L’inferno dei Rohingya

La foto che ricorda al mondo l’inferno dei Rohingya

Myanmar. Il bimbo riverso senza vita sulla sabbia scappava dal Myanmar dopo l’ennesimo eccidio

Rohingya su una barca diretta in Bangladesh

Un video nel quale le forze di sicurezza birmane prendono a calci un poveraccio che si nasconde la testa tra le mani e la fotografia di un bimbo riverso sulla sabbia a faccia in giù e senza più vita fanno il giro del mondo e risollevano la questione di una minoranza bistrattata e selvaggiamente perseguitata.

06inchiesta bambino morto Rohingya

UN POPOLO IN FUGA Il piccolo Mohammed e il povero contadino preso a calci, divenuti virali sui social media finora attenti alla tragedia di Aleppo, sono due rohingya. Appartengono a un popolo in fuga che, dagli inizi di ottobre, scappa dall’ennesima persecuzione ai suoi danni. Questa volta a scatenarla è stato l’eccidio di alcuni poliziotti birmani attribuito a un gruppo islamista radicale alla frontiera.
Altre volte, e a più riprese, questa comunità musulmana di un milione di persone che abitano nello Stato occidentale birmano del Rakhine, è stata oggetto di violenze che l’hanno costretta alla fuga. Si stima che la metà dei Rohingya viva ormai fuori dal Myanmar mentre un quinto di chi è rimasto vive nei campi profughi nel Rakhine. Oltre trentamila sono invece la colonna infame dell’ultima fuga che, tra ottobre e dicembre, ha raggiunto le coste del Bangladesh. Un esodo che non si è fermato.INUTILI PRESSIONI Finora, le pressioni sul governo birmano sono state praticamente inutili. Né ha ancora sortito effetti la lettera che una dozzina di Nobel per la pace e altrettanti personaggi pubblici hanno scritto all’Onu perché si faccia qualcosa.
L’unica cosa certa è che Naypyidaw manderà a Dacca un suo inviato per «discutere» della questione. Poco quando le accuse sono di stupro, esecuzioni sommarie, violenze, incendio di villaggi.

Mercoledi scorso, una commissione d’inchiesta del governo birmano ha negato tutte le accuse che, da Human Rights Watch ad Amnesty International , sulla base di testimonianze raccolte tra i fuggiaschi, sono state descritte in questi mesi: un quadro a tinte forti che il documento del governo ora cerca di nascondere sotto una mano di vernice bianca. Un tentativo che appare ridicolo nel momento in cui ai giornalisti stranieri e a quelli non accompagnati è vietato – così come alle organizzazioni umanitarie – entrare nelle frontiere sigillate del Rakhine per vedere cosa succede davvero.

Il governo della Malaysia ha accusato il Myanmar di genocidio e anche la rappresentante a Dacca dell’Unhcr ha usato il termine «pulizia etnica». Ma per ora non è bastato.

LA MALEDIZIONE Ma chi sono i Rohingya? La loro origine è controversa e si presta a interpretazioni declinate politicamente. E naturalmente, quando c’è un pasticcio etnico recente, c’è di mezzo una frontiera e, tanto per cambiare, le geometrie variabili – in fratto di confini – dei diplomatici di Sua maestà.

Quando nel 1826 finisce la prima guerra anglo-birmana, viene firmato il Trattato di Yandabo con cui i birmani sono costretti a cedere le coste dello Stato dell’Arakan tra Chittagong, nell’attuale Bangladesh, e Capo Negrais (oggi nuovamente birmano). Passano sotto il controllo della Corona o meglio della East India Company, che allora amministrava le terre del subcontinente indiano. L’Arakan è l’attuale Stato di Rakhine (che i Rohingya, che in parte lo abitano, chiamano Rohang).

Ha forse origine da quelle spartizioni sulla testa di contadini e pescatori la maledizione rohingya.

Contrariamente alla maggior parte dei birmani, i rohingya non parlano una lingua del gruppo sino-tibetano ma un idioma indoeuropeo del ramo delle lingue indoarie, come il bengalese (o bengali). Sono infine musulmani come la maggioranza dei bengalesi o meglio di quei bengalesi che abitano il Bangladesh (l’ex Pakistan orientale staccatosi dal Pakistan nel 1971).

ANTICHI IMMIGRATI In un Paese a maggioranza buddista questa minoranza è dunque molto isolata e le sue caratteristiche hanno fatto attribuire ai suoi appartenenti lo status di antichi immigrati dal Bangladesh durante l’occupazione britannica, motivo per cui Naypyidaw non riconosce loro né la cittadinanza né una rappresentanza politica garantita ad altre minoranze (Karen, Kachin eccetera).

Per il Bangladesh, con motivi più fondati, i rohingya sono invece semplicemente dei birmani musulmani che parlano una lingua vicina al bengali ma che restano immigrati indesiderati.

Schiacciati tra le due nazioni e con una terra d’origine che non riconosce loro uno straccio di documento, i membri di questa comunità hanno ormai una spiccata vocazione alla fuga. Colonie di rohingya vivono in Bangladesh ma anche in Malaysia o in Indonesia, dove hanno cercato e trovato rifugio in questi anni di persecuzioni. Persecuzioni cicliche ogni 5-10 anni. Il primo grande flusso è del 1978 e altri ne sono seguiti a intervalli sino a quello biblico di questi mesi.

FACCENDA DELICATA Politicamente la faccenda è molto delicata. Il governo bangladese li accoglie e minaccia di rispedirli a casa ma non può fare a meno di considerarsi il loro grande protettore e di fatto non li sta espellendo. Nondimeno in Bangladesh, i rohingya non possono integrarsi né avere la cittadinanza e dunque, pur se accolti, hanno davanti una vita da sfollati con la quale si barcamenano in decine di campi profughi e lavorando saltuariamente nelle varie attività stagionali.

Anche per le organizzazioni umanitarie la situazione è difficile e delicata anche perché il Myanmar non è più la feroce dittatura di un tempo e il governo di Aung San Suu Kyi vive un momento di difficilissima transizione. Infine le organizzazioni umanitarie impegnate nel sostenere l’urto dell’immigrazione rohingya sono molto caute nel denunciare le violazioni oltre confine nel tentativo di poter ottenere il permesso dalle autorità birmane per poter lavorare dentro lo Stato di Rakhine, ora sigillato. È lì il buco nero di cui non sappiamo e di cui abbiamo solo informazioni frammentate e non sempre verificabili.

IMMAGINI Ma l’informazione passa, come accaduto col video del pestaggio e l’immagine del piccolo Mohammed. In Bangladesh gli attivisti rohingya ci hanno mostrato decine di immagini di corpi straziati e villaggi bruciati. Immagini che girano comunemente sui social network legati al movimento rohingya.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/linferno-dei-rohingya-e-la-foto-che-ricorda-al-mondo-il-dramma-di-un-popolo-in-fuga/

 

Leggi anche qui:

http://ilmanifesto.info/il-silenzio-di-aung-san-suu-kiy-macchia-indelebile-sul-suo-vestito-zafferano/

E qui:

http://ilmanifesto.info/rohingya-e-land-grabbing-gli-interessi-economici-oltre-alla-persecuzione-religiosa/

 

Il Kashmir e la protesta dei graffiti

Di Saqib Majeed*

Alcuni giorni dopo l’uccisione del comandante Burhan Muzaffar Wani, nelle strade e sulle serrande dei negozi del Kashmir sono iniziati a comparire dei graffiti in memoria di Burhan. Gli slogan inneggianti alla libertà, che hanno portato alla definizione della cosiddetta “protesta dei graffiti”, sono l’ultima espressione della resistenza di Srinagar. I giovani vogliono “che l’India legga la loro condizione sui muri”.

Già dopo le sollevazioni del 2010, in Kashmir sono iniziati a comparire su base regolare dei graffiti di protesta. La facile reperibilità di bombolette spray ha agevolato molto l’attivismo “murale”. Nel buio della notte, quando le forze governative si ritirano nei loro accampamenti per riposare, dei ragazzi prendono le loro “armi” e nell’anonimato scrivono il loro grido di libertà sulle serrande dei negozi, sui muri e persino sulle strade.

Per 60 giorni consecutivi coprifuoco, restrizioni alla libertà di movimento e posti di blocco hanno paralizzato la vita in Kashmir. In questo periodo sono state uccise 70 persone e oltre 8000, tra cui anche poliziotti e soldati, sono stati feriti nelle rivolte che hanno seguito l’uccisione di Burhan Muzaffar Wani e dei suoi due compagni l’8 luglio 2016.


*Majeed Saqib è un ingegnere e fotoreporter freelance, che il caso ha voluto nel Kashmir controllato dall’India

 

Kashmir, scontri con i militari indiani, almeno 72 morti e oltre 7mila feriti

Kashmir. Il governo di Delhi usa i paramilitari e le letali «pellet gun»

Dopo quasi due mesi dalla morte di Burhan Muzaffar Wani, il giovane comandante del gruppo armato separatista kashmiri Hizbul Mujahideen ucciso dall’esercito indiano, la valle del Kashmir continua a bruciare. La normale e ordinaria vita dei cittadini si è interrotta e il bilancio è ormai tragico: 72 morti e 7.000 feriti causati dagli scontri con i militari indiani, percepiti a tutti gli effetti come le forze di un’occupazione straniera.

Le strade sono deserte, i soldati sono l’unica, ma costante, presenza e le serrande dei negozi chiusi accompagnano i passanti con graffiti che fungono da sottotitoli di quest’estate: «Burhan è il nostro eroe», «Indian dogs go back». Internet e la rete telefonica sono ancora bloccate. Il coprifuoco, per prevenire assembramenti cospicui, è rigido. I giovani aspettano le 18, quando le truppe cominciano a ritirarsi, oppure sfidano le restrizioni e fronteggiano le forze dell’ordine armati di pietre. Le scuole e i negozi sono chiusi da quando i leader separatisti hanno indetto l’hartal – sciopero in urdu.

La stagione dei matrimoni è stata rimandata, i beni di prima necessità cominciano a scarseggiare, i giovani rischiano di perdere un anno di scuola e l’economia dello stato è in picchiata libera, colpendo soprattutto quelli che hanno lavori più umili. Per non parlare dell’industria del turismo, probabilmente il settore più produttivo nella valle, che ha visto sfumare la stagione estiva. Ma la popolazione appare disposta a sopportare tali sacrifici, unita e determinata nel dimostrare il proprio dissenso nei confronti dell’amministrazione indiana.

L’insurrezione del 2016 verrà sicuramente ricordata per l’uso delle cosiddette «armi non letali» da parte dei paramilitari indiani e della polizia: i pellet gun. Introdotte in Kashmir dopo la sanguinosa estate del 2010, in cui 120 persone erano state uccise durante le proteste, si tratta di cartucce contenenti 500 sfere metalliche usate per sedare l’aggressività giovanile durante le sassaiole. Sparati molto spesso a distanza ravvicinata e ad altezza uomo, i pellet gun possono causare ferite molto gravi.

Nel reparto di oftalmologia dell’ospedale Shri Mahraja Hari Singh di Srinagar i medici raccontano di una situazione drammatica per via dei 2.000 pazienti che hanno riportato ferite agli occhi. Molti di questi, a causa dei pellet gun, sono destinati a una cecità irreversibile. Inoltre gli scanner per la risonanza magnetica generano un forte campo magnetico, causando il movimento delle sfere depositate nel corpo, particolarmente pericoloso se vicine ad organi vitali come cervello, cuore o spina dorsale.

Le dure e diffuse condanne per l’uso dei pellet gun hanno costretto il governo centrale di Delhi a intervenire. È stato quindi costituito un comitato, presieduto dal ministro degli interni indiano, che si è impegnato ad interrompere l’utilizzo dei pellet gun, sostituendole con il Pelargonic Acid Vanillyl Amide, delle granate al peperoncino in grado di stordire e immobilizzare l’obiettivo per qualche minuto. Tuttavia, i pellet gun rimarranno in dotazione delle forze dell’ordine dispiegate nella regione e verranno utilizzate sono in rari casi.

Fino a qualche giorno fa la gestione del governo indiano si era limitata a dichiarazioni che sottolineavano il ruolo di pochi nel fomentare le proteste e il ruolo del Pakistan nel provocare le violenze. Sulla stessa lunghezza d’onda, Mehbooba Mufti, chief minister dello stato del Jammu e Kashmir, aveva sostenuto come i responsabili dei disordini fossero solo una minima percentuale a fronte della maggioranza pacifica della popolazione. Qualcosa si è mosso quando Mufti, dopo aver incontrato il primo ministro Narendra Modi a Delhi, ha dichiarato che «[il primi ministro] è molto preoccupato per la situazione in Kashmir e rammaricato per le perdite umane».

Dopo l’incontro è stato inoltre deciso che una delegazione con esponenti di tutti i partiti del parlamento di Delhi visiterà la valle il 4 settembre per confrontarsi con varie personalità, organizzazioni e rappresentati della società per trovare una soluzione, sempre più urgente ormai. Il ministro degli interni Rajnath Singh si è rifiutato di rispondere riguardo alla possibilità di incontrare anche i leader separatisti kashmiri, che secondo molti dovrebbero essere considerati degli interlocutori fondamentali ad un ipotetico tavolo di confronto con India e Pakistan, in quanto rappresentanti della popolazione.

«Concedetemi la possibilità di risolvere la situazione, invece di incitare i giovani alla violenze», avrebbe chiesto Mehbooba Mufti alla Hurryat conference, principale organizzazione separatista, che non partecipa alle elezioni locali, rivendicando la natura di territorio conteso del Kashmir, battendosi invece per l’implementazione del referendum promesso nel 1948, lo strumento attraverso cui i kashmiri avrebbero dovuto decidere democraticamente del proprio futuro.

I tre principali esponenti – Yasin Malik, ex ribelle armato negli anni ’90, Mirwair Omar Farooq, capo predicatore della valle e considerato il più moderato e Syed Ali Shah Geelani, sebbene molto anziano, il più sostenuto dai kashmiri – hanno subìto forti restrizioni fin dall’inizio dell’insurrezione: i primi due sono in carcere e l’ultimo è agli arresti domiciliari da anni. Sebbene la popolazione stia seguendo le direttive della leadership riguardo lo sciopero e la calendarizzazione delle proteste, appare chiaro come le manifestazioni, gli assembramenti e le sassaiole siano tutt’altro che eterodirette; si tratta di gesti spontanei nati dal basso, senza nessuna organizzazione centrale del movimento anti-indiano. La voce dei kashmiri è più forte che mai e reclama con veemenza l’azadi – libertà, in urdu.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/kashmir-scontri-con-i-militari-indiani-almeno-72-morti-e-oltre-7mila-feriti/

Mahatma Gandhi

Mohandas Karamchard Gandhi, detto il Mahatma, la Grande Anima, nasce il 2 ottobre 1869 a Portbandar in India. Gandhi nasce in una famiglia privilegiata, il padre è Primo Ministro di Rajkot, nel Gujarat e Gandhi ha accesso ad un’istruzione di ottimo livello.

Si laurea in giurisprudenza a Londra, dove vive da occidentale, vestendosi alla moda e conducendo una vita da cittadino dell’Impero Britannico.

Svolge la professione di avvocato per un breve periodo, in Sudafrica, dove quasi subito, però, si scontra con una realtà fatta di discriminazione razziale verso gli indiani che lo porta ad una scelta di lotta politica molto determinata. La sua è una lotta politica, come dichiarato dallo stesso Gandhi nel famoso comizio il 1° settembre 1906, basata sulla non violenza, letteralmente il “satyagraha” (“fermezza nella verità”) grazie alla quale Gandhi ottiene in Sudafrica importanti riforme: l’eliminazione delle leggi discriminatorie, il riconoscimento della parità dei diritti e la validità dei matrimoni religiosi.

In Sudafrica rimane 21 anni e nel 1915 Gandhi torna in India dove trova un grande scontento verso il governo britannico in particolare a causa della riforma agraria che favorisce i proprietari terrieri a discapito dei piccoli contadini e degli artigiani.

Diventato leader del Partito del Congresso, nel 1919 dà il via alla prima grande rivolta non violenta basata sul boicottaggio delle merci inglesi e il non-pagamento delle imposte, a causa della quale Gandhi viene processato ed arrestato.

Una volta liberato, dopo qualche mese avvia una nuova protesta e viene di nuovo incarcerato. Rilasciato nuovamente, il Mahatma partecipa alla Conferenza di Londra dove chiede fermamente l’indipendenza dell’India.

Il 1930 è l’anno della svolta: Gandhi dà il via alla “marcia del sale”, una protesta di cui parleranno tutti i giornali del mondo: 380 km di marcia per chiedere il pubblico boicottaggio della tassa sul sale, considerata ingiusta. In questa occasione Gandhi, sua moglie e altre 50.000 persone vengono arrestati, ma dopo quasi un anno di prigione viene rilasciato e le leggi sul monopolio del sale vengono modificate. La protesta non-violenta riesce per la prima volta a scalfire l’immenso potere dell’Impero Britannico.

All’inizio della Seconda Guerra Mondiale Gandhi decide di non sostenere l’Inghilterra se questa non garantirà all’India l’indipendenza. Il governo britannico reagisce con l’arresto di oltre 60.000 oppositori e dello stesso Mahatma, che viene rilasciato dopo due anni.

Il 2 aprile 1947 alla Conferenza Interasiatica di New Delhi, di fronte a 20.000 visitatori, indiani e anglosassoni, Gandhi pronuncia quello che rimane il suo discorso più celebre in cui, ancora una volta proclama la non violenza e l’amore come gli strumenti più forti per vincere qualunque battaglia: “Se volete… dare un altro messaggio all’Occidente, deve essere un messaggio d’amore, un messaggio di verità” … “ Se lascerete i vostri cuori battere all’unisono con le mie parole, avrò compiuto il mio lavoro”.

Il 15 agosto 1947 l’India conquista l’indipendenza, ma a causa delle divergenze etniche e religiose tra musulmani e indù che provocano sanguinose rivolte, il Pakistan viene dichiarato stato indipendente.

Proprio per mano di un fanatico indù, il 30 gennaio 1948 Gandhi viene ucciso, mentre sta andando a pregare in giardino, come tutti i giorni, alle 5 del pomeriggio.

16 aprile 2012 (modifica il 17 aprile 2012)

Fonte:

http://www.corriere.it/cultura/leparole/biografie/gandhi_c0813b7e-87d0-11e1-99d7-92f741eee01c.shtml

Bhopal ancora aspetta la bonifica

Da il manifesto

Edizione del 3 dicembre 2014

 

India. A trent’anni dalla tragedia il sito resta contaminato. Ma per Dow Chemical il caso è chiuso.

Bangalore, attivisti ricordano l’anniversario della strage di Bhopal

Nella notte tra il 2 e il 3 dicem­bre del 1984 si è con­su­mata a Bho­pal, Mad­hya Pra­desh, «la più grande tra­ge­dia indu­striale della sto­ria». È un vir­go­let­tato inteso ormai come tra­ge­dia per anto­no­ma­sia, men­tre per la mul­ti­na­zio­nale ame­ri­cana Union Car­bide — pas­sata sotto il con­trollo della sem­pre ame­ri­cana Dow Che­mi­cal nel 2001 — respon­sa­bile della fab­brica di pesti­cidi di Bho­pal, si è trat­tato e ancora oggi si tratta di «inci­dente». Ter­mine fata­li­stico, nella gestua­lità indiana sarebbe accom­pa­gnato da mani rivolte al cielo fatte roteare inces­san­te­mente, come a cogliere una mela dall’albero: «kya kare?» si direbbe, «cosa pos­siamo farci?».

A trent’anni di distanza la let­te­ra­tura gior­na­li­stica e giu­ri­dica intorno ai fatti di Bho­pal ha assunto ormai dimen­sioni enci­clo­pe­di­che e come anda­rono le cose quella notte è ormai un assunto di domi­nio pubblico.

La fab­brica gestita dalla suc­cur­sale indiana di Union Car­bide, con­trol­lata al 51 per cento dalla casa madre ame­ri­cana e al 49 da ban­che sta­tali indiane, ver­sava in con­di­zioni di sicu­rezza pre­ca­rie: manu­ten­zione appros­si­ma­tiva, mate­riali in stato di semi abban­dono, con­di­zioni che nel secon­da­rio in India sono ancora oggi molto spesso la norma.

A causa di un’infiltrazione d’acqua — che Union Car­bide imputa a un atto di sabo­tag­gio — si inne­sca una rea­zione chi­mica all’interno di una delle tani­che con­te­nenti iso­cia­nato di metile, liquido alta­mente tos­sico uti­liz­zato nella pro­du­zione pla­sti­che e diser­banti. In forma gas­sosa, una nuvola tos­sica viene spri­gio­nata dalla fab­brica, rag­giun­gendo in poche ore il vicino cen­tro abi­tato. Nel giro di un paio di giorni i morti accer­tati sareb­bero stati oltre due­mila, senza con­tare l’alone di morte pro­pa­ga­tosi nelle vici­nanze dell’impianto. Alberi rin­sec­chiti, ter­reni e acqua avve­le­nati, migliaia tra capre e muc­che imme­dia­ta­mente abbat­tute per pro­vare ad argi­nare il contagio.

Le morti cau­sate diret­ta­mente dalla per­dita tos­sica saranno oltre 5000 (tutti morti di asfis­sia), 4000 i disa­bili. Le com­pli­ca­zioni di carat­tere medico, secondo i nume­rosi gruppi di soprav­vis­suti e ong locali, hanno ucciso altre 25mila per­sone in trent’anni men­tre oltre mezzo milione oggi vive in uno stato di disa­bi­lità per­ma­nente all’apparato cogni­tivo, ai pol­moni o ai reni.

Nella Bho­pal avve­le­nata il tasso di mor­ta­lità infan­tile, dal 3 dicem­bre 1984, è aumen­tato del 300 per cento. Del 200 per cento quello di morte endou­te­rina fetale.

La richie­sta di risar­ci­mento e di giu­sti­zia per via legale ancora oggi rimane lar­ga­mente ine­vasa, com­plice una sostan­ziale ina­zione delle auto­rità indiane.

All’indomani della tra­ge­dia, il governo indiano fece pas­sare una legge che per­met­teva al governo stesso di cen­tra­liz­zare le richie­ste di risar­ci­menti in sede legale: di fatto il governo si fece por­ta­voce unico delle istanze dei soprav­vis­suti, ingag­giando una bat­ta­glia legale, in ter­ri­to­rio indiano, con­tro Union Carbide.

La richie­sta ini­ziale di 3,3 miliardi di dol­lari di risar­ci­mento venne dra­sti­ca­mente ridi­men­sio­nata davanti al rifiuto di Union Car­bide, accon­ten­tan­dosi di 470 milioni di dol­lari, pagati a New Delhi nel 1989. Una parte dei soprav­vis­suti rice­vette, in media, 400 dol­lari a testa, men­tre altre decine di migliaia con pro­blemi cro­nici di respi­ra­zione, vista, emi­cra­nie, non rien­trando nel com­puto uffi­ciale delle «vit­time di Bho­pal» sti­lato dal governo, sono state sem­pli­ce­mente dimenticate.

Lo scorso novem­bre, avvi­ci­nan­dosi il tren­ten­nale della strage, decine di cit­ta­dini di Bho­pal hanno mani­fe­stato davanti al par­la­mento di New Delhi, chie­dendo che il nuovo governo Modi rical­co­lasse il numero degli aventi diritto a com­pen­sa­zioni e ria­prisse la disputa con la nuova pro­prietà di Dow Che­mi­cals. Dopo sei giorni di scio­pero della fame por­tati avanti da sei donne, un fun­zio­na­rio del Mini­stry of Che­mi­cals ha rag­giunto i mani­fe­stanti annun­ciando che il governo si sarebbe impe­gnato a rive­dere le cifre e richie­dere una giu­sta com­pen­sa­zione per le vittime.

Nel frat­tempo il ter­ri­to­rio di Bho­pal con­ti­nua a essere con­ta­mi­nato: liquami tos­sici fuo­rie­scono senza solu­zione di con­ti­nuità dalla fab­brica abban­do­nata, avve­le­nando i corsi d’acqua e aggiun­gen­dosi ai resi­dui di mer­cu­rio e altre sostanze tos­si­che risa­lenti ai ver­sa­menti della fab­brica in atti­vità. Secondo le stime, i 6,4 ettari cir­co­stanti l’impianto sareb­bero tec­ni­ca­mente inu­ti­liz­za­bili. Letali.

Dal 1984 a oggi nes­suna ope­ra­zione di boni­fica è stata por­tata avanti né dal governo né da Union Car­bide, che si è limi­tata ad aprire un ospe­dale per il trat­ta­mento spe­ci­fico dei soprav­vis­suti. Nes­suno vuole pren­dersi la respon­sa­bi­lità eco­no­mica delle one­rose ope­ra­zioni di puli­zia, tanto che per Dow Che­mi­cal l’affare Bho­pal è un caso chiuso, anche dal punto di vista legale.

Nel giu­gno del 2010 sette ex dipen­denti della suc­cur­sale indiana di Union Car­bide — tra cui il pre­si­dente — sono stati con­dan­nati a due anni di reclu­sione e una multa di 2000 dol­lari. A tutti furono imme­dia­ta­mente garan­titi gli arre­sti domiciliari.

Nel 1991 il tri­bu­nale di Bho­pal con­dannò l’allora pre­si­dente di Union Car­bide War­ren Ander­son per omi­ci­dio col­poso, reato puni­bile fino a un mas­simo di dieci anni di car­cere. Ander­son non si pre­sentò mai in aula in India.

Il governo indiano com­pilò e pre­sento le pra­ti­che per l’estradizione solo nel 2003, ini­zia­tiva alla quale Washing­ton si oppose con­si­de­rando le accuse for­mu­late basan­dosi su prove «insuf­fi­cienti». Secondo Union Car­bide, la respon­sa­bi­lità dell’«incidente» doveva essere inte­ra­mente impu­ta­bile alla suc­cur­sale indiana.

Il 29 set­tem­bre 2014 War­ren Ander­son «è morto in una cli­nica pri­vata a Vero Beach, Cali­for­nia, all’età di 93 anni. La noti­zia, per volontà della fami­glia, non venne comu­ni­cata ai media per un mese.

Secondo quanto ripor­tato da quo­ti­diano indiano The Hindu, quando a Bho­pal si venne a sapere del decesso di War­ren, un gruppo di soprav­vis­suti si radunò fuori dalla fab­brica abban­do­nata por­tando un grosso ritratto dell’ex pre­si­dente di Union Car­bide. E a turno, uno per uno, ci spu­ta­rono sopra.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/bhopal-ancora-aspetta-la-bonifica/