativi circa l’uso dell’energia nucleare, primo fra tutti il problema delle scorie, che nessuno è mai riuscito a risolvere