«Io, trans, dico: meglio troia che schiava delle guardie»

 

Dell’emergenza carceri fa parte a pieno titolo una questione poco nota, ma assai delicata: quella che riguarda le condizioni delle detenute transessuali. Il carcere è un’istituzione totale dove si amplificano i problemi già preesistenti nella società libera e le detenute transessuali sono coloro che pagano di più le conseguenze di un sistema carcerario al collasso e non adeguato per il reinserimento dei detenuti.

Se vivere la detezione è difficile per ogni essere umano, per il transessuale lo è ancor di più.

Il transessualismo non viene riconosciuto dalle direzioni carcerarie, quindi generalmente le trans sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali separati per detenuti “a rischio” insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. Per evitare questo problema della doppia punizione, a Empoli, nel 2010, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle detenute transessuali: l’allora ministro della giustizia Angelino Alfano decise di bloccare l’iniziativa. Eppure era già tutto attrezzato per trasformare la casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in un penitenziario riservato ai soggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso.

La grande percentuale delle trans è in carcere per reati minori e quindi il periodo di detenzione è breve, ma nonostante ciò la carcerazione viene vissuta con molta sofferenza e frequenti sono i tentativi di suicidi in cella.

Molte detenute trans sono di origine sudamericana, e si trovano facilmente a delinquere perché sprovviste di documenti, soldi e permesso di soggiorno. La detenuta transessuale straniera è sempre priva del permesso di soggiorno e nell’impossibilità di ottenerlo, quindi costretta a vivere la propria carcerazione in misura pressoché isolata e ulteriormente afflittiva.

Tali difficoltà si riflettono, ad esempio, sulle questioni pratiche connesse alla detenzione: il legame sentimentale del detenuto transessuale non ha alcuna rilevanza per la legge, ed il proprio compagno o compagna non verrà mai riconosciuto come tale e ammesso a fare colloqui.

Le misure alternative alla detenzione non trovano sempre applicazione per le trans perché c’è l’impossibilità di reperire domicili idonei o aiuti esterni. Sulla carta, le transessuali detenute che hanno iniziato il trattamento prima dell’arresto, hanno diritto alle cure ormonali: la realtà è che non avviene quasi mai, soprattutto nei confronti di chi risulta, sulla carta d’identità, ancora un uomo. La cura ormonale non è un capriccio, il Movimento identità nazionale spiega che «senza ormoni si assiste a un abbruttimento del proprio corpo. Ci si lascia andare, subentra la depressione, l’impossibilità di realizzarsi».

Le detenute transessuali sono coloro che subiscono più violenze e abusi da parte delle guardie penitenziarie.

Qualche spunto ce lo fornisce una lettera di A., 33 anni, transessuale brasiliana, diffusa su internet da RistrettiOrizzonti e Radiocarcere: «Io quando ero libera mi prostituivo. Non ero contenta della vita che facevo, ma dovevo pagare chi dal Brasile mi aveva fatto arrivare in Italia. Un uomo, a cui dovevo i soldi di quel viaggio, che mi picchiava e che abusava di me. Ero esasperata da quella vita. Una notte ho reagito a quegli abusi e a quelle botte, l’ho ferito e lui purtroppo è morto. Mi hanno processata, mi hanno giustamente condannata, ma poi per me si è aperta la porta del carcere. Un carcere assai lontano da quella ”giustizia” che mi aveva condannato. Per un transessuale il carcere appare subito come l’inferno.La diversità che ti porti appresso è amplificata. Difficile anche trovarti un posto. Non nella sezione maschile. Non nella sezione femminile. Ma nella sezione peggiore: quella degli infami, dei pedofili ovvero quella, appunto, dei trans. Per parecchio tempo ho diviso la mia cella con altre transessuali. Persone che erano in carcere da diversi anni e che erano segnate nel corpo e nella mente dalla disperazione. In quella cella c’era chi si tagliava la braccia, chi si drogava o chi negli occhi non aveva più la voglia di vivere. Come Samanta, anche lei transessuale. Da tempo Samanta stava male con i polmoni. Spesso aveva delle crisi respiratorie, ma per lei erano rare le cure mediche. Piano piano Samanta si è lasciata andare, si è abbandonata. Ha iniziato a bere vino mischiato con gli psicofarmaci. Tutti sapevano quello che si faceva Samanta. Nessuno ha fatto nulla per lei. Una mattina ho trovato Samanta in bagno. Per terra in una pozza di sangue. Si era tagliata le vene e l’aveva fatta finita. Oggi mi è chiaro. La pena in carcere per un transessuale è la sua diversità. Una diversità a cui il carcere non è preparato. Se già mancano educatori o assistenti sociali per i detenuti comuni figuratevi per noi! Se in carcere non c’è possibilità di lavorare se sei ”normale”, può esserci per chi è considerato uno strano animale? Per queste ragioni la vita in cella di un transessuale è ai limiti del possibile e lontano da ciò che si può immaginare. Dicevo prima del prezzo da pagare in carcere se sei transessuale e se vuoi sopravvivere. Bene il prezzo è il sesso. I tuoi clienti gli agenti, o meglio alcuni di loro. Ora voglio essere chiara. Tantissimi agenti sono bravi e sono i veri agenti, ovvero quelli che lavorano secondo la legge e per le persone detenute, anche se transessuali. Purtroppo tra questi c’è chi si approfitta della loro posizione di potere. Se in sezione ti capita di turno un agente così, tu sei finita. Per tanti mesi io ho provato a resistere alle loro richieste. Arrivavano di notte, mentre dormivo e mi dicevano «Oh, puttana! Che fai dormi? Svegliati e fammi una p.», oppure «fammi toccare una tetta, magari così ti porto da mangiare». Una notte ho risposto male a un agente che mi chiedeva di fare sesso. Lui mi ha fatto rapporto, io ho raccontato l’episodio al comandante ma non sono stata creduta. Morale mi hanno punito. Da quel giorno, quando mi chiedevano di fare sesso io lo facevo.
Così è iniziato un lungo periodo in cui io, come tante altre trans, acconsentivamo a rapporti sessuali. Insomma presto mi sono resa conto che mi ero liberata da uno sfruttatore ed ero finita nelle mani di altri. Avrei preferito tornare sul marciapiede. Perché c’è un margine di scelta nella prostituzione. Ma quando sei in carcere tu quel margine non ce l’hai. In carcere o fai sesso oppure la tua vita diventerà impossibile. In carcere sono dovuta scendere ancora più in basso di quando facevo la puttana».

Ci sono altre prigioni totali dove le transessuali pagano uno scotto maggiore. Riguardano i famigerati Centri di identificazione ed espulsione (Cie) dove un gran numero di transessuali immigrate vengono inevitabilmente rinchiuse visto che, non di rado, avvengono le retate della polizia in nome del decoro delle città.

Per evitare stupri e altri tipi di abusi si è deciso di creare un reparto separato a loro destinato nel Cie di Milano, a via Corelli. La struttura produce quotidianamente tentativi di suicidi, disperazione e rivolte, oltre a ledere e violare ripetutamente il diritto di difesa e calpestare la dignità delle persone. Dal dossier redatto dai ”medici per i diritti umani” si legge la testimonianza di una transessuale reclusa nel Cie di Milano; dichiarava di essere positiva all’HIiv e presentava, secondo la stadiazione clinica proposta dall’Oms, segni e sintomi di Hiv al III stadio. La paziente era stata però considerata idonea alla detenzione e non aveva ancora ricevuto una valutazione specialistica per l’inizio della terapia antiretrovirale.

Durante la sua esperienza da parlamentare, Vladimir Luxuria visitò diversi carceri, in particolare quelli con apposite sezioni per transessuali. «Nella maggior parte dei casi – spiegò Luxuria – scontano una doppia punizione: quella per il reato commesso e quella per il fatto di essere trans». Poi c’è l’associazione radicale ”Certi diritti” che ogni anno organizza visite alle carceri per verificare le condizioni della transessualità. E da tempo intraprende la battaglia per riformare la legge 164: se nel 1982 era stata una grande conquista per il mondo trans, oggi diventa un ostacolo per chi vuole cambiare nome all’anagrafe senza necessariamente operarsi. Le detenute transessuali non operate sono coloro che rischiano ancor più discriminazione e ghettizzazione proprio perché la loro identità sessuale non corrisponde all’anagrafe.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/02/io-trans-dico-meglio-troia-che-schiava-delle-guardie/

La storia di Gonzales Sola Xabier in carcere in Italia in regime duro di isolamento totale

13 set 2014

solidarietà ai prigionieriIn Italia c’è un detenuto basco in regime duro di isolamento totale. Ristretto in una cella con un blindato rigorosamente chiuso nonostante le alte temperature del periodo estivo, con una finestra a bocca di lupo, ovvero con una lastra di metallo all’esterno da cui passa pochissima aria. Nessuna ora di socialità con gli altri detenuti. Gli viene concesso non più di mezz’ora al giorno per sgranchirsi le gambe, rigorosamente da solo, in un cortile angusto. Un trattamento disumano e degradante peggiore del carcere duro: il diritto alla socialità con gli altri detenuti viene concesso perfino ai detenuti del 41 Bis.

Parliamo di Gonzales Sola Xabier, nato a Bilbao nel 1974, attualmente detenuto nel carcere di Rebibbia in regime di alta sorveglianza. Gonzales viene tratto in arresto il 31 Luglio scorso a Roma, grazie al mandato internazionale emesso dall’autorità giudiziaria spagnola per aver violato la libertà vigilata. Viene dapprima rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, in condizioni di isolamento totale e senza il rispetto minimo dei suoi diritti. Alla richiesta di spiegazioni da parte dell’ avvocato difensore Caterina Calia, circa il protrarsi del regime di isolamento, il personale di polizia ha risposto che ciò è determinato dall’assenza della sezione di alta sicurezza (AS2).

La spiegazione è stata insoddisfacente perché ciò non giustifica il trattamento riservato. A seguito delle legittime rimostranze della difesa, il dipartimento amministrativo penitenziario ha disposto il trasferimento di Gonzales presso il carcere di Rebibbia dove è presente un circuito di alta sorveglianza. Il 3 settembre, appena giunto al nuovo istituto, gli viene assicurato che sarebbe stato ammesso alla socialità. Per questo gli viene chiesto di porre fine allo sciopero della fame che aveva intrapreso perchè erano venute meno le ragioni della protesta. Ma contrariamente a quanto gli hanno promesso verbalmente, la detenzione dura prosegue. Ma con più ferocia. Dal giorno del trasferimento, Gonzales è rimasto chiuso per ventiquattro ore al giorno: nemmeno più la mezz’ora d’aria al giorno che nel carcere precedente gli veniva concessa. Dopo quattro giorni di detenzione totale, a causa di fortissimi mal di testa presumibilmente dovuti dalla scarsa ossigenazione, ha chiesto di essere visitato dal medico. Ma le sue richieste sono state totalmente inascoltate.

Gonzales è accusato dalle autorità giudiziarie iberiche di appartenere ad un gruppo anarchico, con finalità sovversive, denominato “Collettivo Bandiera Nera”. Il “delitto” contestato è quello di appartenere ad un gruppo sovversivo e di fare apologia di reato perchè dedito all’incitamento per il “sovvertimento dell’ordine costituzionale”. Un po’ come accade con gli anarchici nostrani e i militanti no tav. Ma c’è una differenza sostanziale. In Spagna i magistrati hanno scarcerato d’ufficio Gonzales, insieme agli altri coimputati, dopo quattro mesi di detenzione e sottoposto gli stessi alla libertà vigilata. Da noi invece viene applicato il carcere duro preventivo per molto tempo.

L’avvocato Calia ritiene quindi paradossale che per le stesse ipotesi di reato la Spagna ha ritenuto sufficiente la misura non detentiva, mentre l’amministrazione penitenziaria disponga invece che la detenzione venga eseguita con la sospensione di tutte le regole di trattamento ordinario. Lo stato rinchiude facilmente in regime duro le persone che avrebbero incitato al sovvertimento dell’ordine costituzionale, ma nello stesso tempo, nelle patrie galere, lo stato stesso non rispetta con altrettanta facilità la costituzione. Ovvero la sovverte.

Damiano Aliprandi da Il garantista

 

Citato in http://www.osservatoriorepressione.info/?p=6700

 

La denuncia di Giuseppe: “picchiato dagli agenti, così ho combattuto per vivere”

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=376141742536392&set=a.163574003793168.38022.100004217080284&type=1&theater
Il Garantista, 12 settembre 2014

intervista a cura di Damiano Aliprandi

I fatti risalgono al 12 gennaio del 2011, nel carcere di Lucera. Dopo un alterco con un agente, fu pestato senza pietà. Delle foto testimoniano i colpi subiti.

Denudato in cella di isolamento, in gergo “cella liscia”. Torturato fino allo svenimento da una squadra di agenti penitenziari per punirlo a causa di un’offesa verbale nei confronti dell’agente preposto. E poi trascinato per i piedi, nudo e ancora sporco di sangue, in un’altra cella di isolamento con dentro soltanto un materasso sudicio.

Accadeva il 12 gennaio del 2011, in pieno inverno. E la tragica storia di Giuseppe Rotundo, all’epoca dei fatti detenuto nel carcere di Lucera, nel foggiano. Il processo per ristabilire verità e giustizia, è ancora in corso. Il suo caso è unico nel suo genere perché, di solito, i corpi dei detenuti pieni di lividi ed ematomi vengono fotografati solo da morti. Giuseppe Rotundo invece è sopravvissuto alla tortura e ha potuto denunciare l’accaduto.

 

Giuseppe, nella Casa circondariale di Lucera era in attesa di giudizio o aveva una condanna definitiva?

Avevo una condanna definitiva. Un anno e dieci mesi per detenzione di dieci grammi di cocaina.

 

Qual era il clima in carcere?

Fin dall’inizio mi resi subito conto in quale clima autoritario mi trovassi. Già dal primo colloquio con la mia famiglia capii che la convivenza con gli agenti penitenziari non sarebbe stata facile. La mia famiglia, soprattutto mia figlia, andò via dal carcere sconvolta dall’arroganza e dalla prepotenza degli agenti.

 

Perché? Cosa accadde?

Durante il colloquio mia figlia fu rimproverata dall’agente perché voleva abbracciarmi. Io a quel punto ebbi un alterco con lui e il colloquio mi fu sospeso. Ero in regime normale, mica al 41bis dove è vietato qualsiasi contatto fisico con i famigliari. Non mi capivo perché me lo vietassero. Ma l’episodio che fece scattare il massacro fu un altro.

 

Quale?

Era il giorno in cui noi detenuti potevamo fare la telefonata ai nostri famigliari. Ero in sosta con altri detenuti sulla rampa di scale che conduce al corridoio dove si trovava la cabina telefonica. Considerando l’alto numero dei detenuti, l’attesa si prolungava e allora decisi di salire in sezione perché un mio compagno di cella aveva pronto il caffè. Il regolamento lo vieta, ma lo facevano tutti e a nessuno era mai stato contestato. Invece a me quel pomeriggio mi fu contestata l’infrazione del regolamento con toni violenti. L’agente mi intimò di posare il caffè, a quel punto preso dalla rabbia e lo insultai verbalmente. Ovviamente sapevo che avrei ricevuto una sanzione disciplinare, ma non mi sarei mai immaginato quello che mi è accaduto.

 

Cosa?

Appena conclusa la telefonata, stavo per raggiungere la mia sezione. Ma un agente mi bloccò e mi disse di seguirlo in ufficio per la contestazione del rapporto disciplinare. Entrai nell’ufficio e fui subito aggredito verbalmente dall’agente che avevo insultato. Chiesi scusa e gli dissi che aveva ragione e che quanto detto da me, non era un mio abituale comportamento. Non accettò le scuse e mi minacciò dì farmela pagare. Non capivo, io ero responsabile delle mie azioni e pronto ad accettare la sanzione disciplinare che ne scaturiva. Fui invitato a raggiungere l’ufficio di comando, ma prima dovetti passare in cella di isolamento per l’ispezione. Una volta entrato lì, compresi la loro intenzione.

 

Ovvero?

All’interno della cella era presente un gruppo consistente di agenti penitenziari con i guanti di lattice. Io li invitai alla calma, mi denudai spontaneamente per farmi perquisire. Ma una volta nudo fui colpito violentemente con un pugno alla nuca. A quel punto reagii di istinto e detti un pugno in viso all’agente che commise quel gesto. A quel punto fu il buio totale; ricevetti dagli agenti calci e pugni in tutto il corpo con una violenza inaudita. Tanto da perdere quasi la coscienza e accovacciarmi per terra. Solo a quel punto smisero di picchiarmi.

 

Ha subito ricevuto un soccorso medico?

Assolutamente no. Mi presero per i piedi e mi trascinarono fin dentro la cella affianco e chiusero il blindato. Era una cella di isolamento, vuota e con un materasso lurido. Ero nudo e sporco di sangue. Rimasi la dentro in quelle condizioni per tutta la notte. Pensai alla mia famiglia, a mia figlia. Lottavo contro la morte perché non desideravo che venissero a trovarmi quando oramai ero dentro una bara. La mattina seguente aprirono la cella perché in programma avevo un colloquio con la psicologa. Mi dettero degli indumenti, mi vestii da solo con fatica e poi, sorreggendomi in due, mi portarono fino all’ufficio della dottoressa.

C’erano le dottoresse Natali e Vinciguerra, due psicologhe esterne del Ser.T. La dottoressa Natali, alla vista delle mie condizioni, scoppiò a piangere: il giorno prima del massacro mi aveva visto in condizioni normali perché avevamo fatto un colloquio costruttivo di mezzora. Immediatamente gli agenti, vedendo che la Natali stava piangendo, sospesero il colloquio e mi condussero nuovamente in cella di isolamento.

 

Fino a quanto tempo ci rimase?

Se non fosse stato per l’interessamento della dottoressa Natali, forse sarei rimasto lì dentro per tantissimo tempo. La dottoressa, seppi dopo, subito si attivò chiamando la mia avvocata Elvia Beimonte. Ma non solo. Chiamò subito il comandante e lo minacciò di denunciarla per istigazione al suicidio se non avesse dato l’ordine di farmi uscire dall’isolamento e predisporre cure mediche, compresa la tac.

 

Il comandante accolse la richiesta?

Sì. Mi fece visitare e mi spostò in una sezione dove c’era una cella più confortevole con materasso. Soprattutto con il termosifone, considerando che stavamo in pieno inverno. Ebbi finalmente modo di riposare e avere contezza di quello che mi era accaduto. Gonfio come un pallone, completamente irriconoscibile. Un agente mi disse che il loro collega, da me colpito con il pugno, era finito in ospedale. Io, completamente all’oscuro della coraggiosa iniziativa della Natali, decisi di scrivere una lettera alla mia avvocata. Scrissi tutta la mia storia, soprattutto per il timore di passare per un aggressore, anziché per l’aggredito. Inoltre ebbi la lucidità di spedire la lettera tramite un compagno di sezione, poiché avevo il timore che, a mio nome, non sarebbe partita mai. Nel frattempo gli agenti mi denunciarono all’autorità giudiziaria.

 

Quindi inizialmente il processo era esclusivamente a suo carico?

Inizialmente sì. Poi il Pm De Luca, dopo la mia denuncia, ha ritenuto che ci fossero gli elementi necessari per un altro procedimento penale nei confronti degli agenti. Quindi i due procedimenti sono stati unificati. Il processo quindi è in corso e la prossima udienza ci sarà il due dicembre prossimo. Ma per concludere l’intervista mi faccia fare dei doverosi ringraziamenti.

 

Prego…

Innanzitutto ringrazio la dottoressa Natali per il suo coraggio. Senza di lei non so che fine avrei fatto. Ringrazio anche l’aiuto immenso di Antigone tramite Patrizio Gonnella e gli avvocati Simona Filippi e Alessandro De Federicis per essersi costituiti parte civile nel processo. Per concludere volevo dire che non provo odio nei confronti degli agenti. Ma tanta pena, rabbia e dolore.

 

 

 

Citato in http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/giustizia-la-denuncia-di-giuseppe-qpicchiato-dagli-agenti-cosi-ho-combattuto-per-vivereq

In cella nudi tra vomito e escrementi nel carcere di Rossano

cella1

Costretti a vivere nelle loro feci e nel loro vomito. A dormire per terra, senza un materasso. I detenuti delle celle 1, 2 e 7 hanno ematomi su tutto il corpo. Alcuni di loro sostengono di essere stati pestati dai carcerieri. Ad uno gli avrebbero rotto un orecchio a forza di botte. Nessun medico, dice, l’ha poi visitato. Segregati completamente, anche durante l’ora d’aria che viene trascorsa in uno spazio più piccolo della cella, circondata da una rete metallica. Non è la descrizione del carcere di Guantamo o di Abu Grahib, e nemmeno delle celle turche descritte nel film “Fuga da mezzanotte”.
Accade qui da noi. A Rossano, provincia di Cosenza. Nello stesso carcere dove circa un mese fa un detenuto di etnia curda si è dato fuoco usando la piccola bomboletta di gas del fornellino usato per cucinare ed un accendino. Due anni fa si è suicidata anche una guardia carceraria, un assistente capo di 44 anni. Si è sparato un colpo di pistola alla tempia.
A descrivere l’orrore del carcere di Rossano è la deputata Enza Bruno Bossio del partito democratico. Ha accertato le condizioni inumane e degradanti durante una visita ispettiva, senza preavviso. Accompagnata dal Emilio Quintieri, ragazzo dei Radicali, calabrese, da sempre attento i diritti dei detenuti. Gli addetti del carcere hanno cercato di impedire la visita della deputata, chiedendole di entrare in un altro momento. Lei ha insistito e alla fine hanno acconsentito che entrasse, ma da sola.
Poiché voleva capire come mai un detenuto che era al carcere di Catanzaro fosse stato trasferito all’improvviso a quello di Rossano, la deputata ha accettato di entrare alle condizioni poste. Una volta varcata la soglia dell’ istituto ha trovato una condizione terribile. Il detenuto in questione era in un reparto di isolamento. Non l’hanno fatta entrare nella sua cella, che comunque presentava condizioni accettabili. I familiari avevano detto alla Bruno Bossio che gli era stata bloccata la corrispondenza epistolare. Ad un certo punto però i detenuti, per attirare l’attenzione della deputata, si sono messi a gridare e allora ha potuto scoprire una situazione che lei non pensava nemmeno potesse esistere all’interno di un carcere italiano.
Una realtà atroce che in pochi hanno l’opportunità di vedere, compresi i deputati che fanno le visite ispettive con preavviso: detenuti semi-nudi, con le sole mutande addosso; un uomo in una cella senza il letto né un materasso, seduto per terra in mezzo ai suoi escrementi e sporcizia; un altro ha il letto nella cella, ma senza lenzuola e non ha vestiti; un altro per terra circondato dal suo vomito perché sta male, è celiaco e vomita in continuazione. Ha visto detenuti ricoperti di lividi, uno con un orecchio rotto che non ha ricevuto nessuna assistenza sanitaria.
Le guardie si sono giustificate dicendo che questi detenuti sono tenuti in quelle condizioni perché hanno tentato il suicidio, altri perché hanno tentato di evadere. Giustificazione senza senso, l’esperienza ha dimostrato gli effetti deleteri che l’isolamento produce sulla psiche e sul fisico delle persone costrette a subirlo.
Ad aggravare la situazione è stata la telefonata della comandante delle guardie penitenziarie, la vice commissaria Elisabetta Ciambrello: ha insultato la deputata dicendole che non si doveva permettere di entrare in carcere senza chiedere prima il permesso. Le è stato ricordato che il regolamento, per quanto riguarda le visite ispettive parlamentari, permette di fare le ispezioni anche all’improvviso e senza chiedere il permesso a nessuno.
Enza Bruno Bossio ha informato dell’accaduto la segretaria dei radicali Rita Bernardini, il responsabile nazionale carceri del Pd Sandro Favi e la segreteria del ministro della giustizia Orlando. Nei prossimi giorni procederà ad una formale denuncia indirizzata alla procura di Castrovillari e presenterà un’interrogazione parlamentare per chiedere una risposta scritta del governo. Il Ministro ha fatto sapere di essere stato informato della visita della deputata del Pd e di essere anche lui indignato, e ha giurato che interverrà immediatamente. Speriamo che sia vero, speriamo che lo faccia con efficacia.

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/08/12/in-cella-nudi-tra-vomito-e-escrementi-abu-ghraib-e-in-calabria/