Reportage da un gulag chiamato carcere

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Visita di una delegazione radicale al carcere di Catanzaro. Diciamo carcere, così, per gentilezza. Assomiglia più a un gulag, o a un frigorifero. Dalle docce esce l’acqua sottozero. E’ impossibile farsi una doccia senza prendere la polmonite. L’ora d’aria è un altro inferno, sempre per la temperatura.

I famosi tre metri quadrati di spazio per ogni detenuto, dichiarati necessari dalla Corte Europea, sono un miraggio. Nelle celle, cesso e cucina son la stessa cosa. Potete immaginare con quali risultati per l’igiene. Anche le guardie carcerarie lavorano in condizioni impossibili. Al gelo. Niente di straordinario, intendiamoci, nessun abuso, nessuna situazione particolare: è la regola, la norma nella qua-e si vive nelle prigioni italiane e che rendono il nostro paese un paese che sta sotto il livello di guardia della civiltà.

Intanto da un altro carcere, quello di Sollicciano, a Firenze, arrivano nuove denunce di violenze. Ci ha scritto la moglie di un detenuto, che già in passato aveva denunciato di essere stato picchiato e che era riuscito a ”registrate” le dichiarazioni di medici e guardie carcerarie che confermavano la sua versione, e nella sua lettera denuncia nuove violenze subìte da suo marito.

E’ freddo il carcere di Catanzaro, non solo per il clima polare di questi giorni. È freddo non solo per i riscaldamenti che vengono accessi un’ora e mezza al mattino e un’ora e mezza alla sera. È freddo non solo per il tempo che scorre lento, con i detenuti che vorrebbero lavorare e come in tutte le altre carceri italiane lo possono fare solo in pochi, e quelli scelti sono quasi tutti coloro per i quali si avvicina il “fine pena”.

È freddo non solo per l’acqua che sgorga dai rubinetti di quelle cabine interne alle celle che sono al contempo bagno e cucina e che, almeno in alcuni reparti, scende fredda anche dalle docce comuni.

Il freddo rigido è in quei gabbioni in cui i reclusi scorrono la loro “ora d’aria” camminando in fila per quattro, come una ronda, per riscaldare i muscoli e riattivare la circolazione. O talvolta in due coppie distinte, seguendo diagonali diversi, forse per un’empatia che manca tra le due coppie di detenuti.

Ore d’aria trascorse all’interno di tre pareti alte, in cemento armato, e di una quarta la cui soluzione di continuità è rotta solo dal cancello di ferro da cui si entra e si esce in quei gabbioni venti metri per dieci. Ora d’aria a cui spesso i detenuti di Siano rinunciano preferendo restare all’interno delle loro celle.

È freddo anche per gli operatori che sotto le divise di ordinanza indossano maglioni e sciarpe e che un tiepido sole del primo pomeriggio riscalda solo all’uscita, alla fine del turno.

È freddo il rapporto tra quei numeri delle prestazioni sanitarie snocciolati da medici e dagli infermieri e quello dei mesi di attesa per un esame diagnostico o una visita denunciato dai detenuti. E c’è il freddo di chi deve dormire vestito, nelle celle umide, anche se imbiancate, quando stucco e vernici sono disponibili, dagli stessi detenuti per coprire le incrostazioni delle infiltrazioni d’acqua ed il verde delle muffe. I freddi numeri dicono che ci sono ”solo” 547 ospitati a fronte di 545 posti, ma il dato della capienza utile alle statistiche del Ministero comprende anche i 72 posti dell’ultimo piano del nuovo padiglione, ancora non utilizzati.

Non riscaldano gli spazi ristretti, nelle celle doppie o triple, in cui i “tre metri quadrati calpestabili” sono un’utopia.

Scaldano poco gli animi le presunte “battiture” denunciate da un detenuto, che sarebbero opera di qualche agente di polizia giudiziaria, séguito di una agitata discussione con la moglie durante un colloquio.

Qualche cenno di tepore è dato da qualche ergastolano che cerca ancora di dare un senso alla propria vita. Come un ritratto di Pasolini con una citazione sul pensare e l’agire appeso col nastro adesivo ad un’umida parete, che ricorda più un tazebao che non un post su facebook.

E soprattutto come chi in modo artigianale, quasi casalingo, all’interno di una cella non più utilizzata, messa a disposizione dalla direzione, sta sperimentando un piccolo laboratorio di pasticceria. Piccoli segni dell’essere speranza più che avere speranza: lo spes contra spem ribadito, con frequenza di recente, da Marco Pannella.

 

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2015/01/03/reportage-da-un-gulag-chiamato-carcere/