Reggio Calabria, uccide la moglie con un colpo d’arma da fuoco e fugge: caccia all’uomo

Il delitto, avvenuto a Monasterace, è scaturito al culmine di una lite. La vittima aveva 4 figli. Su Facebook era iscritta a un gruppo contro la violenza sulle donne. A scoprire il cadavere la figlia di 10 anni

– Ancora una donna uccisa da un uomo. Una 31enne è ammazzata dal marito con un colpo di fucile a Monasterace (Reggio Calabria). Dopo l’omicidio, Giuseppe Pilato, 30 anni, è scappato. Il delitto è stato compiuto al culmine di una lite, l’ennesima, nella casa dove la vittima, Mary Cirillo, viveva con il marito e i figli. E’ stata la figlia di 10 anni, la più grande, a trovare il corpo. La coppia ha altri tre figli di 8, 5 e 2 anni.

 

Foto 1

Foto Facebook

La bambina non era in casa al momento del delitto, ma rientrando è stata la prima a scoprire il corpo. I carabinieri sono stati quindi chiamati da alcuni vicini della coppia che hanno segnalato una lite in famiglia, ma quando i militari sono giunti sul posto hanno trovato la donna già morta.

Su Fb in gruppo contro la violenza sulle donne – Mary Cirillo su Facebook era iscritta al gruppo “Solo donne”. Sulla pagina sono visibili, tra gli altri, alcuni post contro la violenza sulle donne.

L’ennesima lite – Secondo quanto emerso dalle prime indagini, i rapporti tra marito e moglie negli ultimi tempi si erano incrinati, tanto che pare che Pilato se ne fosse andato dall’appartamento della famiglia. Lunedì sera è andato a casa, probabilmente per incontrare la moglie. E’ nata l’ennesima discussione, tanto che alcuni vicini, sentendo gridare, hanno chiamato i carabinieri segnalando una lite in famiglia. Ma prima che i militari potessero arrivare nella palazzina in viale della Libertà, Pilato ha esploso un colpo d’arma da fuoco contro la moglie – in un primo tempo si era pensato ad un fucile, ma poi è stato accertato che si è trattato di una pistola – ed è fuggito.

Quando sul posto è arrivata l’ambulanza del 118, per la donna non c’era più niente da fare. I carabinieri della Compagnia di Roccella Ionica e del Gruppo di Locri hanno subito iniziato a sentire le testimonianze di familiari e vicini di casa, mentre gli uomini della scientifica avviavano i rilievi sulla scena del delitto.

Immediatamente sono scattate anche le ricerche dell’uomo, con posti di blocco e pattugliamenti, a cui partecipano anche le altre forze dell’ordine, e l’ausilio di un elicottero dell’Arma. Marito e moglie lavoravano entrambi in un negozio di giocattoli di proprietà della coppia, il Megatoys. Il primo gennaio del 2013 l’esercizio fu gravemente danneggiato da un incendio divampato per cause accidentali, ma dopo pochi mesi l’attività era ripartita. Mary Cirillo, come il marito, aveva un profilo facebook. Su quello del marito, invece, si può vedere una foto con quattro bambini davanti ad una torta di compleanno, probabilmente i figli.

Fonte:

http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/calabria/2014/notizia/reggio-calabria-uccide-la-moglie-con-un-colpo-di-fucile-e-fugge-caccia-all-uomo_2063472.shtml

2 pensieri su “Reggio Calabria, uccide la moglie con un colpo d’arma da fuoco e fugge: caccia all’uomo

  1. “LO STUPRO: CRIMINE CONTRO L’UMANITA’, CRIMINE DI GENERE E CONTRO L’INFANZIA”

    (intervista a cura di Gianni Sartori)

    L’anno scorso (2013) l’Alto Commissariato ha fornito dati inquietanti sugli stupri nei campi dei rifugiati somali (si parla del 60% delle donne) mentre alcune Ong denunciavano l’esercito congolese per le violenze nel nord-est della RDC (sfatando l’idea che le violenze fossero opera solo delle milizie). Situazione drammatica anche per le donne siriane, vittime sia dei soldati governativi che dei combattenti ribelli. Stando alle dichiarazioni dei medici, sono in continuo aumento quelle che arrivano negli ospedali libanesi. Ma soltanto se incinte, altrimenti lo stupro subito rimane una “vergogna” privata. Ne abbiamo parlaro con Bruna Bianchi, docente di Storia Contemporanea (Università Cà Foscari di Venezia).

    1) D. A quasi 40 anni dalla pubblicazione di Against our will di Susan Brownmiller che denunciava lo stupro come “arma repressiva” nei confronti delle donne, le cose non sembrano essere cambiate. Un suo parere…

    R. Lo stupro è onnipresente, non solo nelle situazioni citate, tanto in pace quanto in guerra. Le donne migranti che dal Messico cercano di attraversare illegalmente la frontiera con gli Stati Uniti, prima di partire prendono anticoncezionali sapendo che quasi certamente verranno violentate. Rientra nella loro condizione in quanto donne sole o comunque in una situazione di debolezza, come quelle nei campi profughi. In tutte le guerre civili contemporanee, il cui scopo è quello di distruggere un’organizzazione sociale, sradicare o annientare una comunità, gli stupri hanno raggiunto un’ampiezza e una ferocia estrema.
    Le donne, soprattutto in tempo di guerra, mantengono i legami della famiglia e della comunità e quindi occupano un posto particolare in questa logica della distruzione. Ucciderle e degradarle si è rivelata una strategia militare efficace per diffondere il terrore, costringerle alla fuga, rendere impossibile il ritorno.

    2) D. Cosa ha rappresentato, anche simbolicamente, lo stupro in situazioni di conflitto come i Balcani, il Ruanda o la Repubblica democratica del Congo?
    R.Violentare, occupare il corpo della donna significa conquistare simbolicamente un territorio (quindi lo stupro conquista, degrada, ripulisce lo spazio). Nei Balcani, negli anni ’90, tutti i gruppi etnici se ne sono resi colpevoli. L’opinione pubblica è rimasta particolarmente colpita dall’orrore dei “campi di stupro” organizzati dai serbi con lo scopo di far nascere “piccoli cetnici” da donne bosniache musulmane in base al pregiudizio che solo gli uomini possono trasmettere l’etnia. Si contava sul fatto che le donne, considerate “contaminate”, sarebbero state rifiutate dalla loro comunità e i figli abbandonati ad un destino di marginalità. In Ruanda invece molti bambini nati da stupro sono stati arruolati nell’esercito. Per queste ragioni oggi si parla di stupro come crimine contro l’umanità, crimine di genere e contro l’infanzia.
    In Congo il fattore determinante è il controllo delle risorse minerarie e quindi, ancora una volta, sfruttamento del territorio. Gli stupri esprimono volontà di terrorizzare, umiliare, imporre il senso dell’inesorabilità di un destino di sottomissione totale e renderlo manifesto attraverso l’umiliazione della donna, la sua disumanizzazione. Lo stupro inoltre rafforza lo spirito di complicità maschile, esalta il potere e l’autorità come valori inscritti nella virilità. Nella cultura dominante il corpo femminile è una risorsa da sfruttare. Pensiamo al lavoro agricolo, svolto nel mondo in gran parte dalle donne, al traffico di ragazze a scopo matrimoniale, al turismo sessuale o alla prostituzione.
    3) D. Sulla prostituzione, anche in ambito femminista, non c’è sempre pieno accordo, o sbaglio?
    R. La prostituzione è una forma estrema di sfruttamento e oppressione, un turpe mercato alimentato da povertà e discriminazione che riduce ogni anno in schiavitù sessuale 5milioni di donne, di cui un milione di bambine. Esse sono inviate per lo più nei paesi occidentali dove l’accesso a prestazioni sessuali a pagamento ha avuto una crescita esponenziale. E’ considerata una servitù irrinunciabile, socialmente accettata e coperta dai media che riducono la questione alle “donne sfruttate” da un lato e a “pochi sfruttatori” (quelli che gestiscono i traffici) dall’altro. Una parte significativa della giurisprudenza femminista considera la prostituzione come tortura in quanto l’uso del corpo delle donne a fini di piacere rientra nei “trattamenti disumani e degradanti”. Esistono poi altre correnti di pensiero femminista che invece parlano di sex work, forse pensando di sottrarre le donne alla svalorizzazione.
    4) D. A suo avviso è possibile tracciare una linea di demarcazione tra i metodi adottati dagli eserciti o dalle milizie comunque legate al potere (gruppi etnici dominanti o strumento di interessi economici) e quelli dei “movimenti di liberazione”? Ho in mente i gruppi guerriglieri latino-americani del secolo scorso o le milizie anarchiche nella guerra civile di Spagna che semplicemente fucilavano gli stupratori (soprattutto quando provenivano dai loro ranghi)?
    R. Ritengo che quando si prendono le armi sia difficile sfuggire allo spirito del militarismo. In Guatemala, ad esempio, sia l’esercito che i gruppi paramilitari e i guerriglieri che si resero colpevoli di stupro condividevano la stessa immagine della donna, simbolo della terra e oggetto di appropriazione e anche di protezione. Le donne riproducono la nazione fisicamente e simbolicamente, incarnano la moralità di una comunità, mentre gli uomini la proteggono, la difendono e la vendicano. Il corpo femminile è il luogo simbolico del territorio della nazione, sia per lo stato che per i movimenti identitari, oggetto della protezione o dell’esecrazione maschile. La concezione maschile della vergogna e dell’onore è un nodo cruciale per comprendere le dinamiche degli stupri di massa. Si pensi alla Partizione dell’India quando tra 75mila e centomila donne furono violentate e rapite e molte altre furono uccise o spinte a togliersi la vita dai propri famigliari per non essere stuprate dagli uomini dell’altro gruppo religioso.

    5) D. Esiste poi un’altra faccia della medaglia. La sua opinione sulle donne addestrate e arruolate nell’esercito afgano e presentate all’opinione pubblica come esempio di “emancipazione”?
    R. Vedo un rischio di un uso disonesto e retorico delle donne-soldato in Afghanistan non solo da parte di chi le arruola, ma anche di chi dice “in fondo ora ci sono le donne-soldato, anche le donne possono essere militariste, violente…”.
    In tutte le società l’ordine simbolico dominante è quello maschile. Pensiamo all’enfasi su concetti come autonomia, indipendenza, competizione. Tutto ciò che è legato agli affetti, al quotidiano, alla responsabilità per la vita, alla cura è svalutato. Non esiste più l’ordine simbolico della madre e il lavoro domestico e di cura delle donne è invisibile, non pagato, svalorizzato. In un certo senso le donne costituiscono una casta, destinate per nascita a un lavoro senza valore. Non vedo quindi come ci si possa stupire se alcune accolgono i valori dominanti.

    6) D. Volendo individuare i fattori economici all’origine dell’oppressione subita dalle donne, contro chi punterebbe il dito?
    R. Tra le opere che hanno dato un contributo decisivo alla conoscenza della posizione delle donne nella società antica non si può non menzionare The living goddesses dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas. Il volume dimostra che nell’Europa antica nell’arco di alcuni millenni (dal 7000 al 3000 a.c.) si erano sviluppate diverse società matrifocali nelle quali la donna, associata in quanto madre alla natura, portatrice di vita e di morte, aveva un ruolo fondamentale a livello simbolico e religioso, così come nella pratica sociale. La studiosa descrive queste culture, poi quasi completamente distrutte con le invasioni delle popolazioni indoeuropee, come pacifiche, prive di gerarchie e di forti differenze di classe. Altri studi hanno disegnato un quadro che in parte rientra nelle linee tracciate da Engels. L’egualitarismo originario e la condizione delle donne iniziarono a declinare quando esse persero la loro autonomia economica, quando il lavoro delle donne, inizialmente pubblico nel contesto delle comunità o dei villaggi, fu trasformato in un servizio privato nei confini della famiglia.

    D 7) Tale trasformazione è da considerare più un frutto della natura umana o della cultura?
    R. Come femminista rifiuto la dicotomia tra natura e cultura. Il femminismo, e in particolare l’eco-femminismo, hanno criticato il pensiero oppositivo. E’ impossibile separare la natura dalla cultura; si pensi alle prime relazioni delle donne con l’ambiente naturale. Spinte dalla volontà di nutrire e proteggere i figli, le donne svilupparono la prima vera relazione produttiva con la natura; in questo processo acquisirono una conoscenza profonda delle forze generative delle piante, degli animali, della terra e la tramandarono, ovvero crearono la società e la storia.
    8)D. Questo per la cultura. Diversa invece la posizione dell’eco-femminismo nei confronti della tecnologia, estranea se non ostile alla natura. Un atteggiamento in cui colgo alcune affinità con il pacifismo e l’ecologismo radicale; in parte anche con l’antispecismo…
    R. A partire dal dilemma ambientale contemporaneo e dalle sue connessioni con la scienza e la tecnologia, l’ecofemminismo ha ricostruito il processo di formazione di una visione del mondo e di una scienza che, riconcettualizzando la natura come una macchina anziché come organismo vivente, sanzionarono il dominio dell’uomo sulla natura e sulla donna. La percezione della natura come materia inerte si rese necessaria per eliminare ogni remora morale allo sfruttamento accelerato e indiscriminato delle risorse naturali e umane. Riducendo gli esseri viventi a macchine da studiare, su cui sperimentare, separando ragione ed emozione e stabilendo la supriorità della razionalità astratta, il pensiero scientifico dissocia l’uomo dalla donna, gli animali, la natura; femminilizza la natura e naturalizza le donne. La natura e le donne esistono per i bisogni degli uomini. Storicamente il mondo degli uomini è stato costruito in opposizione al mondo della natura e a quello delle donne. Essere uomini significa dissociarsi dal femminile e da quello che rappresenta: vulnerabilità, cura, inclusione. La mascolinità può essere raggiunta attraverso l’opposizione al mondo concreto della vita quotidiana, fuggendo dal contatto con il mondo femminile della casa verso il mondo maschile della politica o della vita pubblica. Questa esperienza di due mondi giace al cuore dei dualismi oppositivi. 9) D. E per il futuro? Vede qualche possibile alternativa allo stato di cose presente?
    R. Il futuro di una comunità veramente umana richiede che gli uomini, per preservare la loro stessa umanità e dignità, vogliano e sappiano riconoscere e far propri i valori della produzione e del sostegno della vita, cambiare il modo di pensare, di essere nel mondo e nella relazione con le donne, rifiutino la violenza. Per quanto riguarda i movimenti, al momento attuale tra femministe, pacifisti, ambientalisti, antispecisti (ma penso anche a chi si batte per i diritti dell’infanzia, contro lo sfruttamento minorile, in difesa delle minoranze, degli indigeni…) manca la connessione. Da questo punto di vista il caso del Congo – da cui eravamo partiti – appare emblematico: di fronte alla violenza sugli inermi, donne e bambini, alla distruzione delle foreste, all’estinzione degli animali, alla tragedia dei profughi non è più consentito avere sguardi parziali, occorre connetterli, sia a livello teorico che pratico.
    Gianni Sartori

  2. FRONTIERE DA VARCARE
    (Gianni Sartori)
    Tijuana come Lampedusa. Emblema della linea che separa i sommersi dai salvati, la frontiera.
    Ufficialmente circa 3000 all’anno, ma probabilmente molte di più le donne latino-americane scomparse nel nulla alla frontiera tra Messico e Stati Uniti. A Tijuana una misteriosa “industria dei video pornografici” realizza DVD con immagini di violenza sulle donne. Un’imprenditoria mafiosa che trae profitto dalla spettacolarizzazione e mercificazione della violenza. Marketing che si mescola con il sadismo. Ne ha parlato Azzurra Carpo nel suo Romanzo di frontiera (Ed. Albatros), senza concedere nulla ai particolari raccapriccianti talvolta evocati da inchieste e trasmissioni televisive.
    “Ho avuto la fortuna di crescere sulle frontiere -racconta l’autrice- ero migrante già da bambina, in Perù, in Brasile, dove i miei genitori lavoravano con la cooperazione internazionale”. Anche se, precisa “migrando dal Nord al Sud ho viaggiato con il tappetto rosso”. Accolta, non additata. Ha incontrato persone che “attraversavano le frontiere come i personaggi di questo libro, conoscevano i nomi dell’esclusione, dell’embargo, i muri e i limiti della nostra società”. In anni recenti, la giovane scrittrice ha studiato al confine tra Usa e Messico potendo “conoscere i due lati della frontiera – da El Paso a Ciudad Juarez, da San Diego a Tijuana – dove nessuno sa immaginare il futuro, ma scorre l’adrenalina della speranza”. Un aspetto affascinante, l’”ibridismo linguistico e gergale”. Il migrante apprende le parole essenziali, per poter sopravvivere e farsi riconoscere come essere umano.
    A livello globale la principale vittima resta la donna. Nei conflitti, quella contro le donne è guerra aperta e lo stupro – in Bosnia, in Congo, in Kurdistan o in Libia – viene usato come arma.
    Una strategia, denuncia l’autrice “per distruggere il cuore del nemico, degradando simbolicamente il corpo della donna”. Così nelle frontiere, dove il corpo della donna migrante è il più vulnerabile, il più esposto allo sfruttamento, al traffico clandestino, alla morte. Lungo il Muro della vergogna che separa Messico e Stati Uniti, ogni notte migliaia di donne come la protagonista Leonor “devono gettare il loro corpo al di là della barriera per poi andare a riprenderselo”. E non è scontato che possano ritrovarlo. La maggior parte dei migranti che raggiungono Tijuana proviene dall’America centrale. Sono guatemaltechi, salvadoregni, cubani. Senza documenti, cercano di racimolare il denaro necessario per pagare i trafficanti lavorando in fabbriche dalle condizioni durissime. Il trafficante (il coyote) conosce i punti in cui è possibile passare, superare muri e fili spinati. Accompagna i migranti per qualche chilometro e poi si devono arrangiare. Nel deserto, molti non sopravvivono alla disidratazione o al freddo. Altri soccombono a causa di serpenti e scorpioni.
    Per l’autrice ognuno di noi dovrebbe “aggiustare il mondo con quello che sa fare, sporcarsi le mani con allegria e umiltà perché questo sprigiona energie positive”. Uno dei protagonisti di Romanzo di frontiera, Ben, sfida l’embargo per affinare le corde dei vecchi pianoforti cubani. Perché “accordare un piano è un po’ aggiustare il mondo, aprendo fessure nelle frontiere”. Anche in quelle dell’ideologia o del razzismo.
    Gianni Sartori

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