"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione." Articolo 21 della Costituzione Italiana. "Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario." George Orwell – Blog antifascista e contro ogni forma di discriminazione.
L’ondata di violenza che c’è stata all’inizio dell’anno nelle carceri del Brasile ha puntato i riflettori su un sistema ormai al collasso. Quasi cento detenuti sono morti solo nella prima settimana di gennaio, uccisi mentre le guardie erano apparentemente incapaci di fermare lo spargimento di sangue. Come si è arrivati a questo?
Il primo problema è il sovraffollamento, spiega la Bbc. Un giro di vite nei confronti dei reati violenti e legati alla droga ha visto negli ultimi quindici anni la popolazione carceraria del Brasile aumentare. La prigione nello stato di Roraima, dove il 6 gennaio sono stati uccisi 33 detenuti, ospita 1.400 persone, il doppio della sua capacità. Il sovraffollamento rende difficile per le autorità carcerarie mantenere separate le fazioni rivali. E causa l’aumento della tensione all’interno delle celle, con i detenuti che si disputano le limitate risorse, come materassi e cibo.
Il secondo problema è la guerra tra bande rivali. Le uccisioni sono comuni tra le mura delle prigioni brasiliane – 372 detenuti sono morti in questo modo nel 2016, secondo la Folha de São Paulo – ma questo aumento è da collegarsi alla rottura di una tregua che vigeva da quasi vent’anni tra due delle più potenti bande del paese. Fino a poco tempo, il Primeiro comando da capital, di São Paulo, e Comando vermelho, di Rio de Janeiro, avevano un rapporto di collaborazione, presumibilmente per garantire il commercio di marijuana, cocaina e armi nelle città e oltre i confini del Brasile. Recentemente la pace è finita, anche se le ragioni sono poco chiare. E vista la repressione del governo nei confronti delle bande criminali, ci sono migliaia di persone appartenenti a entrambe le bande rinchiusi nelle carceri brasiliane.
Terzo problema è la mancanza di risorse. Molte carceri brasiliane sono sottofinanziate. In seguito alle ultime rivolte il governatore dello stato ha chiesto al governo federale attrezzature come metal detector, braccialetti elettronici e dispositivi per bloccare il segnale telefonico dentro le carceri. La sua richiesta mostra la mancanza di attrezzature di base anche in carceri molto affollate. Il governatore ha anche chiesto l’invio di forze federali. Male addestrate e mal pagate, le guardie carcerarie devono affrontare spesso detenuti che non solo sono più numerosi, ma inoltre sentono di avere poco da perdere visto che già devono affrontare condanne lunghe. Il governo brasiliano ha annunciato un piano per modernizzare il sistema, ma visto che il paese si trova nella peggiore recessione degli ultimi decenni e la spesa pubblica è bloccata per vent’anni, è difficile vedere come possa finanziarlo.
Originariamente pubblicato sul n. 1 – anno 1 del periodico di informazione giuridica Diritto21, a diffusione interna al dipartimento DiGiEC dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.
Di Giuseppe Chiodo:
I nuovi M(u)ostri che minacciano il Sud
Parte II: i rifiuti tossici interrati e affondati in Calabria
Le viscere della Calabria sono da tempo il cimitero di quantità sterminate di rifiuti tossici e radioattivi? Questo l’allarmante interrogativo che sembrerebbe emergere dal blocco di documenti recentemente declassificati dal Governo, su pressante richiesta dell’associazione ambientalista Greenpeace. Decine di dossier dei servizi segreti e verbali di audizioni di alcune commissioni parlamentari d’inchiesta, a fronte degli oltre 3000 ancora soccombenti alla “ragion di Stato”, sono dunque a disposizione dei cittadini. E descrivono un quadro inquietante.
Terra e mare sarebbero state infatti utilizzate come oscuri “pozzi” nei quali gettare, senza preoccuparsi delle conseguenze sanitarie, ambientali e penali, rifiuti di non meglio identificata natura, da parte di un’organizzazione senza scrupoli avente come terminale le cosche della ‘ndrangheta operanti sui singoli territori, sotto la “direzione”, forse, di apparati deviati dello Stato.
Il documento n. 488/03, facente parte del “patrimonio conoscitivo” della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti (della XVI legislatura), è probabilmente il più esaustivo e preoccupante. In questo stralcio di appunto originato dall’AISI (l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) molte pagine sono dedicate alla vicenda delle cd. “navi a perdere” e alle dichiarazioni del controverso collaboratore di giustizia Francesco Fonti, il quale “[…] ha riferito del coinvolgimento della ‘ndrangheta nel traffico internazionale di scorie nucleari, realizzato attraverso […] l’affondamento pilotato di una serie di motonavi (circa una trentina) all’interno delle quali erano stivati rifiuti pericolosi”. Oltre al più noto caso del “Cunsky”, il cui relitto sarebbe stato identificato al largo di Cetraro (salvo poi rivelarsi invece quello di una nave passeggeri colata a picco nel 1917), l’ex malavitoso si sarebbe addossato la responsabilità dell’affondamento di almeno altri due natanti, di cui uno, il “Voriais Sporadais”, sarebbe stato inabissato al largo di Melito Porto Salvo. Con dentro 75 bidoni di sostanze tossiche.
Anche gli impervi territori della Calabria sarebbero stati oggetto di costanti sversamenti. Africo, Serrata, la zona aspromontana, le Serre e il vibonese sono alcune delle località ricorrenti nel dossier, zeppe di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia, di scorie tossiche e radioattive arrivate dalla Germania, di non meglio identificate sostanze pericolose trasportate fin qui dall’Est Europeo. Dati che farebbero il paio, ad esempio, con alcune informative dei Carabinieri agli atti dell’inchiesta “Saggezza”, contenenti la trascrizione di intercettazioni in cui due presunti appartenenti all’organizzazione massonico – ‘ndranghetistica oggetto d’indagine confessano che “Ne hanno sotterrati di questi cosi tossici qui nella montagna, che glieli hanno portati i <<pianoti>>, che lì a Gioia Tauro dice che stanno scoppiando che Dio ce ne liberi”; nella cittadina da cui prende il nome la Piana, infatti, sempre secondo i soggetti inconsapevolmente ascoltati dalle forze dell’ordine, “dicono che a ogni albero di ulivo c’è un bidone”.
Ad occuparsi della verifica della fondatezza di queste copiose notizie di reato, tra gli altri, ci pensò all’epoca dei fatti (che le note dei servizi fanno risalire ai primissimi anni ’90) il dott. Francesco Neri, sostituto procuratore a Palmi; lo stesso magistrato che dispose il coraggioso sequestro dell’area che in quel medesimo periodo veniva deturpata per la costruzione del porto di Gioia Tauro, e l’iscrizione nel registro delle notizie di reato di ben tredici differenti ipotesi che coinvolgevano il Consiglio di Amministrazione dell’Enel, principale investitore: dalla violazione delle norme urbanistiche e dell’ambiente, alla turbativa d’asta e delle norme sugli appalti. Inchieste, entrambe, poi risoltesi in un nulla di fatto. Così l’epilogo è forse lo stesso del profetico libro sull’argomento dei giornalisti Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì, “Avvelenati”: “Un mare di <<ho sentito dire>>, <<ho saputo>>, <<ho notizia>>. Dal caso Alpi al traffico di armi, dalle scorie alle banche svizzere, dalla ‘ndrangheta ai servizi segreti. Mai una verità coincidente con un’altra, mai una prova vera. Solo tanti interrogativi sparsi su poche certezze. E tutti restiamo avvelenati”. Ma il procuratore Cafiero de Raho è già al lavoro per cambiarlo.
C’è chi sostiene che il Moby Prince si sia trovato nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ed ancorate in rada a Livorno quella notte
Tanti i misteri, tanti i depistaggi sulla tragedia del Moby Prince che costò la vita a 140 persone il 10 aprile del 1991. Quella notte il porto di Livorno era “affollato”: traghetti, porta containers, petroliere ma anche navi rifornimento da e per la base americana di Camp Darby, in Toscana. Presunto traffico d’armi
Secondo Enrico Fedrighini, che nel 2005 ha pubblicato il libro-inchiesta “Moby Prince: un caso ancora aperto” che ha portato la Procura di Livorno a riaprire il caso dopo 15 anni, il traghetto si trovò nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ancorate in rada a Livorno quella notte. La tesi sostenuta da Fedrighini si poggia soprattutto sulla presenza accertata nel porto della città toscana di un peschereccio d’altura, il 21 Oktobar II.
Il 21 Oktobar II
Il peschereccio, donato dalla cooperazione italiana alla compagnia somala Shifco era stato filmato da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia, durante una movimentazione di armi, anziché di pesce, pochi mesi prima dela tragedia. L’imbarcazione era ormeggiata nel porto di Livorno dal 15 marzo 1991, ufficialmente per interventi di manutenzione e vi rimarrà fino al giugno dello stesso anno.
Il ritardo nei soccorsi
Il ritardo nei soccorsi è l’aspetto più drammatico di questa intricata vicenda. Un’ora e venti per rendersi conto che c’era una nave alla deriva, in fiamme e carica di persone, 66 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri, all’interno di un porto. A lungo si è sostenuto che dopo 30 minuti a bordo erano tutti morti, ma la circostanza è stata smentita dalle analisi dei periti.
Tragedia Moby Prince: quella notte del 1991 il porto di Livorno era “stranamente affollato”
C’è chi sostiene che il Moby Prince si sia trovato nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ed ancorate in rada a Livorno quella notte
di Carlotta MacerolloRoma Tanti i misteri, tanti i depistaggi sulla tragedia del Moby Prince che costò la vita a 140 persone il 10 aprile del 1991. Quella notte il porto di Livorno era “affollato”: traghetti, porta containers, petroliere ma anche navi rifornimento da e per la base americana di Camp Darby, in Toscana.
Presunto traffico d’armi
Secondo Enrico Fedrighini, che nel 2005 ha pubblicato il libro-inchiesta “Moby Prince: un caso ancora aperto” che ha portato la Procura di Livorno a riaprire il caso dopo 15 anni, il traghetto si trovò nel mezzo di un traffico illegale di armi che coinvolgeva alcune navi statunitensi, militari e militarizzate, di ritorno dalla prima guerra del Golfo ancorate in rada a Livorno quella notte. La tesi sostenuta da Fedrighini si poggia soprattutto sulla presenza accertata nel porto della città toscana di un peschereccio d’altura, il 21 Oktobar II.
Il 21 Oktobar II
Il peschereccio, donato dalla cooperazione italiana alla compagnia somala Shifco era stato filmato da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia, durante una movimentazione di armi, anziché di pesce, pochi mesi prima dela tragedia. L’imbarcazione era ormeggiata nel porto di Livorno dal 15 marzo 1991, ufficialmente per interventi di manutenzione e vi rimarrà fino al giugno dello stesso anno.
Il ritardo nei soccorsi
Il ritardo nei soccorsi è l’aspetto più drammatico di questa intricata vicenda. Un’ora e venti per rendersi conto che c’era una nave alla deriva, in fiamme e carica di persone, 66 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri, all’interno di un porto. A lungo si è sostenuto che dopo 30 minuti a bordo erano tutti morti, ma la circostanza è stata smentita dalle analisi dei periti.
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Caso Alpi-Hrovatin. Il governo annuncia l’operazione trasparenza. La procura pronta ad acquisire dalla Camera i documenti utili all’inchiesta. Articolo21: «È la vittoria delle 70mila firme»
Vent’anni di misteri, depistaggi, falsi testimoni e inchieste finite nel nulla. E una pila di documenti segreti, tenuti sotto chiave per tutti questi anni negli archivi della Camera dei deputati per decisione dei servizi segreti civili e militari. Ieri il governo, nel giorno dell’anniversario dell’agguato di Mogadiscio del 20 marzo ‘94, ha annunciato l’apertura degli archivi riservati dei servizi sul caso di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la giornalista e l’operatore del Tg3 assassinati in Somalia mentre erano sulle tracce dei traffici di armi e rifiuti tossici tra le pieghe della cooperazione italiana.
La decisione del governo è arrivata in risposta a una lettera di interpello della presidente della Camera Laura Boldrini, che ha recepito la richiesta di Greenpeace e una petizione lanciata da Articolo 21 che ha raggiunto in pochi giorni 70mila firme: «Abbiamo avviato la procedura di desecretazione degli atti sul caso Ilaria Alpi. Il governo è fortemente impegnato su questo fronte — ha spiegato alla Camera il sottosegretario ai rapporti con il Parlamento Sesa Amici — e vent’anni sono un tempo sufficiente per mantenere la sicurezza nazionale».
Sono carte che potrebbero imprimere una svolta alla ricerca della verità sui mandanti, sul contesto dell’agguato, sui tanti depistaggi che hanno impedito fino a ora il raggiungimento della verità. Sull’omicidio di Ilaria Alpi è ancora aperto un fascicolo presso la procura di Roma, affidato al pm Elisabetta Peniccola. Ieri alla notizia della prossima apertura degli archivi segreti il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha dichiarato di voler acquisire gli atti utili all’inchiesta.
L’unico condannato per l’esecuzione di Ilaria e Miran, il somalo Omar Hashi Hassan, è detenuto da dodici anni sulla base di un testimone che avrebbe dichiarato di aver inventato tutto, d’accordo con le autorità italiane.
Alla comunicazione del sottosegretario Amici ha subito risposto entusiasta Laura Boldrini: «È un segnale importante contro il muro di silenzio». Anche se nelle scorse settimane non erano mancati dubbi e perplessità sull’operazione di desecretazione dei fascicoli sul traffico internazionale di rifiuti e sulle «navi a perdere» — pratica che comprendeva anche gli atti segreti relativi al caso Alpi — avviata dall’ufficio di presidenza di Montecitorio. La richiesta di apertura degli archivi era arrivata da Greenpeace nel dicembre 2013, e dopo una prima risposta positiva di Boldrini la notizia — sollevata dal manifesto — di una rimozione soltanto parziale del segreto dai dossier riservati (solo 152 su diverse migliaia acquisiti negli anni dalle commissioni parlamentari d’inchiesta) aveva fatto sorgere la necessità di una domanda di desecretazione «allargata».
Un’esigenza di verità cui ha cercato di rispondere la petizione lanciata da Articolo 21 promossa da Stefano Corradino e Beppe Giulietti, anche perché nel frattempo fonti di Montecitorio avevano rivelato al manifesto che i servizi segreti militari, nella primavera scorsa, hanno negato l’autorizzazione all’apertura dei dossier riservati sui rifiuti e sulla Somalia a un ufficio di Montecitorio.
Non è ancora noto quanti e quali documenti verranno avviati alla desecretazione: i dossier dei servizi sul caso Alpi-Hrovatin sono 1.500 (ma il generale Sergio Siracusa, ex direttore del Sismi, ne aveva mostrati circa 8mila alla commissione presieduta da Carlo Taormina), cui vanno aggiunti 750 documenti dell’ultima commissione sui rifiuti e le migliaia di atti acquisiti dalle commissioni ecomafia dalla XII alla XV legislatura. «È il miglior modo di onorare, più che la memoria, il lavoro di Ilaria», ha commentato in serata la ministra degli Esteri Federica Mogherini. Entusiasti anche tutti i soggetti che nei giorni scorsi avevano aderito alla petizione di Articolo 21, dal segretario della Fnsi Franco Siddi («è una svolta straordinaria che apre finalmente una breccia per verità e giustizia») all’associazione Ilaria Alpi, agli stessi promotori: «Seguiremo passo passo — assicurano Corradino e Giulietti di Articolo 21 — l’iter e le risposte che saranno fornite da chi aveva apposto il segreto. Questo risultato è anche il frutto delle 70 mila persone che hanno chiesto di mettere fine al regime dei segreti e della clandestinità».
Ora la palla passa al governo e ai servizi segreti — Aise e Aisi, ex Sismi e Sisde — gli stessi servizi che solo nel maggio scorso avevano negato l’apertura degli archivi. Ma i servizi di sicurezza sono controllati dalla presidenza del Consiglio e dal governo, che sembra aver espresso una volontà politica chiara. Non è possibile prevedere se gli atti declassificati daranno un impulso nuovo all’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran. La madre di Ilaria, Luciana Alpi, dopo un lungo periodo di disillusione ha detto di aver ritrovato la speranza. Dopo vent’anni di oblio, inquinamenti e omissioni.