Carceri/droghe: il proibizionismo ci costa oltre 1 miliardo l’anno

marijuana

Oltre un miliardo di euro l’anno. Ben oltre i dieci miliardi di euro spesi negli ultimi dieci anni. È il costo indiretto della guerra alla droga nel nostro paese. Queste cifre, infatti, sono quelle che spende ogni anno lo Stato Italiano per tenere in carcere persone condannate per fatti di droga. Persone che nella grande maggioranza dei casi non hanno nessuno tipo di pericolosità sociale. Nella maggior parte dei casi si tratta infatti di consumatori, piccoli coltivatori e piccoli spacciatori. Ovvero di coloro che più di altri finiscono nelle reti della giustizia penale. Nel solo 2014 delle 29.474 segnalazioni all’autorità giudiziaria, 26.692, tra queste la maggior parte per cannabis, sono state per violazione dell’art. 73 DPR 309/90 (che colpisce consumatori e piccoli spacciatori), solo 2.776 quelle per violazione dell’art 74 (che colpisce l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti).
“Sono i frutti avvelenati del proibizionismo e delle leggi che, negli ultimi 30 anni, sono state applicate nel nostro paese, per ultima la Fini-Giovanardi che, dal 2006 alla sua abrogazione per incostituzionalità nel febbraio 2014 ha portato ad una vera e propria incarcerazione di massa, con oltre 200.000 ingressi in carcere per reati in violazione del solo art. 73” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD).
I dati che la CILD e Antigone avevano già estrapolato e che oggi ci conferma il Dipartimento delle Politiche Antidroga nella sua relazione al Parlamento, danno un quadro di quanto – il proibizionismo – sia costato al nostro Paese. Al miliardo l’anno per il carcere, vanno sommati i soldi spesi per le forze dell’ordine e i tribunali impegnati nelle politiche antidroga. Senza contare quanto lo Stato perda dalla mancata tassazione che la legalizzazione porterebbe e che, secondo lo studio del prof. Rossi, ordinario di Economia all’Università La Sapienza di Roma, ammonta a circa 10 miliardi di euro l’anno.
“Una strada c’è – dichiara ancora Patrizio Gonnella – ed è quella di seguire quanto hanno fatto alcuni stati americani, nonché l’Uruguay, ovvero la legalizzazione della cannabis. Per questo obiettivo lavorerà nei prossimi mesi la CILD attraverso una apposita campagna che verrà lanciata a fine mese”.
Fonte:

 

L’esperienza di Emilio Quintieri, in carcere senza prove

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La lettera di Emilio Quintieri pubblicata su Il Garantista del 27 giugno

 

di Emilio Quintieri

Più volte mi è stato chiesto di raccontare la mia “esperienza carceraria” ma, fino ad ora, ho sempre evitato perché ripercorrere con la mente certi momenti non è affatto facile e, peggio ancora, quando li si deve rendere pubblici. Credo, però, che certi fatti non debbano passare inosservati per cui, ho accettato di raccontare la mia storia a “Il Garantista”. Da anni svolgo attività politica con la Federazione dei Verdi ed ultimamente con i Radicali, mi sono occupato – e mi occupo – di problemi legati al carcere, anche accompagnando parlamentari negli istituti penitenziari durante le ispezioni, per fargli rendere conto delle condizioni degradanti di detenzione sanzionate dalla Corte europea dei Diritti umani.

Alla luce di questo mio impegno, ho anche accettato alle ultime elezioni la candidatura nella Circoscrizione della Calabria, con la Lista Radicale “Amnistia, Giustizia e Libertà”. La mia vicenda ha inizio proprio pochi giorni prima delle elezioni, il 13 febbraio del 2013, quando alle 5 del mattino, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip del tribunale di Paola nell’ambito dell’Operazione Antidroga “Scacco Matto”, vengo arrestato dai carabinieri e condotto presso la casa circondariale di Paola insieme ad altre persone. Mi veniva contestato di aver detenuto illecitamente ed occultato, negli anni precedenti, quantità imprecisate di cocaina e marijuana e di averla ceduta a terzi. Unici elementi di prova nei miei confronti, raccolti in sede di indagine, le dichiarazioni rese ai carabinieri da alcuni soggetti tossicodipendenti che mi accusavano di avergli ceduto, in più occasioni e dietro pagamento, piccole quantità di droga. Contrariamente agli altri indagati, in sede di interrogatorio di garanzia, ho scelto di non fare “scena muta”, ho risposto alle domande del giudice, rifiutandomi di rispondere a quelle che ritenevo potessero fornire elementi suscettibili di provare la responsabilità di terzi.

Le mie spiegazioni non vennero ritenute credibili e, per il rifiuto da me opposto, il giudice respinse l’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare. Mi sono dunque rivolto al Tribunale del Riesame di Catanzaro che però ha rigettato la richiesta, sostenendo che dovessi restare in carcere perché esistevano diverse intercettazioni telefoniche ed ambientali svolte dagli inquirenti il cui contenuto appariva esplicito ed univoco, nonché attività di riscontro, di osservazione e pedinamento. Non riuscivo a crederci. Dopo qualche mese, il pm otteneva il giudizio immediato per tutti i reati contestati. Io scelsi di seguire il rito ordinario ritenendo di poter essere prosciolto da ogni accusa. La prima udienza, fissata per il 10 luglio, veniva rinviata al 2 ottobre per lo sciopero – giusto – degli avvocati. Così sono tornato in cella. Ma la situazione per me si faceva ogni giorno più insopportabile, anche per i continui contrasti con la direzione dell’istituto. Così analizzati tutti gli atti processuali, ho chiesto di essere scarcerato contestando anche quanto inspiegabilmente riportato nell’ordinanza dai giudici del Riesame rispetto all’esistenza di intercettazioni o riscontri da parte degli investigatori che confermassero l’attività delittuosa ipotizzata. Niente da fare! Nel frattempo, dopo ripetuti procedimenti disciplinari, sono stato trasferito nel carcere di Cosenza e dopo un breve periodo, trascorso anche in regime di isolamento, mi sono stati concessi gli arresti domiciliari in un paesino di montagna, lontano dalla mia città. Alla prima udienza utile, ho presentato personalmente una questione di legittimità costituzionale sulla famigerata Legge Fini-Giovanardi. Successivamente, alla ripresa del processo, ho depositato la sentenza della Corte costituzionale che accoglieva le stesse questioni di costituzionalità che altre autorità giudiziarie avevano sollevato.

Nelle scorse udienze sono stati sentiti gli ufficiali dell’Arma dei carabinieri che hanno svolto le indagini. Hanno affermato di non aver mai documentato alcuna attività di detenzione o cessione di stupefacenti da parte mia, che non sono mai state effettuate sul mio conto intercettazioni telefoniche ed ambientali e che l’arresto era scaturito solo per via delle dichiarazioni rilasciate dai tossicodipendenti. Precisavano, infine, che nell’ambito dell’inchiesta, erano emersi solo dei miei contatti con alcuni degli altri indagati di natura esclusivamente amichevole. Nulla a che fare con lo spaccio di droga! Inoltre qualcuno tra i miei accusatori ha ammesso di essersi inventato tutto, “pressato” dai carabinieri. Il processo intanto è ancora in corso. Se ne riparlerà ad ottobre. Mi domando: è mai possibile che in uno Stato di diritto una persona venga arrestata e portata in carcere solo sulla base di qualche dichiarazione, priva di qualsivoglia riscontro, perché sospettata di aver detenuto e poi ceduto qualche dose di droga? È mai possibile che si possa restare in “carcerazione preventiva” ed in attesa di giudizio tanto tempo?   https://emilioquintieri.wordpress.com/

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/06/30/io-in-carcere-senza-prove/

Stefano Frapporti

 

 

Dal blog http://frapportistefano.blogspot.it/:

 

sabato 12 dicembre 2009

 

I FAMILIARI DI STEFANO CONTESTANO LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE DA PARTE DEL PROCURATORE DOTT. DE ANGELIS

 

Sin dall’inizio di questa tragica vicenda noi abbiamo espresso pubblicamente la nostra dubbiosità sull’operato della giustizia, ma in fondo un filo di speranza rimaneva comunque.

 

Ora anche quel filo è svanito.

 

Leggendo le motivazioni con le quali è stata richiesta l’archiviazione al caso da parte del dott. De Angelis ci sentiamo veramente delusi, sfiduciati, ma soprattutto offesi per quello che ci è stato accreditato. Così scrive il procuratore: “le considerazioni elencate nella memoria depositata nell’interesse dei fratelli di Frapporti Stefano in cui per un verso si sostiene in punto di diritto l’illegittimità dell’arresto e per altro verso, addirittura, si insinua, in punto di fatto la commissione di gravi delitti ad opera dei carabinieri, con allusioni che rasentano i limiti della calunnia”.

 

Riguardo a queste considerazioni, ci teniamo a precisare che il nostro comportamento è stato dall’inizio fin troppo corretto, ma rimane evidente che colpiti da un simile dolore nessuno potrà mai vietarci di pensare, dubitare, porci delle domande e di esprimere le nostre perplessità sui tanti lati oscuri che avvolgono questa tragedia.

 

Per noi la vita ha un valore inestimabile e la morte lascia un grande vuoto incolmabile.

 

Per questo motivo riteniamo incomprensibile che il dott. De Angelis chieda l’archiviazione, senza aver svolto alcuna indagine sulla parte iniziale di questa vicenda, ossia la più importante: l’arresto di Stefano, sentendo almeno la versione dei testimoni oculari che peraltro danno una versione, sull’operato dei carabinieri, completamente diversa da quella che gli stessi hanno stilato nei verbali.

 

E’ invece documentato che le uniche indagini sono state effettuate sull’operato delle guardie carcerarie. Ed anche qui apprendiamo versioni che si contraddicono con quelle dichiarateci verbalmente dalle stesse il giorno seguente l’accaduto.

 

Sarebbero ancora tante le domande senza risposta e non certo di meno importanza ma per il momento ci sembra che bastino…

 

 

I fratelli: Ida, Marco e Claudio

 

 

Fonte:

sabato 5 settembre 2009

 Giustizia: morte in carcere di un incensurato, nessuno ne parla 
Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni di Rovereto. È morto circa un mese fa, nel carcere di quella città, suicidatosi tramite impiccagione con il cordino elastico del pantalone di una tuta. Era stato fermato, al ritorno dal lavoro, da due agenti in borghese con il pretesto di una sua infrazione in bicicletta; pare che i due, invero, stessero indagando sul presunto spaccio di hashish in un bar lì vicino.Frapporti, perquisito senza esito, avrebbe confessato spontaneamente di detenere nella sua abitazione una certa quantità della stessa sostanza; e dunque sarebbe stato lì condotto, senza testimoni e, con tutta probabilità, senza un mandato di perquisizione. La casa, poi, non sarebbe stata “perquisita” dal momento che al mattino seguente non vi era segno alcuno della ricerca che gli agenti vi avrebbero svolto, come se Frapporti avesse indicato loro dove fossero i 99 grammi di hashish ritrovati.Egli avrebbe firmato un modulo con cui rinunciava ad avvertire i suoi famigliari dell’arresto; in seguito la sua richiesta di un contatto con sua sorella sarebbe stata rifiutata a causa di quel brogliaccio. Alcuni poliziotti penitenziari lo descrivono ancora tranquillo e pronto alla battuta alle 23.30, l’ora in cui avrebbe fatto ingresso in cella. Poco dopo veniva rinvenuto cadavere. I familiari, avvertiti il giorno seguente, hanno potuto vedere il suo corpo solo 48 ore dopo.Di questa storia si sono occupate le “solite” testate giornalistiche e i “soliti” ambienti: ovvero è stata raccontata nel mondo antiproibizionista e tra chi si occupa di carcere. Questa storia, che pure ha suscitato molta emozione tra i concittadini del Frapporti, è rimbalzata in questo microcosmo e non più oltre: ovvero non la conosce quasi nessuno.Non è la prima volta che ci occupiamo di morti in carcere avvenute in circostanze poco chiare. Ma questa vicenda chiama in causa, ancor prima, una legge (la Fini-Giovanardi) irrazionale e criminogena, ottusa e crudele, che finisce col penalizzare indiscriminatamente comportamenti diversi, assimilando consumo e spaccio. E chiama in causa, poi, una amministrazione penitenziaria sempre più incapace di custodire in sicurezza i detenuti, specie chi varca la soglia del carcere per la prima volta (è qui che è maggiore la percentuale dei suicidi). Infine. Se la ricostruzione dei fatti fosse davvero quella indicata all’inizio di questo articolo, chiediamo: qualcuno è in grado di motivarne la totale assurdità? Perché in assenza di una spiegazione diversa, il dubbio di un carcere incapace di garantire l’incolumità di quanti vi sono reclusi, senza tutela e senza diritti, si fa sempre più incalzante. E temibile.
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
L’Unità, 4 settembre 2009
Fonte:
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Vedi anche qui:

V° Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi: i dati in pillole. E altre info.

Droga: il 38,6% dei detenuti in carcere per droghe, il 45% delle denunce per cannabis, sanzioni amministrative in costante aumento. Presentato alla Stampa del 5° Libro Bianco sulla legge Fini-Giovanardi. Le associazioni chiedono una nuova politica sulle droghe.

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Con la sentenza della Corte Costituzionale del 12 febbraio 2014, la legge Fini-Giovanardi è stata abolita e si è tornati alla legge del 1990, con le modifiche introdotte nel 1993 dal referendum popolare e quelle del decreto Lorenzin. Il V Libro Bianco offre una valutazione finale sui risultati dell’inasprimento repressivo introdotto nel 2006 dall’allora governo Berlusconi. Una valutazione preziosa per pianificare una riforma organica della legislazione antidroga.

Gli effetti “carcerogeni” della legge:

–       il 30% entra in carcere per reati di droga. Con la Fini-Giovanardi si registra un aumento degli ingressi in carcere per droga: nel 2006 gli ingressi per violazione dell’art.73 del Testo Unico sugli Stupefacenti erano il 28% del totale, nel 2013 sono stati il 30, 5% (con un picco del 32,4 % nel 2012)

–       il 38,6% dei detenuti presenti sono imputati/condannati per reati di droga. Si tratta di quattro detenuti su dieci: in queste cifre si riassume il sovraffollamento carcerario.

–       Tossicodipendenti presenti in carcere: il 23,7% sul totale delle presenze. Passati gli effetti dell’indulto, siamo tornati alla “normalità” del carcere come risposta alla tossicodipendenza, con un trend stabile: 23,9% nel 2010, 24,4% nel 2011, 23,8% nel 2012. Il più grave indice di fallimento per una legge che si proponeva di “non tenere in carcere tossicodipendenti”.

–       Misure alternative, ritorna la centralità del carcere: al 31/12/2013 risultavano in affidamento 3328 tossicodipendenti, contro i 3852 del 1 gennaio 2006. Al di là dei numeri, è cambiata la cornice dell’istituto dell’affidamento terapeutico: fino alla legge Fini-Giovanardi, la maggioranza delle misure era concessa dalla libertà, dopo il 2006 la maggioranza delle persone che ottengono l’affidamento passano prima dal carcere.

Il circuito repressivo penale:

–       33.676 persone denunciate per reati di droga: dopo il picco del 2010 con 39.333 denunce, il trend è decrescente, pur rimanendo a livelli elevati

–       il 45% del totale delle denunce è per cannabinoidi: rispetto al 2005, sono aumentate di ben il 35% le operazioni delle forze dell’ordine per cannabis, e diminuite quelle per cocaina, eroina e droghe sintetiche.

L’ingorgo del sistema giustizia:

–       224.530 persone con procedimento penale pendente nel 2011. Con un aumento consistente dai 197.000 procedimenti del 2006, a conferma della criminalizzazione indotta dalla legge.

La repressione sul consumo:

–       segnalazioni per cannabis in ascesa: nonostante diminuiscano le segnalazioni (dal picco di 47.932 nel 2007 ai 34.609 nel 2013, dato ancora parziale), la stragrande maggioranza è per cannabis, in ascesa dal 73% del 2009 al 78,5% del 2012.

–       Sanzioni amministrative in aumento: nel 2013 sono state 15.977 contro 11.850 nel 2007.

Reati minori di droga: quando la repressione punta la basso

Uno studio in profondità è stato condotto da Forum Droghe in Toscana su oltre 1000 fascicoli di detenuti uomini presenti nei penitenziari di Firenze, Pisa, Livorno, Lucca, Prato, dal marzo all’agosto 2013.

Lo studio si è proposto di rilevare quanti detenuti fossero reclusi per violazione del comma 5 dell’art.73, riguardante la “lieve entità” del crimine rispetto alla quantità di sostanza detenuta (in breve: piccolo spaccio o detenzione a fine personale di sostanza al di sopra della soglia quantitativa massima considerata dalla legge per uso personale). L’intento è di rilevare quanto la repressione insista sui “pesci piccoli”, piuttosto che sugli squali del narcotraffico.

I principali risultati dello studio:

–       I reati minori incidono sull’insieme dei reati antidroga per il 30-40%. Questa percentuale è comunque da ritenersi ampiamente sottostimata, perché la specifica del reato di minore entità è spesso non registrata nella matricola dei penitenziari

–       L’incarcerazione per reati minori di droga riguarda soprattutto gli stranieri. Ogni 7 detenuti per infrazione del comma 5 del 73, 6 sono cittadini stranieri .

–       L’indagine ha aperto uno spaccato interessante sui meccanismi di law enforcement: spesso le forze dell’ordine scelgono di contestare la generica violazione dell’art.73 (pur in presenza di piccoli quantitativi di droga), poiché per tale ipotesi è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (laddove, per il comma 5, la misura cautelare deve essere motivata).

Drugs on Street: un costoso esercizio di propaganda?

Drugs on Street è il protocollo adottato nel progetto Network Nazionale per la prevenzione degli Incidenti Droga e Alcol correlati (NNIDAC). La Relazione al Parlamento riporta i dati Istat del 2011. I morti collegati all’uso di alcol e droghe sono stati 144 e 9567 i feriti. Molti, ma solo il 3-4% del totale degli incidenti che sfiora i 4000 morti e i 300.000 feriti.

La responsabilità dell’uso di sole droghe illegali, in assenza di alcol, è in relazione a 22 morti e 1472 feriti.

Per quanto riguarda i test sulle droghe (saliva, sangue, urina, capello), questi hanno forti limiti per l’individuazione della pericolosità di un conducente. In conclusione, la sperimentazione voluta dal Dipartimento antidroga in 29 Comuni ha confermato la positività per droghe illegali dell’1,9%, senza peraltro poter dire una parola certa circa le abilità o non abilità alla guida di questi positivi.

C’è un importante effetto collaterale: in nome della prevenzione/controllo, si abbandona la vera prevenzione, fatta di crescita di consapevolezza delle persone.

Test ai lavoratori: un sistema di dubbia efficacia ma di sicuro impatto sulle tasche di aziende e lavoratori

I test ai lavoratori per le mansioni cosiddette a rischio si rivelano uno strumento di controllo sociale (individuare la pecora nera) e di minaccia di licenziamento. Alle aziende l’operazione costa oltre cinque milioni di euro, infatti la tariffa media degli esami di primo livello è di 50 euro a persona, mentre quella di secondo livello, a carico dei lavoratori, è di 85 euro.

Un apparato costoso per le aziende e per i lavoratori, al fine di pescare il classico ago nel pagliaio. Infatti, aumenta il numero globale dei soggetti esaminati (54.138 nel 2009 e 88.000 nel 2012) e si abbassa il numero dei positivi (649, pari all’1,2% nel 2009 e 211, pari allo 0,23% nel 2012).

Rimane costante, oltre il 60% la percentuale dei consumatori di cannabis: a giudizio degli operatori dei Sert sono in maggioranza coloro che hanno una diagnosi di “consumo sporadico”.

Si vuole promuovere la sicurezza o colpire uno stile di vita?

Fonte:
http://www.fuoriluogo.it/sito/home/mappamondo/europa/italia/rassegna_stampa/v-libro-bianco-sulla-fini-giovanardi-i-dati-in-pillole

Qui un post di Radio Onda d’Urto sulla manifestazione antiproibizionista dello scorso 8 febbraio:

http://www.radiondadurto.org/2014/02/08/antiproibizionismo-in-migliaia-a-roma-a-gridare-illegale-e-la-legge/

Qui un post di Dinamo Press sull’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi:

http://www.dinamopress.it/news/illegale-e-la-legge-ve-lavevamo-detto

Sulla carta di Genova e altre info visitare il sito http://genova2014.fuoriluogo.it/