Detenuto morto di coronavirus nel carcere di Voghera. I familiari chiedono chiarezza

carcere cella liscia

Si sono tenute oggi a San Leonardo di Cutro, in provincia di Cutro, le esequie del detenuto calabrese morto il 9 aprile all’Ospedale San Carlo di Milano.

Antonio Ribecco era un 59enne da tempo residente a Perugia, detenuto dal 12 dicembre scorso in quanto indagato insieme ad altre 96 persone nell’inchiesta Infectio della Dda di Catanzaro.

L’uomo ha contratto il Covid-19 nel carcere di Voghera dove essendo risultato infetto e ricoverato anche il cappellano, gli ospiti hanno insistito nel chiedere guanti, mascherine e tamponi. Istanza a cui sono seguiti presunti pestaggi e 10 trasferimenti in chiave punitiva verso altri penitenziari. Temendo il peggio, Antonio Ribecco (ristretto in una cella con altre tre persone) aveva scritto ai familiari, con i quali aveva intrattenuto l’ultimo colloquio il 15 febbraio, una lettera in cui spiegava come veniva gestita l’emergenza. Una testimonianza annunciata telefonicamente e spedita circa 30 giorni fa, mai recapitata ai destinatari, di cui pare si sia persa traccia.

Nessuno ci ha informati del fatto che nostro padre fosse positivo al coronavirus, eppure – spiega il figlio di Ribecco che da subito ha denunciato la vicenda attraverso l’associazione Yairaiha di Cosenza – abbiamo chiesto sue notizie di continuo. Neanche il Gip ed il Gup di Catanzaro ne erano a conoscenza, siamo riusciti a parlare con uno dei sanitari che lo aveva in cura dopo settimane, quando era ormai in Terapia Intensiva. Ci hanno detto che era molto grave, ma essendo sano la possibilità di guarigione era reale, anche se compromessa dal fatto che il virus era da diverso tempo che faceva il suo corso. Preciso che mio padre non aveva nessuna patologia, fino a dicembre correva ed andava più forte di me che ho 28 anni. I primi di marzo ci ha comunicato che aveva tosse e febbre alta da giorni, che il medico del carcere di Voghera non aveva voluto visitarlo e che per questo motivo la guardia penitenziaria gli aveva fatto una lettera di richiamo al dottore. Mi ha poi spiegato di averci inviato un riassunto di tutto quello che stava succedendo. Questa lettera non è mai arrivata”.

I legali della famiglia di Antonio Ribecco, Giuseppe Alfi e Gaetano Figoli del foro di Perugia stanno valutando l’ipotesi di sporgere denuncia per fare chiarezza sulla vicenda. “Avere detenuti infetti in carcere è pericolosissimo, ho per questo lanciato un appello ancora rimasto inascoltato. Lo Stato, è evidente, non si è attivato per garantire il diritto alla salute del nostro assistito. Vorremmo capire perché il medico si è rifiutato di visitarlo, perché non sia stata avvisata la famiglia, perché non è ancora pervenuta una relazione di cosa sia successo nel penitenziario di Voghera né l’ultima lettera inviata dal detenuto.

Nella morte di Antonio Ribecco, che era ancora in attesa di giudizio, esiste una responsabilità politica ed una tecnica che riguardano la gestione della pandemia nelle carceri.

Il Consiglio d’Europa – ricorda Alfi – aveva già sollecitato l’Italia ad aumentare le scarcerazioni concedendo gli arresti domiciliari per limitare il sovraffollamento al fine di evitare che i penitenziari diventassero enormi focolai di Covid-19. Le Camere penali italiane hanno a loro volta richiesto di seguire tali indicazioni. Il Ministero della Giustizia le ha ignorate e a sua volta anche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. È oggi prevista la detenzione domiciliare solo per chi ha già una pena definitiva inferiore a 18 mesi con il vincolo di usare i braccialetti elettronici, dispositivi di cui l’Italia dispone in numero irrisorio. Il tutto è quindi ora demandato alla discrezionalità del singolo magistrato. Si sta ponendo a serio rischio la vita di molte persone”.

Maria Teresa Improta

da Adnkronos

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La morte di Antonio Ribecco non può essere imputata solo all’emergenza covid-19, sarebbe troppo facile. Ci sono stati ritardi ed omissioni che, purtroppo, sono stranamente ricorrenti nel penitenziario di Voghera. Ricordiamo il caso di Salvatore Giordano, deceduto il 2 gennaio di quest’anno. Per l’area sanitaria aveva solo un leggero ingrossamento del fegato, ma si trattava di tumore. Venne ricoverato in ospedale il 24 dicembre 2019 grazie all’intervento dei familiari che si presentarono ai cancelli del carcere chiedendo di conoscere le condizioni del proprio caro che ormai non riusciva neanche a parlare al telefono. Ricordiamo la storia di Pino Gregoraci, con una storia di grave depressione che chiedeva di incontrare uno psicologo ma non vide mai nessuno: si è impiccato il pomeriggio del 23 gennaio nella sua cella. E potremmo tornare indietro nel tempo, alla storia di Franco M. che stava male e chiedeva di capire cosa avesse ma i medici gli rispondevano “vai in saletta a giocare a carte che ti passa”! Anche in questo caso l’indignazione dei compagni e degli agenti permisero il ricovero in ospedale con ormai tutti gli organi in metastasi e la previsione di 6 mesi di vita. Non arrivò a 3.

Oggi la famiglia e gli amici piangono la morte di Antonio Ribecco e si chiedono se la sua vita  poteva essere salvata in tanti, presi in tempo, ce l’hanno fatta. Ma per Antonio, detenuto in attesa di giudizio, gli interventi sono arrivati tardi: 4 giorni di febbre alta, chiaro sintomo di covid-19, senza che il personale sanitario intervenisse. Ci sono volute la relazione di un agente nei confronti del medico e la battitura di tutta la sezione affinché venisse portato in ospedale.

A seguito del suo ricovero vennero messi in isolamento i compagni di cella e, a questo punto, tutta la sezione VII iniziò a chiedere, pacificamente, di poter effettuare il tampone anche a spese proprie.  Alle richieste legittime è seguita la risposta violenta con pestaggi e minacce, raccontatati dai detenuti ai familiari durante le telefonate. Abbiamo raccolto diverse testimonianze che trasmetteremo alla procura competente. In seguito, alcuni detenuti (principalmente quelli che hanno denunciato ai familiari quanto avvenuto) sono stati trasferiti in altre carceri, aumentando esponenzialmente la propagazione del rischio contagio. Sono tanti gli aspetti inquietanti della gestione dell’emergenza coronavirus nelle carceri: a partire dalla mancanza di dispositivi di protezione in un luogo dove la distanza sociale è impensabile, alla mancanza di provvedimenti reali di alleggerimento dei numeri, alla predisposizione tardiva di aree per l’isolamento sanitario, a finire alla movimentazione dei detenuti da carceri, dove già si registravano casi positivi, ad altri istituti, per punizione. Una gestione scellerata che sta mettendo a rischio la vita di migliaia di persone tra detenuti e personale, ed è proprio tra il personale che si registrano, fino ad ora, i numeri più alti di contagiati e deceduti. Le responsabilità non possono essere imputate solo al virus: ci sono precise responsabilità politiche e amministrative. Sbaglia chi considera il carcere come “il luogo più sicuro” perché accanto alla sospensione dei colloqui avrebbero dovuto impedire al personale penitenziario di uscire se non intendevano intervenire con un provvedimento di amnistia e indulto o sospensione della pena e della custodia cautelare (che riguarda oltre 20.000 persone) fino alla fine dell’emergenza sanitaria. Qualsiasi provvedimento adottato avrebbe dovuto agire in base all’art. 32 della Costituzione senza preclusioni che non rispondono all’emergenza in atto.

Ci auguriamo che il governo voglia invertire la rotta in tempi rapidi, facendo propri gli appelli e le raccomandazioni che, dalla più piccola associazione al Consiglio di Europa, passando per Papa Francesco e il Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, indicano la strada da seguire: sospensione della pena per i soggetti più vulnerabili (ammalati e anziani) invitando i magistrati di sorveglianza ad andare in deroga all’inutile decreto governativo per emergenza sanitaria in atto.

Associazione Yairaiha Onlus    

 

       Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/detenuto-morto-coronavirus-al-carcere-voghera-familiari-chiedono-chiarezza/

 

Il silenzio sulle violenze in carcere dopo le rivolte di marzo

Dal profilo Facebook della giornalista
Maria Elena Scandaliato

7 h 

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Il servizio sulle violenze nelle carceri dopo le rivolte andato in onda questa mattina a Buongiorno regione Lombardia

BUONA PASQUA AI DETENUTI

Domani, su Rai tre, alle 7.30 Buongiorno Regione Lombardia trasmetterà un mio servizio con le testimonianze dei parenti dei detenuti che hanno partecipato (o di questo sono stati sommariamente accusati) alle rivolte di inizio marzo.
È un servizio cui tengo moltissimo, perché moltissimo è costato a chi ha accettato di denunciare. Non solo chi – come vedrete – ci ha messo la faccia (Alfonsina e Federica), ma anche chi ha scelto l’anonimato ed è stato costretto a rivivere dei momenti terribili, in cui non sapeva se il proprio marito, il proprio figlio, fossero vivi o morti chissà come nel chiuso di una cella.
Nelle rivolte di inizio marzo sono morti 14 detenuti. Abbiamo scoperto i loro nomi da poco; alcuni erano in attesa di giudizio (quindi innocenti fino a prova contraria), uno sarebbe dovuto uscire dopo due settimane. Si tratta per lo più di stranieri: chissà le loro famiglie – magari lontane, magari no – cosa avranno provato.
Di questa strage si è parlato poco e male. Dando per certo il fatto che questi si fossero strafatti di roba dando l’assalto alle infermerie. Una cosa che ha la stessa verosimiglianza del fatto che io sia un’attivista occulta della Lega nord. Eppure, tutti zitti.
No, non tutti. Per fortuna, ci sono i parenti dei detenuti; e i loro gruppi, in cui si passano le informazioni che lo Stato nega loro, in modo crudele e padronale. E poi le associazioni. Come Associazione Yairaiha Onlus, senza la quale non avrei raccolto alcuna testimonianza.
Il carcere è una realtà ristretta e amplificata al tempo stesso. Le rivolte dei detenuti sono state l’unico segno di lucidità e di vita, in una società che ormai delega a élite ultrarisicate anche la libertà di uscire di casa.
Loro sapevano che avrebbero pagato: eppure si sono ribellati. Eppure, si sono ribellati.


Il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la mattanza della settimana santa

(disegno di sam3)

Franco (nome di fantasia), recluso nelle sezioni di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, è in attesa di giudizio e non sa ancora se il giudice lo riterrà colpevole o innocente. Si ammala qualche settimana prima di Pasqua. Picchi di febbre e problemi respiratori fanno pensare al peggio. Dopo qualche ora di monitoraggio viene “isolato” in infermeria per verificare l’evoluzione dei sintomi. I familiari riescono ancora a comunicare con lui tramite videochiamate ma hanno l’impressione che le cose stiano prendendo una brutta piega. Hanno paura, come tutti. Riescono a sapere tramite l’associazione Antigone e l’ufficio del garante dei detenuti che la situazione per ora è monitorata, ma si dovranno fare accertamenti specifici per capire il tipo di malessere. Qualche giorno dopo, la direzione sanitaria che opera in carcere avverte la famiglia che Franco è stato sottoposto a tampone da Covid-19 risultando positivo. Nel frattempo, sarebbe stato ricoverato presso la struttura ospedaliera napoletana del Cotugno.

La notizia in breve tempo si diffonde e arriva in carcere, Franco è il primo detenuto ammalato di Covid della regione, la seconda dopo la Lombardia per indici di sovraffollamento carcerario. La tensione sale all’interno dell’istituto. Il corpo detenuto teme il contagio e si sente sguarnito da ogni difesa: cosa si potrebbe fare per evitare di ammalarsi? Il carcere non è un luogo impermeabile: il distanziamento sociale è impraticabile, guanti e mascherine non ci sono e in istituto entrano ed escono moltissime persone. «Il carcere, essendo chiuso e isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia», sostiene invece il procuratore Gratteri. A oggi, i contagiati sono circa duecentotrenta (sessanta detenuti e centosettanta poliziotti).

Franco intanto è stato ricoverato. È il weekend che precede la settimana delle feste pasquali. Si avvicina l’orario di chiusura delle celle ma i detenuti di una sezione non vogliono rientrare. Inizia la protesta con una battitura e l’occupazione simbolica della sezione. La polizia penitenziaria denuncia che per impedirle l’accesso in sezione è stato riversato dell’olio bollente. La tensione in questa fase raggiunge facilmente stadi di acuzie e rapidi cali perché nessuno sa in verità come si uscirà dalla vicenda del virus. Chi ha il potere naviga a vista e chi non lo ha spesso sente di affogare.

Le proteste rientrano nel corso della stessa serata di domenica, dopo un primo intervento della penitenziaria. Sembra essere stato uno sfogo caduto nel vuoto. Bisogna che le cose sfumino da sé. Anche gli sforzi di chi in questi giorni sta tentando di stabilire un dialogo con le controparti, offrendo soluzioni per fronteggiare la devastante emergenza, si sgretolano di fronte al muro del Dap e del ministero.

A questo punto la storia cominciata con il contagio di Franco assume contorni inquietanti. Lunedì in carcere arriva la magistratura di sorveglianza e incontra i detenuti per i colloqui. Si constata che gli atti di insubordinazione che si sono verificati non hanno assunto i connotati di una vera rivolta (come quella ai primi di marzo nel carcere di Fuorni, Salerno). Secondo le testimonianze raccolte da Antigone e dall’ufficio del garante, si è verificata invece una fortissima rappresaglia da parte della polizia penitenziaria. Appena la magistratura di sorveglianza ha concluso il suo lavoro (tra le sue competenze c’è quella di monitorare lo stato, le garanzie e i diritti dei reclusi) quasi cento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa sono entrati in un padiglione e hanno cominciato i pestaggi all’interno delle “camere di pernottamento”. Probabilmente non sono gli stessi poliziotti in servizio presso l’istituto, anche perché picchiano chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana, anche qualche detenuto che dopo pochi giorni potrebbe uscire dal carcere con i segni del martirio sulla carne.

Le violenze si svolgono secondo modelli già visti: ad alcuni detenuti vengono tagliati barba e capelli, vengono spogliati e pestati con manganelli, pugni e calci su tutto il corpo. Il racconto di queste torture non sembra fermarsi, perché alcuni familiari sostengono che i pestaggi continuino anche ora. Nel corso di questa settimana, le famiglie, preoccupate per le violenze, hanno organizzano una manifestazione pacifica nei pressi del carcere. Ma all’interno si respira un’aria gelida e qualche agente continua il gioco al massacro psicologico: «Avete anche il coraggio di far venire le vostre famiglie? Non vi è bastato?».

In questo video un detenuto racconta, attraverso una telefonata, le violenze di questi giorni al carcere di Santa Maria Capua Vetere

Mattanze di questo tipo, in stile scuola Diaz, servono a (ri)stabilire un rapporto di dominio: svuotare il corpo di ogni difesa fisica e mentale, colpire la persona fino a suscitare un sentimento di vergogna verso se stessi. Di fronte al deflagrare di quest’energia cinetica bisogna essere nudi: è il modo migliore per rendere docile un corpo che ha mostrato segni di insubordinazione. In questi giorni sono stati presentati alcuni esposti alla Procura della Repubblica (solo Antigone ne ha già depositai tre, in diversi penitenziari del paese) che dovrà accertare cosa è successo nel carcere casertano.

La tensione nel frattempo, anche quella della polizia penitenziaria, si trasforma di continuo in atti di forza, soprattutto quando non si hanno direttive per fronteggiare la crisi. Il virus viaggia velocemente e la direzione sanitaria cerca di stargli dietro. È tuttavia difficile, perché i detenuti sono tanti e in alcune sezioni sono ammassati in clamoroso sovrannumero. Oggi i contagi nel carcere di Santa Maria sono arrivati a quattro e un intero piano di una sezione è stato isolato.

Se il sistema sta svelando un’altra falla, dopo gli ospedali e le case di cura, è anche vero che esiste una differenza tra il carcere e gli altri ambienti. Nei nosocomi e nelle RSA, finanche in alcune fabbriche (tutto pur di non interrompere le linee di produzione) si stanno predisponendo – dopo centinaia di morti tra pazienti, medici, infermieri e vigili del fuoco – misure di sicurezza per arginare il contagio. Nelle carceri si guarda il sistema implodere senza prendere alcuna decisione. La mattanza di Santa Maria ne è la dimostrazione e poiché il carcere è uno spazio di guerra, la possibilità di usare in ogni momento delle strategie per indebolire o neutralizzare una delle parti è all’ordine del giorno.

“Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo (Mc 15,16-20)”. Adesso è necessario monitorare le persone che sono ancora recluse, per evitare che il massacro continui. (luigi romano)

Fonte:

https://napolimonitor.it/il-carcere-di-santa-maria-capua-vetere-e-la-mattanza-della-settimana-santa/?fbclid=IwAR1okhjICUkXQ-OZc4QQ4g7V545OoGmdumNlTY1cqiGVxu9XmhDmaIaYkcE