Il silenzio sulle violenze in carcere dopo le rivolte di marzo

Dal profilo Facebook della giornalista
Maria Elena Scandaliato

7 h 

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Il servizio sulle violenze nelle carceri dopo le rivolte andato in onda questa mattina a Buongiorno regione Lombardia

BUONA PASQUA AI DETENUTI

Domani, su Rai tre, alle 7.30 Buongiorno Regione Lombardia trasmetterà un mio servizio con le testimonianze dei parenti dei detenuti che hanno partecipato (o di questo sono stati sommariamente accusati) alle rivolte di inizio marzo.
È un servizio cui tengo moltissimo, perché moltissimo è costato a chi ha accettato di denunciare. Non solo chi – come vedrete – ci ha messo la faccia (Alfonsina e Federica), ma anche chi ha scelto l’anonimato ed è stato costretto a rivivere dei momenti terribili, in cui non sapeva se il proprio marito, il proprio figlio, fossero vivi o morti chissà come nel chiuso di una cella.
Nelle rivolte di inizio marzo sono morti 14 detenuti. Abbiamo scoperto i loro nomi da poco; alcuni erano in attesa di giudizio (quindi innocenti fino a prova contraria), uno sarebbe dovuto uscire dopo due settimane. Si tratta per lo più di stranieri: chissà le loro famiglie – magari lontane, magari no – cosa avranno provato.
Di questa strage si è parlato poco e male. Dando per certo il fatto che questi si fossero strafatti di roba dando l’assalto alle infermerie. Una cosa che ha la stessa verosimiglianza del fatto che io sia un’attivista occulta della Lega nord. Eppure, tutti zitti.
No, non tutti. Per fortuna, ci sono i parenti dei detenuti; e i loro gruppi, in cui si passano le informazioni che lo Stato nega loro, in modo crudele e padronale. E poi le associazioni. Come Associazione Yairaiha Onlus, senza la quale non avrei raccolto alcuna testimonianza.
Il carcere è una realtà ristretta e amplificata al tempo stesso. Le rivolte dei detenuti sono state l’unico segno di lucidità e di vita, in una società che ormai delega a élite ultrarisicate anche la libertà di uscire di casa.
Loro sapevano che avrebbero pagato: eppure si sono ribellati. Eppure, si sono ribellati.


Il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la mattanza della settimana santa

(disegno di sam3)

Franco (nome di fantasia), recluso nelle sezioni di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, è in attesa di giudizio e non sa ancora se il giudice lo riterrà colpevole o innocente. Si ammala qualche settimana prima di Pasqua. Picchi di febbre e problemi respiratori fanno pensare al peggio. Dopo qualche ora di monitoraggio viene “isolato” in infermeria per verificare l’evoluzione dei sintomi. I familiari riescono ancora a comunicare con lui tramite videochiamate ma hanno l’impressione che le cose stiano prendendo una brutta piega. Hanno paura, come tutti. Riescono a sapere tramite l’associazione Antigone e l’ufficio del garante dei detenuti che la situazione per ora è monitorata, ma si dovranno fare accertamenti specifici per capire il tipo di malessere. Qualche giorno dopo, la direzione sanitaria che opera in carcere avverte la famiglia che Franco è stato sottoposto a tampone da Covid-19 risultando positivo. Nel frattempo, sarebbe stato ricoverato presso la struttura ospedaliera napoletana del Cotugno.

La notizia in breve tempo si diffonde e arriva in carcere, Franco è il primo detenuto ammalato di Covid della regione, la seconda dopo la Lombardia per indici di sovraffollamento carcerario. La tensione sale all’interno dell’istituto. Il corpo detenuto teme il contagio e si sente sguarnito da ogni difesa: cosa si potrebbe fare per evitare di ammalarsi? Il carcere non è un luogo impermeabile: il distanziamento sociale è impraticabile, guanti e mascherine non ci sono e in istituto entrano ed escono moltissime persone. «Il carcere, essendo chiuso e isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia», sostiene invece il procuratore Gratteri. A oggi, i contagiati sono circa duecentotrenta (sessanta detenuti e centosettanta poliziotti).

Franco intanto è stato ricoverato. È il weekend che precede la settimana delle feste pasquali. Si avvicina l’orario di chiusura delle celle ma i detenuti di una sezione non vogliono rientrare. Inizia la protesta con una battitura e l’occupazione simbolica della sezione. La polizia penitenziaria denuncia che per impedirle l’accesso in sezione è stato riversato dell’olio bollente. La tensione in questa fase raggiunge facilmente stadi di acuzie e rapidi cali perché nessuno sa in verità come si uscirà dalla vicenda del virus. Chi ha il potere naviga a vista e chi non lo ha spesso sente di affogare.

Le proteste rientrano nel corso della stessa serata di domenica, dopo un primo intervento della penitenziaria. Sembra essere stato uno sfogo caduto nel vuoto. Bisogna che le cose sfumino da sé. Anche gli sforzi di chi in questi giorni sta tentando di stabilire un dialogo con le controparti, offrendo soluzioni per fronteggiare la devastante emergenza, si sgretolano di fronte al muro del Dap e del ministero.

A questo punto la storia cominciata con il contagio di Franco assume contorni inquietanti. Lunedì in carcere arriva la magistratura di sorveglianza e incontra i detenuti per i colloqui. Si constata che gli atti di insubordinazione che si sono verificati non hanno assunto i connotati di una vera rivolta (come quella ai primi di marzo nel carcere di Fuorni, Salerno). Secondo le testimonianze raccolte da Antigone e dall’ufficio del garante, si è verificata invece una fortissima rappresaglia da parte della polizia penitenziaria. Appena la magistratura di sorveglianza ha concluso il suo lavoro (tra le sue competenze c’è quella di monitorare lo stato, le garanzie e i diritti dei reclusi) quasi cento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa sono entrati in un padiglione e hanno cominciato i pestaggi all’interno delle “camere di pernottamento”. Probabilmente non sono gli stessi poliziotti in servizio presso l’istituto, anche perché picchiano chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana, anche qualche detenuto che dopo pochi giorni potrebbe uscire dal carcere con i segni del martirio sulla carne.

Le violenze si svolgono secondo modelli già visti: ad alcuni detenuti vengono tagliati barba e capelli, vengono spogliati e pestati con manganelli, pugni e calci su tutto il corpo. Il racconto di queste torture non sembra fermarsi, perché alcuni familiari sostengono che i pestaggi continuino anche ora. Nel corso di questa settimana, le famiglie, preoccupate per le violenze, hanno organizzano una manifestazione pacifica nei pressi del carcere. Ma all’interno si respira un’aria gelida e qualche agente continua il gioco al massacro psicologico: «Avete anche il coraggio di far venire le vostre famiglie? Non vi è bastato?».

In questo video un detenuto racconta, attraverso una telefonata, le violenze di questi giorni al carcere di Santa Maria Capua Vetere

Mattanze di questo tipo, in stile scuola Diaz, servono a (ri)stabilire un rapporto di dominio: svuotare il corpo di ogni difesa fisica e mentale, colpire la persona fino a suscitare un sentimento di vergogna verso se stessi. Di fronte al deflagrare di quest’energia cinetica bisogna essere nudi: è il modo migliore per rendere docile un corpo che ha mostrato segni di insubordinazione. In questi giorni sono stati presentati alcuni esposti alla Procura della Repubblica (solo Antigone ne ha già depositai tre, in diversi penitenziari del paese) che dovrà accertare cosa è successo nel carcere casertano.

La tensione nel frattempo, anche quella della polizia penitenziaria, si trasforma di continuo in atti di forza, soprattutto quando non si hanno direttive per fronteggiare la crisi. Il virus viaggia velocemente e la direzione sanitaria cerca di stargli dietro. È tuttavia difficile, perché i detenuti sono tanti e in alcune sezioni sono ammassati in clamoroso sovrannumero. Oggi i contagi nel carcere di Santa Maria sono arrivati a quattro e un intero piano di una sezione è stato isolato.

Se il sistema sta svelando un’altra falla, dopo gli ospedali e le case di cura, è anche vero che esiste una differenza tra il carcere e gli altri ambienti. Nei nosocomi e nelle RSA, finanche in alcune fabbriche (tutto pur di non interrompere le linee di produzione) si stanno predisponendo – dopo centinaia di morti tra pazienti, medici, infermieri e vigili del fuoco – misure di sicurezza per arginare il contagio. Nelle carceri si guarda il sistema implodere senza prendere alcuna decisione. La mattanza di Santa Maria ne è la dimostrazione e poiché il carcere è uno spazio di guerra, la possibilità di usare in ogni momento delle strategie per indebolire o neutralizzare una delle parti è all’ordine del giorno.

“Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo (Mc 15,16-20)”. Adesso è necessario monitorare le persone che sono ancora recluse, per evitare che il massacro continui. (luigi romano)

Fonte:

https://napolimonitor.it/il-carcere-di-santa-maria-capua-vetere-e-la-mattanza-della-settimana-santa/?fbclid=IwAR1okhjICUkXQ-OZc4QQ4g7V545OoGmdumNlTY1cqiGVxu9XmhDmaIaYkcE