Perché nelle carceri brasiliane c’è così tanta violenza

Il carcere Pedrinhas a São Luís, in Brasile, il 27 gennaio 2015. - Mario Tama, Getty Images
Il carcere Pedrinhas a São Luís, in Brasile, il 27 gennaio 2015. (Mario Tama, Getty Images)
  • 10 Gen 2017 17.04

L’ondata di violenza che c’è stata all’inizio dell’anno nelle carceri del Brasile ha puntato i riflettori su un sistema ormai al collasso. Quasi cento detenuti sono morti solo nella prima settimana di gennaio, uccisi mentre le guardie erano apparentemente incapaci di fermare lo spargimento di sangue. Come si è arrivati a questo?

  • Il primo problema è il sovraffollamento, spiega la Bbc. Un giro di vite nei confronti dei reati violenti e legati alla droga ha visto negli ultimi quindici anni la popolazione carceraria del Brasile aumentare. La prigione nello stato di Roraima, dove il 6 gennaio sono stati uccisi 33 detenuti, ospita 1.400 persone, il doppio della sua capacità. Il sovraffollamento rende difficile per le autorità carcerarie mantenere separate le fazioni rivali. E causa l’aumento della tensione all’interno delle celle, con i detenuti che si disputano le limitate risorse, come materassi e cibo.
  • Il secondo problema è la guerra tra bande rivali. Le uccisioni sono comuni tra le mura delle prigioni brasiliane – 372 detenuti sono morti in questo modo nel 2016, secondo la Folha de São Paulo – ma questo aumento è da collegarsi alla rottura di una tregua che vigeva da quasi vent’anni tra due delle più potenti bande del paese. Fino a poco tempo, il Primeiro comando da capital, di São Paulo, e Comando vermelho, di Rio de Janeiro, avevano un rapporto di collaborazione, presumibilmente per garantire il commercio di marijuana, cocaina e armi nelle città e oltre i confini del Brasile. Recentemente la pace è finita, anche se le ragioni sono poco chiare. E vista la repressione del governo nei confronti delle bande criminali, ci sono migliaia di persone appartenenti a entrambe le bande rinchiusi nelle carceri brasiliane.
  • Terzo problema è la mancanza di risorse. Molte carceri brasiliane sono sottofinanziate. In seguito alle ultime rivolte il governatore dello stato ha chiesto al governo federale attrezzature come metal detector, braccialetti elettronici e dispositivi per bloccare il segnale telefonico dentro le carceri. La sua richiesta mostra la mancanza di attrezzature di base anche in carceri molto affollate. Il governatore ha anche chiesto l’invio di forze federali. Male addestrate e mal pagate, le guardie carcerarie devono affrontare spesso detenuti che non solo sono più numerosi, ma inoltre sentono di avere poco da perdere visto che già devono affrontare condanne lunghe. Il governo brasiliano ha annunciato un piano per modernizzare il sistema, ma visto che il paese si trova nella peggiore recessione degli ultimi decenni e la spesa pubblica è bloccata per vent’anni, è difficile vedere come possa finanziarlo.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2017/01/10/brasile-carceri-violenza

I RIFIUTI TOSSICI INTERRATI E AFFONDATI IN CALABRIA

Originariamente pubblicato sul n. 1 – anno 1 del periodico di informazione giuridica Diritto21, a diffusione interna al dipartimento DiGiEC dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.

Di Giuseppe Chiodo:

 

I nuovi M(u)ostri che minacciano il Sud

Parte II: i rifiuti tossici interrati e affondati in Calabria

 

Le viscere della Calabria sono da tempo il cimitero di quantità sterminate di rifiuti tossici e radioattivi? Questo l’allarmante interrogativo che sembrerebbe emergere dal blocco di documenti recentemente declassificati dal Governo, su pressante richiesta dell’associazione ambientalista Greenpeace. Decine di dossier dei servizi segreti e verbali di audizioni di alcune commissioni parlamentari d’inchiesta, a fronte degli oltre 3000 ancora soccombenti alla “ragion di Stato”, sono dunque a disposizione dei cittadini. E descrivono un quadro inquietante.
Terra e mare sarebbero state infatti utilizzate come oscuri “pozzi” nei quali gettare, senza preoccuparsi delle conseguenze sanitarie, ambientali e penali, rifiuti di non meglio identificata natura, da parte di un’organizzazione senza scrupoli avente come terminale le cosche della ‘ndrangheta operanti sui singoli territori, sotto la “direzione”, forse, di apparati deviati dello Stato.
Il documento n. 488/03, facente parte del “patrimonio conoscitivo” della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti (della XVI legislatura), è probabilmente il più esaustivo e preoccupante. In questo stralcio di appunto originato dall’AISI (l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) molte pagine sono dedicate alla vicenda delle cd. “navi a perdere” e alle dichiarazioni del controverso collaboratore di giustizia Francesco Fonti, il quale “[…] ha riferito del coinvolgimento della ‘ndrangheta nel traffico internazionale di scorie nucleari, realizzato attraverso […] l’affondamento pilotato di una serie di motonavi (circa una trentina) all’interno delle quali erano stivati rifiuti pericolosi”. Oltre al più noto caso del “Cunsky”, il cui relitto sarebbe stato identificato al largo di Cetraro (salvo poi rivelarsi invece quello di una nave passeggeri colata a picco nel 1917), l’ex malavitoso si sarebbe addossato la responsabilità dell’affondamento di almeno altri due natanti, di cui uno, il “Voriais Sporadais”, sarebbe stato inabissato al largo di Melito Porto Salvo. Con dentro 75 bidoni di sostanze tossiche.
Anche gli impervi territori della Calabria sarebbero stati oggetto di costanti sversamenti. Africo, Serrata, la zona aspromontana, le Serre e il vibonese sono alcune delle località ricorrenti nel dossier, zeppe di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia, di scorie tossiche e radioattive arrivate dalla Germania, di non meglio identificate sostanze pericolose trasportate fin qui dall’Est Europeo. Dati che farebbero il paio, ad esempio, con alcune informative dei Carabinieri agli atti dell’inchiesta “Saggezza”, contenenti la trascrizione di intercettazioni in cui due presunti appartenenti all’organizzazione massonico – ‘ndranghetistica oggetto d’indagine confessano che “Ne hanno sotterrati di questi cosi tossici qui nella montagna, che glieli hanno portati i <<pianoti>>, che lì a Gioia Tauro dice che stanno scoppiando che Dio ce ne liberi”; nella cittadina da cui prende il nome la Piana, infatti, sempre secondo i soggetti inconsapevolmente ascoltati dalle forze dell’ordine, “dicono che a ogni albero di ulivo c’è un bidone”.
Ad occuparsi della verifica della fondatezza di queste copiose notizie di reato, tra gli altri, ci pensò all’epoca dei fatti (che le note dei servizi fanno risalire ai primissimi anni ’90) il dott. Francesco Neri, sostituto procuratore a Palmi; lo stesso magistrato che dispose il coraggioso sequestro dell’area che in quel medesimo periodo veniva deturpata per la costruzione del porto di Gioia Tauro, e l’iscrizione nel registro delle notizie di reato di ben tredici differenti ipotesi che coinvolgevano il Consiglio di Amministrazione dell’Enel, principale investitore: dalla violazione delle norme urbanistiche e dell’ambiente, alla turbativa d’asta e delle norme sugli appalti. Inchieste, entrambe, poi risoltesi in un nulla di fatto. Così l’epilogo è forse lo stesso del profetico libro sull’argomento dei giornalisti Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì, “Avvelenati”: “Un mare di <<ho sentito dire>>, <<ho saputo>>, <<ho notizia>>. Dal caso Alpi al traffico di armi, dalle scorie alle banche svizzere, dalla ‘ndrangheta ai servizi segreti. Mai una verità coincidente con un’altra, mai una prova vera. Solo tanti interrogativi sparsi su poche certezze. E tutti restiamo avvelenati”. Ma il procuratore Cafiero de Raho è già al lavoro per cambiarlo.

Tragedia Moby Prince: quella notte del 1991 il porto di Livorno era “stranamente affollato”

C’è chi sostiene che il Moby Prince si sia trovato nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ed ancorate in rada a Livorno quella notte

Il disastro del Moby Prince

di Carlotta Macerollo

Roma 10 aprile 2014

Tanti i misteri, tanti i depistaggi sulla tragedia del Moby Prince che costò la vita a 140 persone il 10 aprile del 1991. Quella notte il porto di Livorno era “affollato”: traghetti, porta containers, petroliere ma anche navi rifornimento da e per la base americana di Camp Darby, in Toscana.
Presunto traffico d’armi

Secondo Enrico Fedrighini, che nel 2005 ha pubblicato il libro-inchiesta “Moby Prince: un caso ancora aperto” che ha portato la Procura di Livorno a riaprire il caso dopo 15 anni, il traghetto si trovò nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ancorate in rada a Livorno quella notte. La tesi sostenuta da Fedrighini si poggia soprattutto sulla presenza accertata nel porto della città toscana di un peschereccio d’altura, il 21 Oktobar II.

Il 21 Oktobar II

Il peschereccio, donato dalla cooperazione italiana alla compagnia somala Shifco era stato filmato da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia, durante una movimentazione di armi, anziché di pesce, pochi mesi prima dela tragedia. L’imbarcazione era ormeggiata nel porto di Livorno dal 15 marzo 1991, ufficialmente per interventi di manutenzione e vi rimarrà fino al giugno dello stesso anno.

Il ritardo nei soccorsi

Il ritardo nei soccorsi è l’aspetto più drammatico di questa intricata vicenda. Un’ora e venti per rendersi conto che c’era una nave alla deriva, in fiamme e carica di persone, 66 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri, all’interno di un porto. A lungo si è sostenuto che dopo 30 minuti a bordo erano tutti morti, ma la circostanza è stata smentita dalle analisi dei periti. 

 

Fonte:

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Moby-Prince-porto-di-Livorno-affollato-la-notte-del-10-aprile-1991-e-presunti-traffici-di-armi-9d3e0891-83d4-4d42-bbe9-6144eec80dd0.html

Tragedia Moby Prince: quella notte del 1991 il porto di Livorno era “stranamente affollato”

C’è chi sostiene che il Moby Prince si sia trovato nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ed ancorate in rada a Livorno quella notte

Il disastro del Moby Prince

di Carlotta MacerolloRoma Tanti i misteri, tanti i depistaggi sulla tragedia del Moby Prince che costò la vita a 140 persone il 10 aprile del 1991. Quella notte il porto di Livorno era “affollato”: traghetti, porta containers, petroliere ma anche navi rifornimento da e per la base americana di Camp Darby, in Toscana.

Presunto traffico d’armi 
Secondo Enrico Fedrighini, che nel 2005 ha pubblicato il libro-inchiesta “Moby Prince: un caso ancora aperto” che ha portato la Procura di Livorno a riaprire il caso dopo 15 anni, il traghetto si trovò nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ancorate in rada a Livorno quella notte. La tesi sostenuta da Fedrighini si poggia soprattutto sulla presenza accertata nel porto della città toscana di un peschereccio d’altura, il 21 Oktobar II.

Il 21 Oktobar II
Il peschereccio, donato dalla cooperazione italiana alla compagnia somala Shifco era stato filmato da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia, durante una movimentazione di armi, anziché di pesce, pochi mesi prima dela tragedia. L’imbarcazione era ormeggiata nel porto di Livorno dal 15 marzo 1991, ufficialmente per interventi di manutenzione e vi rimarrà fino al giugno dello stesso anno.

Il ritardo nei soccorsi
Il ritardo nei soccorsi è l’aspetto più drammatico di questa intricata vicenda. Un’ora e venti per rendersi conto che c’era una nave alla deriva, in fiamme e carica di persone, 66 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri, all’interno di un porto. A lungo si è sostenuto che dopo 30 minuti a bordo erano tutti morti, ma la circostanza è stata smentita dalle analisi dei periti.

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Caso Alpi, via il segreto dopo vent’anni

Aggiornamento.Qui il video della trasmissione di Rai 3 per celebrare il ventesimo anniversario dell’omicidio di Ilaria Alpi:
*

Di

 

Caso Alpi-Hrovatin. Il governo annuncia l’operazione trasparenza. La procura pronta ad acquisire dalla Camera i documenti utili all’inchiesta. Articolo21: «È la vittoria delle 70mila firme»

 

Miran Hrovatin e Ilaria Alpi in Somalia

 

 

Vent’anni di misteri, depi­staggi, falsi testi­moni e inchie­ste finite nel nulla. E una pila di docu­menti segreti, tenuti sotto chiave per tutti que­sti anni negli archivi della Camera dei depu­tati per deci­sione dei ser­vizi segreti civili e mili­tari. Ieri il governo, nel giorno dell’anniversario dell’agguato di Moga­di­scio del 20 marzo ‘94, ha annun­ciato l’apertura degli archivi riser­vati dei ser­vizi sul caso di Ila­ria Alpi e Miran Hro­va­tin, la gior­na­li­sta e l’operatore del Tg3 assas­si­nati in Soma­lia men­tre erano sulle tracce dei traf­fici di armi e rifiuti tos­sici tra le pie­ghe della coo­pe­ra­zione italiana.

 

La deci­sione del governo è arri­vata in rispo­sta a una let­tera di inter­pello della pre­si­dente della Camera Laura Bol­drini, che ha rece­pito la richie­sta di Green­peace e una peti­zione lan­ciata da Arti­colo 21 che ha rag­giunto in pochi giorni 70mila firme: «Abbiamo avviato la pro­ce­dura di dese­cre­ta­zione degli atti sul caso Ila­ria Alpi. Il governo è for­te­mente impe­gnato su que­sto fronte — ha spie­gato alla Camera il sot­to­se­gre­ta­rio ai rap­porti con il Par­la­mento Sesa Amici — e vent’anni sono un tempo suf­fi­ciente per man­te­nere la sicu­rezza nazionale».

 

Sono carte che potreb­bero impri­mere una svolta alla ricerca della verità sui man­danti, sul con­te­sto dell’agguato, sui tanti depi­staggi che hanno impe­dito fino a ora il rag­giun­gi­mento della verità. Sull’omicidio di Ila­ria Alpi è ancora aperto un fasci­colo presso la pro­cura di Roma, affi­dato al pm Eli­sa­betta Penic­cola. Ieri alla noti­zia della pros­sima aper­tura degli archivi segreti il pro­cu­ra­tore di Roma, Giu­seppe Pigna­tone, ha dichia­rato di voler acqui­sire gli atti utili all’inchiesta.

 

L’unico con­dan­nato per l’esecuzione di Ila­ria e Miran, il somalo Omar Hashi Has­san, è dete­nuto da dodici anni sulla base di un testi­mone che avrebbe dichia­rato di aver inven­tato tutto, d’accordo con le auto­rità italiane.

 

Alla comu­ni­ca­zione del sot­to­se­gre­ta­rio Amici ha subito rispo­sto entu­sia­sta Laura Bol­drini: «È un segnale impor­tante con­tro il muro di silen­zio». Anche se nelle scorse set­ti­mane non erano man­cati dubbi e per­ples­sità sull’operazione di dese­cre­ta­zione dei fasci­coli sul traf­fico inter­na­zio­nale di rifiuti e sulle «navi a per­dere» — pra­tica che com­pren­deva anche gli atti segreti rela­tivi al caso Alpi — avviata dall’ufficio di pre­si­denza di Mon­te­ci­to­rio. La richie­sta di aper­tura degli archivi era arri­vata da Green­peace nel dicem­bre 2013, e dopo una prima rispo­sta posi­tiva di Bol­drini la noti­zia — sol­le­vata dal mani­fe­sto — di una rimo­zione sol­tanto par­ziale del segreto dai dos­sier riser­vati (solo 152 su diverse migliaia acqui­siti negli anni dalle com­mis­sioni par­la­men­tari d’inchiesta) aveva fatto sor­gere la neces­sità di una domanda di dese­cre­ta­zione «allargata».

 

Un’esigenza di verità cui ha cer­cato di rispon­dere la peti­zione lan­ciata da Arti­colo 21 pro­mossa da Ste­fano Cor­ra­dino e Beppe Giu­lietti, anche per­ché nel frat­tempo fonti di Mon­te­ci­to­rio ave­vano rive­lato al mani­fe­sto che i ser­vizi segreti mili­tari, nella pri­ma­vera scorsa, hanno negato l’autorizzazione all’apertura dei dos­sier riser­vati sui rifiuti e sulla Soma­lia a un uffi­cio di Montecitorio.

 

Non è ancora noto quanti e quali docu­menti ver­ranno avviati alla dese­cre­ta­zione: i dos­sier dei ser­vizi sul caso Alpi-Hrovatin sono 1.500 (ma il gene­rale Ser­gio Sira­cusa, ex diret­tore del Sismi, ne aveva mostrati circa 8mila alla com­mis­sione pre­sie­duta da Carlo Taor­mina), cui vanno aggiunti 750 docu­menti dell’ultima com­mis­sione sui rifiuti e le migliaia di atti acqui­siti dalle com­mis­sioni eco­ma­fia dalla XII alla XV legi­sla­tura. «È il miglior modo di ono­rare, più che la memo­ria, il lavoro di Ila­ria», ha com­men­tato in serata la mini­stra degli Esteri Fede­rica Moghe­rini. Entu­sia­sti anche tutti i sog­getti che nei giorni scorsi ave­vano ade­rito alla peti­zione di Arti­colo 21, dal segre­ta­rio della Fnsi Franco Siddi («è una svolta straor­di­na­ria che apre final­mente una brec­cia per verità e giu­sti­zia») all’associazione Ila­ria Alpi, agli stessi pro­mo­tori: «Segui­remo passo passo — assi­cu­rano Cor­ra­dino e Giu­lietti di Arti­colo 21 — l’iter e le rispo­ste che saranno for­nite da chi aveva appo­sto il segreto. Que­sto risul­tato è anche il frutto delle 70 mila per­sone che hanno chie­sto di met­tere fine al regime dei segreti e della clandestinità».

 

Ora la palla passa al governo e ai ser­vizi segreti — Aise e Aisi, ex Sismi e Sisde — gli stessi ser­vizi che solo nel mag­gio scorso ave­vano negato l’apertura degli archivi. Ma i ser­vizi di sicu­rezza sono con­trol­lati dalla pre­si­denza del Con­si­glio e dal governo, che sem­bra aver espresso una volontà poli­tica chiara. Non è pos­si­bile pre­ve­dere se gli atti declas­si­fi­cati daranno un impulso nuovo all’inchiesta sulla morte di Ila­ria e Miran. La madre di Ila­ria, Luciana Alpi, dopo un lungo periodo di disil­lu­sione ha detto di aver ritro­vato la spe­ranza. Dopo vent’anni di oblio, inqui­na­menti e omissioni.

 

* Toxi­cLeaks

 

Fonte:

http://ilmanifesto.it/archivi-via-il-segreto-dopo-ventanni/

 

 

Leggi anche qui:

http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=99943&typeb=0&Ilaria-e-Miran-dovevano-morire-in-nome-dello-Stato

E qui:
http://ilmanifesto.it/bazar-somalia-ventanni-dopo-ilaria-alpi/