Riccardo, pestato a morte per due petardi

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Per la Cassazione si è trattato di un omicidio «pacificamente evitabile». Nel gergo grigio e gelido delle sentenze vuol dire che sarebbe bastato molto poco perché le cose andassero diversamente. Riccardo Rasman aveva 34 anni quando entrarono a prenderlo, la sera del 27 ottobre 2006, nel suo appartamento di via Grego 18, a Trieste. I vicini avevano chiamato il 113 perché lui stava ascoltando la musica a volume troppo alto e poi si era affacciato – completamente nudo – dal balcone per lanciare due petardi nella corte interna al condominio in cui viveva.

Riccardo durante il servizio militare aveva subito diversi episodi di nonnismo che, successivamente, avrebbero portato a una diagnosi di schizofrenia paranoide. Quella sera era felice, molto felice, troppo felice, almeno per i suoi vicini di casa, ai quali non è mai piaciuto: il giorno successivo, comunque, Rasman avrebbe cominciato a lavorare come operatore ecologico. Alle 20:21 arrivò una pattuglia del 113 sotto casa sua, alle 20:34 ne arrivò un’altra di rinforzo, accompagnata dai vigili del fuoco. Rasman non voleva aprire: si era steso sul letto e aveva spento le luci. C’è da capirlo: nel 1999 Riccardo aveva già avuto a che fare con le forze dell’ordine, ne era uscito malconcio e lo denunciò, senza grosse conseguenze. Da allora, ogni volta che vedeva una divisa, aveva paura. Per questo si era rintanato e aveva spento tutte le luci e si era rintanato a letto quando aveva visto le luci blu delle volanti dalla sua finestra.

Alla fine i poliziotti riuscirono a entrare a casa sua, ne nacque una colluttazione e Rasman venne ammanettato a terra, immobilizzato, con le manette strette intorno ai polsi, del filo di ferro a tenere ferme le caviglie, addirittura un bavaglio per non farlo urlare. Messo così, in posizione prona, cominciò a respirare in maniera sempre più affannosa, fino a che i suoi polmoni non si sono fermati: le perizie dicono che gli agenti esercitarono «sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie».

Morte per arresto respiratorio avvenuta tra le 20:43 e le 21:04, si leggerà dopo nei referti. Sul tavolo c’era un biglietto, scritto proprio da lui, un attimo prima dell’arrivo della polizia: «Per favore, per cortesia, vi prego, non fatemi del male, non ho fatto niente di male». Sul muro c’erano macchie di sangue: Riccardo era stato pure picchiato, probabilmente con un manico d’ascia e con il piede di porco che i pompieri usarono per forzare la porta del suo appartamento. «Noi siamo entrati in quell’appartamento soltanto in marzo – racconta Giuliana Rasman, sua sorella -, era un disastro: c’era sangue dappertutto e una chiazza di sangue verso la cucina.

Poi dalle fotografie mi sono resa conto che l’hanno spostato con la testa verso l’entrata così da nascondere la chiazza di sangue che c’era lì. C’era una frattura, i capelli erano tutti pieni di sangue, c’era una frattura anche dietro il collo. C’era sangue sul tavolo, sui muri, sulle lenzuola, dietro il letto per terra, c’erano chiazze di sangue sul tappeto sotto il quale abbiamo trovato persino dei pezzi di carne nascosti. Riccardo era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo.

Poi c’era il segno dell’imbavagliamento, sangue dalle orecchie, dal naso, dalla bocca, si vede proprio moto bene». Il pm triestino Pietro Montone aprì un’inchiesta su questi fatti e – incredibilmente ma fino a un certo punto, visto che è sempre così – affidò tutto agli stessi poliziotti che quella notte irruppero in casa di Riccardo. Nell’ottobre del 2007 Montone chiese l’archiviazione per gli agenti che, a suo giudizio, avevano solo fatto il suo dovere, anche se era certo anche a lui che Rasman fosse morto per «asfissia posturale» dovuta proprio all’intervento della forza di pubblica sicurezza.

Il gip, però, non accolse la richiesta del magistrato che, dopo essere entrato a conoscenza delle indagini fatte dagli avvocati Giovanni Di Lullo e Fabio Anselmo, cambiò decisamente orientamento sul caso. Il fulcro del ragionamento è la prova provata del fatto che gli agenti Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe Di Blasi erano perfettamente consapevoli dei problemi mentali di Riccardo e questo avrebbe – quantomeno – dovuto indurli a usare una maggiore cautela nell’intervento.

Tra l’altro, fu posta anche una domanda fondamentale: che necessità c’era di sfondare la porta quando era palese che Rasman non stesse più causando pericoli, visto che era dentro il suo letto e non stava più lanciando petardi dal balcone?

I quattro uomini in divisa vennero rinviati a giudizio per omicidio colposo.
Il processo di primo grado fu celebrato con rito abbreviato e si concluse con la condanna a sei mesi di carcere (pena sospesa) per tre dei quattro agenti, più il pagamento di una provvisionale da 60mila euro e 20mila euro di risarcimento per danni morali alla famiglia. La quarta agente, Francesca Gatti, fu assolta con «formula dubitativa», ovvero: lei all’azione ha partecipato, e questo è certo, ma, mentre gli altri stavano legando Riccardo per terra, era in contatto via radio con la Questura. Era il 29 gennaio del 2009. Un anno e mezzo dopo la Corte d’Appello del Tribunale di Trieste avrebbe confermato tutte le sentenze del primo grado. Tutte le parti in causa – i poliziotti e la famiglia Rasman – presentarono ricorso alla Cassazione. La sentenza definitiva è arrivata il 14 dicembre del 2011: conferma della sentenza d’Appello e epitaffio: la morte di Rasman «era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l’attività di violenta contestazione a terra, consentendogli di respirare».

Quello stesso giorno, i familiari di Riccardo chiesero formalmente le scuse da parte del ministero degli Interni (mai arrivate) e annunciarono la propria intenzione di procedere anche in via civile contro i poliziotti e lo stesso Viminale. Da alcune foto, uscite fuori quando ormai era tardi per il processo, si vedono segni anche dagli angoli della bocca fino alle orecchie di Rasman: ci vorranno altre perizie per chiarire se è vero che l’asfissia non è arrivata solo per lo schiacciamento sotto il peso degli agenti, ma anche per il soffocamento dovuto al bavaglio. Sembra un dettaglio, ma la causa civile di risarcimento si gioca tutta qui. Del caso se ne tornerà a parlare presto: nell’aprile del 2013, infatti, la procura di Trieste ha nuovamente chiesto l’archiviazione del caso.

L’avvocato Claudio De Filippi, che adesso segue la vicenda per conto della famiglia della vittima, ha detto che, a suo parere, tutto questo «si colloca tra il caso Sandri, per il quale lo Stato ha pagato tre milioni e mezzo, e il caso Aldrovandi, per il quale ha pagato due milioni di euro».

Resta, in mezzo a quel complesso e lunghissimo caos di carte e di cavilli che è la giustizia civile, la storia di un ragazzo che è morto per poco, praticamente per niente. E che tutto voleva fuorché dare fastidio: «Riccardo non ha mai fatto un Tso – conclude la sorella Giuliana -, non era violento né aggressivo, voleva farsi ben volere da tutti, anche per dimostrare questo abbiamo messo nel nostro dossier testimoni che descrivono come era Riccardo. In 3 anni che aveva quel monolocale non ci avrà dormito neanche cinque volte, anche il padre conferma che Riccardo andava lì qualche volta per farsi sentire e faceva andare la lavatrice, allora la vicina cominciava a battere la porta e Riccardo per farsi ben volere le portava la verdura della nostra campagna e le scrisse una lettera per favorire il buon vicinato».

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2015/01/02/riccardo-pestato-a-morte-per-due-petardi/

 

Le foto strazianti di Riccardo Magherini vittima di malapolizia

bastaomicidi

Di nuovo le foto di un corpo straziato sbattute sulla grande rete, sulle pagine dei giornali, ad affiorare dai tablet dei pendolari, sugli schermi dei tg di prima serata. La decisione estrema di una famiglia di fronte all’atroce incredulità di chi dovrebbe indagare sulle ragioni di quella morte. Come furono costrette a fare Ilaria Cucchi, Patrizia Adrovandi, Lucia Uva, e altre donne, oggi è Andrea Magherini, fratello di Riccardo, a mostrare le immagini dell’ex calciatore morto il 3 marzo a Borgo San Frediano, a Firenze, dopo essere stato bloccato dai carabinieri in seguito a una crisi di panico, secondo la procura provocata dall’assunzione di cocaina. Secondo alcune testimonianze, due dei quattro carabinieri intervenuti avrebbero dato dei calci a Magherini mentre era a terra, ammanettato a faccia in giù, con le braccia dietro la schiena e a torso nudo. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato in una conferenza con Luigi Manconi e Fabio Anselmo, appena nominato legale della famiglia. Sono le immagini e le voci di un fermo violento in una strada di Firenze. La vittima che grida ripetutamente aiuto. I carabinieri su di lui, le manette ai polsi, l’ambulanza senza un medico.

 

 

 

Riccardo Magherini, è morto il 3 marzo a Borgo San Frediano, a Firenze, dopo essere stato bloccato dai carabinieri in seguito a una crisi di panico, secondo la procura provocata dall’assunzione di cocaina. Secondo alcune testimonianze, due dei quattro carabinieri intervenuti avrebbero dato dei calci a Magherini mentre era a terra, ammanettato a faccia in giù, con le braccia dietro la schiena e a torso nudo. I video e le foto, anche stavolta, lascerebbero poco spazio all’immaginazione. I segni e i rumori del trattamento riservato dai carabinieri a una persona che chiedeva aiuto. Oggi pomeriggio, giovedì 24, in una sala del Senato, verranno mostrate alla stampa da Luigi Manconi, Fabio Anselmo e da Andrea Magherini, fratello della vittima. Le immagini e le voci di un fermo violento in una strada di Firenze. La vittima che grida ripetutamente aiuto. I carabinieri su di lui, le manette ai polsi, l’ambulanza senza un medico.

 

«Ho visto che lo picchiavano mentre era a terra, già immobilizzato, che gli arrivavano i calci al fianco. E lui gridava… – racconta Sara, una ragazza che lavora in zona e quella notte stava tornando a casa – Riccardo quella sera era una persona sconvolta, quando i carabinieri sono arrivati gli hanno detto”stai calmo”e poi hanno iniziato a cercare di immobilizzarlo. Durante tutta l’operazione, che è stata molto difficoltosa, non gli hanno più rivolto parola, neanche quando era ormai a terra ammanettato, non hanno provato a chiedergli cosa fosse accaduto, da chi scappava, a stabilire un rapporto per calmarlo. Ma chi va in giro la notte sulle gazzelle e sulle volanti?! Queste persone sono in grado di riconoscere attacchi di panico, fobie, o altri sintomi? Sono formate per fare un lavoro di strada che inevitabilmente ti porta a contatto con tutta una serie di problematiche? Magherini aveva tutti i sensi allertati, gli occhi enormi, la bava alla bocca… anche un bambino se ne sarebbe accorto che non era un aggressore, era un fuggiasco che chiedeva aiuto. E’ una cosa che ci resta addosso, non la vorresti mai vedere. No, non è giusto morire così».

 

L’audio è agghiacciante: «Ahia!.. aiuto! aiutatemi!… aiuto! sto morendo… sto morendo… sto morendo! – e, sempre più flebile – ahia, aaaaaah, ahia!…». Magherini era già stato bloccato a terra, in Borgo San Frediano tra l’ex cinema Eolo e la Chiesa del Cestello, da quattro carabinieri intervenuti, sullo sfondo tra i rumori dell’audio, la sirena dell’ambulanza. «A un certo punto smette di urlare, uno dei carabinieri chiede “perche sta zitto?”, si accerta se respira…». Questo passaggio è sbagliato, sono io che ho chiesto: perchè si è zittito all’improvviso? E un altro ragazzo ha chiesto “respira?” e un carabiniere a risposto “Si”Da almeno mezz’ora era in piena crisi di panico e gridava nelle strade del quartiere che qualcuno lo voleva ammazzare. Dall’altra parte dell’Arno l’ambasciata degli Usa aveva segnalato la presenza di un uomo che urlava. C’è un ponte a separare quel palazzo da Borgo San Frediano dove, pochissimi minuti prima del violento “fermo”, Magherini era entrato in una pizzeria chiedendo a un addetto di poter usare il suo telefonino per chiamare la polizia perché qualcuno voleva ammazzarlo.

 

 

«Quella scena ci ha turbato, Riccardo aveva bisogno di essere aiutato, non di essere arrestato, ci sarebbe voluta la presenza di un medico da subito, di un approccio anche psicologico che avrebbe potuto cercare di calmarlo». «Basta calci! – diceva la gente quella notte (la procura ha sentito una settantina di testimoni oculari) – chiamiamo un’ambulanza». Era l’ora in cui chiudono i locali. Tutto s’è svolto sotto lo sguardo incredulo di parecchie persone. Continua la ragazza: «A fermarlo in quel modo, con quella crisi di panico, aggiungi paura alla paura». «Urlava, si divincolava, non riuscivano a bloccarlo e, dopo averlo ammanettato quei calci gratis…….». Dal video sembra di sentire l’anfibio schiantarsi sulle ossa della faccia. Le foto potrebbero essere eloquenti. «La gente urlava», ripete la ragazza e ricorda che l’ambulanza, la prima non aveva un medico a bordo, lo trova «col petto a terra. L’infermiere disse che respirava. Nessuno dei carabinieri gli ha mai rivolto la parola. Ma chi va in giro la notte sulle gazzelle e sulle volanti?! Magherini aveva tutti i sensi allertati, gli occhi enormi, la bava alla bocca… anche un bambino se ne sarebbe accorto che non era un aggressore, era un fuggiasco che chiedeva aiuto. E’ una cosa che ci resta addosso, non la vorresti mai vedere. No, non è giusto morire così».

Gli occupanti del Malborghetto e dello squat anarchico Panico, alcuni giorni dopo i fatti, di comune accordo con i familiari hanno organizzato un momento di ricordo nel parco di Piazza Tasso, nel quartiere di San Frediano dove Magherini viveva ed era conosciuto da tutti. Il primo avvocato della famiglia ha dichiarato pubblicamente di non voler procedere a indagini parallele, ribandendo la fiducia nelle indagini ufficiali. Ma tutto questo è accaduto a Firenze, città che vanta due migranti morti nella cella di sicurezza della questura, spiegano ad Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, un pestaggio ad opera della squadra antidegrado della municipale ai danni di due senegalesi, l’insabbiamento dell’inchiesta sulla strage di piazza Dalmazia, il pestaggio di richiedenti asilo ad opera di due agenti in borghese nell’albergo dove vivono per sei mesi coloro che hanno ottenuto l’asilo politico. E ora la vicenda di Magherini. Un infermiere che era in servizio la sera in cui hanno portato Magherini al pronto soccorso sarebbe certo che i segni del soffocamento fossero evidenti.

Come nei casi Aldrovandi, Ferrulli e Rasman, anche stavolta c’è un arresto o presunto tale posto in essere da più agenti, in questo caso carabinieri, con modalità violente e con compressione a terra in posizione prona che si protrae molto probabilmente oltre i limiti del lecito. La sequenza filmata, inedita finora, è davvero inquietante. «No, non sono casi isolati e non lo dico io, ma gli organismi di controllo pubblico europeo e internazionale. Esiste una mentalità e una cultura che fa sì che i protagonisti – che sono sempre più numerosi – di queste vicende non vengano lasciati soli davanti alle loro responsabilità, ma godono di una solidarietà ferma, forte e vibrante da parte di istituzioni e sindacati. Un esempio? Lo scorso febbraio il sindacato di polizia Sap ha chiesto la revisione del processo Aldrovandi e ha invitato a Ferrara i quattro agenti condannati per il loro congresso».

“Spirito di corpo”, come alla Diaz, e ritrosia da parte di alcuni pubblici ministeri a mettere in discussione il loro rapporto con gli organismi con i quali collaborano quotidianamente. Ma questi due elementi, spesso, incrociano la rabbia di legali come Anselmo e dei comitati spontanei che si raccolgono attorno ai parenti delle vittime, che stanno imparando a mettersi in rete, che fanno controinformazione e gettano semi perché in futuro non debbano più accadere cose del genere.

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/?p=5788