«Io, trans, dico: meglio troia che schiava delle guardie»

 

Dell’emergenza carceri fa parte a pieno titolo una questione poco nota, ma assai delicata: quella che riguarda le condizioni delle detenute transessuali. Il carcere è un’istituzione totale dove si amplificano i problemi già preesistenti nella società libera e le detenute transessuali sono coloro che pagano di più le conseguenze di un sistema carcerario al collasso e non adeguato per il reinserimento dei detenuti.

Se vivere la detezione è difficile per ogni essere umano, per il transessuale lo è ancor di più.

Il transessualismo non viene riconosciuto dalle direzioni carcerarie, quindi generalmente le trans sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali separati per detenuti “a rischio” insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. Per evitare questo problema della doppia punizione, a Empoli, nel 2010, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle detenute transessuali: l’allora ministro della giustizia Angelino Alfano decise di bloccare l’iniziativa. Eppure era già tutto attrezzato per trasformare la casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in un penitenziario riservato ai soggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso.

La grande percentuale delle trans è in carcere per reati minori e quindi il periodo di detenzione è breve, ma nonostante ciò la carcerazione viene vissuta con molta sofferenza e frequenti sono i tentativi di suicidi in cella.

Molte detenute trans sono di origine sudamericana, e si trovano facilmente a delinquere perché sprovviste di documenti, soldi e permesso di soggiorno. La detenuta transessuale straniera è sempre priva del permesso di soggiorno e nell’impossibilità di ottenerlo, quindi costretta a vivere la propria carcerazione in misura pressoché isolata e ulteriormente afflittiva.

Tali difficoltà si riflettono, ad esempio, sulle questioni pratiche connesse alla detenzione: il legame sentimentale del detenuto transessuale non ha alcuna rilevanza per la legge, ed il proprio compagno o compagna non verrà mai riconosciuto come tale e ammesso a fare colloqui.

Le misure alternative alla detenzione non trovano sempre applicazione per le trans perché c’è l’impossibilità di reperire domicili idonei o aiuti esterni. Sulla carta, le transessuali detenute che hanno iniziato il trattamento prima dell’arresto, hanno diritto alle cure ormonali: la realtà è che non avviene quasi mai, soprattutto nei confronti di chi risulta, sulla carta d’identità, ancora un uomo. La cura ormonale non è un capriccio, il Movimento identità nazionale spiega che «senza ormoni si assiste a un abbruttimento del proprio corpo. Ci si lascia andare, subentra la depressione, l’impossibilità di realizzarsi».

Le detenute transessuali sono coloro che subiscono più violenze e abusi da parte delle guardie penitenziarie.

Qualche spunto ce lo fornisce una lettera di A., 33 anni, transessuale brasiliana, diffusa su internet da RistrettiOrizzonti e Radiocarcere: «Io quando ero libera mi prostituivo. Non ero contenta della vita che facevo, ma dovevo pagare chi dal Brasile mi aveva fatto arrivare in Italia. Un uomo, a cui dovevo i soldi di quel viaggio, che mi picchiava e che abusava di me. Ero esasperata da quella vita. Una notte ho reagito a quegli abusi e a quelle botte, l’ho ferito e lui purtroppo è morto. Mi hanno processata, mi hanno giustamente condannata, ma poi per me si è aperta la porta del carcere. Un carcere assai lontano da quella ”giustizia” che mi aveva condannato. Per un transessuale il carcere appare subito come l’inferno.La diversità che ti porti appresso è amplificata. Difficile anche trovarti un posto. Non nella sezione maschile. Non nella sezione femminile. Ma nella sezione peggiore: quella degli infami, dei pedofili ovvero quella, appunto, dei trans. Per parecchio tempo ho diviso la mia cella con altre transessuali. Persone che erano in carcere da diversi anni e che erano segnate nel corpo e nella mente dalla disperazione. In quella cella c’era chi si tagliava la braccia, chi si drogava o chi negli occhi non aveva più la voglia di vivere. Come Samanta, anche lei transessuale. Da tempo Samanta stava male con i polmoni. Spesso aveva delle crisi respiratorie, ma per lei erano rare le cure mediche. Piano piano Samanta si è lasciata andare, si è abbandonata. Ha iniziato a bere vino mischiato con gli psicofarmaci. Tutti sapevano quello che si faceva Samanta. Nessuno ha fatto nulla per lei. Una mattina ho trovato Samanta in bagno. Per terra in una pozza di sangue. Si era tagliata le vene e l’aveva fatta finita. Oggi mi è chiaro. La pena in carcere per un transessuale è la sua diversità. Una diversità a cui il carcere non è preparato. Se già mancano educatori o assistenti sociali per i detenuti comuni figuratevi per noi! Se in carcere non c’è possibilità di lavorare se sei ”normale”, può esserci per chi è considerato uno strano animale? Per queste ragioni la vita in cella di un transessuale è ai limiti del possibile e lontano da ciò che si può immaginare. Dicevo prima del prezzo da pagare in carcere se sei transessuale e se vuoi sopravvivere. Bene il prezzo è il sesso. I tuoi clienti gli agenti, o meglio alcuni di loro. Ora voglio essere chiara. Tantissimi agenti sono bravi e sono i veri agenti, ovvero quelli che lavorano secondo la legge e per le persone detenute, anche se transessuali. Purtroppo tra questi c’è chi si approfitta della loro posizione di potere. Se in sezione ti capita di turno un agente così, tu sei finita. Per tanti mesi io ho provato a resistere alle loro richieste. Arrivavano di notte, mentre dormivo e mi dicevano «Oh, puttana! Che fai dormi? Svegliati e fammi una p.», oppure «fammi toccare una tetta, magari così ti porto da mangiare». Una notte ho risposto male a un agente che mi chiedeva di fare sesso. Lui mi ha fatto rapporto, io ho raccontato l’episodio al comandante ma non sono stata creduta. Morale mi hanno punito. Da quel giorno, quando mi chiedevano di fare sesso io lo facevo.
Così è iniziato un lungo periodo in cui io, come tante altre trans, acconsentivamo a rapporti sessuali. Insomma presto mi sono resa conto che mi ero liberata da uno sfruttatore ed ero finita nelle mani di altri. Avrei preferito tornare sul marciapiede. Perché c’è un margine di scelta nella prostituzione. Ma quando sei in carcere tu quel margine non ce l’hai. In carcere o fai sesso oppure la tua vita diventerà impossibile. In carcere sono dovuta scendere ancora più in basso di quando facevo la puttana».

Ci sono altre prigioni totali dove le transessuali pagano uno scotto maggiore. Riguardano i famigerati Centri di identificazione ed espulsione (Cie) dove un gran numero di transessuali immigrate vengono inevitabilmente rinchiuse visto che, non di rado, avvengono le retate della polizia in nome del decoro delle città.

Per evitare stupri e altri tipi di abusi si è deciso di creare un reparto separato a loro destinato nel Cie di Milano, a via Corelli. La struttura produce quotidianamente tentativi di suicidi, disperazione e rivolte, oltre a ledere e violare ripetutamente il diritto di difesa e calpestare la dignità delle persone. Dal dossier redatto dai ”medici per i diritti umani” si legge la testimonianza di una transessuale reclusa nel Cie di Milano; dichiarava di essere positiva all’HIiv e presentava, secondo la stadiazione clinica proposta dall’Oms, segni e sintomi di Hiv al III stadio. La paziente era stata però considerata idonea alla detenzione e non aveva ancora ricevuto una valutazione specialistica per l’inizio della terapia antiretrovirale.

Durante la sua esperienza da parlamentare, Vladimir Luxuria visitò diversi carceri, in particolare quelli con apposite sezioni per transessuali. «Nella maggior parte dei casi – spiegò Luxuria – scontano una doppia punizione: quella per il reato commesso e quella per il fatto di essere trans». Poi c’è l’associazione radicale ”Certi diritti” che ogni anno organizza visite alle carceri per verificare le condizioni della transessualità. E da tempo intraprende la battaglia per riformare la legge 164: se nel 1982 era stata una grande conquista per il mondo trans, oggi diventa un ostacolo per chi vuole cambiare nome all’anagrafe senza necessariamente operarsi. Le detenute transessuali non operate sono coloro che rischiano ancor più discriminazione e ghettizzazione proprio perché la loro identità sessuale non corrisponde all’anagrafe.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/02/io-trans-dico-meglio-troia-che-schiava-delle-guardie/