Dal 30 aprile 1977 a oggi: Madres de Plaza de Mayo

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di Sabatino Annecchiarico (*)

 

Hebe denunciò i responsabili. Denunciò i militari. Denunciò la Chiesa. Denunciò le aziende transnazionali. Denunciò i corrotti avvocati. Denunciò il silenzio di quelli che non erano innocenti. Reclamò in ogni istanza la «comparsa in vita» dei cari, non solo egoisticamente i suoi, quelli di tutti. Socializzò la battaglia per i diritti negati. Soprattutto per quelli che non avevano voce. Oggi è la presidente dell’Associazione delle Madres de Plaza de Mayo. In quella irreale realtà dell’autunno del ’77 solo persone pazze, o di eccezionale coraggio, erano in grado di alzare la testa, di alzare la voce. Fu un giovedì d’aprile di quell’anno che un gruppuscolo di donne con il capo coperto da un fazzoletto bianco si diedero appuntamento nella Plaza de Mayo, storica piazza antistante alla casa di governo, occupata dai militari.
L’autunno australe a Buenos Aires si fa sentire. Il forte vento gelido che soffia dall’Atlantico arriva in città dal sudest assieme alle fitte piogge che bagnano persino le ossa; sono le caratteristiche climatiche di quella passionale città già culla del tango. Uscire in piazza in quella stagione, fare una passeggiata all’aria aperta, sono ricordi attaccati nella memoria dell’estate appena trascorsa.
Ma quell’aprile del 1977 il freddo era diverso, era strano. Era un freddo nero. Un freddo che calava per fermarsi silenziosamente nell’anima della gente fino colpirla in profondità. Là, dove fa male. Dove si addormenta il cervello e si rallenta persino il tango. Un freddo, che per fortuna, sono in pochi a conoscerlo.
Poco più di un anno prima, ovvero appena iniziato l’autunno del ‘76, i militari colpirono duramente la dignità, e non solo, degli argentini. Con la brutale forza delle armi avevano preso il 24 marzo di quell’anno il controllo del governo del Paese con l’obiettivo d’imporre politiche socioeconomiche in sintonia con i piani del neoliberismo del Fondo Monetario Internazionale e delle aziende transnazionali. Da allora il freddo della morte, del terrore, dell’impotenza, aveva invaso ogni angolo della vita quotidiana per eliminare ogni possibile resistenza popolare a quelle politiche neoliberiste. Si scrissero, in questo modo, le più tragiche pagine della storia contemporanea argentina, oggi nota in tutto il mondo.
Un anno dopo quel tragico inizio dell’autunno più lungo argentino, Buenos Aires già era tenebrosamente sorda, cieca, incapace di reagire davanti a migliaia di suoi figli scomparsi nel nulla. Per le strade, nelle case, in ogni angolo della città non si parlava per paura. Non ci si guardava per paura. Non si ascoltava per paura. La morte e i militari erano gli unici due soggetti che padroneggiavano su tutto l’esistente in quella lugubre città. I cervelli delle persone sembrava come se fossero addormentati per ipotermia in un assurdo tran-tran quotidiano dove tutto sembrava normale. Macabramente normale. Si cominciava a parlare, con sorriso schizofrenico, dell’imminente mondiale di calcio del ’78. Si festeggiava quell’evento. Gli affari dei militari e delle grandi imprese fiorirono a dismisura. Le aziende transazionali godevano, in quel cupo freddo sociale, una delle migliori primavere di infiniti e sproporzionati arricchimenti; arricchivano senza alcun disturbo e in piena fratellanza con i militari, ogni disfacimento del Paese era consentito pur di arraffare ricchezze.
In quell’assurda alienazione mentale, collettiva quasi inconscia di cui soffriva la popolazione, lo strano freddo autunnale aveva addormentato ogni senso umano, inclusa la dignità. In quell’habitat i Ford Falcon di colore verde oliva, ovvero le macchine in dotazione agli
«squadroni della morte», sfrecciavano liberamente per le strade di Buenos Aires con ignota destinazione. Portando dentro il grosso bagagliaio un altro bottino di guerra appena preso. Un’altra persona pronta alla tortura e alla scomparsa. Un altro desaparecido. E nessuno vedeva, nessuno parlava. Tutti si rifiutavano di ascoltare il frastuono di quelle potenti macchine costruite nello stabilimento argentino della Ford, nella località di General Pacheco, a pochi chilometri dalla periferia nord si Buenos Aires.
In quegli anni di dittatura militare erano in vigore leggi simili a quelle del ventennio fascista italiano. Una di queste era che non si potevano radunare più di tre persone in aree pubbliche, quanto meno in quella memorabile piazza già nota a numerose rivoluzioni sin dal 1810.
Per burlare questa legge, le coraggiose e ancora anonime donne dei fazzoletti bianchi cominciarono a girare, camminando silenziosamente con passo ritmato da tanta disperazione, attorno alla piramide centrale della piazza. I passanti le guardavano, i militari le insultavano quando non usavano le maniere forti, la violenza. Queste donne, che all’inizio appena superavano la decina, furono picchiate dai militari sotto gli sguardi impauriti o apatici dei passanti che sottovoce commentavano
«chissà cosa hanno fatto, meglio tenersi alla larga». Alcune di loro finirono nei Ford Falcon e della loro sorte nulla più si seppe. Queste donne chiedevano la sorte dei loro cari, dei loro figli scomparsi nel nulla.
In quel gelido autunno pervaso dall’impotenza prodotta dalla strategia del terrore scientificamente pianificata sulla popolazione, nessuno vedeva, nessuno ascoltava, nessuno parlava. Solo loro, queste donne, le mamme di quei figli scomparsi avevano visto. Avevano visto tutto quello che tutti avevano visto ma che nessuno vedeva. Avevano udito quello che tutti avevano udito, ma che nessuno udiva. Avevano detto quello che tutti si rifiutarono di dire. Furono solo loro, le donne, le uniche in quella società di
machos a riscaldare la temperatura di quel gelido autunno.
Hebe di Bonafini, mamma casalinga di due figli desaparecidos è una di loro. Una di queste donne che con tanta dignità e coraggio affrontarono, da sole, i militari. Lei, Hebe, alzò la voce in nome di tante mamme anonime che si trovavano nella stessa condizione. Instancabile in prima fila mettendo assieme alle altre mamme le uniche cose che aveva a disposizione, ovvero il coraggio, la voce e il proprio corpo. Non fu possibile fermarla, fermarle.
Oggi non è più casalinga, è una delle più prestigiose mamme riconosciuta mondialmente per la tenace resistenza alla dittatura e per la forte dignità. Assieme a migliaia di mamme che si aggregarono da tutto il Paese all’Associazione è stata protagonista della ricostruzione della dignità di quel tessuto sociale già fortemente smembrato. Poi, alla guida delle Madres è stata decisiva nello spostare l’asse delle sorti del Paese, ribaltandone l’ignominiosa situazione sociale. Gli argentini ripresero coraggio, cominciarono a vedere, a sentire e a dire. Hebe sempre in prima fila. I militari sono stati sconfitti, oggi non ci sono più. Hebe è lì, in piazza dal 30 aprile 1977 e al comando dell’Associazione sin dal 1979, anno della loro fondazione in piena dittatura post mondiale di calcio.

Hebe María Pastor de Bonafini – il suo nome completo – è stata ricevuta da quasi tutti i capi di Stato. Ha fatto conferenze in numerose università nei cinque Continenti. Su lei, e sulle Madres, si sono scritti saggi, racconti e poesie in quasi tutte le lingue. L’università di Bologna conferisce il 17 ottobre del 2007 all’Associazione de Las Madres de Plaza de Mayo una laurea
ad honorem in Padagogia, e a ritirarla è Hebe con una delegazione di Madres. Nel 1999 riceve dall’Unesco il riconoscimento per l’Educazione alla pace. Quei militari dal 1983 invece non ci sono più: chi non è morto per anzianità, è in galera a scontare la pena.
Las Madres de Plaza de Mayo hanno fondato un’università, la Universidad Popular de Las Madres, in pieno centro della città, davanti al Parlamento argentino, in Plaza Congreso. Hanno creato una biblioteca, un bar letterario, un proprio giornale, una radio. Sono protagoniste della costruzione di case nei quartieri più poveri del Paese. Partecipano alla vita sociale, a ogni lotta popolare, attive nelle fabbriche ricuperate dai lavoratori, come il caso dell’ex italiana di ceramiche Zanon o dell’Hotel Bauen a 5 stelle, costruito per il corrotto mondiale del ’78, e tante altre. Per queste instancabili lotte, sempre in prima fila, arrivano per loro da tutto il mondo adesioni, collaborazioni e finanziamenti.
Anche se oggi i militari non ci sono più, rimangono tante cose da fare. Ed Hebe, a 81 anni d’età è lì, in prima fila:
«Noi siamo state partorite dai nostri figli […] e quando loro ci hanno lasciato noi ci siamo trasformate da casalinghe a rivoluzionarie. Oggi ci sentiamo così, perché la rivoluzione si fa quando si riesce a trasformare la società. Noi sappiamo che si può. Si può perché l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona».
Hebe lo sa, lo sanno Las Madres, lo sanno gli argentini, che solo allora quel forte vento gelido, che soffia dall’Atlantico e che arriva in città dal sudest, tornerà ad essere caldamente normale. E Cambalache, il tango proibito dai militari, si continuerà a ballerà liberamente nelle piazze della città.
(*) Questo articolo era già uscito sulla bella rivista on line «El Ghibli».

 

Fonte:

 

Sulla canonizzazione di Giovanni Paolo II

Fra qualche giorno ci sarà la canonizzazione dei pontefici Roncalli e Wojtyla. Spesso noi cattolici ci facciamo condizionare dalle figure dei rappresentanti della Chiesa, soprattutto quando si tratta di pontefici, vediamo solo ciò che essa vuole mostrarci rifuggendo critiche e accuse come anticlericali e infondate. Ma si può anche scegliere di non lasciarsi condizionare e di andare oltre.
C’è uno scatto molto noto che in alcuni ambienti ha suscitato parecchio scalpore. Si tratta della famosa fotografia che ritrae  papa Giovanni Paolo II nell’atto di affacciarsi al balcone del palazzo presidenziale cileno per benedire la folla, con a fianco il dittatore Pinochet.

Dell’episodio ha parlato in un intervista, apparsa sull’ “Osservatore Romano” del 23 dicembre 2009, il cardinale Roberto Tucci: <<Come dimenticare il volto di Wojtyla quando si accorse del tiro che gli giocò Pinochet durante il viaggio in Cile nel 1987? Lo fece affacciare con lui al balcone del palazzo presidenziale, contro la sua volontà. Ci prese tutti in giro. Noi del seguito fummo fatti accomodare in un salottino in attesa del colloquio privato. Secondo i patti – che avevo concordato su precisa disposizione del Papa – Giovanni Paolo II e il presidente non si sarebbero affacciati per salutare la folla. Wojtyla era molto critico nei confronti del dittatore cileno e non voleva apparire accanto a lui. Io tenevo sempre d’occhio l’unica porta che collegava il salottino, dove eravamo noi del seguito, alla stanza nella quale erano il Papa e Pinochet. Ma con una mossa studiata li fecero uscire da un’altra porta. Passarono davanti a una grande tenda nera chiusa – ci raccontò poi il Papa furioso – e Pinochet fece fermare lì Giovanni Paolo II, come se dovesse mostrargli qualcosa. La tenda fu aperta di colpo e il Pontefice si ritrovò davanti il balcone aperto sulla piazza gremita di gente. Non poté ritrarsi, ma ricordo che quando si congedò da Pinochet lo gelò con lo sguardo. Alfonsín, in Argentina, fu più rispettoso, e non pretese assolutamente di comparire al suo fianco. In Africa invece re, dittatori e governanti corrotti lo tiravano da tutte le parti per sfruttarne l’immagine. Lui lo sapeva, ma era uno scotto da pagare per incontrare la gente. Ne era addolorato, ma sopportava. Con noi poi si sfogava. E quando parlava non risparmiava le denunce.>> (Fonte: http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/interviste/2009/296q07a1.html)


Secondo il cardinale Tucci, quindi, durante la visita in Cile, Wojtyla sarebbe stato vittima di una trovata astuta di Pinochet. Tuttavia, se guardiamo un paio di filmati girati durante la visita del pontefice, possiamo vedere che il presidente incontrò il papa proprio affianco del balcone che dava sul cortile della Moneda, la tenda nera di cui si parla era già aperta e faceva intravedere la folla, e, al termine delle presentazioni dei prelati che accompagnavano Wojtyla, Giovanni Paolo e Pinochet si diressero insieme e senza esitazioni verso il balcone. Le immagini di questi momenti sono visibili nell’ultima parte di questo video

e nella prima parte di quest’altro:

Per quanto riguarda poi il riferimento all’Argentina e a Alfonsìn, nel settimo capitolo del libricino Storia delle Madres de Plaza de Majo, Edizione Buendia, a cura dell’associazione Kabawil, è citato un viaggio di Giovanni Paolo II in Argentina, nel marzo 1987, durante il governo Alfonsìn. Durante questo governo, fintamente democratico, iniziò un processo farsa nei confronti dei militari coinvolti nella sparizione dei desaparecidos, che, con le cosiddette leggi di Punto Finale e di Obbedienza Dovuta, puntava alla quasi totale impunità degli assassini. Sul viaggio del papa si legge: <<Nel marzo di quell’anno, per finire di modellare uno scenario di riconciliazione e punto finale, venne in visita ufficiale nel paese il Papa, Giovanni Paolo II. Il pontefice rimase in Argentina solo sei giorni, quanto bastava per avvalorare ancora di più i militari che cercavano il perdono. Nelle varie tappe del suo itinerario – Bahia Blanca, Viedman, Mendoza, Rosario, Cordoba, Tucuman, Salta, Corrientes, Parana e Buenos Aires – il capo supremo della chiesa aiutò a creare il clima propizio per una scalata golpista di nuovo tipo>>. Nella settimana santa del 1987, infatti ci fu la sommossa dei Carapintadas che portò alla legge di Obbedienza Dovuta, la quale riconosceva diversi gradi nella repressione genocida. Se in questo caso fu favorevole ai repressori, una precedente visita di Wojtyla nel 1982 durante il governo Galtieri, rallentò anche se di poco la caduta del regime. Nel quarto capitolo di questo libricino si legge: <<Per alleviare il sicuro effetto che la sconfitta andava a provocare nella popolazione, il Papa Giovanni Paolo II visitò per un’ora il paese. Sebbene la versione ufficiale del motivo del viaggio fosse sigillare un accordo di pace, il pontefice venne ad adempiere un altro compito: contenere l’ira popolare e ridare ossigeno alla possibilità di governare del regime, la cui sorte finale era ormai scritta. La dittatura sapeva che doveva abbandonare il potere, ma voleva farlo nel modo più ordinato possibile. A tre giorni della visita del Papa, il “governatore” Menendez firmò la resa agli inglesi, e neanche le preghiere papali poterono impedire una mobilitazione spontanea in opposizione alla dittatura, che un’altra volta gli assassini repressero selvaggiamente>>.

Tornando ai rapporti di Wojtyla con Pinochet, in un articolo del “New York Times”, si racconta che, sempre durante la sua visita, il papa pregò con il generale Pinochet e sua moglie in una cappella nel palazzo dove il presidente democraticamente eletto del Cile, Salvador Allende, morì nel colpo di stato che portò al potere il generale Pinochet. Il pontefice ha anche benedetto la casa. (Fonte: http://www.nytimes.com/1987/04/03/world/john-paul-calls-for-chileans-to-move-toward-democracy.html)

Nel 1993 il cardinale Angelo Sodano e papa Wojtyla inviarono al generale Pinochet due messaggi di auguri per il cinquantesimo anniversario del suo matrimonio. <<Il cardinale Sodano (nunzio apostolico in Cile negli anni della dittatura di Pinochet) nella sua lettera scrive, tra l’altro, di aver ricevuto dal pontefice “il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l’ autografo pontificio qui accluso come espressione di particolare benevolenza”. Il cardinale fa anche riferimento al viaggio cileno fatto da Giovanni Paolo II. “Sua Santità – ricorda infatti Sodano – conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile”. E conclude il messaggio a Pinochet, riaffermando “signor Generale, l’espressione della mia più alta e distinta considerazione”. Altrettanto “partecipata” la lettera augurale di Wojtyla. “Al Generale Augusto Pinochet Ugarte, alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d’oro matrimoniali e – scrive il pontefice – come pegno di abbondanti grazie divine, con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II”>>. (Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/06/29/pinochet-auguri-dal-papa.html)

Pinochet fu arrestato a Londra nel 1998 dopo che la Spagna ne aveva chiesto l’estradizione perchè fosse processato per presunti crimini contro i diritti umani. Il 19 febbraio 1999 Wojtyla intervenne nella controversia sull’estradizione dell’ex dittatore cileno lanciando un appello di clemenza per motivi umanitari e nell’interesse della riconciliazione nazionale in Cile. (Fonte: http://news.bbc.co.uk/2/hi/282225.stm) Pochi giorni dopo quest’appello , le Madri di Plaza de Mayo scrissero una dura lettera a papa Wojtyla. Qui il testo in italiano:

Buenos Aires 23 febbraio 1999

Sig Giovanni Paolo II

Ci è costato diversi giorni assimilare la richiesta di perdono che Lei, Sig. Giovanni Paolo II, ha inoltrato in favore del responsabile di genocidio Pinochet.

Ci rivolgiamo a Lei come cittadino comune, perchè ci sembra aberrante che dalla sua poltrona di Papa in Vaticano, senza conoscere, senza avere sofferto sulla sua pelle la tortura con scariche elettriche, le mutilazioni e le violenze sessuali, abbia il coraggio di chiedere, in nome di Gesù Cristo, clemenza per l’assassino Pinochet.

Gesù è stato crocifisso e la sua carne è stata lacerata dai Giuda come Lei che oggi difende gli assassini.

Sig. Giovanni Paolo II, nessuna madre del Terzo Mondo che ha dato alla luce, allattato e curato con amore un figlio che è stato mutilato dalle dittature di Pinochet, Videla, Banzer, Stroessner, accetterà con rassegnazione la sua richiesta di clemenza.

Noi Madri ci siamo incontrate con Lei in tre occasioni, ma Lei non ha impedito i massacri, non ha alzato la voce in difesa delle nostre migliaia di figli durante quegli anni di terrore.

Adesso non abbiamo più dubbi su da quale parte sta Lei, ma sappia che malgrado il suo potere immenso, non potrà arrivare nè a Dio nè a Gesù.

Molti dei nostri figli si sono ispirati a Gesù nel loro impegno per il popolo.

Noi Membri dell’Associazione delle Madri di Plaza de Mayo, attraverso una preghiera immensa che arrivera’ al mondo, chiediamo a Dio che non perdoni Lei, Sig. Giovanni Paolo II, perchè Lei denigra la Chiesa del popolo che soffre. Lo facciamo in nome dei milioni di esseri umani che morirono e continuano a morire ad opera degli assassini che Lei difende e sostiene.

DICIAMO: SIGNORE NON PERDONARE GIOVANNI PAOLO II

Associazione Madri di Plaza de Mayo
Hebe Bonafini
presidentessa
(seguono firme)”

(Fonte: http://www.censurati.it/2001/02/03/accuse-al-papa-le-madri-di-plaza-de-mayo/)

Il perdono è un principio cristiano. Ma considerati i rapporti che Wojtyla ha intrattenuto con il dittatore Pinochet e i suoi silenzi nei confronti delle vicende dei desaparecidos argentini, ho seri dubbi sul fatto che il perdono che Giovanni Paolo II voleva per il generale sanguinario fosse ispirato da motivazioni evangeliche. Credo piuttosto che il gesto del pontefice sia stato la prosecuzione dei buoni rapporti con Pinochet e che dimostri come questo papa, nonostante abbia compiuto numerosi viaggi, visitato molti popoli, attratto tanti giovani e sia molto amato, sia stato un uomo più vicino agli oppressori che agli oppressi.
Non possiamo impedire alla Chiesa Cattolica di scegliersi i suoi santi ma di fronte alla canonizzazione di Giovanni Paolo II, che avverrà il prossimo 27 aprile, (tre giorni prima del 37° anniversario della prima riunione delle Madri di Plaza de Mayo), per mano di Papa Francesco, l’argentino Jorge Bergoglio, pontefice che secondo molti starebbe cambiando la Chiesa, ritengo giusto non tacere sulle contraddizioni di Wojtyla.

 

Donatella Quattrone