LA CULTURA DELLO STUPRO CONDANNA ALLA PAURA LE DONNE IN BRASILE

Aggiornamenti:

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ULTIM’ORA.
Pochi minuti fa a San Paolo: polizia militare reprime manifestazione contro il golpe indetta da MTST (Movimento Lavoratori Senza Tetto) e Povo Sem Medo, che hanno pacificamente occupato l’ufficio della presidenza della Repubblica, e si appresta ad affrontare anche la concomitante manifestazione delle donne contro la violenza e la cultura dello stupro. Nelle immagini, una giovane manifestante, rea di aver chiesto informazioni sul fermo di alcuni manifestanti è stata brutalmente aggredita dai poliziotti…
fonti video: https://www.facebook.com/midiaNINJA / https://www.facebook.com/BuzzFeedBrasil/

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Pochi giorni dopo il caso di stupro collettivo di una minorenne di Rio che ha suscitato indignazione e polemiche in tutto il paese e portato in piazza decine di migliaia di donne è stata presentata ieri, 31 maggio, la nuova Segretaria per le politiche femminili del governo Temer. Si tratta di Fátima Pelaes (PMDB-AP), sociologa, evangelica, deputata federale del PMDB-AP per 20 anni, dal 1991 al 2011 e fermamente contraria alla depenalizzazione dell’aborto, anche in seguito a un caso di stupro, che, nella vigente legislazione datata 1984, costituisce invece l’unica eccezione per la pratica abortiva legale. La neo-segretaria ha affermato che non “innalza mai bandiere contrarie ai valori biblici” come, appunto, l’aborto o la costituzione di famiglie omosessuali. Sulla questione della liberalizzazione dell’aborto la Pelaes ha avuto, in realtà, opinioni differenti fino al 2002, quando ha “conosciuto Gesù” ed è passata a dire che “il diritto di vivere deve essere riconosciuto a tutti”. Nel 2010, in un suo intervento alla Camera, la Pelaes raccontò che lei stessa era stata generata a partire da un “abuso” che sua madre aveva subito mentre si trovava detenuta per un “crimine passionale”.
“Per questo oggi sono qui a dirvi che la vita comincia nel momento del concepimento”, affermò, riferendosi al fatto che se sua madre avesse abortito non si sarebbe trovata lì in quel momento. Riguardo all’aver mutato di opinione nel merito, ha affermato di essere stata “curata”.
fonte: http://brasil.estadao.com.br/…/geral,nova-secretaria-de-mul…

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26.05.16

La cultura dello stupro che condanna alla paura le donne in Brasile

 

Secondo una ricerca dell’istituto di statstica Datafolha, il 90% delle Brasiliane dicono di temere di essere violentate. Sui social network, le reazioni al caso dell’adolescente carioca ripropongono meccanismi di colpevolizzazione della la vittima

di Camila Moraes, pubblicato su El Pais il 26.05.16

Disegno di Ribs

La ragazza carioca le cui immagini di violenza sessuale sono state condivise su Internet ha ricevuto solidarietà sui social network, ma non solo. Molti suoi falsi profili sono stati creati, con post che risaltavano il suo presunto “cattivo comportamento”, circostanze e attenuanti che avrebbero reso quasi inevitabile il tragico esito. Mentre ancora sono in corso le indagini sull’accaduto, gli esperti avvertono che la pratica non è isolata. Fa parte della cultura dello stupro che fa si che le donne aggredite si sentano colpevoli e non rinuncino a denunciare i crimini, contribuendo così all’impunità dei responsabili delle violenze.

Il problema non è di poco conto, perché, secondo il Forum Brasiliano di Sicurezza pubblica è uno dei fattori dell’elevato tasso di sottostima dei casi di stupro. L’organizzazione stima che solo il 30% – 35% dei casi siano registrati. Contando solo gli episodi denunciati, in Brasile un caso di stupro avviene ogni 11 minuti. Secondo i risultati di una ricerca che il Forum ha realizzato lo scorso anno, in collaborazione con l’Istituto di Statistica Datafolha, il 90% delle donne e il 42% degli uomini hanno detto di temere una violenza sessuale. A Rio de Janeiro – dove ora si sta indagando sul caso della ragazza di 16 anni grazie al fatto che è stato condiviso sui social network – circa 4.000 casi si sono verificati lo scorso anno, e quasi la metà di essi hanno coinvolto ragazze minori di 13 anni, secondo un studio della Segreteria di Sicurezza dello Stato, il “Dossier Donna”.

Il termine cultura dello stupro” deriva da “rap culture” ed è stato coniato dalle femministe degli Stati Uniti negli anni ’70.  In essa è inclusa la colpevolizzazione delle vittime da parte della società – donne che “se la sono andata a cercare”, indossando abiti corti e scollati, frequentando cattive compagnie e consumando bevande alcoliche in feste alle quali non avrebbero dovuto partecipare se fossero “brave ragazze di famiglia”.

È presente nelle leggi, nel linguaggio, in immagini commerciali ed in una serie di fenomeni. Ha scritto, per esempio, il cantante Lobão (ndt. noto per le sue posizioni reazionarie) sul proprio profilo di Twitter: “Non c’è da sorprendersi con questi sfortunati casi di stupro. In un paese che fabbrica “miniputas” (mini-puttane), con una ricca sessualizzazione precoce e con una grave infantilizzazione della popolazione, riducendo le responsabilità”.

Al quotidiano Globo, la difensore pubblico Arlanza Rebello ha osservato, citando Jair Bolsonaro, che persino i politici brasiliani riproducono il discorso secondo cui molte donne hanno chiesto di essere violentate:  “È un contesto molto grave di conservatorismo e banalizzazione”.

Il presidente dell’Associazione brasiliana di Neurologia e Psichiatria Infantile a Rio de Janeiro, ha detto al giornale che “i ragazzi finiscono per commettere il reato sapendo che gli altri lo hanno praticato impunemente, per una questione di autoaffermazione.”

E la sociologa Andréia Soares Pinto, coordinatrice del Dossier Donne, ha fatto appello alla società durante l’intervista rilasciata al canale GloboNews: “Abbiamo bisogno di incoraggiare le donne a ridurre la sottostima dei casi di stupro. Questi numeri ci aiutano a fare pressione e ci permettono di far avanzare politiche pubbliche per combattere il problema.”

Almeno altri due casi di stupri di gruppo hanno avuto luogo nella stessa settimana – con ripercussione sulla stampa – in altri luoghi del paese.

A Bom Jesus, un piccolo paese nell’interno dello stato del Piauí, una giovane di 17 anni è stata violentata il 20 maggio da cinque individui (solo uno dei quali maggiorenne) che, secondo le indagini, lei conosceva. Come nel caso della ragazza di Rio, la polizia ritiene che sia stata drogata con una sostanza immessa nella sua bevanda alcolica prima di subire la violenza da parte di persone a lei vicine. Lo stesso giorno, in una scuola statale a sud di San Paolo, una ragazza di 12 anni è stata violentata da tre adolescenti, studenti dello stesso istituto, che l’hanno chiusa in bagno e quindi violentata. Secondo la madre, la ragazza sarebbe stata sottoposta ad una profilassi anti-AIDS ed è ancora traumatizzata.

Lo stupro nella legislazione brasiliana

Nel 2009, la legge 12.015 del codice penale brasiliano è stata modificata ed è passata a considerare, oltre al rapporto sessuale, gli atti di libidine come reato di stupro. Circoscrivere un reato di  stupro è un processo spesso umiliante per le donne. Nel 2015, la Commissione di Costituzione e Giustizia e Cittadinanza della Camera dei Deputati ha approvato un disegno di legge che rende molto più difficile l’accesso alle cure mediche per le vittime di stupro. Il PL 5069 del 2013, prevede che, per essere assistite, le vittime di stupro dovranno passare prima da una stazione di polizia. Poi, dovrebbero sottoporsi ad un esame del corpo del delitto per poi, e solo allora, potersi recare in ospedale con i documenti necessari a comprovare che effettivamente sono state stuprate. Per essere ratificato, il progetto dovrà ancora essere votato dall’assemlea plenaria della Camera. Contro questa realtà, le donne brasiliane sono scese in piazza lo scorso anno, in numerosissime manifestazioni di protesta in tutto il paese, momenti di lotta che sono diventati noti come la Primavera Femminista.

Fonte:

http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews#!la-cultura-dello-stupro-che-condanna-all/c1a0w

Femminicidio, dieci donne che non possiamo dimenticare

di MICHELA MURGIA
ore 10.34 del 3 febbraio 2016

È QUESTIONE di concentrazione: di certe cose non ci occupiamo fino a quando non si verificano tutte insieme in modo tale che diventa impossibile ignorarle. Così tre donne massacrate per mano dei loro compagni in appena due giorni hanno riacceso il faro dell’attenzione pubblica sul tema del femminicidio. Si chiamano Marinella, Carla e Luana, ma è facile appropriarsi di un nome per rendere le persone personaggi e dire che quelle storie erano le loro e non la nostra.

Ciascuna di queste donne va immaginata con il nome che diamo a noi stesse. A Catania il primo febbraio una è morta per mano del marito, che l’ha strangolata davanti al figlio di 4 anni. Lo stesso giorno a Pozzuoli una di loro, incinta al nono mese, è stata ridotta in fin di vita dal compagno che le ha dato fuoco. Ieri un’altra è morta quasi decapitata dal marito, poi fuggito contromano in autostrada. Fanno scalpore, eppure non sono le prime notizie dell’anno sulla violenza alle donne. Il 2016 era cominciato da appena due giorni quando i carabinieri hanno scoperto a Ragusa una donna segregata in casa dal suo convivente, che da due anni a suon di botte le impediva di andarsene. Lo stesso giorno ad Ancona una donna veniva picchiata da quello che era stato il suo fidanzato, prima che lo lasciasse per le violenze. Il 3 di gennaio una donna di Città di Castello è stata uccisa da suo figlio con dieci coltellate, e il 5 a Torino una’altra è quasi morta per le violenze inflittele dal marito, che l’ha più volte colpita in testa con un bicchiere prima che un vicino chiamasse la polizia. Il 9 gennaio a Firenze una donna è morta strangolata da un uomo che prima c’era andato a letto e poi l’ha uccisa per derubarla. Strangolata è morta anche la donna che il 12 di gennaio è stata trovata nel suo letto, ammazzata dall’uomo che frequentava. Il 15 e il 16 di gennaio due nonne sono stata uccise dai rispettivi nipoti: una è stata massacrata a Mestre con una sega elettrica, l’altra a Sassari con un vaso di cristallo. Il 27 gennaio a Cetraro una donna è stata uccisa per strada dal suo ex cognato, che le dava la colpa della fine del proprio matrimonio. Il 30 gennaio una donna è stata ferita gravemente dal marito, che prima di aggredire lei con un coltello aveva ucciso i loro figli di 8 e 13 anni.

In questo elenco non ci sono le decine di violenze, i maltrattamenti, le riduzioni della libertà e i tentati omicidi in ambito familiare le cui eco spesso non ci arrivano neppure. Sappiamo però che erano tutte a carico di donne che vivevano accanto a noi, in questa strana Italia ancora divisa tra voglia d’Europa e Family Day, ma incapace di riconoscere che c’è qualcosa di sbagliato e distruttivo nel modo in cui impostiamo i rapporti di relazione che chiamiamo “famiglia”. Che sia tradizionale o arcobaleno, che lo stato la riconosca o meno, quel sistema di legami e la sua faccia oscura ci riguardano tutti e tutte, allo stesso modo. Finché non affronteremo il nodo del potere nascosto in quello che chiamiamo amore, il Paese che ammazza le donne non sarà un buon posto per nessuno.

(Michela Murgia è scrittrice, il suo ultimo romanzo è Chirù, per Einaudi)

 

Fonte:

http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/cronaca/2016/02/03/news/dieci_donne_che_non_possiamo_dimenticare-132596537/?ref=fbpr

Salerno. Torturata, violentata, minacciata dal marito carabiniere: condannato

di Viviana De Vita Torturata, violentata, minacciata con una pistola puntata al volto per oltre 12 anni dal proprio consorte. La sua vita matrimoniale fatta di calci, pugni e vessazioni, la 41enne di Capaccio, la racconta all’indomani della nuova sentenza di condanna inferta all’ex coniuge, un carabiniere tuttora in servizio presso una stazione della nostra provincia, al fine di spingere tutte le donne vittime di violenza ad avere il coraggio di denunciare.

Testimonianza-choc resa dalla donna, parte civile attraverso l’avvocato Giuliana Scarpetta, soprattutto alla luce del verdetto che arriva troppo tardi e che, pur confermando la responsabilità penale del militare, già condannato in primo grado a 7 anni di reclusione, lo salva attraverso il meccanismo della prescrizione. L’uomo, originario del Cilento, non sconterà la pena ma la Corte d’appello del tribunale di Roma, ha confermato le statuizioni civili in 50mila euro di danno oltre al pagamento delle spese processuali. La condanna si aggiunge a quella già inflitta alcuni anni fa quando il militare fu condannato a 4 anni di reclusione per il reato di maltrattamenti in famiglia.

Il procedimento è infatti una costola dell’altro e si riferisce esclusivamente alle violenze sessuali inferte dall’imputato alla sua consorte. «Mi massacrava di botte – racconta la moglie – mi picchiava per ogni nonnulla costringendomi a girare con lividi addosso, arriva a minacciarmi anche con la pistola, mi pestava in ogni parte del corpo tranne sul volto perché lì sarebbe stato troppo evidente e mi stuprava. Dopo mi mettevo in un angolo, al buio, per ore finché lui non si tranquillizzava e facevo fare così anche alle mie due bambine. Una notte ci costrinse a dormire in cantina e potemmo rientrare a casa solo dopo averlo supplicato.

Molte donne continuano a subire perché si vergognano di denunciare il loro calvario: io ho trovato la forza di trascinare il mio ex in tribunale solo grazie al mio avvocato Giuliana Scarpetta che mi ha “presa per mano” facendomi capire che la giustizia esiste ed è uguale per tutti». I fatti si riferiscono al periodo compreso tra il 1991 e il 2003: 12 lunghissimi anni nel corso dei quali il carabiniere avrebbe sottoposto la moglie a una serie infinita di violenze e vessazioni che, seppure in misura lievemente minore, non avrebbero risparmiato neppure le figliolette.

«Adesso chiederemo all’Arma di togliergli la divisa». Indossa ancora la divisa il carabiniere salernitano condannato a 7 anni di reclusione per violenza sessuale ai danni dell’ex moglie. «Nonostante il tribunale di Rieti, che diede la condanna di primo grado, abbia inviato la notizia di reato alla caserma dove attualmente è in sevizio il militare, lo stesso continua a svolgere le proprie mansioni», afferma l’avvocato Giuliana Scarpetta parte civile nei procedimenti intentati contro il militare. «Nostro intento – conclude la penalista – è quello di rivolgerci al comando generale dell’Arma dei carabinieri». Sono infatti svariati i procedimenti penali a carico del militare: dalla denuncia dell’ex consorte sono partite le indagini che hanno cristallizzato le accuse.

 

 

Fonte:

http://m.ilmattino.it/SALERNO/ilmattino/notizie/1574187.shtml#

A Perugia tenta femmicidio: i giornali parlano ancora di passione o follia

07 luglio @ 15.39

Luisa Betti

A Perugia tenta femmicidio: i giornali parlano ancora di passione o folliaRilevamenti sul luogo del tentato femmicidio nei pressi di Perugia

Ieri in Umbria un uomo cerca di uccidere la ex colpendo anche il figlio di tre anni e un’amica, e la stampa continua a usare i motivi passionali o la malattia mentale

 

È di ieri la notizia che vicino Perugia, a Ponte Valleceppi, un uomo ha sparato in strada alla ex convivente, colpendo anche il figlio di tre anni e un’amica della donna, per poi tentare il suicidio. Sul fatto ieri non c’erano particolari ma i giornali davano la notizia riprendendola dalle agenzie. Eppure, anche in uno scarno pezzo di 10 righe, numerose testate usano ancora la fatidica frase “motivi passionali” alla ricerca del movente, e non giornali o agenzie qualsiasi: Repubblica, l’AnsaTgcom24. Mentre oggi LaNazione titola: “Perugia, mattinata di follia: spara alla ex, al figlio e a un’amica di lei, poi a sé stesso, quattro gravissimi”, Repubblica continua a usare “i motivi passionali”, e il Corriere della sera considera lo stalking – a cui era probabilmente sottoposta la donna – a “screzi” e riporta tra virgolette che la ex compagna (ora in gravi condizioni in ospedale e quindi non in grado di rilasciare dichiarazioni), considerava l’uomo che ha tentato di uccidere lei e suo figlio: “un padre esemplare”. Oggi si apprende anche che l’uomo di 32 anni – che in queste ore è clinicamente deceduto – non aveva accettato la separazione avvenuta da settembre dell’anno scorso e probabilmente perseguitasse la donna (24 anni) per ricominicare la relazione e anche in relazione al mantenimento del figlio di tre anni, che in queste ore combatte tra la vita e la morte all’ospedale Mayer di Firenze. Malgrado non ci siano denunce a carico dell’uomo (come spesso succede in Italia), in base agli elementi che già sono pubblici si deduce con facilità come non c’entrino né la passione né la follia né altro. E sembra di sentire quasi una vocina che sussurra: non abbiamo imparato niente, abbiamo scherzato quando parlavamo di femmicidio e femminicidio, e in realtà tutto sta tornando come prima. Anzi, direi che è già tornato perché la grande tentazione del comodo e agevole stereotipo comune a tutti, prende il sopravvento. Facendo zapping alla tv o sfogliando i giornali, possiamo trovare chi si concentra per capire il perché i peli trovati nel caso di Yara Gambirasio non siano quelli di Bosetti – unico indiziato – e chi invece continua a cercare i torbidi risvolti del caso Motta-Visconti: manca solo il plastico di Vespa a grandezza naturale con tanto di cadaveri, ferite e macchie di sangue, e il capolavoro è fatto. Lo stauts quo sul femminicidio quindi sembra ristabilito con una mossa gattopardiana in grande stile: il movimento che aveva portato avanti questa battaglia si è fortemente indebolito (anche per le solite inutili beghe interne); i media ne hanno parlato così tanto e troppo spesso in maniera inadeguata da risultare controproducenti; e il governo Renzi ha deciso di dare il colpo finale, rottamando il lavoro svolto (anche se male e per metà) dal precedente governo sul contrasto alla violenza sulle donne, non solo non nominando né una ministra delle pari opportunità né dandone delega, ma decidendo di lasciare carta bianca alle Regioni e consegnando loro la distribuzione del finanziamento stabilito per legge di 17 milioni di euro in due anni, sulla base di una mappatura non reale e con criteri illeggibili per i bandi, e in sostanza decretando la fine dei centri antiviolenza indipendenti, che avranno la modica cifra di 6.000 euro ciascuno.

Che responsabilità ha l’informazione in questo enorme passo indietro? Come se fosse sordo o affetto di una forma di amnesia, il giornalismo italiano – a parte alcune eccezioni – ha ripreso con grande disinvoltura a descrivere i casi di femmicidio e femminicidio come se fossero un romanzo d’appendice, una fiction a puntate tra horror e sadomaso, un po’ erotico e un po’ splatter. Senza sapere che non serve informare su leggi, manifestazioni, firme raccolte, premi e sfilate contro la violenza sulle donne, se poi i casi vengono presentati in maniera morbosa e accattivante, una storiella su cui avventurarsi in inutili descrizioni come: “Sette coltellate a gola e corpo. Dopo aver fatto l’amore. Dopo averle sussurrato parole dolci” (da Il Fatto).  Forse i direttori (quasi tutti uomini in Italia) non controllano accuratamente quello che esce sulle testate che dirigono, o forse è preferibile tornare alla solita routine che schiaffa il mostro in prima pagina, perché quello continua a essere l’immaginario che “tira” il lettore. In realtà questo ritorno indietro risiede nel mancato cambiamento culturale che l’Italia non riesce a fare in nessun luogo, e quindi anche tra chi opera nell’informazione dove per fare un vero salto in avanti, non basta avere buone intenzioni inserendo qua e là qualche pezzo sulle donne, o mettendo qualche donna nelle redazioni (senza esagerare nei ruoli decisionali), o cavalcando il momento dato che tutti parlano di femminicidio, ma è necessario un cambiamento radicale e il riconoscimento della responsabilità che si ha quando si lavora sulla narrazione della violenza sulle donne con tutto quello che ne consegue. Un Paese, l’Italia, che nel suo complesso sceglie di non proseguire in questa battaglia di civiltà, preferendo sostenere quella cultura dello stupro in cui continua a navigare a pieno titolo. E sostenere e praticare la cultura dello stupro, significa avere una responsabilità doppia se si tratta di comunicatori della comunicazione che si rivolgono a milioni di utenti.

Semplicemente su Wikipedia si può leggere che la “Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere[1][2][3] e dalla letteratura femminista[4], per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne”. Patricia Donat e John D’Emilio definiscono la cultura dello stupro (in “Transforming a Rape Culture”) come: «un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse». Ed è proprio su questa normalizzazione interna alla cultura dello stupro che è interessante soffermarsi dato che in Italia sul femminicidio si è passati attraverso un’esagerazione forzata, e per lo più priva di competenza, a una regressione graduale, fino poi alla normalizzazione totale. Una manovra che ha un nome preciso: strumentalizzazione, che in questo caso è stata fatta sui corpi delle donne, i nostri.

Per questo, e per riflettere su quanto succede in questo momento, propongo il saggio “Femminicidio: per un’informazione che superi la rivittimizzazione mediatica”, pubblicato all’interno della rivista internazionale di studi sociologici “M@gm@” e presentato pochi giorni fa all’Università La Sapienza di Roma, in cui si sviluppa la narrazione della violenza contro le donne nei media d’informazione e il loro impatto sociale. L’ho scritto a settembre, quando ancora non immaginavo quello che sarebbe successo dopo, ed è interessante come alle porte dell’applicazione della Convezione di Istanbul sulla violenza contro le donne e la violenza domestica (che scatterà il 1° agosto), l’Italia si trovi paradossalmente più indietro rispetto a un po’ di tempo fa e che alla fine, malgrado l’interlocuzione con le istituzioni, nulla di quello che è scritto qui è stato anche lontanamente attuato.

 

FEMMINICIDIO: PER UN’INFORMAZIONE CHE SUPERI LA RIVITTIMIZZAZIONE MEDIATICA

Di Luisa Betti

 

da “Violenza maschile e femminicidio”
Vittoria Tola – Giovanna Crivelli (a cura di)
M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio – Aprile 2014

 

e da bettirossa.com

Fonte:

Femminicidio: il problema deve essere affrontato nell’ambito politico- sociale

motta visconti

Il caso di Motta Visconti ha avuto un solo lato positivo: quello di risvegliare l’attenzione sul fenomeno femminicidio. Cosa che ormai non avveniva più. I casi “ordinari”erano ormai divenuti “normali”. Un  trafiletto in cronaca nera e voilà: il caso è chiuso, è cronaca nera.

Dimenticandoci che il femminicidio non è solo questo. E‘ una emergenza nazionale che deve toccare l’ambito politico e sociale. Noi di unavoceperledonne ne siamo convinte. Non basta l’attenzione mediatica. Non bastano nemmeno le manifestazioni di piazza. Perchè  finirebbe tutto li. Il  cancan di questi giorni, tra cui anche la richiesta di mettere il lutto al braccio formulata ai giocatori della nazionale di calcio, è necessario ma non sufficiente. Non servono invece a nulla le continue dissertazioni dei colleghi sulla personalità del colpevole. Non aggiungono nulla alla crudeltà del reato se  non inutili dibattiti sulla “presunta pazzia” di chi agisce. Soprattutto nel caso di Motta Visconti dove dal primo istante si è parlato di “lucida crudeltà”.

L’odio di genere non è certo frutto di pazzia. Ma nasce dalla volontà di “eliminare l’ostacolo”. Che nel caso di Motta Visconti era la moglie e i due figli. Ora però basta cronaca. Cominciamo a chiederci come mai le cose non cambiano. Quali piani di azione erano stati sollecitati e perchè non vengono applicati.

La convenzione di Istanbul del 7 aprile 2011  parla chiaro: bisogna erogare finanziamenti per l’esistenza dei centri antiviolenza che possano prevenire l’azione omicidiaria  del marito o del compagno violento. Il 10 agosto 2013 ci aveva pensato il Governo Letta ad approvare un decreto che prevede i seguenti stanziamenti di fondi: dieci milioni per il 2013. Ma non basta: governo e Parlamento sembravano voler fare realmente sul serio, e allora è stata inserita un’ulteriore norma nella legge di stabilità 2014, attraverso cui si è incrementato il fondo di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016. Un finanziamento significativo  per far partire il “Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”.

Come riporta una inchiesta dell’Espresso  di Carmine Gazzanni quest’anno oltre ai 10 milioni  in attivo si potrebbero spendere anche 8 milioni dell’anno precedente. Le spese potrebbero essere queste: 10 milioni di euro per il già menzionato “Piano d’azione”; 7 milioni per l’assistenza e sostegno territoriale a donne vittime di violenza e ai loro figli; 300.000 euro per la stipula di convenzioni o accordi finalizzati all’aggiornamento di statistiche sulla criminalità contro le donne e all’istituzione di una banca dati sui possibili servizi offerti; e infine 700.000 euro per la prosecuzione delle attività per il contrasto alla violenza di genere e allo stalking.

Il problema è che nessuno sblocca questi fondi. Nè il premier Renzi e neppure il ministero per le pari opportunità, delega volutamente non assegnata dal premierperchè nel governo esiste già la parità di genere”. Leggi fatte ma non attuate. Il problema atavico dell’Italia. Il vero assassino di tutte le vittime di femminicidio che non vengono aiutate.

E le opposizioni parlamentari ed extraparlamentari lo ricordano al premier Renzi.  La prima a farlo è Celeste Costantino di  Sel. La quale chiede celerità di azione al presidente del Consiglio, ricordandogli l’assenza del ministero su citato. “Il “Piano di azione contro la violenza sessuale e di genere– ci ricorda la deputata – è fermo a causa di un cavillo burocratico. Il premier Renzi assegni subito la delega alle#pariopportunità e sblocchi i finanziamenti per i centri antiviolenza”.

Sulla stessa lunghezza d’onda va la riflessione di Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista:  3 donne uccise non fanno una notizia. Sui siti di oggi vi è la notizia di 3 donne uccise dai loro compagni o mariti (in un caso uccisi anche i figli) ma questi omicidi rimangono fatti di cronaca, non diventano notizie su cui aprire una riflessione. L’Italia di Renzi, quella del pensare positivo, è in realtà l’Italia che nasconde i problemi e si dimostra incapace di confrontarsi con essi. I femminicidi sono un vero e proprio massacro che prosegue, oramai, nell’indifferenza della banalità del male. Una società che non sa interrogarsi sui suoi problemi non è più degna di essere definita tale.

Per tutti questi motivi non riteniamo giusto infarcire la nostra cronaca di dettagli sullo stupratore o sull’assassino.

 

Fonte:

http://www.unavoceperledonne.it/2014/06/18/femminicidio-il-problema-deve-essere-affrontato-nellambito-politico-sociale/