“Piccola storia ignobile”

Dal blog di Lorenza Valentini:

lunedì 30 maggio 2016

Piccola storia ignobile. *

In realtà Piccola storia ignobile è una canzone sull’aborto, ma c’è una frase che mi gira in testa: “così solita e banale come tante“.
No, non credo affatto che la storia di Sara, bruciata viva dall’ex fidanzato e morta alla periferia di Roma sia una storia “solita e banale”, ma sento che lo sono invece le parole che sto usando io.
Che di nuovo mi ritrovo a cercare di capire che cosa spinga i media italiani ad affrontare questa e le altre centinaia di storie uguali in un certo modo, offrendoci un certo tipo di racconto, banalizzandolo e allo stesso tempo “normalizzandolo” relegandolo alla “follia” del singolo.
Perché se il femminicida è sempre un “pazzo” o un “malato”, allora in qualche modo la storia assume un senso che le trova un posto facendola diventare quasi un “normale” fatto di cronaca nera.
Ho scritto altri mille post uguali, lo so. Sono stanca io per prima.
Centinaia di parole buttate al vento chiedendomi e chiedendoci cosa porti un uomo a credere che una donna sia una cosa di sua proprietà, fino al punto di ucciderla pur di non lasciarla libera di vivere la propria vita.
Io ho un’idea molto chiara in merito: si chiama cultura patriarcale, una cultura che con buona pace di tante e tanti autorevolissim* studios* non è morta affatto, anzi. Lo diciamo in tante e tanti, ma a quanto pare non basta ancora. Una cultura che naviga felice nelle disuguaglianze di genere e nei rapporti di potere tra uomini e donne, vecchi eppure sempre presenti.
Anche oggi quello che mi colpisce maggiormente è il racconto del femminicidio da parte dei media.
Rory Cappelli, su La Repubblica chiude il suo pezzo scrivendo:

E il resto è orribile cronaca. Che si sarebbe potuta evitare – dicono gli inquirenti – se solo lei avesse avuto il coraggio di denunciare le continue vessazioni psicologiche. Se solo gli amici, le amiche e i familiari non avessero sottovalutato. Se solo quei due che sono passati in macchina si fossero fermati.

Giorgia Meloni, candidata sindaca di Roma, la mia città, dice che questa è una città insicura, quindi nessuno si è fermato quando Sara chiedeva aiuto in strada perché a Roma abbiamo paura.
La vita in diretta ci fa sapere che l’assassino ha confessato “tra le lacrime” perché “non sopportava che fosse finita”.
E vi risparmio le solite, vergognose gallerie fotografiche piene di immagini saccheggiate dall’account facebook della vittima.
Su tutte, quella che la ritrae sorridente con l’assassino.
E il sottotesto di ogni parola usata in queste ore:
E pure lei, però. Non ha denunciato.
E pure gli amici suoi, però. Non hanno fatto niente.
E pure la famiglia di lei, però. Non ha capito.
E pure quelli in macchina, però. Non si sono fermati.
Come in ogni femminicidio che si rispetti, il racconto dei media sembra dire che l’unico che non ha mai colpe è sempre l’assassino. Quello al massimo è geloso, matto, impazzito, depresso, preda di un raptus.
* Piccola storia ignobile, Francesco Guccini, Via Paolo Fabbri 43, 1976
Fonte:

Femminicidio, dieci donne che non possiamo dimenticare

di MICHELA MURGIA
ore 10.34 del 3 febbraio 2016

È QUESTIONE di concentrazione: di certe cose non ci occupiamo fino a quando non si verificano tutte insieme in modo tale che diventa impossibile ignorarle. Così tre donne massacrate per mano dei loro compagni in appena due giorni hanno riacceso il faro dell’attenzione pubblica sul tema del femminicidio. Si chiamano Marinella, Carla e Luana, ma è facile appropriarsi di un nome per rendere le persone personaggi e dire che quelle storie erano le loro e non la nostra.

Ciascuna di queste donne va immaginata con il nome che diamo a noi stesse. A Catania il primo febbraio una è morta per mano del marito, che l’ha strangolata davanti al figlio di 4 anni. Lo stesso giorno a Pozzuoli una di loro, incinta al nono mese, è stata ridotta in fin di vita dal compagno che le ha dato fuoco. Ieri un’altra è morta quasi decapitata dal marito, poi fuggito contromano in autostrada. Fanno scalpore, eppure non sono le prime notizie dell’anno sulla violenza alle donne. Il 2016 era cominciato da appena due giorni quando i carabinieri hanno scoperto a Ragusa una donna segregata in casa dal suo convivente, che da due anni a suon di botte le impediva di andarsene. Lo stesso giorno ad Ancona una donna veniva picchiata da quello che era stato il suo fidanzato, prima che lo lasciasse per le violenze. Il 3 di gennaio una donna di Città di Castello è stata uccisa da suo figlio con dieci coltellate, e il 5 a Torino una’altra è quasi morta per le violenze inflittele dal marito, che l’ha più volte colpita in testa con un bicchiere prima che un vicino chiamasse la polizia. Il 9 gennaio a Firenze una donna è morta strangolata da un uomo che prima c’era andato a letto e poi l’ha uccisa per derubarla. Strangolata è morta anche la donna che il 12 di gennaio è stata trovata nel suo letto, ammazzata dall’uomo che frequentava. Il 15 e il 16 di gennaio due nonne sono stata uccise dai rispettivi nipoti: una è stata massacrata a Mestre con una sega elettrica, l’altra a Sassari con un vaso di cristallo. Il 27 gennaio a Cetraro una donna è stata uccisa per strada dal suo ex cognato, che le dava la colpa della fine del proprio matrimonio. Il 30 gennaio una donna è stata ferita gravemente dal marito, che prima di aggredire lei con un coltello aveva ucciso i loro figli di 8 e 13 anni.

In questo elenco non ci sono le decine di violenze, i maltrattamenti, le riduzioni della libertà e i tentati omicidi in ambito familiare le cui eco spesso non ci arrivano neppure. Sappiamo però che erano tutte a carico di donne che vivevano accanto a noi, in questa strana Italia ancora divisa tra voglia d’Europa e Family Day, ma incapace di riconoscere che c’è qualcosa di sbagliato e distruttivo nel modo in cui impostiamo i rapporti di relazione che chiamiamo “famiglia”. Che sia tradizionale o arcobaleno, che lo stato la riconosca o meno, quel sistema di legami e la sua faccia oscura ci riguardano tutti e tutte, allo stesso modo. Finché non affronteremo il nodo del potere nascosto in quello che chiamiamo amore, il Paese che ammazza le donne non sarà un buon posto per nessuno.

(Michela Murgia è scrittrice, il suo ultimo romanzo è Chirù, per Einaudi)

 

Fonte:

http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/cronaca/2016/02/03/news/dieci_donne_che_non_possiamo_dimenticare-132596537/?ref=fbpr

In ricordo di Stefania Noce a conclusione del processo per il suo omicidio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte: http://27esimaora.corriere.it/articolo/stefania-uccisa-perche-donna/

 

Perdonami Ninni e perdonatemi compagne se le mie parole vi sembrerenno odiose e insensate. Ho letto della conclusione del processo per gli omicidi di Stefania Noce e del nonno di lei Paolo Miano: http://catania.meridionews.it/articolo/29715/processo-noce-confermato-ergastolo-a-gagliano-finalmente-e-finita-ce-labbiamo-fatta/ Le mie idee in fatto di detenzione mi impediscono di unirmi all’esultanza di tante e tanti per la sentenza di ergastolo nei confronti dell’ex fidanzato di Stefania, Loris Gagliano, l’uomo che l’ “amava” al punto da ucciderla. Sul perchè l’ergastolo sia per me in realtà una sconfitta della giustizia ho già scritto in quest’altro post alla cui spiegazione rimando: https://www.peruninformazionelibera.blog/sullergastolo-agli-assassini-di-rostagno-e-del-suono-di-una-sola-mano/

Ora vorrei scrivere qualche parola per ricordare Stefania Noce. Basta fare qualche ricerca in rete per scoprire che Stefania era anzitutto una donna vera che aveva a cuore i diritti di tutte le donne. Lei si interrogava sul senso dell’essere femministe,  perchè voleva la libertà delle donne da quella forma di dominio maschilista che purtroppo l’ha uccisa. Ma a me piace ricordare soprattutto la sua integrità, quel suo slogan “Non sono in vendita”, che vuol dire molto più di quel che sembri: una femminilità non svenduta ma vissuta fin in fondo nella dignità dell’essere donna.

 

Donatella Quattrone

Massacro del Circeo. Il gioco macabro di tre “bravi ragazzi”

Monday 29 September 2008
Il 29 settembre del 1975 prendeva corpo uno dei peggiori fatti di cronaca nera della storia italiana. Tre giovani neofascisti romani sequestrano e massacrano le diciassettenni Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, in quello che passa alla storia come “il massacro del Circeo”.
di Cecilia Dalla Negra

circeo1.jpgUN GIOCO DA BRAVI RAGAZZI – Un promontorio isolato, che racchiude le acque del golfo di Gaeta, in provincia di Latina. Lazio, Italia, secolo scorso, ma di poco. È la noiosa fine d’estate del 1975 quando tre giovani di alto rango e dalle simpatie politiche destrorse, decidono di spezzare la routine alto borghese e viziata rendendo l’idilliaco panorama laziale – rifugio estivo della Roma bene – nel teatro di un massacro dalla ferocia inaudita. Che riempirà le cronache fra disgusto e rabbia, con i dibattiti scatenati fra gli intellettuali che litigano sulla natura più o meno politica di un atto di barbara violenza compiuto contro due ragazze inermi. Tra gli strascichi umani e processuali della vicenda ci sarà lo spazio in cui far entrare gli alterchi intellettuali, le divisioni politiche e le lotte femministe: su tutto, spiccherà una giustizia incapace di punire tutti i colpevoli, capace invece di rimetterne alcuni  in libertà, lasciandogli la possibilità di compiere nuovi fatti di sangue. A colpire l’immaginario collettivo e indignare la pubblica opinione oltre alla violenza del gesto, gli artefici. Il massacro del Circeo passerà alla cronache per essere stato compiuto da tre “bravi ragazzi” dell’alta borghesia romana. I figli invidiati, gli studenti modello, che nascondono sotto abiti di marca realtà assai diverse.
Un gioco violento il loro, per rompere quell’ozio e quella noia viziata che sono propri di chi nella vita non ha dovuto ottenere nulla, perché ogni cosa è dovuta. Anche il corpo di una donna – considerata niente più di questo – da seviziare, violentare e massacrare per interrompere il ciclo della noia di fine estate. Ma nel loro gesto atroce non scelgono due donne qualunque: Rosaria e Donatella sono due ragazze umili, figlie dell’emarginazione e del degrado di una grande capitale che dimentica le proprie estremità, le proprie appendici periferiche. È la lezione da dare quindi in quanto classe sociale dominante a chi deve sottostare per ceto e appartenenza. E se di genere femminile, ancora di più.

GLI AUTORI, LE VITTIMEGiovanni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira sono tre ventenni dall’aspetto rassicurante. Vestono elegante, hanno orologi pregiati ai polsi, macchine sportive e all’ultima moda. Forse un sogno di emancipazione per due ragazze di 17 anni che vengono dalla periferia romana fatta di quell’isolamento tanto caro a Pier Paolo Pasolini. Ragazze di borgata, di umili origini, che della vita hanno perso l’illusione del sogno ancora prima di cominciare. Rosaria Lopez nemmeno ha finito le scuole medie per occuparsi dei genitori anziani, con cui divide due stanze all’Ardeatino, giù al sud, lontano dal centro sfavillante della dolce vita. Donatella Colasanti è figlia di un impiegato e di una casalinga, ed è stata lei a conoscere i suoi aguzzini qualche giorno prima, al “bar del Fungo” all’Eur, fra un caffè e un aperitivo. ghiracirceo.jpg
Sono giovani, affascinanti, dall’aspetto affidabile. Solo all’apparenza però, perché dei tre Giovanni Guido, studente di architettura, è l’unico incensurato. Gli altri “fratellini”, come si chiamano fra camerati, sono compagni di giornate, scampagnate, rapine e stupri. Figli della Roma che conta, Angelo Izzo e Andrea Ghira sono famosi in città per la prepotenza che li caratterizza, e per passioni non propriamente convenzionali. Se il primo è in cura da uno psichiatra che gli diagnostica nevrosi maniaco-depressive, il secondo subisce una pericolosa fascinazione per tutto ciò che è discriminante: in casa sua verranno ritrovati busti di Hitler e Mussolini, scritti di Julius Evola che inneggiano alla supremazia della razza. Al liceo ha abbracciato la causa squadrista, ed ha fondato un gruppetto neofascista che teorizza la violenza e il crimine come forma di affermazione sociale. È lui il capo della banda, e si fa chiamare Jacques. Per non essere riconosciuto, certo, ma anche per la sua ammirazione verso quel Berenger, criminale marsigliese, che ha messo a segno rapine e sequestri su Roma proprio negli anni ’70. Ma non finisce qui. Perché Izzo e Ghira sono già noti alla polizia per aver compiuto rapine, sequestri di persona, violenze sessuali. Sono stati arrestati per stupro, ma sebbene condannati non hanno mai scontato un giorno di carcere. “Era prassi consolidata nel gruppo stuprare le ragazze”, ammetterà candidamente Izzo, durante un’intervista recente.
Le due prede che incontrano nel bar dell’Eur, poi, devono apparir loro particolarmente ambite, se oltre ad essere giovani donne sono anche parte di quella plebe che tanto disprezzano.

guidocirceo.jpgL’INCUBO – Iniziano così, fra i tavolini di un bar, 36 ore di incubo per Donatella e Rosaria, che culmineranno con la tragedia. I ragazzi danno loro appuntamento per lunedì 29 settembre alle 4 del pomeriggio. “Andiamo a una festa, ci divertiamo, vedrete” dicono loro, mentre le caricano sulla Fiat 127 di Guido. Parte la corsa verso Villa Moresca. Residenza estiva della famiglia Ghira, è una grande abitazione disposta su due piani, giardino, taverna, garage. Affaccia sul bel panorama dell’Isola di Ponza ed è isolata, immersa nel silenzio come ogni villa del Circeo. Un inferno, se sei stato sequestrato, perché nessuno può sentire le tue grida. Sono le 18.30 quando arrivano e, puntando le pistole contro le ragazze, le chiudono nel bagno. Per Giovanni Giudo c’è anche il tempo di tornare a casa, a Roma, e cenare con i genitori come nulla fosse. A vigilare sulle ragazze sequestrate resta Angelo Izzo, che le costringe a turno ad avere rapporti con lui. Sono le 23 quando rientra Guido, questa volta insieme a Ghira: sono drogati, e da questo momento inizieranno sevizie, violenze sessuali, percosse. Donatella approfitta di un attimo di distrazione, striscia fino al telefono, chiama il 113. “Mi stanno ammazzando” riesce a dire, prima che una spranga di ferro le colpisca la schiena. Sente le grida di Rosaria che arrivano dalla stanza accanto, come se qualcuno la stesse affogando. Ed è proprio quello che stanno facendo, perché Rosaria Lopez, 17 anni, dopo le violenze subite viene annegata nella vasca da bagno. Donatella riuscirà a salvarsi solo fingendosi morta. È a questo punto che i tre chiudono i corpi dentro due sacchi di plastica, nascondendoli nel baule della macchina con cui erano arrivati. Sono le 21 di martedì 30 settembre, il supplizio delle ragazze è andato avanti per 36 ore. Rientrano a Roma, parcheggiano l’auto nei pressi di via Nomentana e cercano una pizzeria. Come non avessero massacrato e violentato due ragazzine sino a quel momento. Come non ne avessero nascosto i cadaveri nella propria auto. Ma Donatella è viva, e si fa sentire. Un metronotte, richiamato dai suoi lamenti, la trova agonizzante e coperta di sangue nella notte inoltrata: in quel bagagliaio, accanto al cadavere dell’amica, c’è rimasta quasi tre ore.
Le immagini del ritrovamento faranno il giro del mondo, e lasceranno l’Italia attaccata allo schermo di una tv in bianco e nero, che quel sangue e quella violenza li lascia solo immaginare.

L’ITER GIUDIZIARIO – Gianni Guido e Andrea Izzo vengono arrestai poche ore dopo il ritrovamento di Donatella Colasanti. Ghira inizialmente non è neanche indiziato, e nei lunghi anni del processo non verrà mai catturato. Conosciuti dalle forze dell’ordine per i precedenti, i “bravi ragazzi” vengono mandati in primo grado nel luglio del 1976. Mentre i primi due vengono accusati di omicidio pluriaggravato e condannati all’ergastolo, Ghira è fuggito. Arruolato nel Tercio, dicono, la Legione straniera spagnola, da cui sarebbe poi stato espulso nel 1994 per abuso di droga. Morto di overdose e sepolto nel cimitero di Melilla, con il falso nome di Massimo Testa de Andres. Almeno questo è quello che sostiene l’esame del Dna effettuato sul cadavere riesumato nel 2005. Non è quello che sosteneva invece Donatella Colasanti, parte civile al processo, che ha continuato a denunciarlo per anni senza ascolto: “Ghira non solo è vivo, ma abita ancora a Roma”. La Cassazione, nel 1981, confermerà le condanne per Izzo e Guido. La loro storia però sarà costellata, da questo momento in poi, da tentativi di evasione più o meno riusciti, che porteranno addirittura Izzo a uccidere ancora. Ottenuto il regime di semilibertà nel 2001, nel maggio 2005 ucciderà la compagna Maria Carmela Limucciano e sua figlia Valentina, di 14 anni. Un “errore” della giustizia, come tanti altri. Forse più grave, se si tiene conto della ferocia con cui si erano mossi i colpevoli di questo terribile caso di cronaca nera. Che sarà capace di scatenare dibattiti intellettuali sulle colonne dei giornali, tra firme come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini. E la cui vicenda giudiziaria sarà accompagnata dai movimenti femministi, anche loro costituitisi parte civile al processo contro gli aguzzini. Un processo condotto e vinto dall’avvocato Tina Lagostena Bassi, portavoce dei diritti delle donne calpestati dalla violenza maschile.izzocirceo.jpg

EPILOGO TRISTE – Donatella Colasanti è sopravvissuta alle violenze di quel giorno, ma non al loro ricordo. Una donna distrutta, rovinata, che se n’è andata silenziosamente nel 2005, dopo una lunga malattia. Continuando a chiedere che venisse fatta giustizia, con quella morte negli occhi che appartiene solo a chi la morte l’ha sfiorata, e l’ha vista da vicino. Difficile pensare di poter dimenticare, nel corso di una vita, violenze tanto gravi che sono state subite. Ancora più difficile se nella consapevolezza che a muoverle fu la bestialità di ragazzini arroganti e annoiati, che sotto le camicie inamidate nascondevano un’identità per troppo tempo impunita di violenti criminali.

Cecilia Dalla Negra

 

 

 

Fonte:

http://www.fondazioneitaliani.it/index.php?option=com_content&task=view&id=7126&Itemid=1

Reggio Calabria, uccide la moglie con un colpo d’arma da fuoco e fugge: caccia all’uomo

Il delitto, avvenuto a Monasterace, è scaturito al culmine di una lite. La vittima aveva 4 figli. Su Facebook era iscritta a un gruppo contro la violenza sulle donne. A scoprire il cadavere la figlia di 10 anni

– Ancora una donna uccisa da un uomo. Una 31enne è ammazzata dal marito con un colpo di fucile a Monasterace (Reggio Calabria). Dopo l’omicidio, Giuseppe Pilato, 30 anni, è scappato. Il delitto è stato compiuto al culmine di una lite, l’ennesima, nella casa dove la vittima, Mary Cirillo, viveva con il marito e i figli. E’ stata la figlia di 10 anni, la più grande, a trovare il corpo. La coppia ha altri tre figli di 8, 5 e 2 anni.

 

Foto 1

Foto Facebook

La bambina non era in casa al momento del delitto, ma rientrando è stata la prima a scoprire il corpo. I carabinieri sono stati quindi chiamati da alcuni vicini della coppia che hanno segnalato una lite in famiglia, ma quando i militari sono giunti sul posto hanno trovato la donna già morta.

Su Fb in gruppo contro la violenza sulle donne – Mary Cirillo su Facebook era iscritta al gruppo “Solo donne”. Sulla pagina sono visibili, tra gli altri, alcuni post contro la violenza sulle donne.

L’ennesima lite – Secondo quanto emerso dalle prime indagini, i rapporti tra marito e moglie negli ultimi tempi si erano incrinati, tanto che pare che Pilato se ne fosse andato dall’appartamento della famiglia. Lunedì sera è andato a casa, probabilmente per incontrare la moglie. E’ nata l’ennesima discussione, tanto che alcuni vicini, sentendo gridare, hanno chiamato i carabinieri segnalando una lite in famiglia. Ma prima che i militari potessero arrivare nella palazzina in viale della Libertà, Pilato ha esploso un colpo d’arma da fuoco contro la moglie – in un primo tempo si era pensato ad un fucile, ma poi è stato accertato che si è trattato di una pistola – ed è fuggito.

Quando sul posto è arrivata l’ambulanza del 118, per la donna non c’era più niente da fare. I carabinieri della Compagnia di Roccella Ionica e del Gruppo di Locri hanno subito iniziato a sentire le testimonianze di familiari e vicini di casa, mentre gli uomini della scientifica avviavano i rilievi sulla scena del delitto.

Immediatamente sono scattate anche le ricerche dell’uomo, con posti di blocco e pattugliamenti, a cui partecipano anche le altre forze dell’ordine, e l’ausilio di un elicottero dell’Arma. Marito e moglie lavoravano entrambi in un negozio di giocattoli di proprietà della coppia, il Megatoys. Il primo gennaio del 2013 l’esercizio fu gravemente danneggiato da un incendio divampato per cause accidentali, ma dopo pochi mesi l’attività era ripartita. Mary Cirillo, come il marito, aveva un profilo facebook. Su quello del marito, invece, si può vedere una foto con quattro bambini davanti ad una torta di compleanno, probabilmente i figli.

Fonte:

http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/calabria/2014/notizia/reggio-calabria-uccide-la-moglie-con-un-colpo-di-fucile-e-fugge-caccia-all-uomo_2063472.shtml

A Perugia tenta femmicidio: i giornali parlano ancora di passione o follia

07 luglio @ 15.39

Luisa Betti

A Perugia tenta femmicidio: i giornali parlano ancora di passione o folliaRilevamenti sul luogo del tentato femmicidio nei pressi di Perugia

Ieri in Umbria un uomo cerca di uccidere la ex colpendo anche il figlio di tre anni e un’amica, e la stampa continua a usare i motivi passionali o la malattia mentale

 

È di ieri la notizia che vicino Perugia, a Ponte Valleceppi, un uomo ha sparato in strada alla ex convivente, colpendo anche il figlio di tre anni e un’amica della donna, per poi tentare il suicidio. Sul fatto ieri non c’erano particolari ma i giornali davano la notizia riprendendola dalle agenzie. Eppure, anche in uno scarno pezzo di 10 righe, numerose testate usano ancora la fatidica frase “motivi passionali” alla ricerca del movente, e non giornali o agenzie qualsiasi: Repubblica, l’AnsaTgcom24. Mentre oggi LaNazione titola: “Perugia, mattinata di follia: spara alla ex, al figlio e a un’amica di lei, poi a sé stesso, quattro gravissimi”, Repubblica continua a usare “i motivi passionali”, e il Corriere della sera considera lo stalking – a cui era probabilmente sottoposta la donna – a “screzi” e riporta tra virgolette che la ex compagna (ora in gravi condizioni in ospedale e quindi non in grado di rilasciare dichiarazioni), considerava l’uomo che ha tentato di uccidere lei e suo figlio: “un padre esemplare”. Oggi si apprende anche che l’uomo di 32 anni – che in queste ore è clinicamente deceduto – non aveva accettato la separazione avvenuta da settembre dell’anno scorso e probabilmente perseguitasse la donna (24 anni) per ricominicare la relazione e anche in relazione al mantenimento del figlio di tre anni, che in queste ore combatte tra la vita e la morte all’ospedale Mayer di Firenze. Malgrado non ci siano denunce a carico dell’uomo (come spesso succede in Italia), in base agli elementi che già sono pubblici si deduce con facilità come non c’entrino né la passione né la follia né altro. E sembra di sentire quasi una vocina che sussurra: non abbiamo imparato niente, abbiamo scherzato quando parlavamo di femmicidio e femminicidio, e in realtà tutto sta tornando come prima. Anzi, direi che è già tornato perché la grande tentazione del comodo e agevole stereotipo comune a tutti, prende il sopravvento. Facendo zapping alla tv o sfogliando i giornali, possiamo trovare chi si concentra per capire il perché i peli trovati nel caso di Yara Gambirasio non siano quelli di Bosetti – unico indiziato – e chi invece continua a cercare i torbidi risvolti del caso Motta-Visconti: manca solo il plastico di Vespa a grandezza naturale con tanto di cadaveri, ferite e macchie di sangue, e il capolavoro è fatto. Lo stauts quo sul femminicidio quindi sembra ristabilito con una mossa gattopardiana in grande stile: il movimento che aveva portato avanti questa battaglia si è fortemente indebolito (anche per le solite inutili beghe interne); i media ne hanno parlato così tanto e troppo spesso in maniera inadeguata da risultare controproducenti; e il governo Renzi ha deciso di dare il colpo finale, rottamando il lavoro svolto (anche se male e per metà) dal precedente governo sul contrasto alla violenza sulle donne, non solo non nominando né una ministra delle pari opportunità né dandone delega, ma decidendo di lasciare carta bianca alle Regioni e consegnando loro la distribuzione del finanziamento stabilito per legge di 17 milioni di euro in due anni, sulla base di una mappatura non reale e con criteri illeggibili per i bandi, e in sostanza decretando la fine dei centri antiviolenza indipendenti, che avranno la modica cifra di 6.000 euro ciascuno.

Che responsabilità ha l’informazione in questo enorme passo indietro? Come se fosse sordo o affetto di una forma di amnesia, il giornalismo italiano – a parte alcune eccezioni – ha ripreso con grande disinvoltura a descrivere i casi di femmicidio e femminicidio come se fossero un romanzo d’appendice, una fiction a puntate tra horror e sadomaso, un po’ erotico e un po’ splatter. Senza sapere che non serve informare su leggi, manifestazioni, firme raccolte, premi e sfilate contro la violenza sulle donne, se poi i casi vengono presentati in maniera morbosa e accattivante, una storiella su cui avventurarsi in inutili descrizioni come: “Sette coltellate a gola e corpo. Dopo aver fatto l’amore. Dopo averle sussurrato parole dolci” (da Il Fatto).  Forse i direttori (quasi tutti uomini in Italia) non controllano accuratamente quello che esce sulle testate che dirigono, o forse è preferibile tornare alla solita routine che schiaffa il mostro in prima pagina, perché quello continua a essere l’immaginario che “tira” il lettore. In realtà questo ritorno indietro risiede nel mancato cambiamento culturale che l’Italia non riesce a fare in nessun luogo, e quindi anche tra chi opera nell’informazione dove per fare un vero salto in avanti, non basta avere buone intenzioni inserendo qua e là qualche pezzo sulle donne, o mettendo qualche donna nelle redazioni (senza esagerare nei ruoli decisionali), o cavalcando il momento dato che tutti parlano di femminicidio, ma è necessario un cambiamento radicale e il riconoscimento della responsabilità che si ha quando si lavora sulla narrazione della violenza sulle donne con tutto quello che ne consegue. Un Paese, l’Italia, che nel suo complesso sceglie di non proseguire in questa battaglia di civiltà, preferendo sostenere quella cultura dello stupro in cui continua a navigare a pieno titolo. E sostenere e praticare la cultura dello stupro, significa avere una responsabilità doppia se si tratta di comunicatori della comunicazione che si rivolgono a milioni di utenti.

Semplicemente su Wikipedia si può leggere che la “Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere[1][2][3] e dalla letteratura femminista[4], per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne”. Patricia Donat e John D’Emilio definiscono la cultura dello stupro (in “Transforming a Rape Culture”) come: «un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse». Ed è proprio su questa normalizzazione interna alla cultura dello stupro che è interessante soffermarsi dato che in Italia sul femminicidio si è passati attraverso un’esagerazione forzata, e per lo più priva di competenza, a una regressione graduale, fino poi alla normalizzazione totale. Una manovra che ha un nome preciso: strumentalizzazione, che in questo caso è stata fatta sui corpi delle donne, i nostri.

Per questo, e per riflettere su quanto succede in questo momento, propongo il saggio “Femminicidio: per un’informazione che superi la rivittimizzazione mediatica”, pubblicato all’interno della rivista internazionale di studi sociologici “M@gm@” e presentato pochi giorni fa all’Università La Sapienza di Roma, in cui si sviluppa la narrazione della violenza contro le donne nei media d’informazione e il loro impatto sociale. L’ho scritto a settembre, quando ancora non immaginavo quello che sarebbe successo dopo, ed è interessante come alle porte dell’applicazione della Convezione di Istanbul sulla violenza contro le donne e la violenza domestica (che scatterà il 1° agosto), l’Italia si trovi paradossalmente più indietro rispetto a un po’ di tempo fa e che alla fine, malgrado l’interlocuzione con le istituzioni, nulla di quello che è scritto qui è stato anche lontanamente attuato.

 

FEMMINICIDIO: PER UN’INFORMAZIONE CHE SUPERI LA RIVITTIMIZZAZIONE MEDIATICA

Di Luisa Betti

 

da “Violenza maschile e femminicidio”
Vittoria Tola – Giovanna Crivelli (a cura di)
M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio – Aprile 2014

 

e da bettirossa.com

Fonte:

Femminicidio: il problema deve essere affrontato nell’ambito politico- sociale

motta visconti

Il caso di Motta Visconti ha avuto un solo lato positivo: quello di risvegliare l’attenzione sul fenomeno femminicidio. Cosa che ormai non avveniva più. I casi “ordinari”erano ormai divenuti “normali”. Un  trafiletto in cronaca nera e voilà: il caso è chiuso, è cronaca nera.

Dimenticandoci che il femminicidio non è solo questo. E‘ una emergenza nazionale che deve toccare l’ambito politico e sociale. Noi di unavoceperledonne ne siamo convinte. Non basta l’attenzione mediatica. Non bastano nemmeno le manifestazioni di piazza. Perchè  finirebbe tutto li. Il  cancan di questi giorni, tra cui anche la richiesta di mettere il lutto al braccio formulata ai giocatori della nazionale di calcio, è necessario ma non sufficiente. Non servono invece a nulla le continue dissertazioni dei colleghi sulla personalità del colpevole. Non aggiungono nulla alla crudeltà del reato se  non inutili dibattiti sulla “presunta pazzia” di chi agisce. Soprattutto nel caso di Motta Visconti dove dal primo istante si è parlato di “lucida crudeltà”.

L’odio di genere non è certo frutto di pazzia. Ma nasce dalla volontà di “eliminare l’ostacolo”. Che nel caso di Motta Visconti era la moglie e i due figli. Ora però basta cronaca. Cominciamo a chiederci come mai le cose non cambiano. Quali piani di azione erano stati sollecitati e perchè non vengono applicati.

La convenzione di Istanbul del 7 aprile 2011  parla chiaro: bisogna erogare finanziamenti per l’esistenza dei centri antiviolenza che possano prevenire l’azione omicidiaria  del marito o del compagno violento. Il 10 agosto 2013 ci aveva pensato il Governo Letta ad approvare un decreto che prevede i seguenti stanziamenti di fondi: dieci milioni per il 2013. Ma non basta: governo e Parlamento sembravano voler fare realmente sul serio, e allora è stata inserita un’ulteriore norma nella legge di stabilità 2014, attraverso cui si è incrementato il fondo di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016. Un finanziamento significativo  per far partire il “Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”.

Come riporta una inchiesta dell’Espresso  di Carmine Gazzanni quest’anno oltre ai 10 milioni  in attivo si potrebbero spendere anche 8 milioni dell’anno precedente. Le spese potrebbero essere queste: 10 milioni di euro per il già menzionato “Piano d’azione”; 7 milioni per l’assistenza e sostegno territoriale a donne vittime di violenza e ai loro figli; 300.000 euro per la stipula di convenzioni o accordi finalizzati all’aggiornamento di statistiche sulla criminalità contro le donne e all’istituzione di una banca dati sui possibili servizi offerti; e infine 700.000 euro per la prosecuzione delle attività per il contrasto alla violenza di genere e allo stalking.

Il problema è che nessuno sblocca questi fondi. Nè il premier Renzi e neppure il ministero per le pari opportunità, delega volutamente non assegnata dal premierperchè nel governo esiste già la parità di genere”. Leggi fatte ma non attuate. Il problema atavico dell’Italia. Il vero assassino di tutte le vittime di femminicidio che non vengono aiutate.

E le opposizioni parlamentari ed extraparlamentari lo ricordano al premier Renzi.  La prima a farlo è Celeste Costantino di  Sel. La quale chiede celerità di azione al presidente del Consiglio, ricordandogli l’assenza del ministero su citato. “Il “Piano di azione contro la violenza sessuale e di genere– ci ricorda la deputata – è fermo a causa di un cavillo burocratico. Il premier Renzi assegni subito la delega alle#pariopportunità e sblocchi i finanziamenti per i centri antiviolenza”.

Sulla stessa lunghezza d’onda va la riflessione di Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista:  3 donne uccise non fanno una notizia. Sui siti di oggi vi è la notizia di 3 donne uccise dai loro compagni o mariti (in un caso uccisi anche i figli) ma questi omicidi rimangono fatti di cronaca, non diventano notizie su cui aprire una riflessione. L’Italia di Renzi, quella del pensare positivo, è in realtà l’Italia che nasconde i problemi e si dimostra incapace di confrontarsi con essi. I femminicidi sono un vero e proprio massacro che prosegue, oramai, nell’indifferenza della banalità del male. Una società che non sa interrogarsi sui suoi problemi non è più degna di essere definita tale.

Per tutti questi motivi non riteniamo giusto infarcire la nostra cronaca di dettagli sullo stupratore o sull’assassino.

 

Fonte:

http://www.unavoceperledonne.it/2014/06/18/femminicidio-il-problema-deve-essere-affrontato-nellambito-politico-sociale/