UN POETA NELLE CARCERI DI ASSAD

 

Faraj Bayrakdar è stato torturato per quasi 14 anni in quanto scrittore dissidente. Oggi, pluripremiato e libero, sente che le sue sofferenze sono niente rispetto al dolore del popolo siriano

di Joshua Evangelista*

Dalla “festa di benvenuto”, la haflet al-istiqbal, inizia una lenta agonia che molto spesso porta alla morte. Il rapporto di Amnesty International racconta come si vive, e si muore, nelle carceri di Assad. Da decenni il regime siriano usa la tortura per stroncare gli oppositori, o presunti tali. Come è successo al poeta Faraj Bayrakdar, che ha passato quasi 14 anni dietro le sbarre, dal 1987 al 2000. «Tra un anno o due, dieci o venti la libertà si metterà la minigonna e mi accoglierà», scriveva in cella sul cartoncino delle sigarette, sperando di non essere visto dalle guardie. Oggi, rifugiato politico in Svezia, gira il mondo raccontando l’efferatezza del regime baathista, prima che la spettacolarizzazione della violenza plastica dei militanti dell’Isis renda definitivamente sopportabile le ingiustizie della dittatura all’opinione pubblica. «La memoria collettiva degli occidentali è piena di buchi e il regime è riuscito a trovare qualcuno peggiore per ripulirsi l’immagine. Così si dimenticano i passaggi che hanno portato a questa tragedia e si insiste con la retorica del male minore. È come se a un killer togli il pugnale insanguinato, gli dai una pacca sulla spalla e gli chiedi gentilmente di non farlo più».

Non ritiene inevitabile che l’attenzione sia concentrata sulla minaccia dell’Isis, soprattutto dopo gli ultimi attentati in Europa?

Nessuno può battere Isis, Jabhat al Nusra o le altre fazioni di matrice fondamentalista. Almeno finché non si rovescia Assad, che è l’altra faccia della medaglia. Mentre il mondo chiude gli occhi e sotto banco tratta con i terroristi, i media dimenticano che i massacri non vengono perpetuati solo dall’Isis.

Nel frattempo la guerra contro Isis sembra ben lontana dalla fine.

Potrebbero toglierli di mezzo subito, ma non conviene. Costa troppo. E chi paga? Arabia Saudita o Qatar? Prima che la guerra finisca si arriverà a un collasso totale. A quel punto il popolo tornerà alla vita di tutti i giorni, ma sarà una calma apparente. Non si dimenticherà cosa ha fatto il regime per mezzo secolo e come si è arrivati a questa spirale di fanatismo. Milioni di persone ogni notte incontrano nei loro incubi i propri morti e questo non è un problema che risolvi in venti anni. Gli incubi si tramandano di generazione in generazione.

Incubi che accompagnano i siriani anche nei disperati tentativi di raggiungere l’Europa.

L’Europa sta totalmente perdendo il controllo dei flussi migratori. Eppure tutti sapevano che rimuovendo il regime di Assad nel 2011 ciò non sarebbe accaduto. Ma evidentemente è più conveniente tenere milioni di disperati alle porte del continente.

Come siamo arrivati a questo?

Due settimane prima delle rivolte del 2011 ho scritto una lettera aperta all’Europa in cui criticavo Bruxelles per aver deciso di sostenere i “nostri” dittatori a discapito dei diritti umani. Erano le premesse per un’invasione di persone disperate, dissi.

Così è stato.

Non posso non ricordare i silenzi che hanno accompagnato i primi mesi della rivoluzione, quando centinaia di migliaia di persone laiche marciavano nelle strade chiedendo più diritti. Poi sono arrivate le bombe. E cosa hanno fatto gli occidentali? Invece di sostenere i giovani che sognavano una Siria libera, hanno destinato i propri soldi ai movimenti fondamentalisti: armi, cibo e medicine solo per loro.

Eppure molti di quei giovani hanno deciso di unirsi proprio ai quei movimenti.

È normale: sono i movimenti più ricchi. A Idlib conosco persone totalmente laiche che hanno deciso di combattere per l’Isis. Succede quando devi provvedere alla tua famiglia e gli altri non hanno nemmeno i soldi per darti un po’ di pane. E le potenze cosa fanno? Sostengono coloro che sono funzionali ai loro interessi, a occhi chiusi.

Non pensa che sia colpa anche di alleanze e scelte strategiche quanto meno discutibili da parte del fronte anti-assadiano?

Anche se i nostri rivoluzionari non fossero incappati in così tanti errori strategici, il risultato non sarebbe cambiato. Era stato già tutto deciso. Del resto anche il regime ha fatto tanti errori, eppure è lì, sempre forte.

Dalle sue parole traspare molto pessimismo.

Eppure non ho paura del futuro. Prima o poi i siriani ricostruiranno la Siria. Ma la soluzione inizia con la fine del regime. La storia insegna che siamo diversi da come veniamo dipinti dai media europei: non siamo mai stati paurosi delle minoranze. Faccio un esempio: da chi è stata gestita la transizione post francese? Da Fares al-Khoury, un cristiano, che è stato ministro, presidente e molto altro ancora. E per essere rappresentati nelle assemblee, i musulmani si rivolgevano a lui.

Se non ha paura del futuro, avrà immaginato come sarà ricostruzione. Quale sarà il ruolo della diaspora?

La diaspora tornerà in Siria, sosterrà la rinascita con soldi, training, con il know how appreso all’estero. Ma sarà chi è rimasto a costruire la nuova Siria. Ma, come per le crisi degli anni passati, dipenderà tutto dagli accordi che la nuova classe dirigente prenderanno con le potenze internazionali e dal “conto” economico e di persone che queste chiederanno. Noi, da fuori, faremo lobby, manderemo soldi: se necessario lavoreremo 14 ore al giorno e la metà del salario la destineremo alla ricostruzione.

A proposito di superpotenze impegnate in Siria, avrà sicuramente seguito il tentato golpe in Turchia. Le purghe che sono seguite hanno ricordato, a qualcuno, quelle che Hafez perpetrò nel 1982 nei confronti degli insorti della Fratellanza musulmana. 

Due cose sopra tutte le altre mi preoccupano della Turchia. La libertà d’espressione e la questione curda. Ma i paragoni non reggono: il regime turco non ha ancora perpetrato crimini di un livello equiparabile a quello siriano. Nel 1982 Assad bombardava Hama e faceva almeno 14000 morti. L’Erdogan del post golpe non ha ancora fatto nulla di simile, sebbene abbia arrestato migliaia di persone, ma è presto per farsi un’idea completa. Lo tengo d’occhio, può diventare una feroce dittatura.

Cosa ne pensa dell’accoglienza turca verso i migranti siriani?

A passarsela peggio sono i siriani in Libano. Dovremmo prima di tutto preoccuparci per le loro condizioni. I turchi sono stati accoglienti, anzi: il popolo ha dato più di quello che ha ricevuto. Sappiamo bene che un’Europa così attenta ai soldi e che non vuole spendere nell’accoglienza conviene mantenere i rifugiati in Turchia, questo è ovvio. Ma allora io lancio una provocazione: se è chiaro che nella società turca i siriani hanno maggiori possibilità di integrazione, i soldi europei per l’accoglienza ai rifugiati dovrebbero essere molti di più.

Nel frattempo però, la Turchia è scesa prepotentemente in campo contro i curdi del Rojava. Che idea si è fatto del confederalismo democratico curdo e, più in generale, del ruolo dei curdi nel conflitto?

Li stanno usando e quando la guerra sarà finita il mondo si dimenticherà di loro. Ha sempre fatto così. I curdi sono utopici, hanno grandi sogni. Eppure in tutto il corso della storia qualcuno li ha sfruttato. Li usano e poi li abbandonano. Io sono sempre stato, in Siria, un attivista per i diritti dei curdi. Lo ero quando Assad impediva di parlare la loro lingua, di preservare la loro cultura. Molti in Siria mi considerano un poeta curdo, addirittura. Lo dico, non stimo Saleh (co-presidente del PYD, ndr), non mi piace la sua ambiguità verso Assad. Ma penso che quando la guerra finirà la Siria dovrà fare i conti con la voglia d’indipendenza dei curdi. Andrà fatto un referendum per capire cosa vuole la popolazione delle regioni a prevalenza curda. Ma sono sincero, non credo che le super potenze permetteranno la creazione di uno stato del Kurdistan. Indipendenza o meno, io sarò sempre dalla loro parte e mi batterò affinché abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.

A Stoccolma lei è un punto di riferimento per i migranti che riescono a raggiungere la Svezia. Vede in loro lo stesso popolo che ha dovuto lasciare dodici anni fa?

Quasi tutti i siriano che arrivano qui hanno il mio numero e ricevo molte chiamate da chi è stato in prigione, hanno bisogno di parlare con qualcuno che ha vissuto lo stesso dramma. Non sono più gli stessi. Vedo nei loro occhi solo dolore e sofferenza, fatico a identificarli come siriani. Ma non vale solo per loro, dopo il 2011 tutti siamo cambiati in peggio. Anche la Svezia non è più la stessa rispetto a quando sono arrivato io.

E lei come è cambiato dopo 13 anni di segregazione e torture?

In carcere ero stato annullato e per questo motivo avevo dimenticato molte abitudini del vivere in comunità. Una volta uscito non sapevo più vestirmi, mi dimenticavo di salutare. Soprattutto: non sapevo più ridere. Non mi riesce bene nemmeno ora. Quando lo faccio mi sento graffiare la gola.

C’è un filo conduttore tra la sofferenza di allora e quella che prova ogni giorno vedendo il suo popolo sotto assedio?

No. È come se avessi sofferto per niente. Tutte le umiliazioni e le torture che ho subito sono nulla rispetto a quello che vive oggi il mio popolo. Mentre i miei aguzzini volevano vedermi agonizzante, sapevo che fuori da quelle mura c’era una famiglia che nonostante tutto sarebbe sopravvissuta. Oggi non è così. Tutti sanno che da un momento all’altro chiunque potrà ammazzarli.

Ha ancora senso fare poesia di fronte a una tragedia di queste dimensioni?

Alcuni miei colleghi riescono a produrre sulla Siria anche tre poesie al giorno. Io no. Negli ultimi cinque anni ho scritto pochi versi. E tra questi solo alcuni sulla Siria. In prigione avevo 24 ore al giorno per comporre. Ho pubblicato sette antologie, per intenderci. Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza.

E oggi come dà senso all’esistenza?

Dopo il 2011 la mia situazione è diventata ben più complicata. Perché la rivoluzione “impegna”. Passo le giornate sui social network per capire come sta il mio popolo. Inoltre ritengo che il mio ruolo di autore sia cambiato. In carcere scrivevo per me, cercavo la forma, una qualità di scrittura che appagasse la mia tribolazione. Oggi invece serve una dialettica semplice, devo raggiungere il popolo. Meglio fare video, postare foto sui social e rinunciare a un arabo ricercato. Ho scritto una canzone nel dialetto di Homs, su YouTube ha avuto tantissime visualizzazioni e al Jazeera ha fatto un documentario su di me che ha raggiunto milioni di persone. La gente è disinformata, il mio nuovo ruolo è creare consapevolezza. È un modo per non rendere vano il sacrificio dei 400 mila sognatori che nel 2011 erano scesi in piazza a Homs. O dei 600 mila di Hama. A questo punto della mia vita non ho più pretese personali. Mi basta sapere che sto facendo qualcosa per aiutare il mio popolo.


*Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata su “Il Dubbio” del 20 agosto 2016.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/09/siria-faraj-bayrakdar-poeta-carceri-assad/

VADEMECUM PER SOPRAVVIVERE ALLE PRIGIONI SIRIANE

Da:

http://frontierenews.it/2016/09/vademecum-sopravvivere-prigioni-siriane/

 

 

Dal 2011, anno in cui sono iniziate le sollevazioni popolari che hanno portato all’attuale rivoluzione siriana,  sono morte oltre 17mila persone nelle prigioni governative, molte delle quali dopo aver subito torture di ogni tipo (dalle scariche elettriche agli stupri). Un documento di Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 65 sopravvissuti, in cui vengono raccontate le agghiaccianti e inumane condizioni in cui vivono i detenuti nelle strutture detentive dei servizi di sicurezza siriani e nella prigione militare di Saydnaya, nei sobborghi di Damasco.


La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Molti detenuti hanno sviluppato gravi problemi di salute mentale a causa del sovraffollamento e della mancanza di luce solare.

‘It breaks the human’: Torture, disease and death in Syria’s prisons – Amnesty International, agosto 2016


Le testimonianze raccolte, oltre a mostrare il sadismo istituzionalizzato che prende di mira chiunque sfidi l’autorità costituita in Siria (oppositori, attivisti per i diritti umani, giornalisti, etc.), hanno tracciato un percorso mentale comune a cui i detenuti sopravvissuti sono dovuti ricorrere per superare l’orrore delle torture e della prigionia.

8 modi per sopravvivere ai lager siriani

1. Non rivelare le proprie condizioni mediche

“Nella ‘festa di benvenuto’, venne chiesto a ognuno di noi se fossimo in qualche modo malati o meno. Pensavo che avrei dovuto dire loro della mia insufficienza renale, così mi avrebbero trattato bene. Chiesero prima al mio amico, che rispose: ‘Sì, ho problemi respiratori. Ho l’asma’. La guardia disse ‘Va bene, il tuo è un caso particolare’. Iniziarono a picchiarlo, fino a lasciarlo senza vita, lì, di fronte a me. Quando arrivò il mio turno dissi che ero in perfetta salute, che stavo bene”.

La "festa di benvenuto". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “festa di benvenuto”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
2. Rimanere neutrali

“Le guardie mi costrinsero a guardare i loro colleghi picchiare i detenuti, per un ora. Usarono diversi oggetti, tubi, pali, persino una sbarra in ferro con dei chiodi all’estremità. Le prime tre volte piansi, ma quando lo feci le guardie iniziarono a picchiare anche me. Per il resto dell’ora dovetti rimanere completamente neutrale. Ripetevo a me stesso che non era reale, che era solo un film dell’orrore e che dopo quindici minuti sarebbe tutto finito”.

Il "tappeto volante". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
“Bisat al-Rish”, il “tappeto volante”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun

LA TRAGEDIA SIRIANA IN NUMERI

Oltre 17mila                        65mila                        Oltre 11 milioni

detenuti morti                                detenuti scomparsi                               sfollati e profughi

3. Stare al caldo

“D’inverno faceva molto freddo. Per non disperdere il calore dovemmo unire le lenzuola e avvolgerci in una sorta di bozzolo. Avevamo a nostra disposizione soltanto i vestiti che indossavamo durante l’arresto. Chi veniva arrestato d’estate soffriva tantissimo durante l’inverno”.

Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
4. Diventare una famiglia

“Gli altri prigionieri diventano molto più che fratelli. Si ottiene una vicinanza che nella vita normale non si può mai raggiungere. Persone con cui si era in contrasto, persone prima che si odiavano, in carcere diventano la propria famiglia. Atei e sunniti devoti diventano migliori amici. Abbiamo condiviso ogni cosa, anche i vestiti, e ci siamo sostenuti a vicenda quando uno piangeva o l’altro usciva fuori di testa”.

La "ruota". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “ruota”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
5. Dimenticare

“L’unico modo per fermare il tempo in prigione è pensare alla propria famiglia e ai propri amici. Ma poi si impara a lasciar perdere anche loro. Ho iniziato a dimenticare. Ho perso ogni memoria dei volti dei miei amici dell’università. Poi ho dimenticato ogni volto incontrato negli ultimi anni. Sono andato a ritroso, fino a quando riuscii a ricordare soltanto il viso di mia madre, quando ero piccolo”.

6. Mangiare qualsiasi cosa

“All’inizio ci diedero una scatola di arance e una di cetrioli. Iniziammo a mangiare le arance, gettando a terra le bucce, e gli altri prigionieri corsero ad addentarle. Per loro le bucce d’arancia erano così gustose. Una sorta di premio! Anche noi saremmo diventati come loro, fu uno shock tremendo. Iniziammo a mangiare persino i gusci d’uovo, per assumere il calcio. Mettevamo insieme riso, zuppo, bucce d’arancia e gusci d’uovo, il tutto avvolto in un pezzo di pane. In quel modo avevamo l’impressione di consumare un pasto vero. Era disgustoso mettere insieme tutte quelle cose, ma in qualche modo fu d’aiuto”.


Il governo italiano deve usare la propria influenza per assicurare che osservatori indipendenti siano autorizzati ad avviare indagini sulle condizioni di detenzione in Siria.

FIRMA L’APPELLO DI AMNESTY


7. Farsi torturare a turno

“La guardia ci chiedeva continuamente di mandare cinque persone da torturare. Ci organizzammo in modo da risparmiare i più giovani e i più anziani. Facemmo un gruppo di circa 20 persone, tra le più forti. Tre di noi andavano quasi sempre. Io andavo, perché avevo bisogno di urlare. Ero terrorizzato, perché ero diventato insensibili e non provavo più dolore, non avevo più alcuna emozione. Può sembrare strano, ma mi facevo avanti per essere picchiato in modo da poter sentire nuovamente qualcosa”.

Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
8. Barattare il cibo

“Iniziò tutto con un tizio che se ne stava seduto, in cella, e non faceva che piangere di continuo. Mi disse che aveva person ogni speranza di lasciare quel posto. ‘Non sono arrabbiato, sto solo morendo di fame. Penso soltanto al cibo’. Provai a pensare a come aiutarlo, ma eravamo in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Se gli avessi dato il mio cibo, sarei potuto morire; se lui ne avesse dato a me, sarebbe potuto morire lui.

Alla fine gli diedi il mio pezzo di pane e metà della mia porzione di riso. È lì che iniziò l’idea del baratto. Gli dissi che il prezzo per la mia mezza pagnotta era una pagnotta intera, ma che mi avrebbe potuto pagare un po’ alla volta, nell’arco di quattro giorni. Eravamo tutti senza cibo, nella miseria più totale, ma questo stratagemma ci aiutò a sopravvivere. Potemmo infatti condividere il cibo con chi soffriva di più e mantenere attiva la nostra mente. Stavamo sempre a pianificare qualcosa, a reagire, a restare umani. Prima i nostri cervelli poterono soltanto pensare ad una cosa: mangiare, mangiare, mangiare, mangiare. Ma nel tempo riuscimmo a unire le nostre menti per cooperare, per agire insieme”.

Gli stupri, un'arma quotidiana per annullare l'identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Gli stupri, un’arma quotidiana per annullare l’identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun

 

Manifestazione nazionale per la liberazione di Nekane Txapartegi

Giovedì 08 Settembre 2016 16:37

nekane

Sabato 24 SETTEMBRE a BERNA si terrà una grande manifestazione nazionale per la liberazione di Nekane Txapartegi, giornalista basca e militante della sinistra indipendentista, la quale è stata arrestata dalle autorità svizzere e incarcerata a Zurigo l’8 aprile 2016, a seguito di una domanda di estradizione depositata dallo Stato spagnolo.

Nel 1999, Nekane è stata arrestata e incarcerata una prima volta dalla Guardia Civil, corpo paramilitare della polizia spagnola, incaricato delle “operazioni antiterroriste”. Durante i primi giorni di detenzione, lei e un altro prigioniero sono state rinchiusi in isolamento (incomunicacion), pratica nella quale le detenute e i detenuti accusati di “terrorismo” scompaiono in un buco nero per giorni, senza poter aver contatti con l’esterno, neppure un avvocato, subendo un utilizzo quasi sistematico della tortura durante gli interrogatori. In quell’occasione Nekane è stata violentemente torturata dai militari spagnoli è ha subito uno stupro da parte dei suoi torturatori. Ciò che ha dovuto patire in carcere è stato denunciato poche settimane più tardi.
Dopo una rapida archiviazione della denuncia da parte delle autorità spagnole, gli avvocati di Nekane sono riusciti a fare riaprire la procedura qualche anno più tardi, prima che il caso fosse definitivamente insabbiato. Nonostante numerosi certificati medici che dimostrano che Nekane sia uscita dall’incomunicacion con numerosi ematomi su tutto il corpo e nonostante testimonianze di compagni di cella indicando che una volta giunta in carcere Nekane fosse in stato di shock e non riusciva né a camminare, né a muovere le mani, i magistrati spagnoli hanno rifiutato di identificare i suoi aguzzini. Solo uno di loro è stato finalmente sentito, per video conferenza e in forma anonima, senza però rispondere alle domande della difesa. Così come in decine di altri casi, che hanno portato alla condanna della Spagna da parte di organi internazionali, la denuncia è stata archiviata dalle autorità spagnole e i torturatori di Nekane sono rimasti impuniti.

Dopo nove mesi di detenzione preventiva, Nekane è stata rilasciata su cauzione e nel 2007 è fuggita dallo Stato spagnolo per evitare una nuova incarcerazione basata unicamente sulle testimonianze ottenuta sotto tortura. Infatti, durante il maxiprocesso contro numerose organizzazioni della sinistra indipendentista basca, denominato “Sumario 18/98”, è stata condannata a una pena di sei anni e nove mesi con l’accusa di appartenenza in prima istanza, e di collaborazione in appello, con un’ ”organizzazione terrorista” (ETA). Nel corso di questo processo Nekane ha nuovamente denunciato quanto ha dovuto subire in carcere nel 1999 (video) e, come massima ignominia, ha dovuto pure confrontarsi con uno dei suoi torturatori, intervenuto in tribunale in qualità di “esperto”. Le colpe principali che le sono state imputate sono quelle di aver partecipato a una riunione con degli attivisti indipendentisti baschi a Parigi e di aver consegnato due passaporti a dei membri di ETA.

Il Collettivo Scintilla organizzerà un trasporto collettivo dal Ticino per essere presenti in massa a questa manifestazione.
Chi volesse partecipare può scrivere un messaggio privato a questa pagina oppure a [email protected]Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

EVENTO FB: https://www.facebook.com/events/1845934795625795/

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/17565-manifestazione-nazionale-per-la-liberazione-di-nekane-txapartegi

“Regeni marchiato e seviziato per giorni dai suoi aguzzini”

I risultati dell’autopsia sul ricercatore italiano ucciso in Egitto: sul corpo incise cinque lettere. I genitori: “Nostro figlio vittima di professionisti della tortura”

di CARLO BONINI e GIULIANO FOSCHINI

ROMA – Il corpo di Giulio Regeni è stato usato come una lavagna dell’orrore. Quattro, forse cinque lettere, tracciate da una lama in cinque punti diversi documentano incontrovertibilmente quello che a tutti era apparso da subito evidente. Nessun incidente. Per giorni, più mani di boia hanno torturato e marchiato, con sadismo e reminiscenze di altri secoli, il ricercatore italiano. Per poi, dopo giorni di sevizie, finirlo, ruotando il suo volto sfigurato su se stesso, fino a spezzargli il collo. Con quel corpo, con le fotografie contenute nelle 221 pagine di relazione del professor Vittorio Fineschi, da mesi a disposizione anche delle autorità del Cairo, torneranno da oggi a fare i conti i cinque investigatori egiziani che nelle prossime 48 ore incontreranno il procuratore Giuseppe Pignatone e il team di inquirenti italiani. Perché – come ora dicono i genitori di Giulio – “è stato il suo corpo, riconoscibile solo dalla punta del naso, a rimandare indietro ogni depistaggio. A stroncare il tentativo di accreditare che fosse drogato o vittima di un incidente stradale”.

IL MISTERO DELLE LETTERE
Nelle 225 pagine di esame autoptico il professor Fineschi fa un lungo esame delle torture subite da Giulio: ossa rotte, denti spezzati, tumefazioni ovunque. Segnala però alcuni particolari decisivi: qualcuno ha tracciato alcune lettere sul suo corpo. “Sulla regione dorsale – scrive Fineschi – a sinistra della linea si trovano un complesso di soluzioni disposte a confermare una lettera”. Stessa cosa all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. E poi sulla mano sinistra dove c’era una X. Lettera presente anche sulla fronte. Nessun incidente quindi. Ma torturatori professionisti. Ma chi ha voluto segnare il corpo di Giulio e perché lo ha fatto?

COLPITO CON PUGNI E BASTONI
Chiunque sia stato ha infierito sul corpo del ragazzo per giorni e in tempi diversi. Cinque i denti fratturati. Rotte anche le due scapole, l’omero destro, il polso, le dite delle due mani e dei due piedi, con entrambi i peroni ridotti in poltiglia. Ovunque ci sono segni di tagli e bruciature. “Si possono ipotizzare – si legge ancora nell’autopsia – che lo abbiano colpito con calci, pugni, bastoni, mazze” per poi scagliarlo ripetutamente a terra o contro alcuni muri. “Alcune lesioni cutanee – concludono i medici legali – hanno caratteristiche che depongono per una differente epoca di produzione avendo un timing differenziato”. Tradotto: Giulio è stato torturato ripetutamente, a distanza di giorni.

L’IRA DELLA FAMIGLIA
“Ci sembra chiaro che le torture che gli sono state inflitte, i tempi e le modalità dei supplizi che nostro figlio ha dovuto sopportare non possono che essere l’opera perversa di qualche professionista della tortura” dicono Paola e Claudio Regeni. “È evidente che non possiamo parlare di incidente ma non riusciamo ancora a capire come si possa dubitare che Giulio sia stato torturato; c’è un’azione mirata e sistematica sul corpo del povero Giulio. Azioni che possiamo ricondurre alle modalità già variamente e riccamente illustrate da vari rapporti internazionali, come quelli di Amnesty. So che per chi vive in Italia non esiste sistema cognitivo ed emotivo per anche solo riuscire ad immaginare cosa sia successo a Giulio. Ma il suo corpo parla”. Eppure l’Egitto continua a respingere ogni responsabilità.

L’INCONTRO
La famiglia di Giulio spera che da oggi qualcosa possa cambiare. Del resto, dopo il disastro della prima missione, il secondo viaggio degli investigatori egiziani a Roma è un punto segnato dal Governo nel tentativo di tenere inchiodato il Cairo a una cooperazione giudiziaria sin qui priva di risultati. Ma, in qualche modo, può anche trasformarsi in un’ultima chiamata. Per questo, il procuratore Giuseppe Pignatone, il sostituto Sergio Colaiocco, i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco che da febbraio lavorano al caso aspettano risposte precise dal procuratore generale egiziano, Nabil Ahmed Sadek. A cominciare dal famigerato traffico delle celle telefoniche della zona in cui Giulio venne sequestrato. Ieri – ed è un altro timido segnale positivo –sono arrivati alcuni documenti da Cambridge. Altri sono attesi nei prossimi giorni. “Siamo così abituati ai depistaggi – dicono Paola e Claudio – che siamo in una sorta di sospensione. Ma attendiamo. E non rinunceremo mai alla verità”.

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Due prigionieri egiziani morti in quattro giorni

Egitto. Abdallah ucciso da un infarto, Ahmed dalle torture. La polizia: è caduto dalla camionetta, anzi da un palazzo. In carcere i detenuti sono vittime di abusi e mancanza di cure. Centro Al Nadeem: nel 2016 71 casi, 137 nel 2015

Secondo le associazioni per i diritti umani, sarebbero 60mila i prigionieri politici egiziani

Due morti in quattro giorni dietro le sbarre di una prigione egiziana. Il conto delle vittime della brutalità della polizia o dell’assenza di cure mediche nelle carceri va aggiornato di giorno in giorno.

Ieri Abdallah M. E., 58 anni, è morto in una stazione di polizia di Alessandria. Secondo la procura, ha avuto un attacco di cuore. La polizia dice di aver subito chiamato i soccorsi, ma il detenuto è spirato prima dell’arrivo dell’ambulanza.

Non certo un caso isolato: il 17 agosto a morire in una stazione di polizia a Fayoum era stato Abdel Halim Abdel Hayy, arrestato venti giorni prima con l’accusa di aver dato alle fiamme una caserma nel 2013, durante una protesta anti-golpe dei Fratelli Musulmani. Condannato a 15 anni, godeva di cattive condizioni di salute legate all’età, 71 anni. La famiglia chiedeva il ricovero in ospedale, ma le autorità carcerarie l’hanno negato.

Il 13 agosto era morto Ibrahim Saleh Hashish, insegnante di arabo di 58 anni, stavolta in un ospedale di Damietta dove era stato portato qualche giorno prima dalla polizia carceraria perché le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate. Era affetto da tumore ai reni che in prigione, dove si trovava dal luglio 2015 (anche lui con l’accusa di aver partecipato a scontri nel 2013 accanto alla Fratellanza), nessuno ha curato. La famiglia aveva chiesto che venisse rilasciato per ragioni mediche.

E se in carcere non si muore di mancanza di cure, si muore di pestaggi. L’ultima vittima accertata è uno studente di medicina di 28 anni, Ahmed Kamal. Era stato arrestato lunedì mattina. Su di lui pendeva una condanna a due anni, comminata a febbraio, per aver preso parte lo scorso anno a proteste non autorizzate.

Un reato comune in Egitto dal novembre 2013 quando il generale al-Sisi, a pochi mesi dal golpe e dalla strage di manifestanti islamisti a Rabaa (tra 1.000 e 1.500 morti), emanò una legge che vieta manifestazioni che le autorità non abbiano prima avallato.

La sera stessa, alle 23,30 di lunedì, Ahmed è morto. Il giorno dopo la famiglia ha identificato il corpo, mentre l’autopsia preliminare indica in una grave fattura alla testa e la conseguente emorragia le cause del decesso. Il legale della famiglia ha già chiesto l’apertura di un’inchiesta contro i poliziotti che lo avevano in custodia.

La polizia, da parte sua, dà la sua versione. Anzi, due. Ahmed, dicono, è morto cadendo mentre cercava di fuggire da una camionetta. È anche morto cadendo dal secondo piano di un edificio a Nasr City, dal quale si è lanciato per sfuggire ad una retata in una casa di prostituzione. Peccato che – spiega l’avvocato Ahmed Saad Sabah – non ci siano intorno alla ferita abrasioni tipiche di una caduta. Parla anche il fratello, Mohamed: il volto di Ahmed era pieno di ematomi.

Secondo il Nadeem Center, organizzazione che da vent’anni segue i casi di torture e abusi da parte delle forze di sicurezza, solo a luglio almeno 10 prigionieri sono morti per mancanza di assistenza sanitaria o torture. Fuori, in strada, le vittime di polizia e esercito sono state 99. In un mese soltanto.

Da gennaio a fine luglio 2016 i morti in custodia sono stati almeno 71; nel 2015 137 (a cui vanno aggiunti 328 morti in scontri con la polizia); nel 2014 almeno 90 solo nei governatorati di Giza e del Cairo. E, calcola Al Nadeem, nei primi 100 giorni di governo al-Sisi (da luglio a settembre 2013) i deceduti in carcere sono stati per lo meno 35.

Le giustificazioni che la polizia adduce a certe morti sono più o meno le stesse: le origini della morte di Regeni sarebbero da cercare in ambienti omosessuali, dissero; Khaled Said, ucciso nel 2010, era un trafficante di droga. Per molti si tratta di meri insabbiamenti, punta dell’iceberg di una macchina repressiva ben collaudata. Tra i suoi ingranaggi c’è la legge anti-terrorismo voluta da al-Sisi. Normativa controversa, che soffoca la libertà di espressione e manifestazione, ora è sul tavolo della corte costituzionale.

Nel mirino c’è proprio l’articolo che vieta le proteste non autorizzate dalle autorità. Il primo ottobre l’Alta Corte dovrà rivedere (su appello di avvocati per i diritti umani) la disposizione che ha permesso in tre anni l’arresto di decine di migliaia di persone, portando a 60mila il numero – presunto – di prigionieri politici.

 

 

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/due-prigionieri-egiziani-morti-in-quattro-giorni/

La manifestazione di venerdì 2 settembre è un atto di grande valore morale e politico

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La manifestazione di venerdì 2 settembre per denunciare quello che sta avvenendo in Siria e chiedere un cessate il fuoco generalizzato e l’apertura di corridoi sicuri per gli aiuti umanitari alla popolazione civile è un atto di grande valore morale e politico. L’auspicio è che questa iniziativa possa contribuire a scuotere un’opinione pubblica italiana che appare indifferente di fronte alla tragedia più catastrofica di questo secolo, della quale ci si accorge solo quando arrivano le migliaia di fuggitivi che sono il prodotto di quella catastrofe. Oltre l’auspicio e l’adesione, mi sembra ineludibile una riflessione sull’anomalia rappresentata da questa manifestazione, come da altre che, nei mesi scorsi, l’hanno preceduta. L’anomalia che vedo è costituita dal fatto che manifestazioni come quella del 2 settembre debbano essere promosse da associazioni categoriali e da organizzazioni per i diritti umani, nella più totale latitanza di forze politiche e di “movimenti”, a partire da quello che una volta si definiva pacifista.

Il silenzio delle forze politiche e dei movimenti sulla Siria è più che sconcertante, è indecente. In cinque e passa anni di brutale repressione, di torture, di esecuzioni extragiudiziarie, di sparizioni forzate, di distruzione di intere città, non si è vista una sola mobilitazione da parte di quelle forze – politiche, associative e “di movimento” – che manifestasse solidarietà verso le vittime, prima ancora che condanna verso i carnefici. Una assenza che pesa come un macigno sulla loro credibilità.

Altrettanto latitante la sinistra politica, sociale e associativa si è mostrata nella vicenda di Giulio Regeni, giovane ricercatore appassionato di Gramsci, assassinato – dopo indicibili torture – dal regime egiziano del generale Al Sisi. A sette mesi di distanza dall’assassinio di Giulio, le sole iniziative volte a non farlo dimenticare (e a mettere sotto pressione il governo italiano affinchè non ceda nella richiesta di verità e giustizia) sono state promosse da Amnesty International o dagli oppositori egiziani in esilio.

E’ difficile comprendere le motivazioni della latitanza della sinistra rispetto a vicende che, in tutta evidenza, rivestono un’importanza cruciale per il presente e il futuro del nostro Paese e dell’intero Mediterraneo. Nel caso della dittatura egiziana, così come in quello siriano, una possibile chiave di lettura risiede nel doppio pregiudizio che permane (a vari livelli e con diverse declinazioni) nelle menti e nei cuori della sinistra intesa nel senso più ampio, dai partiti residui ai centri sociali e dai sindacati all’associazionismo.

Un doppio pregiudizio che, da un lato, vive ancora nella dimensione di un mondo bipolare, dove al circuito delle potenze capitaliste e dominato dall’imperialismo nordamericano si oppone un campo sistemico differente, imperniato sull’Unione Sovietica, sui Paesi del Patto di Varsavia e su quelli liberatisi dal colonialismo. In questa visione, schierarsi con chi appare avverso al circuito imperialista è un riflesso pavloviano, indifferente al fatto che quel mondo bipolare non esista più, come non esiste più un campo “socialista” che si differenzi sistemicamente da quello capitalista. Sembra roba da psichiatri, ma è tuttora il retropensiero di grandissima parte del ceto politico “di sinistra”.

Il secondo corno del pregiudizio è costituito dall’ostilità e dall’incomprensione verso il mondo arabo e islamico, del quale si individuano le caratteristiche negative (che non mancano di certo), ma al quale non si riconoscono gli enormi sforzi fatti per avanzare sul terreno della democrazia e della dignità, senza nemmeno rendersi conto di quanto questo atteggiamento sia intriso di razzismo e suprematismo.

Nei confronti della dittatura egiziana, non ci si mobilita in solidarietà con le vittime perchè si pensa che gli oppositori del generale Al Sisi sono i Fratelli Musulmani e, quindi, in fondo è meglio che al potere rimanga un farabutto, però “laico”, con buona pace di quel movimento dei lavoratori e del sindacalismo indipendente sul quale lavorava Giulio Regeni e che – a detta di tutti gli osservatori più competenti – rappresenta la vera minaccia per il regime dei Pinochet e dei Videla del Cairo.

Verso la tragedia siriana, l’atteggiamento della “sinistra” è analogo: impossibile negare che il regime di Assad sia una dittatura feroce e mafiosa ma, anche qui, dall’altra parte si vedono solo barbuti fanatici integralisti, dunque il dittatore è il “male minore”, anche qui con buona pace delle migliaia di intellettuali, avvocati, giornalisti, attivisti di sinistra e per i diritti umani perseguitati e sterminati dallo stesso regime che, con l’amnistia del 2011, rimetteva in libertà i militanti fondamentalisti e che per oltre un anno si è coordinato sul terreno con le bande dell’Isis per annientare i ribelli. In questo quadro, va collocato anche il vergognoso silenzio dei movimenti solidali con il popolo palestinese, che non hanno proferito parola di fronte al massacro dei rifugiati palestinesi in Siria e alla distruzione di Yarmouk e degli altri campi, con il prevedibile risultato che in Italia anche l’attenzione verso la questione palestinese ha toccato il suo punto più basso.

Credo che una riflessione su questi elementi – che ho trattato molto sommariamente – sia opportuna e necessaria, perchè il generoso impegno di alcuni intellettuali, delle associazioni categoriali e delle organizzazioni per i diritti umani non può sostituire a lungo quello delle forze politiche e sociali, per le quali dovrebbe essere di richiamo e di stimolo.

Germano Monti – Comitato Khaled Bakrawi

 

 

Fonte:

http://www.articolo21.org/2016/08/la-manifestazione-di-venerdi-2-settembre-e-un-atto-di-grande-valore-morale-e-politico/

 

Leggi anche qui: http://www.articolo21.org/2016/08/siria-sit-in-a-piazza-santi-apostoli-2-settembre-per-sostenere-lappello-alla-tregua/

A ROMA LA MOSTRA “NOME IN CODICE: CAESAR”

Pubblico · Organizzato da Comitato Khaled Bakrawi
Dal 5 ottobre alle 14:00 al 9 ottobre alle 19:00
Roma
“Caesar” è lo pseudonimo che protegge l’identità di un ex fotografo della polizia militare del regime di Bashar Assad. Fino al 2011 e all’inizio delle manifestazioni di protesta, l’incarico di “Caesar” consisteva nel riprendere scene del crimine (come incidenti stradali o delitti comuni) e fotografarne le vittime. Successivamente, lui ed i suoi colleghi vennero sempre più spesso chiamati a fotografare i corpi delle vittime delle torture e degli omicidi commessi nelle prigioni e nei centri di detenzione del regime, particolarmente in quello denominato Military Hospital 601, situato a Mezze, sobborgo di Damasco.
Per due anni, “Caesar” ha copiato su alcune chiavette USB le immagini che scattava per lavoro, contemporaneamente organizzando la sua fuga dalla Siria, effettivamente avvenuta nell’estate del 2013. Lasciando il suo Paese, “Caesar” ha portato con sé circa 55.000 immagini. Recentemente, l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha eseguito un’analisi delle immagini e delle informazioni fornite da Caesar, pubblicando poi un dettagliato rapporto (in inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, giapponese, cinese e russo) che costituisce un atto d’accusa sconvolgente, intitolato “Se i morti potessero parlare – Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria”. Le foto di “Caesar” sono state consegnate a HRW dal Movimento Nazionale Siriano e l’organizzazione umanitaria si è concentrata su 28.707 immagini che, sulla base di tutte le informazioni disponibili, mostrano almeno 6.786 persone morte in carcere o dopo essere stati trasferiti dal carcere in un ospedale militare, come il n. 601 di Mezze, Damasco. “Le foto rimanenti – scrive HRW – sono di attacchi a luoghi o di corpi identificati dal nome come appartenenti a soldati governativi, altri combattenti armati o a civili uccisi in attacchi, esplosioni o attentati”.
Le foto di “Caesar” hanno fatto il giro del mondo: sono state esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU a New York, all’Holocuast Memorial Museum di Washington, al Congresso U.S.A., alla facoltà di Legge dell’Università di Harvard, al Parlamento Europeo di Strasburgo, alla House of Commons di Westminster, alla Royal Hibernian Academy di Dublino e presso molte altre istituzioni a Boston, in Canada e in altri Paesi. In Francia, la giornalista Garance Le Caisne ha raccolto il racconto di “Caesar” in un libro – “Opèration Cèsar” – uscito lo scorso ottobre (pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo “La macchina della morte”) e la magistratura francese ha avviato un’inchiesta nei confronti del regime di Assad per crimini contro l’umanità, sulla base dell’art. 40 del Codice di Procedura Penale, che obbliga ogni autorità pubblica a trasmettere alla giustizia le informazioni in suo possesso se è venuta a conoscenza di un crimine o di un delitto. Gran parte della segnalazione inviata dal Ministero degli Esteri di Parigi alla magistratura si basa sulla testimonianza di “Caesar”.
In Italia, la mostra delle immagini di “Caesar” arriverà il prossimo ottobre. Abbiamo assunto questa iniziativa per contribuire a colmare le lacune mostrate dall’informazione in Italia sulle vicende siriane, particolarmente sui motivi che sono all’origine delle manifestazioni del 2011 contro il regime degli Assad. La sistematica violazione dei diritti umani dei Siriani da parte degli apparati del regime è una di queste motivazioni e le fotografie di “Caesar” sono lì a dimostrarlo. Sono immagini sconvolgenti nella loro fissità e nel loro richiamare alla mente altre immagini che tutti abbiamo visto, in bianco e nero, sui nostri libri di storia e che non avremmo mai voluto rivedere nell’attualità del colore.
L’inaugurazione della mostra “Nome in codice Caesar”, consistente in 27 pannelli fotografici 50 x 70, è prevista per il 5 ottobre e sarà preceduta da una conferenza stampa presso la sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, una delle organizzazioni promotrici dell’evento. Oltre alla FNSI, partecipano alla promozione Amnesty International, UniMed (Coordinamento delle Università del Mediterraneo), FOCSIV e Articolo 21. Nei giorni della mostra sono previsti iniziative e dibattiti in corso di organizzazione.
Fonte:
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Qui informazioni su Comitato Khaled Bakrawi:

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Qui il link per donazioni:

DENTRO SAYDNAYA: CARCERE DELLE TORTURE DELLA SIRIA

Un video molto importante prodotto con enormi sforzi da ‪#‎Amnesty‬ International, che ha collaborato con Forensic Architecture, un’agenzia di ricerca con sede presso la Goldsmiths, University of London, per ricreare gli orrori di #Saydnaya attraverso un modello 3D interattivo.
#Saydnaya è un Carcere siriano di tortura vicino ‪#‎Damasco‬.
Il video contiene un esempio delle torture sistematiche che il regime di Assad pratica fino ad uccidere i detenuti, uno scorcio di inferno sulla terra.

 

Fonte:

https://www.facebook.com/NomeInCodiceCaesar/posts/931379510339575

TORTURE, CONDIZIONI DETENTIVE INUMANE E DECESSI DI MASSA NELLE PRIGIONI SIRIANE

Torture, condizioni detentive inumane e decessi di massa nelle prigioni siriane

Comunicato stampa 18 agosto 2016

Siria, una immagine dal rapporto di Amnesty International

Le terribili esperienze dei detenuti sottoposti a una tortura dilagante sono state rese note oggi da Amnesty International, in un rapporto che stima in 17.723 il numero delle persone morte in carcere in Siria dal marzo 2011, l’inizio della crisi: una media di oltre 300 morti al mese.

Il rapporto di Amnesty International, intitolato “Ti spezza l’umanità. Tortura, malattie e morte nelle prigioni della Siria“, denuncia crimini contro l’umanità commessi dalle forze governative di Damasco e ricostruisce l’esperienza provata da migliaia di detenuti attraverso i casi di 65 sopravvissuti alla tortura.

Da questi racconti, emergono le agghiaccianti e inumane condizioni delle strutture detentive gestite dai vari servizi di sicurezza siriani e nel carcere militare di Saydnaya, alla periferia della capitale. La maggior parte dei testimoni ha riferito di aver assistito alla morte di compagni di prigionia e alcuni hanno raccontato di essere stati tenuti in celle insieme a cadaveri.

Il campionario di orrori contenuti in questo rapporto ricostruisce in raccapriccianti dettagli le violenze da incubo inflitte ai detenuti sin dal momento dell’arresto e poi durante gli interrogatori, svolti a porte chiuse all’interno dei famigerati centri di detenzione dei servizi di sicurezza siriani: un incubo che spesso termina con la morte, che può arrivare in ogni fase della detenzione” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Da decenni le forze governative siriane usano la tortura per stroncare gli oppositori. Oggi viene usata nell’ambito di attacchi sistematici contro chiunque, nella popolazione civile, sia sospettato di non stare dalla parte del governo. Siamo di fronte a crimini contro l’umanità, i cui responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia” – ha aggiunto Luther.
I paesi della comunità internazionale, soprattutto Russia e Stati Uniti che condividono la direzione dei colloqui di pace sulla Siria, devono mettere questo tema in cima all’agenda delle discussioni tanto col governo quanto coi gruppi armati e sollecitare gli uni e gli altri a porre fine alla tortura” – ha proseguito Luther.

Amnesty International chiede inoltre il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza. Tutti gli altri detenuti dovrebbero essere sottoposti a un giusto processo in linea con gli standard internazionali oppure rilasciati. Osservatori indipendenti dovrebbero poter visitare immediatamente e senza ostacoli tutti i centri di detenzione.

Il rapporto di Amnesty International contiene nuove statistiche del Gruppo di analisi sui dati relativi ai diritti umani (Hrdag), un’organizzazione che usa un approccio scientifico per analizzare le violazioni dei diritti umani. Sulla base delle sue analisi, l’Hrdag ha concluso che tra marzo 2011 e dicembre 2015 nelle prigioni siriane sono morte 17.723 persone, oltre 300 al mese. Nei decenni precedenti il 2011, Amnesty International aveva riscontrato una media di 45 decessi in carcere all’anno, ossia tre o quattro al mese.

Si tratta, in ogni caso, di stime prudenti. Secondo l’Hrdag e Amnesty International, considerando le decine di migliaia di persone sottoposte a sparizione forzata nei centri di detenzione di tutta la Siria, il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.

In occasione del lancio del suo rapporto, Amnesty International ha anche collaborato con un team di specialisti di Architettura forense per creare una ricostruzione virtuale in 3D della prigione militare di Saydnaya. Utilizzando modelli architettonici e acustici e le testimonianze degli ex detenuti, il modello ricostruisce il terrore quotidiano vissuto all’interno della prigione e le agghiaccianti condizioni detentive.

Per la prima volta, mettendo insieme le tecniche tridimensionali e la memoria dei sopravvissuti, siamo in grado di entrare dentro uno dei più famigerati centri di tortura della Siria” – ha spiegato Luther.

La violenza in ogni momento

La maggior parte dei sopravvissuti, le cui testimonianze hanno contribuito al rapporto di Amnesty International, ha raccontato ad Amnesty International che le torture iniziano al momento stesso dell’arresto e durante il trasferimento nei luoghi di detenzione.

Qui, all’arrivo, i detenuti sono sottoposti al cosiddetto haflet al-istiqbal (“festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici).

Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” – ha raccontato Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama.

Alla “festa di benvenuto”, spesso seguono i “controlli di sicurezza” durante i quali le donne vengono sottoposte ad aggressioni sessuali e a stupri da parte di personale di sesso maschile.

All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subiscono costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, oppure semplicemente come punizione.

I metodi di tortura descritti dagli ex detenuti comprendono il dulab (“pneumatico”: il corpo della vittima viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico) e la falaqa (“bastonatura”, pestaggi sulle piante dei piedi), ma anche le scariche elettriche, lo stupro, l’estirpazione delle unghie delle mani o dei piedi, le ustioni con acqua bollente e le bruciature con sigarette.

Ali, detenuto presso la sede dei servizi di sicurezza militari di Homs, ha raccontato di essere stato sottoposto alla tortura dello shabeh (“impiccato”: il detenuto viene tenuto appeso per i polsi, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente per parecchie ore).

La combinazione tra sovraffollamento, mancanza di cibo e di cure mediche e insufficienza di servizi igienico-sanitari costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante, vietato dal diritto internazionale.

Le celle, hanno raccontato gli ex detenuti, erano così sovraffollate da rendere necessario fare i turni per dormire o, in alternativa, dormire rannicchiati.
Era come stare in una stanza di morti. Cercavano di farci fare quella fine” – ha raccontato un altro ex detenuto, Jalal.

“Ziad” (il nome è stato cambiato per proteggere la sua identità) ha denunciato che un giorno, nella sezione 235 dei servizi di sicurezza militari di Damasco, l’impianto di aerazione si è rotto e sette detenuti sono morti soffocati.

Ci prendevano a calci per vedere chi era morto e chi no. Ad alcuni di noi hanno ordinato di alzarci in piedi. In quel momento mi sono reso conto che c’erano sette morti, che avevo dormito accanto a sette cadaveri. Poi nel corridoio ho visto gli altri, circa 25 cadaveri“.

Gli ex detenuti hanno raccontato che l’accesso al cibo, all’acqua e ai servizi igienico-sanitari viene spesso limitato. La maggior parte di loro ha riferito di non aver mai potuto lavarsi adeguatamente. In questo ambiente, scabbia, pidocchi e altre infezioni proliferano. Poiché alla maggior parte dei detenuti vengono negate cure mediche adeguate, in molti casi i detenuti ricorrono a medicamenti rudimentali, ciò che ha contribuito al drammatico aumento dei decessi in carcere dal 2011.

In generale, i detenuti non hanno contatti con medici, familiari o avvocati: una condizione che in molti casi equivale a una sparizione forzata.

Il carcere militare di Saydnaya
I detenuti spesso trascorrono mesi se non anni nelle strutture detentive dei vari servizi di sicurezza siriani. Alcuni alla fine vengono portati di fronte a un tribunale militare, che li condanna nel giro di qualche minuto, per poi essere trasferiti nel carcere militare di Saydnaya, dove le condizioni sono particolarmente atroci.
[Nelle strutture dei servizi di sicurezza] ti torturano per farti ‘confessare’. A Saydnaya, l’obiettivo è la morte, una sorta di selezione naturale per liberarsi dei più deboli appena vengono trasferiti lì” – ha dichiarato Omar S., un ex detenuto.

La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Salam, un avvocato di Aleppo che vi ha trascorso due anni, ha raccontato: “Quando mi hanno portato dentro la prigione, ho sentito l’odore della tortura: un odore
specifico, un misto di umidità, sangue e sudore. Lo riconosci: è l’odore della tortura
“.

Salam ha descritto un caso in cui le guardie hanno picchiato a morte un istruttore di arti marziali dopo aver scoperto che allenava i compagni di cella: “Hanno picchiato a morte l’istruttore e altri cinque detenuti, poi hanno proseguito con gli altri 14. Nel giro di una settimana erano tutti morti. Vedevamo il sangue scorrere via dalla cella“.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, i detenuti cui viene negato il cibo si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Omar S. ha raccontato di una volta in cui una guardia ha obbligato due uomini a denudarsi e poi ha obbligato uno a stuprare l’altro, minacciandolo di morte se non l’avesse fatto.

La deliberata e sistematica natura della tortura nel carcere di Saydnaya rappresenta la forma più manifesta di crudeltà e di abietta mancanza di umanità” – ha commentato Luther.

Fonte:

Quei 900mila detenuti negli ex gulag di Stalin

di Damiano Aliprandi 12 ago 2016 14:35

Costretti ai lavori coatti nelle colonie penali siberiane. Nadja Tolokno, attivista e cantante russa del gruppo punk rock Pussy Riot ha creato la piattaforma ?Justice Zone? per una mobilitazione contro il sistema carcerario russo

Gelide oasi in cui sono costretti migliaia di alienati, obbligati ai lavori coatti con orari massacranti, paghe da fame e senza il permesso di coprirsi, a 30-40 gradi sotto zero, con indumenti caldi che non siano il cappotto poco imbottito fornito dai carcerieri. Parliamo delle famigerate colonie penali sparse in Siberia. Nella Russia di Putin, formalmente esistono solo sette carceri ordinarie, il resto dei detenuti – che sono oltre 900 mila – vengono dislocati in queste strutture ereditate dai Gulag staliniani.
La condizione delle detenute.
Sono circa 750 le colonie penali e le donne, secondo i dati dell’autorità penitenziaria di Mosca, rappresentano una minoranza di oltre 47 mila detenute, spedite in 46 colonie femminili. E le donne subiscono delle torture che ricordano descrizioni non molto diverse dai quadri dei gulag tratteggiati dal grande romanziere Aleksandr Sol?enicyn, rinchiuso nel 1950. Una delle testimoni è Nade?da Andreevna Tolokonnikova, anche nota come “Nadja Tolokno”, un’attivista e cantante russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, finita in galera per aver cantato per mezzo minuto un inno contro Putin sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Quando è uscita dalla colonia ha deciso di intraprendere una battaglia di mobilitazione per il sistema carcerario russo. Con altre attiviste ha creato la piattaforma “Justice Zone”: la base per l’azione collettiva di persone accomunate dall’interesse per il destino di quelle detenute le cui vite si stanno sgretolando sotto il sistema penale russo. Molte sono le testimonianze. Una è di Kira Sagaydarova, attivista di Justice Zone che nel passato aveva vissuto il dramma dei gulag “moderni”. Questi sono solo alcuni degli episodi che Kira ha vissuto: “Per i primi sei mesi ti uccidono lentamente. Rizhov, direttore della zona industriale, vuole che i supervisori dei laboratori di cucito raggiungano una certa quota di produzione, ma i supervisori non raggiungono la quota finché le nuove ragazze non imparano a cucire. Perciò i supervisori le picchiano. Una volta ti picchiano, poi magari ti strappano i capelli, ti sbattono la testa contro la macchina per cucire o ti portano in una cella punitiva, dove ti prendono a botte e calci usando mani e piedi, oppure tolgono la cinghia dalla macchina per cucire e ti colpiscono con quella”. Dice, ancora: “I supervisori sono i responsabili della maggior parte delle violenze che avvengono nella colonia penale. Fanno quello che vogliono e dispongono a loro piacimento della vita delle persone. Mi hanno colpito sulla schiena con tutta la loro forza, o sulla testa, non fa differenza. Più volte sono crollata e ho pianto, e non riesco nemmeno a elencare tutte le cose che succedevano lì. A loro non importa nulla. C’è stato un periodo in cui ci versavano addosso acqua gelida in una cella punitiva ghiacciata in pieno inverno! ”
Le condizioni maschili e la famigerata “Aquila nera”.
Ma per gli uomini è ancora peggio. Una delle peggiori colonie penali, la numero 56, viene chiamata anche Aquila Nera: è una delle carceri di massima sicurezza per i condannati all’ergastolo. Per un quarto di secolo i detenuti non hanno mai messo piede fuori da questo luogo. Per il rifornimento d’acqua, il carcere è collegato con tubature ad un lago, mentre l’energia nelle celle e nei recinti elettrificati è garantita da una serie di generatori. Non esistendo il sistema fognario, gli ergastolani devono svuotare il loro secchio nell’ora d’aria giornaliera in un fosso su cui si affacciano tutti i cortili. I reclusi trascorrono 23 ore al giorno dentro la cella, e hanno diritto a trascorrere solo un’ora fuori ma all’interno di una sala scoperta, senza tetto. Sono costretti a dormire con la luce accesa e durante il giorno è proibito restare a letto. Nel resto delle colonie, formalmente, l’obiettivo della reclusione nei campi è quello di abbinare la rieducazione allo sconto della pena, secondo il principio – travisato dai nazisti – per cui il “lavoro rende liberi”. La realtà è che i detenuti sono costretti a turni asfissianti di lavoro e pulizie, in strutture che sono le stesse dai tempi di Stalin. E con salari miseri di 20 rubli al giorno, non più di 70 euro al mese. Il compenso serve a coprire i costi delle uniformi e del rancio quotidiano.
Il sistema giudiziario senza alcuna garanzia per l’imputato.
E se il sistema penitenziario russo è devastante, non è da meno nemmeno quello giudiziario. Secondo la denuncia di Amnesty International, diversi processi di alto profilo hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario penale della Russia, tra cui la mancanza di parità tra le parti, l’uso della tortura e altri maltrattamenti nel corso delle indagini, nonché l’incapacità di escludere in aula le prove inquinate dalla tortura, l’uso di testimoni segreti e di altre prove segrete, che la difesa non può contestare, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato di propria scelta. Il dato parla chiaro: meno dello 0,5 per cento dei processi si è concluso con l’assoluzione. Il caso di Svetlana Davydova è stato uno dei sempre più diffusi casi di presunto alto tradimento e spionaggio, categorie di reato definite in modo vago, introdotte da Putin nel 2012. Svetlana Davydova era stata arrestata il 21 gennaio dell’anno scorso per una telefonata fatta otto mesi prima all’ambasciata ucraina, in cui aveva avanzato il sospetto che alcuni soldati della sua città, Vjaz’ma, nella regione di Smolensk, fossero stati inviati a combattere in Ucraina orientale. L’avvocato nominato d’ufficio aveva dichiarato ai mezzi d’informazione che la donna aveva “confessato tutto” e si era rifiutata di ricorrere in appello contro la sua detenzione perché “tutte queste udienze e il clamore sui media [creavano] un inutile trauma psicologico ai suoi figli”. Il 1° febbraio 2015, due nuovi avvocati hanno preso il caso. Svetlana Davydova ha denunciato che il primo avvocato l’aveva convinta a dichiararsi colpevole per ridurre la sua probabile condanna da 20 a 12 anni. Il 3 febbraio è stata rilasciata; il 13 marzo, in contrasto con tutti gli altri casi di tradimento, il procedimento penale nei suoi confronti è stato archiviato. A settembre dell’anno scorso è iniziato il processo contro Nade?da Savcenko, cittadina ucraina e appartenente al battaglione volontario Aidar. È stata accusata di aver deliberatamente diretto il fuoco dell’artiglieria per uccidere due giornalisti russi durante il conflitto in Ucraina, nel giugno 2014. La donna ha insistito sul fatto che il caso era stato inventato e che le testimonianze contro di lei, tra cui quelle di diversi testimoni segreti, erano false. Il suo processo è stato caratterizzato da moltissimi vizi procedurali. Il 15 dicembre del 2016, il presidente Putin ha approvato una nuova legge in base alla quale la Corte costituzionale poteva dichiarare “inattuabili” le decisioni della Corte europea dei diritti umani e di altri tribunali internazionali, qualora “violassero” la “supremazia” della costituzione russa.

 

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/giustizia_e_carcere/28760_quei_900mila_detenuti_negli_ex_gulag_di_stalin/