A IDOMENI UNA CRISI UMANITARIA E’ AFFRONTATA CON LE RUSPE

 

 

 

 

Fonte:

 

http://www.internazionale.it/opinione/annalisa-camilli/2016/05/25/idomeni-profughi-sgombero

Le elezioni di Nea Dimokratia e l’omicidio Temboneras

 fantasma-teboneras

Non c’è stato nessun omicidio. Per poter   parlare di omicidio ci devono essere determinate premesse. Si è trattato semplicemente di un decesso.

Nikòlaos Tàgaris, prefetto dell’Acaia, deposizione alla commissione parlamentare d’inchiesta (16/7/1991)

Αφίσα για εκδηλώσεις στη μνήμη του Νίκου Τεμπονέρα

La notte tra il 9 e il 10 gennaio di 25 anni fa il professor Nikos Teboneras veniva brutalmente assassinato da alcuni individui appartenenti alla sezione di Patrasso dell’organizzazione giovanile del partito Nea Dimokratìa (ONNED). Gli insegnanti hanno programmato un raduno commemorativo sul luogo dell’omicidio. Un quarto di secolo dopo, i fatti del 1991 restano ancora attuali.

Le elezioni per la presidenza di Nea Dimokratìa [svoltesi il 10/1/2016, hanno portato alla vittoria Kyrìakos Mitsotakis, figlio di Konstantinos Mitsotakis, primo ministro tra il 1990 e il 1993, n.d.t.] conferiscono a questa ricorrenza un’incredibile attualità: il fascismo può benissimo funzionare come la “lunga mano” delle politiche economiche filoliberiste. L’omicidio di Patrasso, infatti, non nasce dal nulla. È stata la conseguenza naturale di una politica studiata dai vertici del partito per sgomberare le occupazioni studentesche di quel periodo, attraverso la mobilitazione del meccanismo partitico di Nea Dimokratìa. L’operazione godeva del caloroso sostegno dei media di destra e della silenziosa copertura dei servizi di sicurezza.

A confermare la connivenza dello Stato con i responsabili del delitto sono soprattutto i tentativi ripetuti del governo e di Nea Dimokratìa non solo di coprire le proprie responsabilità, ma anche di assicurare agli autori materiali del delitto un trattamento di riguardo nel procedimento penale successivo all’omicidio.

Le occupazioni studentesche

Tutto è iniziato con due decreti del governo Mitsotakis per i Ginnasi (393/1990) e i Licei (392/1990), caratterizzati da una logica disciplinare autoritaria e ispirata ai valori del cristianesimo e del nazionalismo. I decreti prevedevano, tra le altre cose:

– ripristino delle preghiere quotidiane;

– ripristino del catechismo e dell’alzabandiera ;

– «revisione» delle comunità studentesche;

– nessuna tolleranza per le assenze ingiustificate;

– imposizione di un point system per controllare e sanzionare il comportamento degli studenti.

L’iniziale disposizione sulle «divise uguali per tutti gli studenti» venne ritirata di fronte allo sdegno pubblico, per essere poi riproposta come disposizione sull’obbligo di mantenere «un aspetto semplice e dignitoso». I particolari sarebbero stati definiti in base alle proposte del consiglio dei genitori, con decisione finale del consiglio dei docenti; la disposizione prevedeva sanzioni nei confronti di qualsiasi studente avesse un abbigliamento giudicato «in evidente disarmonia con l’ambiente scolastico».

La risposta degli studenti fu una tempesta di occupazioni che iniziarono il 22 novembre a Iraklio; le occupazioni dilagarono rapidamente in tutta la Grecia: 1.180 scuole occupate il 10/12, 20.000 manifestanti per le strade del centro di Atene il 13/12.

Le istanze degli occupanti erano naturalmente incentrate sul ritiro dei decreti contestati, ma gli studenti avanzarono anche proposte positive sulla didattica – ad esempio, riadottare nelle classi il libro «Storia del genere umano» di Lefteris Stavrianòs, che riportava la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, appena ritirato dalle classi del I Liceo perché bollato come «anticristiano».

Nella rivolta studentesca confluirono le mobilitazioni degli studenti medi e di quelli universitari, che nello stesso periodo avevano occupato le loro facoltà contro il piano di legge Kontoghiannòpoulos, e che il 18/12 realizzarono un raduno studentesco a cui parteciparono 35.000 giovani.

Sorpresi dagli sviluppi, il governo si rifugiò nei riflessi conservatori della sinistra ufficiale («le scuole devono essere riaperte», dichiara il 12/12 Grigoris Farakos, dopo un incontro con Mitsotakis), sembrò cedere su alcuni punti e attese l’arrivo del natale, ritenendo che le vacanze avrebbero placato gli animi.

Ma queste aspettative si rivelarono fasulle. Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Istruzione e della Religione, più di 700 scuole rimasero occupate durante le feste (tra queste, il 51% delle scuole di Atene, il 53% delle scuole del Pireo, l’80% di quelle dell’Attica occidentale, il 46% di quelle di Salonicco, il 63% di quelle dell’Argolide e il 68% delle scuole di Corfù), mentre in molti altri istituti erano state programmate assemblee per il 7 gennaio.

Deciso a stroncare il movimento, il ministero dichiarò che le lezioni si sarebbero svolte anche con un solo studente presente, ordinò ai presidi di prendere le assenze sul marciapiede (con unico criterio la dichiarazione di ciascuno studente pro o contro l’occupazione) e ricordò che bastavano 50 assenze ingiustificate per perdere l’anno («Ελεύθερος Τύπος», 4/1/1991). Questo ricatto però non funzionò, perché dopo la fine delle vacanze le occupazioni aumentarono. La propaganda governativa iniziò a diffondere bugie, senza ottenere risultati significativi, mentre il Procuratore capo di Atene chiariva ai genitori che per avviare procedimenti per turbamento dell’ordine pubblico i presidi delle scuole dovevano dichiarare per iscritto che i ragazzi, nonostante la volontà di entrare in classe, erano impossibilitati a seguire le lezioni (ΕΤ2, 7/1/1991).

…e sgomberi

Αθήνα 18/12/1990. Η αντοχή των μαθητικών καταλήψεων εξόργισε την κυβέρνηση Μητσοτάκη

Atene18/12/1990. La resistenza delle occupazioni studentesche fece infuriare il governo Mitsotakis | foto di Tassos Kostòpoulos

Al governo non rimase altro da fare che ricorrere alla violenza. Gruppi di «cittadini indignati» di N.D. e della sua organizzazione giovanile si incaricarono di sgomberare a mazzate le occupazioni.

Il 7 gennaio gli episodi furono limitati ed ebbero più che altro il carattere di un «automatismo sociale», i cui protagonisti furono soprattutto genitori ostili alle occupazioni. Del tutto diverse furono le violenze del giorno seguente, quando fu evidente il fallimento delle pressioni esercitate all’interno della legalità.

Alle 2 di notte, una quarantina di giovani armati di spranghe fecero irruzione con lacrimogeni e petardi nel 4° Liceo di Salonicco, rompendo la porta e mandando all’ospedale una studentessa e un genitore che si trovava lì; il capo delle spedizioni, secondo le denunce, era il presidente della locale MAKI [Movimento Studentesco Indipendente, gruppo studentesco affine all’ONNED, n.d.t.] («Ριζοσπάστης», 11/1). Un’altra ventina di persone provò a sgombrare il Liceo Tyrolòis, a Truba, ma vennero respinti da studenti e genitori («Τα Νέα», 10/1).

A Kypseli ci fu un’irruzione nel 33° Liceo, mentre a Votanikòs il 63° Liceo fu attaccato con lanci di molotov («Ελευθεροτυπία», 9/1). Una manifestazione di elettori di Nea Dimokratìa a Corfù, una vera «esplosione popolare», secondo il comunicato stampa della prefettura, si concluse con assalti alle occupazioni delle scuole dell’isola. Ad Amaliada, un gruppo di giovani di N.D. occupò il comune e pestò il sindaco (del PASOK). A Lamìa e a Makrakomi, infine, come riportato dal giornale filogovernativo «Ελεύθερο Τύπο» (9/1), i genitori che volevano mettere fine alle occupazioni distrussero porte e vetri di tre scuole, provocando danni per decine di migliaia di dracme. Uno studente del 6° Liceo di Lamia rimase leggermente ferito. Gli assalti erano stati preparati da famosi giornalisti, a partire già dal periodo degli scioperi estivi.

«Una decina di canaglie sta seminando scompiglio e vuole soffocare la Nazione, proprio quando riesce a reggersi in piedi da sola», dichiarò Christos Pasalaris (Απογευματινή 6/7/1990).

«Lo stesso primo ministro», conclude l’articolo, in televisione deve insegnare al popolo «ad autodifendersi da quelle dieci sadiche canaglie che sabotano i sacri diritti dei liberi cittadini, tagliando la corrente, chiudendo le scuole, impedendo la libera circolazione per le strade, mettendo in pericolo la salute pubblica». Anche Dimitris Rizos (9/1/1991), editore del giornale «Ελεύθερος Τύπος», invitò i lettori all’ “autodifesa”: «prima o poi i cittadini di questo Paese dovranno reagire contro i politicanti di mestiere. Avanti dunque, seguiamo la strada segnata dai cittadini di Amaliada». Quando il giornale arrivò nelle edicole, Nikos Teboneras era già morto.

L’omicidio

Χαρακτηριστικό πανό των διαδηλώσεων του πρώτου διημέρου μετά τη δολοφονία (Αθήνα, 9-10/1/1991)

Lo striscione che apriva le manifestazioni i giorni immediatamente seguenti l’omicidio (Atene, 9-10/1/1991) | Tassos Kostòpoulos

A Patrasso gli episodi iniziarono la sera dell’8 gennaio, con la spedizione infruttuosa contro l’occupazione del liceo multidisciplinare da parte di circa 25 giovani di N.D. capeggiati da Ghiannis Kalambokas, presidente dell’ONNED di Patrasso, consigliere comunale e impiegato alla Banca di Creta.

Dopo aver schiaffeggiato un professore, entrarono nel complesso scolastico e sgombrarono gli occupanti, ferendo alla mano con un taglierino il presidente del consiglio degli studenti. La notizia venne trasmessa dalla radio locale e circa duecento cittadini si radunarono al di fuori del complesso scolastico per proteggere gli studenti.

I giovani di N.D. li accolsero insultandoli: «sentimmo qualche slogan sul nazionalsocialismo», dichiarerà più tardi il professor Dionisis Evstathiou, «ma nessuno si aspettava il peggio» (Atti dell’inchiesta, 20/6/1991, pag. 16). Dopo il tentativo fallito del sindaco Andreas Karàvolas di convincere i giovani di N.D. ad andarsene e il lancio di oggetti contro di lui, un gruppo di professori disarmati e di cittadini entrò nel cortile, certi che il numero sarebbe bastato a far ritirare il gruppo di aggressori armati. Questi ultimi li picchiarono con le loro spranghe, spaccando la testa di Temboneras e ferendo gravemente altre tre persone. Quando arrivò all’ospedale, il professore, membro del Fronte Antimperialista dei Lavoratori (EAM), era clinicamente morto.

Il gruppo di aggressori era già noto a Patrasso per altri episodi violenti (assalti a sedi politiche ecc.) verificatisi durante le elezioni del biennio precedente (elezioni politiche il 18/6/1989, il 5/11/1989 e l’8/4/1990, comunali il 14/10/1990) e tollerati dalle autorità. Nel periodo delle occupazioni avevano svolto almeno due assemblee per decidere come affrontare gli occupanti.

Durante la prima assemblea (22/12/1990), a cui parteciparono anche il sottosegretario all’Istruzione Vassilis Bekiris e il parlamentare Nikos Nikolòpoulos, Kalambokas propose l’idea di un’azione di forza da parte dell’ONNED, e gli venne risposto che una cosa del genere avrebbe potuto essere presa in considerazione dopo le feste (atti dell’inchiesta, 3/7/1991, pag. 4-6). La seconda assemblea si svolse la sera dell’8 gennaio in prefettura. Secondo la deposizione giurata di quattro dei 60 presidi presenti, il prefetto Nikos Tagaris definì «legali» gli sgomberi, e fece un riferimento al complesso scolastico Vud (atti dell’inchiesta, 16/7/1991, pag. 85-6).

Simili progetti vennero proposti durante le assemblee in tutta la Grecia (ad es. il 4/1 a Salonicco, alla presenza del ministro degli Interni Sotiris Koùvelas). Secondo il reportage di Thodorìs Roussòpoulos («Ελευθεροτυπία», 13/1), ordini simili erano stati impartiti anche dal vicepresidente di N.D. Theòdoros Bechrakis, con un telex alle sedi provinciali del partito, e telefonicamente dalla commissione per le mobilitazioni dell’ONNED alle sezioni locali. La notizia dell’omicidio esplose come una bomba.

Διαδηλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

La sera del 9 gennaio il centro di Patrasso si trasformò in un teatro di scontri, che si protrassero per due giorni anche per le strade di Atene (10-11/1). Vi parteciparono migliaia di manifestanti, con un bilancio di centinaia di feriti e altri quattro morti, quando uno dei 4.000 lacrimogeni lanciati dai MAT provocò un incendio in una cartoleria.

In preda al panico, il governo ritirò i decreti e il piano di legge, Kontoghiannòpoulos si dimise e il suo successore Ghiorgos Soufliàs annunciò l’apertura di un dialogo nazionale sull’istruzione «ripartendo da zero».

 

La copertura della polizia

Διαδήλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Si tentò immediatamente di insabbiare quanto realmente accaduto, con la costruzione di una versione accomodante dei fatti. Nel primo pomeriggio del 9/1/1991 venne diffuso un comunicato particolareggiato della Direzione di Pubblica Sicurezza dell’Acaia, in cui la responsabilità principale per l’omicidio veniva attribuita alle vittime:

«Alle ore 21.00 dell’8 gennaio 1991, un gruppo di circa 30 persone ha fatto irruzione nel cortile delle scuole sopra citate dopo aver sfondato i cancelli e, senza fare uso di violenza, ha obbligato i circa 30 occupanti ad uscire nel cortile della scuola. I nuovi occupanti, che avevano come unico scopo il ripristino del normale svolgimento delle lezioni, sono rimasti padroni dello spazio. Gli studenti sgomberati hanno diffuso telefonicamente la notizia agli altri giovani occupanti. Dalle ore 22.20 circa alcuni cittadini hanno iniziato a radunarsi davanti la scuola, raggiungendo il numero di circa 250 individui, tra i quali anche il sindaco di Patrasso Karàvolas.

Il sindaco, dopo un incontro con i nuovi occupanti, non è riuscito a farli allontanare, ed ha comunicato la notizia alle persone radunate all’esterno della scuola, che hanno allora preso la decisione di fare irruzione in massa per sgomberare il luogo.

Durante gli scontri verificatisi circa alle 22.45 sono avvenuti reciproci lanci di diversi oggetti (pietre, pezzi di legno e di ferro, ecc.) che hanno portato al grave ferimento del professor Temboneras Nikòlaos, di anni 38, ora ricoverato nel reparto terapia intensiva de ll’ospedale universitario di Rio, e il leggero ferimento di:

  1. A) Tsoukalàs Christos, professore di Liceo, anni 34
  2. B) Ghiotis Konstantinos, anni 31, impiegato pubblico e
  3. C) Vassiliàs Nikolaos, anni 23, muratore

i quali, dopo i primi soccorsi, hanno fatto ritorno ai rispettivi domicili.

In base all’ inchiesta successiva condotta dal viceprocuratore Mytis, della Procura di Patrasso, sono presumibilmente coinvolti:

  1. A) Kalambokas Ioannis, anni 30, impiegato bancario
  2. B) Marangòs Alexios, anni 37, e
  3. C) Spinos (non identificato)

Il procuratore ha disposto l’arresto degli individui sopra menzionati, sebbene al momento il loro arresto non sia stato possibile, poiché assenti dai rispettivi domicili e sono tuttora ricercati».

Almeno tre punti del comunicato destano perplessità:

  1. la conoscenza delle generalità degli autori (ancora liberi) dello sgombero dell’occupazione;
  2. l’affermazione secondo cui le persone radunate fuori dalla scuola abbiano deciso di compiere un’«irruzione in massa» e
  3. il lancio «reciproco» di oggetti, mentre tutti i feriti appartengono a un solo schieramento – quello maggiormente numeroso.

La collaborazione del gruppo di Kalambokas con la polizia è un capitolo ancora oscuro. La cosa certa è che Kalambokas ha goduto di una certa immunità per le sue azioni violente, e che Marangòs visitava regolarmente la Direzione di Polizia, di fronte al cui edificio esercitava occasionalmente il mestiere di venditore ambulante.

Anche la denuncia del presidente della locale Unione dei Poliziotti, ex membro dei servizi di sicurezza, secondo cui Marangòs era un informatore stipendiato dei servizi («Τα Νέα», 12/1/1991, pag. 17) non è mai stata chiarita.

Per quanto riguarda l’assenza della polizia dal luogo dell’omicidio nonostante il centro operativo avesse un quadro molto chiaro della situazione, è disarmante la deposizione del prefetto agli Atti della commissione d’inchiesta (16/7/1991, pag. 129):

«La polizia aveva ricevuto dal Ministro competente l’ordine di astenersi da qualsiasi operazione negli edifici scolastici durante il periodo delle occupazioni. La sua presenza è stata discreta e a distanza. E questo perché altrimenti alcuni avrebbero provato a collegare la presenza della polizia alle azioni che miravano a sgomberare le occupazioni».

L’«inchiesta» parlamentare

Διαδήλωση μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Un secondo campo di confronto fu la commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla questione all’unanimità dal Parlamento (4/3/1991). Durante la discussione gli oratori di N.D. avevano duramente contestato la relativa istanza dell’opposizione, con argomenti che andavano dall’agnosticismo all’esplicita difesa degli oppositori alle occupazioni.

«Il professor Temboneras è rimasto vittima degli scontri. E durante uno scontro dubito che si possa capire chi stia picchiando chi», assicurò ad esempio l’onorevole Spilios Spiliotòpoulos, parlamentare dell’Acaia, mentre Apòstolos Andreoulakos sostenne che «la legalità» era stata «ripristinata» dal gruppo di Kalambokas, e che Temboneras  fu ucciso «da una folla inferocita di sostenitori degli occupanti» e, di conseguenza, le responsabilità penali andavano attribuite ai compagni della vittima. Alla fine venne istituita la commissione d’inchiesta, dopo l’intervento del primo ministro in persona.

Come si evince dagli atti ufficiali, durante i lavori della commissione il presidente Epaminondas Zafiròpoulos non fu per nulla imparziale: spesso dettava le risposte ai funzionari di sicurezza, o minacciava e provava a confondere i testimoni «nemici». Un simile atteggiamento fu tenuto anche da alcuni onorevoli parlamentari, come Petros Tatoulis.

Riportiamo la risposta stizzita di Zafiròpoulos che commentò le dichiarazioni contrastanti della polizia e del presidente dell’ELME [Federazione Ellenica degli Insegnanti dell’Istruzione Secondaria]: «adesso ci mettiamo a paragonare le asserzioni della signora Antoneli con quelle della polizia? La polizia è un ente statale e la signora Antoneli è una persona. Tutti gli Stati hanno una polizia» (16/7/1991, σ. 145).

E pensate che la commissione era stata formata proprio per fare chiarezza sulle responsabilità dei servizi di sicurezza! Dunque non desta alcuna sorpresa il fatto che la commissione non sia giunta a un verdetto unanime. I parlamentari dell’opposizione diffusero le loro conclusioni, in cui parlavano di «brutale assassinio politico», la cui responsabilità era «non solo degli autori materiali ma anche dei mandanti morail, tra i quali possono essere annoverati il prefetto Tagaris e i dirigenti di polizia Badas e Tsaousis» («Ποντίκι», 18/6/1992), mentre la maggioranza governativa archiviò il caso.

Gli atti di due delle 23 udienze (la 19° e la 20° ) non sono presenti nel fascicolo del Parlamento. Subito dopo la fine dei lavori il presidente della commissione diventò ufficialmente l’avvocato difensore di Kalambokas in tribunale (20/7/1992).

Dopo l’omicidio Temboneras

La battaglia legale

Il tribunale costituisce il terzo ed ultimo campo di confronto.

I ricercati si costituirono spontaneamente e vennero incarcerati preventivamente. Il filo degli eventi può essere riassunto in cinque “tappe”:

– nel maggio 1991 viene scarcerato Marangòs, nonostante il presidente del consiglio degli studenti, testimone oculare, lo vide uscire dalla scuola con un piede di porco insanguinato (atti dell’inchiesta, 16/10/91, pag. 13-4);

– nel marzo del 1992 un verdetto sancì la sostituzione di sindaco e prefetto, contro cui erano state presentate denunce per complicità morale da alcuni gruppi di avvocati di Patrasso. Con il medesimo verdetto Kalambokas venne rinviato a giudizio per omicidio, Marangòs e Spinos per lesioni personali e altri 10 membri dell’ONNED per concorso e complicità. La stessa accusa venne però rivolta anche a 6 appartenenti allo schieramento degli occupanti, tra cui anche 4 testimoni oculari dell’omicidio!

il processo di primo grado iniziò a Volos il 22/6/1992 e si concluse il 9/3/1993 con la condanna di Kalambokas all’ergastolo per omicidio volontario senza attenuanti, di Marangòs e Spinos a tre mesi di carcere e con l’assoluzione degli altri imputati. Sul nucleo duro di N.D. la decisione fu un vero shock: «siamo forse governati dal PASOK? , si chiedeva il giorno successivo Dimitris Rizos sul giornale «Ελεύθερο Τύπο». «Perché in un processo così politicizzato la Società non ha fatto nulla affinché a emettere il verdetto fossero giudici che non si fanno influenzare da falsi testimoni? Che non si piegano alla marmaglia? Neanche questo è in grado di garantire il potere, ormai vacillante?»;

– il «potere vacillante» infine decise di rimediare alle questioni in sospeso prima delle elezioni del 1994;

Il 16/6/1993 venne stabilita un’udienza (per il 7/12/1993) e, successivamente, il personale del tribunale di Larissa venne trasferito in massa, perché la composizione del nuovo corpo fosse stabilita non per sorteggio, ma dal nuovo presidente, noto per la sua partecipazione a sentenze favorevoli per il governo («Τα Νέα», 15/11/1993).

Ma il governo Mitsotakis cadde il 9/9/1993, il nuovo governo Papandreou annullò i trasferimenti e Kalambokas fu di nuovo condannato (19/5/1994) a 17 anni – con l’attenuante di non avere precedenti penali.

La novità fondamentale del processo di secondo grado furono le accuse tra ex camerati. Kalambokas rivelò che il vero assassino di Temboneras era Marangòs, dichiarazione confermata anche da Spinos e da Achilleas Prionàs (uno degli accusati).

Marangòs il 22/2 dichiarò che probabilmente l’assassino era Prionàs, denunciò Spinos e ottenne la sua condanna per calunnie. D’altronde non correva alcun rischio, visto che era stato irrevocabilmente assolto dal verdetto.

– nel 1996 l’Aeropago stabilì che il tribunale doveva riesaminare il caso prendendo in considerazione l’attenuante della «tensione della situazione».

Il caso venne di nuovo sottoposto a processo (1-15/10/1996), il tribunale fu costretto dall’Aeropago a una revisione della pena, che venne ridotta a…16 anni e mezzo (22/1/1998). Poco più tardi Kalambokas venne scarcerato, avendo scontato i 2/5 della pena. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.

Kalambokas è diventato dirigente di una filiale della Banca Nazionale a Volos. Vassilis Kontoghiannòpoulos è stato eletto nel 2000 parlamentare del PASOK e nel 2003 è stato Sottosegretario alla Sanità durante il governo Simitis. Nikos Nikolòpoulos, che aveva giustificato le violenze della squadraccia di Kalambokas parlando di «costumi locali» (atti dell’inchiesta, 15/5/1991, pag.82), ha appoggiato il governo di Alexis Tsipras – il più famoso degli occupanti del 1991 – come parlamentare di AN.EL. Qualcuno vuole forse mettere in dubbio il successo della pacificazione nazionale?

Patria – Religione – Polizia

Tra gli altri documenti di quel periodo, sul sito web dell’Istituto Konstantinos Mitsotakis sono stati caricati due telegrammi di alcuni cittadini che, all’indomani dell’omicidio Temboneras, invitavano il governo a non cedere al partitismo e all’anarchia.

Il primo è stato scritto da un ex prefetto, autore del più dettagliato testo pubblicato sino ad oggi sul «terrore rosso» nel Peloponneso durante l’occupazione, mentre il secondo è di una coppia di genitori nazionalisti. Entrambi i telegrammi sono molto eloquenti per comprendere il miscuglio di autoritarismo, nazionalismo e religione di cui era intrisa in quel periodo l’ideologia della “liberale” N.D.:

«Kyparissia, 11/1

Al Presidente del Consiglio

Al ministro dell’Istruzione

Al ministro della Giustizia

Al ministro dell’Ordine Pubblico, Atene.

Popolo greco attende protezione in tutti i modi di istruzione ellenica, società ellenica e democrazia ellenica dai piani di anarchici guidati da organi partitici antidemocratici e antieducativi. Kosmàs Antonòpoulos, ex prefetto».

«Spettabile Ministro, siamo genitori di studenti. Concedeteci il diritto di esprimere la nostra approvazione per tutte le misure, senza eccezione alcuna, che voi e altri saggi collaboratori avete ideato per il bene dell’amatissima patria e della vera educazione dei nostri giovani. Prendete tutte le misure in vostro potere per ricondurre alla ragione le masse paranoiche e disinformate che insorgono contro i vostri santissimi progetti per il rinnovamento spirtituale e sociale della nostra nazione, e soprattutto rimanete al vostro posto, lì dove il fato vi ha posto quando i tempi diventarono maturi.

Non è possibile che la gioventù di oggi, già da alcuni anni, si occupi solo di sigarette, coca, whiskey, caffetterie e discoteche, anziché sforzarsi di portare giovamento a se stessa e alla nostra società.

Petros e Maria Kalogheropoulou

Dyaleon 21 – Atene 11854»

Il nuovo Cristo e i vasi comunicanti

Ο Μιχάλης Αρβανίτης ομιλητής σε εκδήλωση της Χρυσής Αυγής

Michalis Arvanitis sul palco di Alba Dorata | Eurokinissi

L’unico libro sul caso Temboneras è stato scritto da un membro di…Alba Dorata: il parlamentare dell’Acaia Michalis Arvanitis, avvocato di Kalambokas per i primi diciotto mesi dopo l’omicidio e di Alekos Marangòs fino al giugno del 1991.

Con l’accattivante titolo «Chi uccise Nikos Temboneras», l’opera è stata pubblicata nel 2002 dalla casa editrice Pelasgòs di Ioannis Ghiannàkena (allora appartenente al Fronte Ellenico di Voridis e poi del LAOS), e costituisce un maldestro tentativo di discolpare il primo cliente dello scrittore, attribuendo le responsabilità dell’omicidio al secondo.

Il libro è stato presentato ufficialmente nel dodicesimo anniversario dell’omicidio (8/1/2003) da Makis Voridis e dai giornalisti Christos Pasalaris e Ghiannis Voùltepsis.

Quest’ultimo, responsabile dell’Ufficio Stampa di N.D. tra il 1984 e il 1993, adotta esplicitamente nelle sue memorie il punto di vista dell’«amico Arvanitis» come unica narrazione dei fatti degna di nota («Δέκα σκληρά χρόνια στη Νέα Δημοκρατία», Atene 2005, pag. 398-401).

Το βιβλίο του Μιχάλη Αρβανίτη για την δολοφονία Τεμπονέρα

Per quanti hanno seguito il caso attraverso i giornali, in particolare le accuse reciproche tra ex camerati durante il processo di secondo grado, il libro di Arvanitis non offre nulla di nuovo.

Con l’eccezione, forse, della rivelazione secondo cui l’autore fu sostituito – come avvocato di Kalambokas – da onorevoli parlamentari di N.D., perché lui aveva già assunto come collaboratore l’avvocato ateniese «nazionalista» K. P(levris?), che aveva «le capacità e le competenze per provvedere efficacemente alle necessità del caso».

Con quanto è venuto alla luce, il paragone di Kalambokas e Cristo (pag. 14) desta solo sorrisi ironici, così come l’insistenza dell’autore nel sostenere che la squadraccia dell’ONNED non voleva sgomberare la scuola, ma era uscita in strada per un semplice attacchinaggio ed era stata «intrappolata» lì dalla «folla infervorata» degli occupanti e dei loro sostenitori (pag. 37 – 47).

Va presa poco sul serio anche la tesi fondamentale secondo cui il caso non fu altro che una cospirazione per sabotare il potente Kalambokas, sabotaggio a cui partecipò l’intera «catena di individui» che «progettò, organizzò e realizzò non solo il delitto di quella sera, ma anche una serie di altri delitti contro la Giustizia, la Verità e la Dignità Umana, per scopi politici e allo stesso tempo per sfogare le loro malate passioni politiche» (pag. 39–40).

Tesi che, tra le altre cose, è in evidente contrasto con quanto sostiene oggi il partito di Michalis Arvanitis: provando a relativizzare i propri delitti, Alba Dorata in realtà ci ricorda sempre di più negli ultimi anni il vigliacco omicidio del professore di sinistra da parte delle «squadracce dell’ONNED».

Al contrario, l’opera nel suo complesso delinea “dal di dentro” la mentalità politica e ideologica che ha portato al delitto Temboneras e che aveva grande successo allora nello schieramento liberale, mentre ora è stata adottata da Alba Dorata.

L’avvocato di Kalambokas si straccia le vesti perché «gli ufficiali ellenici, ostaggi del passato dittatoriale che i partiti vogliono tenere vivo, non osano spaccare i denti ai politici dittatori», mentre «la compagnia di compagni trebbia le messi di qualsiasi campo si trovi davanti» (pag. 34).

Chiama la presidente dell’ELME la «compagna pesantona», il presidente del consiglio degli studenti ferito «piccola spia» (pag. 43), i testimoni dell’accusa «marmaglia» (pag. 58), ecc., e dichiara amaramente che «il magistrato non ha sicuramente dimostrato un coraggio da leone, quando sarebbe bastato un ruggito per sparpagliare quelle iene affamate, quella marmaglia di compagni» (pag. 110).

Mitsotakis viene definito «Pilato Cretese», poiché consegnò il nuovo Gesù alla «folla di Ebrei» (pag. 14), mentre i giudici vengono paragonati ai «sacerdoti ebrei, accecati dal fanatismo e dal dogmatismo» (pag. 13).

Nemmeno Temboneras si salva dagli strali dell’avvocato albadorato, che dice di lui: «un sedicente caporione, specializzato nella repressione violenta delle manifestazioni contro gli scioperi ».

Insomma, Kalambokas e la sua comitiva erano semplicemente andati a fare un attacchinaggio…

di Tassos Kostòpoulos (10/01/2016)

Fonte: efsyn.gr

Traduzione di AteneCalling.

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BRASILE: I BRUTTI ANATROCCOLI DI RIO 2016

I brutti anatroccoli di Rio 2016

Più di 80.000 abitanti di Rio de Janeiro sono stati rimossi dalle loro case, con le buone o con le cattive, a causa delle grandi opere per la Coppa e per le Olimpiadi del 2016. Dietro queste rimozioni non c’è solo un giro d’affari miliardario che beneficia grandi imprese costruttrici e politici corrotti a spese dei contribuenti, ma anche un’operazione di vera e propria pulizia sociale. Favelas e comunità come quella di Vila Autodromo, che sorge nei pressi del nuovo Parco Olimpico, vanno spazzate via per far posto a nuovi insediamenti di lusso destinati alle classi più agiate che, si sa, non gradiscono la vicinanza dei “brutti anatroccoli”…
Un reportage di Luiz Carlos Azenha [https://vimeo.com/147068151]

Fonte:

La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Dal blog di Cristiano Armati:

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Qualcuno ha iniziato a parlare di riot porn per descrivere l’attrazione del “pubblico” nei confronti delle immagini dedicate agli scontri di piazza e ai tafferugli con le forze dell’ordine. Le cariche indiscriminate, le manganellate a persone inermi, le istantanee di poliziotti che calpestano o schiaffeggiano i fermati credendo, magari, di non essere visti, in realtà si sprecano e sono abbondantemente disponibili in rete e altrove, insieme alle riprese, molto più rare, di reparti costretti alla ritarata grazie a una controcarica o a un fitto lancio di oggetti.

Merito dell’imperante economia dei click: una caratteristica dell’informazione ai tempi di Internet, capace di attirare i giornalisti sui luoghi del conflitto sociale come le mosce sul miele. Perché in fondo la fotografia di una testa spaccata o l’istantanea di manifestanti presi a calci è una delle poche cose che, sulla colonna destra dei quotidiani on-line, riesce a reggere il confronto con le gallery dedicate ai gattini o alle donne nude. E anche perché, sovraesponendolo, il dolore finisce per decontestualizzarsi: il manifestante colpito dal lacrimogeno, i cadaveri di decine di migranti stipati in un camion, il gol in rovesciata di un campione dello sport, il lato B di una famosa attrice di Hollywood, l’arte di impiattare i dessert sono soltanto tessere di un palinsesto e, in questo schema, rispondono alla necessità di andare incontro agli sfaccettati gusti degli spettatori, non certo alla reale esigenza di riflettere su ciò che accade e su perché accade.

Per questa ragione, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire non sono le immagini dell’eventuale resistenza offerta dalle famiglie buttate in mezzo alla strada. Nei corpi scomposti di chi oppone resistenza a un nemico tanto più forte, numeroso e meglio armato come quello rappresentato da interi battaglioni di polizia, infatti, si cerca di cristallizzare ciò che, grazie all’esposizione, palesa una sconfitta presentata come inevitabile. Piuttosto, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire sono le immagini che parlano di ciò che fanno le forze dell’ordine, lasciate sole con se stesse, degli averi degli occupanti e degli spazi che questi hanno faticosamente strappato al degrado, recuperandoli alle proprie umanissime esigenze.

Ebbene, lasciate sole con se stesse, negli spazzi appena sgomberati, per prima cosa le forze dell’ordine si accaniscono contro i bagni. È un grande classico, ma sulla scia di una psichiatria insondabile gli uomini in divisa sembrano godere nel distruggere gabinetti e docce, quasi a voler implicitamente affermare che la loro controparte – uomini, donne, bambini… – non può davvero avere utilizzato un water o una vasca da bagno. Accade perché, se pensasse di fare tutto ciò che fa a uomini, donne e bambini, il personale in divisa finirebbe per abbandonare in masse il proprio servizio, da qui il bisogno di presentare il “nemico”, cioè il comune cittadino, come una sorta di animale, operare su di lui un’operazione di despecificazione fisica e morale utile al suo annientamento. Per questa ragione, le tazze del cesso degli spazi occupati, trasudando umanità, vengono immediatamente spaccate e divelte: la polizia afferma con quel gesto ricorrente che tutto ciò che ha fatto non lo ha fatto contro esseri umani e, considerando come né le cose né gli animali hanno mai usato i bagni, quei bagni non esistono, non devono esistere, quindi vengono distrutti.

Immancabile, dopo la devastazione dei servizi igienici, segue il bisogno da parte della polizia di marcare il territorio conquistato. Tradizionalmente tutto questo avviene pisciando sui vestiti degli sconfitti e sui loro letti. Cacare sui materassi, da parte della polizia, è un simbolo di vittoria e una modalità tipica di festeggiamento.

Una volta avvenuto tutto questo si può procedere alla spartizione del bottino: televisioni, macchine fotografiche e videocamere i beni più ambiti. Ma anche un bel paio di scarpe sparisce spesso e volentieri: avete mai visto degli animali girare provvisti di calzature?

E soprattutto, da che mondo e mondo, il saccheggio è il primo diritto concesso dalle stesse gerarchie di comando ai soldati dell’esercito invasore. Il tutto accade al di fuori e oltre ogni razionalità tecnica legata all’occupazione militare. Il furto è solo una piccola parte di ciò che accade in questi casi, considerando che lo stupro e la tortura vengono largamente praticati, segni indelebili della sopraffazione e punizione supplementare inflitta ai vinti.

Anche gli sgomberi delle occupazioni abitative parlano di guerra. In modo particolare parlano della guerra contro i poveri e della sopraffazione degli oppressori ai danni degli oppressi. E infatti immagini come quelle riprese dalla scena dello sgombero dello studentato occupato Degage non finiranno mai in una delle tante gallery dei quotidiani on-line. Perché mostrarle significherebbe ammettere l’odio brutale provato dalle forze dell’ordine nei confronti degli stessi cittadini che avrebbero il compito di tutelare (altro che “ripristino della legalità”!), riconoscendo in ultima istanza il corso – e l’aumento di intensità – di quella che è la nuova guerra civile italiana.

 

 

Fonte:

http://www.armati.info/cosa-succede-quando-la-polizia-interviene-per-sgomberare-unoccupazione-abitativa/

Messina, che c’entra Peppino Impastato con i rosso-bruni?

 

Una inquietante sigla nazionalista, filo Assad e filo Putin, starebbe strumentalizzando il nome del militante di Dp ucciso da Cosa Nostra

di Ercole Olmi

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“L’Associazione di Promozione Sociale Peppino Impastato Messina e la nascente cellula messinese di Socialismo Patriottico hanno incontrato e portato solidarietà ai lavoratori del Birrificio Messina, ri-organizzatisi in cooperativa dopo le vicende legate ai licenziamenti ed alla dismissione della fabbrica degli ultimi anni”. E’ successo il 21 novembre scorso e ne dà notizia il sito di Socialismo patriottico con la foto ricordo dell’accaduto. Nel sito dell’organo ufficiale di Sp, Stato e Potenza, ci sono un paio di articoli del presidente di un’associazione Peppino Impastato, Sonny Foschino.

Socialismo patriottico? Qualcuno a Messina sta usando il nome di Peppino Impastato per un’operazione rosso-bruna? Cosa c’era di patriottico nella vita di Peppino Impastato, militante di Democrazia proletaria, organizzazione antistalinista, libertaria, pacifista e internazionalista?

Lo chiedo proprio a Sonny Foschino su fb che prima mi strapazza un po’, nega, poi dice che ci sarebbe un equivoco, poi minaccia di chiamare Ingroia, dice che mi rovinerà, dice di non avere paura di me e di aver già querelato Crocetta un paio di volte. Poi decide di rilasciare la seguente importante dichiarazione: “Il gruppo APS Peppino Impastato messina è un collettivo che lavora autonomamente e che non ha nulla a che spartire con l’associazione che presiedo”.

Sì, ma ci sono quegli articoli su Stato e Potenza? “Si, li pubblica e non vedo nulla di male in questo. Non sono tesserato a stato e potenza ma ciò non mi preclude il diritto di divulgare i miei articoli. Mi attacchi sui contenuto eventualmente, non sulla testata”.

Retitfico anch’io: qualcuno, non Foschino, sta strumentalizzando il nome di Peppino Impastato? Ma che cosa è “Socialismo patriottico”? A scorrere il sito sembra una sigla filo russa (con buona pace del patriottismo) con un programma militaresco, xenofobo, omofobo, familista, nuclearista, con l’ossessione della famiglia naturale, della solidarietà a tipetti tutto pepe come Bashar Al-Assad e il “compagno Kim Jon-Un” e soprattutto per la ratifica dei trattati commerciali con Putin.

Fate un lungo respiro, servitevi un cordiale, perché stiamo per sciorinare alcuni punti del programma di Socialismo patriottico: “Collaborazione con i BRICS e richiesta di ingresso nella SCO. Completamento del progetto italo-russo “South Stream” e avviamento di piani coordinati Eni-Gazprom per l’esplorazione e l’analisi geologica del sottosuolo nazionale, delle conformazioni montuose, dei bacini e degli arcipelaghi del territorio nazionale. Costruzione o completamento dei grandi collegamenti viari: Ponte sullo Stretto di Messina, Autostrada Due Mari, ristrutturazione dell’Autostrada del Sole, potenziamento della viabilità nelle due Isole maggiori. Completamento e sviluppo della rete TAV e della altre reti ferroviarie nazionali. Ritorno pianificato e compatibile all’energia nucleare per abbattere l’emissione di CO2. Istituzionalizzazione dei sindacati. Revisione delle politiche di accoglienza in base alle esigenze strutturali del paese. Aiutare economicamente le famiglie naturali che desiderano figli. Lotta serrata al commercio e al consumo di narcotici e all’abuso di alcoolici. Riconoscimento dell’unione tra uomo e donna come unico nucleo familiare istituzionale. Scioglimento delle società segrete e delle sette religiose in contrasto con gli interessi nazionali. Sgombero immediato delle occupazioni abusive a scopo associativo e politico. Aumento dei finanziamenti per la Difesa. Incremento dell’impiego di Polizia e Carabinieri nelle strade, trasferendo alcuni loro compiti burocratici agli uffici civili. Espulsione dei clandestini entro 24 ore verso il Paese di provenienza salvo comprovato impedimento. Intensificazione della collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all’immigrazione clandestina con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo. Espulsione e sconto della pena nei Paesi d’origine dei cittadini extracomunitari, dopo la condanna per reati superiori ad 1 anno. Carcere riabilitativo attraverso forme di lavoro socialmente utile alla comunità per pene inferiori ad anni 2. Ergastolo ostativo per i reati di estrema gravità (alto tradimento, attività mafiosa, terrorismo, genocidio e pedofilia)”.

Di Stato e Potenza s’è parlato a lungo, nel recentissimo passato, per certe sue collusioni con pezzi del Pdci, con gli ambienti siriani, con organizzazioni dichiaratamente di estrema destra come Zenit (sospettata di antisemitismo) e Casapound (ora in tandem con il leghista Borghezio) con le quali ha dato vita a manifestazioni “antimperialiste” a sostegno di Gheddafi o Assad.

Cosa c’entra tutto questo con Peppino Impastato che si batteva contro lo sfruttamento di classe che è lo stesso nei paesi Brics e in Occidente?

Sul profilo fb del capo di Sp, il reggiano Bonilauri, spicca una citazione di Costanzo Preve, ex filosofo di sinistra poi divenuto maestro rossobruno di personaggi ambigui come il “marxista” Diego Fusaro che ogni tanto abbindola anche circoli di sprovveduti a sinistra: «I centri sociali sono la guardia gratuita del ceto intellettuale di sinistra. La loro cultura è inesistente, trattandosi di ghetti consentiti e foraggiati dalla Sinistra Politicamente Corretta (SPC), che li può sempre usare come potenziale guardia plebea.
Privi di qualsiasi ragion d’essere storica, costoro, composti di semianalfabeti, intontiti dalla musica che ascoltano abitualmente ad altissimo volume e dallo spinellamento di gruppo, hanno una cultura della mobilitazione, dello scontro e della paranoia del fascismo esterno sempre attuale, ed è del tutto inutile porsi in un razionale atteggiamento dialogico, che pure potrebbe teoricamente chiarire moltissimi equivoci. Ma il paranoico non è un interlocutore.
Anche l’interesse per i migranti è un pretesto, perché essi li vivono come un raddoppiamento mimetico della loro marginalità». Stefano Bonilauri, è indicato sul web come veterano delle delegazioni italiane a Damasco per omaggiare il dittatore Assad. Il gruppo è in ottimi rapporti, oltre che con il Partito Nazional Socialista Siriano, con i governi di Iran e Corea del Nord, nonché con il Partito Comunista della Federazione Russa ed altre formazioni staliniste.

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Siamo sicuri che Peppino Impastato sarebbe stato un alfiere di questo tipo di socialismo nazionale?

Sonny Foschino, leader messinese dell’associazione, poliedrica figura di musicista, letterato e politico, collaboratore di Stato e Potenza, dice anche di essere un leader politico: “Peppino Impastato avrebbe sorriso vedendo i sorrisi, gli abbracci, la gioia che ha trasudato il corteo del 9 maggio 2014. Più di mille e duecento, secondo le stime, i giovani che hanno invaso Piazza Antonello. In testa una presenza importante: quella dell’istituto nautico Caio Duilio. Poi AUT, la corrente di pensiero che si ispira a Peppino Impastato, donnAUT e i ragazzi del progetto AULA AUT ormai presente in numerosi istituti di Messina e Provincia e da poco presente anche su Palermo. Gruppi di attivisti del movimento AUT stanno iniziando a formarsi anche su Catania, Roma, Reggio Calabria, Bologna e Forlì”.

Aut, la corrente di pensiero? A cosa pensa Aut? “Il Movimento Studentesco Aut – Unione degli Studenti Messina è un coordinamento di studenti messinesi in collaborazione con il sindacato studentesco Unione degli Studenti. E’ totalmente apartitico ed è politico solo nell’accezzione [la doppia z dev’essere uno sfizio patriottico, ndr] più antica e vera del termine: Diamo un servizio alla comunità tutta, mettendoci al servizio degli studenti. Ogni studente, di qualsivoglia posizione politica è bene accetto.La collaborazione con l’Uds nazionale consegna al movimento il carattere di sindacato studentesco, in grado di portare avanti battaglie legali contro ingiustizie quotidiane all’interno delle scuole…”.

Nè di destra, né di sinistra, dunque. Proprio come ogni esperienza rosso-bruna prescrive. Anche Sp ha una vera fissa su questo: “L’apertura della sezione si pone l’obiettivo di fornire un punto di riferimento per tutti i soggetti che rifiutano la dicotomia liberale destra-sinistra – recita un comunicato della sezione di Terni – garantendo una credibile alternativa al sistema anti-popolare e anti-nazionale, che condanna l’Italia ad essere un’appendice dell’offensiva ultra-liberista che Stati Uniti e Unione Europea stanno sferrando contro le potenze emergenti e il mondo in via di sviluppo… Famiglia, lavoro e militanza, sono le fondamenta su cui si regge la vita pubblica/privata del nostro militante”, recita la dichiarazione di apertura di una sezione ternana scimmiottando altre trinità del genere (da diopatriafamiglia a credereobbedirecombattere, c’è solo l’imbarazzo della scelta).

La sezione è stata intitolata all’Operaio Ternano Luigi Trastulli, ucciso dalla polizia nel 1949 mentre contestava la Nato e la guerra e ora ucciso di nuovo da questa operazione inquietante, ambigua da gente che rivendica niente meno che la vittoria della Grande Guerra e la trimurti “Patria, Popolo, Lavoro”.

 

Che cosa succede a Terni, Messina e altrove? Si tratta di un gruppo di “socialconfusi” che vivono nell’eterno presente globale, incapaci di decodificare quello che gli accade intorno? E’ la punta dell’iceberg di un’operazione di ricerca della legittimazione come molte esperienze nazimao o rossobrune hanno tentato negli anni (da Rinascita, organo della Sinistra nazionale, alla rivista Indipendenza)? E’ qualcuno che vivacchia con qualche finanziamento di ambasciate e partiti fratelli? E’ ancora peggio?

Il complottismo lo lasciamo ai professionisti di questa corrente di pensiero. Per ora poniamo solo domande a chiunque abbia a che fare con questi personaggi, ad esempio l’Uds che potrebbe capire se il proprio nodo messinese sia coerente con lo spirito che anima il sindacato studentesco, così come ha dovuto fare il Pdci nazionale a Terni in occasione di una manifestazione di fascisti filo Assad a cui presero parte anche militanti cossuttiani al seguito di Sp. Questi ultimi ci rimasero male a sentirsi maltrattati e se la cavarono con queste parole: “E’ opportuno ribadire, inoltre, che, almeno nella fase dei primi diciotto mesi di guerra in Siria, aver preso parte ad eventi pubblici ai quali contemporaneamente hanno preso parte (per proprio conto ed indipendentemente dal contesto) anche persone o sigle riconducibili al mondo della destra radicale, si è reso POLITICAMENTE NECESSARIO per evitare che la questione siriana (da noi trattata e sostenuta sin dall’estate del 2011) fosse lasciata nelle mani di una sola parte politica, con tutte le scontate conseguenze sia in termini di immagine internazionale per il governo siriano che in termini di credibilità per l’ambiente social-comunista, resosi in gran parte responsabile di gravissime omissioni e latitanze sul tema della politica internazionale, quando non di vere e proprie “complicità” politiche e/o morali con gli aggressori imperialisti (vedasi l’assalto all’Ambasciata Libica a Roma del 23/2/2011)”.

Davvero Peppino Impastato si sarebbe mobilitato per il Ponte di Messina, uno degli affari cruciali per Cosa Nostra, e per dittatori osceni come Assad, Gheddafi, Putin. Osceni come Obama e Renzi.

Rosso bruni: c’è un luogo del mondo, in questa epoca, dove se ne possono incontrare: è il Donbass, crocevia (oltre che di sincere aspirazioni internazionaliste) di tardive nostalgie campiste e di gesta pugnaci di soggetti di Forza Nuova, dei loro camerati francesi di Troiseme Voie, del Movimento sociale europeo e, come rivelava domenica il Fatto quotidiano, perfino di ammiratori di Salvini che hanno deciso di fare la guerra guerreggiata. E’ nella lettura delle vicende ucraine che tra i rosso-bruni si fa avanti la tesi dell’inattualità della dicotomia fascismo/antifascismo. Con buona pace dei carovanieri in buona fede che da molto tempo sono costretti a prendere nota della presenza nel Donbass di personaggi francesi, spagnoli, padani e italiani legati a doppio filo ai gruppi neofascisti.

statopotenza

Prima di chiudere l’articolo l’ennesima precisazione di Foschini: “Io non minaccio nessuno! Sono abituato alle cose concrete. Come insegnava Peppino! Scriva scriva, è chiaro che alle sue dichiarazioni seguiranno le mie… È questa non è una minaccia, ma una constatazione. La saluto! HASTA la victoria! Siempre!”. Oddio! E adesso che c’entra il Che?

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2014/12/01/messina-che-centra-peppino-impastato-con-i-rosso-bruni/

 

Milano, ragazza incinta manganellata dalla polizia perde il bambino

 

  • Redazione Contropiano

Milano, ragazza incinta manganellata dalla polizia perde il bambino

 

Aveva partecipato alla difesa di due spazi sociali nel quartiere Corvetto, periferia sud di Milano, presi d’assalto martedì da polizia e carabinieri che avevano ricevuto l’ordine di sgomberare il Corvaccio e il RosaNera. Una ragazza incinta, di nazionalità romena, aveva raccontato ai giornalisti di essere stata manganellata da un agente di polizia durante le cariche contro gli attivisti e i manifestanti che cercavano di impedire lo sgombero dei due centri sociali e di alcune case popolari dell’Aler.
Ora è arrivata la notizia che durante la notte scorsa la ragazza, alla ventesima settimana di gestazione, ha perso il bambino che portava in grembo dopo esser stata ricoverata alla clinica Mangiagalli di Milano. Secondo i medici “la donna non avrebbe alcun segno di percosse” ma quattro sanitari hanno comunque inviato alla Procura di Milano una segnalazione per procurato aborto.

A confermare la notizia, già circolata sui social network, è stato il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, titolare del fascicolo sugli scontri del Corvetto. Il magistrato ha spiegato di aver “ricevuto l’informazione dall’ospedale e di aver disposto accertamenti in merito”.

Intanto il pm milanese Fabio De Pasquale ha disposto la scarcerazione dei tre giovani arrestati martedì con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale a seguito degli scontri nel quartiere Corvetto. La Procura ha disposto la liberazione dei tre giovani in quanto ha considerato le accuse a loro carico come fatti di lieve entità. I tre giovani avrebbero dovuto comparire in tribunale per la convalida dell’arresto per direttissima, ma il pm ha disposto la liberazione prima dell’udienza. Una cinquantina di attivisti dei centri sociali milanesi si erano radunati in presidio davanti all’aula per sostenere i tre arrestati, difesi dall’avvocato Eugenio Losco, che avevano trascorso la notte in questura. Secondo il pm gli episodi di cui sono accusati, il lancio di lattine e pezzi di intonaco contro le forze dell’ordine  durante lo sgombero del centro sociale Corvaccio in via Ravenna, non erano di una gravità tale da richiedere l’arresto. I tre restano comunque indagati a piede libero, sempre con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, come gli altri quattro ragazzi denunciati in seguito agli scontri scoppiati dopo gli sgomberi.

Ultima modifica il Venerdì, 21 Novembre 2014 19:59

 

5-8 settembre 1974: le occupazioni di S.Basilio. La polizia uccide Fabrizio Ceruso

 

san_basilio.jpgRoma, 5 settembre 1974. La lotta per il diritto alla casa era molto forte a Roma quando, il 5 settembre, nella borgata di San Basilio, all’estrema periferia est della capitale, la polizia interviene con un ingente schieramento, iniziando a sgomberare le quasi 150 famiglie che da circa un anno occupavano altrettanti appartamenti IACP in via Montecarotto e via Fabriano.

L’incontro fra la decisa opposizione popolare agli sfratti e la volontà dei militanti della sinistra rivoluzionaria di difendere una delle più estese occupazioni in atto nella città, portò a organizzare una dura resistenza, che sfociò in vere e proprie battaglie di strada.

Fin dalle prime ore del mattino di venerdì vengono erette barricate agli ingressi del quartiere con pneumatici, vecchi mobili e oggetti di tutti i tipi. La polizia, accolta da sassi, bottiglie incendiarie, bulloni lanciati con le fionde, spara centinaia di lacrimogeni, ma nel pomeriggio è costretta a sospendere gli sfratti.

Sabato, mentre gli occupanti hanno ripreso tutti gli appartamenti, e una loro delegazione si è recata in pretura e allo IACP, vengono di nuovo tentati gli sgomberi.

Questa volta a resistere ci sono centinaia di manifestanti affluiti da tutta la città, tra i quali numerosi membri di consigli di fabbrica.

La giornata trascorre in un susseguirsi di “tregue”, accordate dalla polizia a Lotta Continua, che gestisce l’occupazione, per dare spazio a quella che si dimostrerà una trattativa-truffa, con l’unico scopo di prendere tempo e fiaccare il forte schieramento proletario. La delegazione rientra a San Basilio con un accordo di sospensione degli sfratti fino al lunedì mattina.

Nonostante ciò, domenica 8 i poliziotti irrompono di nuovo nelle case occupate intimidendo le famiglie e abbandonandosi ad atti di vandalismo. Riprendono gli scontri.

L’assemblea popolare nella piazza centrale della borgata, organizzata per le 18 dal Comitato di Lotta per la casa di San Basilio, viene caricata con lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo. Nella battaglia che segue, mentre un plotone di polizia è costretto a ritirarsi, da un altro vengono sparati numerosi colpi di arma da fuoco.

Fabrizio Ceruso, 19 anni, militante del Comitato Proletario di Tivoli, organismo dell’Autonomia Operaia, è colpito in pieno petto da una pallottola.

Caricato su un taxi, giungerà senza vita n ospedale.

Alla notizia della morte del giovane comunista tutto il quartiere scende in piazza. La rabbia esplode in modo violento. I pali dei lampioni vengono divelti e le strade rimangono al buio.

Questa volta è la polizia ad essere presa di mira da colpi di arma da fuoco sparati in strada e dalle case. Otto poliziotti, tra i quali un capitano, rimangono feriti, alcuni in modo grave. Brevi scontri isolati si accendono fino a tarda notte. l giorno seguente avranno inizio le trattative per le assegnazioni di alloggi alle famiglie d San Basilio e agli occupanti di Casalbruciato e Bagni di Tivoli.

Alfredo Simone

Fonte:

http://www.senzasoste.it/anniversari/5-8-settembre-1974-le-occupazioni-di-s-basilio-la-polizia-uccide-fabrizio-ceruso

Sgomberato il Cinema America a Trastevere

Nonostante il percorso avviato con le istituzioni questa mattina la Questura di Roma ha bussato alle porte del Cinema America. Blindati e agenti della digos hanno proceduto all’ingresso forzoso [..] , portando anche uno degli attivisti in Questura per essere identificato.

Come si arriva allo sgombero di questa mattina? La vertenza del Cinema America sembrava stesse procedendo verso la conclusione, con l’impegno del ministro della cultura Dario Franceschini a vincolare come “sala cinematografica storica” l’America (impegno ribadito anche alla Mostra del Cinema di Venezia), impedendo così la speculazione edilizia immaginata dalla proprietà, dall’altra con la disponibilità degli occupanti a trattare lo spostamento delle attività in un’altra sede, una volta che le garanzie sulla tutela della sala fossero inequivocabili. Anche il Campidoglio, almeno a parole, si impegna per una soluzione positiva della vicenda.

A questo punto qualcosa cambia: la proprietà dello stabile torna alla carica e Questura e Prefettura, ancora una volta, ignorano ogni passaggio di trattativa e di percorso pubblicato aperto dalle istituzioni e procedono con lo sgombero. Non c’è tregua per gli spazi di socialità e cultura a Roma. Dopo le vicende che hanno coinvolto l’Angelo Mai e il Teatro Valle, dopo lo sgombero del Volturno, la legalità e la tutela degli interessi della proprietà privata e della rendita dimostrano di essere ancora una volta gli unici principi con cui governare la città. Ancora una volta Marino e i suoi, in buona compagnia questa volta con un ministro del Governo fanno la figura dei “fessi” di fronte al decisionismo degli organi deputati alla gestione dell’ordine pubblico. Non c’è trattativa o interesse pubblico che tenga di fronte all’implacabile logica legalitaria e alla difesa della proprietà come sacra, anche se questo vuol dire spazi abbandonati e speculazioni, o magari la cancellazione di un presidio culturale accessibile a tutta la città in un centro storico sempre più gentrificato, mentre le politiche culturali per Roma sono ridotte dall’austerity al lumicino.

Dopo 14 anni di abbandono il Cinema America il 13 novembre del 2012 è tornato a vivere. Oggi potrebbe scomparire per far spazio ad un palazzo di cui nessuno sente il bisogno, mentre in molti sentiranno la mancanza di uno sala cinema al centro della città.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/sgomberato-il-cinema-america-a-trastevere

Padova, quattro vigili contro mendicante con una gamba sola

In un video, in azione i vigili dell’assessore ossessionato dai mendicanti. In due mesi 500 persone povere multate, identificate 162, compiuti 8 sgomberi

di Enrico Baldin

(video di Andrea Saggion Facebook)

 

«Stava mendicando. Gli hanno detto di alzarsi ‘in piedi’, fornire i documenti e lui glieli ha dati. Gli hanno fatto un verbale, hanno chiamato rinforzi e l’hanno immobilizzato», ha scritto uno studente universitario dopo aver girato, sabato scorso, la scena con uno smartphone e averla postata su Facebook. La scena brutale è quella dell’arresto, quattro pizzardoni neroruti contro una persona con una sola gamba. Padova, famoso mercato di Prato della Valle.
500 mendicanti multati, identificati altri 162, compiuti 8 sgomberi di edifici. A Padova da un paio di mesi è di moda la caccia all’accattone. Una pratica non nuova ma di stretta attualità nella città veneta. La nuova giunta presieduta dal leghista Bitonci, ne ha fatto una vera e propria ragione di vita da quando si è insediata dopo le elezioni di maggio. L’assoluto protagonista è Maurizio Saia, assessore alla sicurezza. Saia proviene dalla “scuola buona”: molti anni da rautiano a criticare la linea “troppo morbida” dell’MSI, poi i ruoli di spicco in AN di cui è stato deputato e senatore.
L’idea di Saia è quella di “ripulire” Padova da mendicanti e accattoni che poco si sposano con le lussuose vetrine di via Roma e via VIII febbraio e con la vista degli avventori del caffè Pedrocchi. E così, dopo aver dotato i vigili di cani da usare contro i mendicanti, Saia punta ad aumentare i posti di foto-segnalazione dove trarre i fermati: «Serviranno a tenere il più lontano possibile distanti dal centro della città questi elementi di disturbo». Nella conferenza stampa che l’assessore ha convocato dopo il ponte di Ferragosto non ha mancato di esaltare i successi dell’ordinanza anti-accattoni: in due mesi sono stati multati 500 mendicanti e identificati altri 162 e sono stati compiuti 8 sgomberi di altrettanti edifici.
I vigili pare lo abbiano preso proprio alla lettera: erano quattro quelli che ieri hanno immobilizzato col volto a terra un mendicante disabile. La “valorosa” azione che ha attirato a sé un capannello di curiosi, è stata filmata da un passante.
L’assessore non si accontenta di colpire solamente i mendicanti che sovente si trovano lungo le vie di Padova. Per Saia è importante anche «chiudere i luoghi dove questi individui vanno a dormire». E a tutto campo Saia se la prende anche con chi da rifugio e aiuto a costoro. Un’autentica autorità a Padova è don Albino Bizzotto, presbitero 75enne e una vita per la pace e dalla parte degli ultimi. Don Albino è il fondatore dei Beati i costruttori di pace, associazione che in quasi 30 anni ha organizzato molte iniziative: dalla marcia per la pace a Sarajevo in piena guerra nel 1992, alle proteste contro il conflitto in Iraq, dalle manifestazioni contro la base militare Dal Molin allo sciopero della fame dell’anno scorso contro la cementificazione e le grandi opere nel Veneto. I volontari dei Beati i costruttori di pace inoltre, nella loro sede a Padova, aiutano i bisognosi in molte attività, dall’aiuto nella ricerca di un lavoro al pagamento di bollette e la distribuzione di generi alimentari.
Saia se l’è presa con don Albino Bizzotto: «Tutti i fermati dai nostri vigili chiedono subito di parlare con don Albino». L’assessore alla sicurezza ha riportato un fatto avvenuto recentemente: «I vigili volevano fermare due lavavetri, ma questi si sono rifugiati in casa di don Albino che con gli agenti si è mostrato poco collaborativo». L’invito di Saia – seccato anche dal fatto che la sede dei Beati i costruttori di pace dia anche ospitalità a nomadi – è stato perciò perentorio: «Vada a svolgere le sue attività altrove». Più che un invito una minaccia: Saia infatti ventila la possibilità di sfrattare l’associazione da uno stabile concessogli molti anni fa dal Comune. Don Albino da parte sua commenta che Padova non deve essere una città “senza cuore”.
Non è da escludere che questa crociata contro don Albino sia anche una ritorsione per la denuncia che a luglio è stata depositata da alcune associazioni padovane – tra cui Beati i costruttori di pace – contro Bitonci e Saia. Antigone, Razzismo stop, Beati costruttori di pace, Avvocato di strada, Altragricoltura nordest, giuristi democratici e Laboratorio Bios accusarono sindaco e assessore di istigazione all’abuso di potere e al sequestro di persona.
In attesa dei nuovi provvedimenti della giunta Bitonci, intenta a dare risposte alla Padova che vede nel mendicante un elemento di disturbo, si attendono anche le risposte alla Padova che chiede di poter sopravvivere e di avere un posto in cui mangiare e dormire.
Il caso occupa le prime pagine dei giornali locali e la giunta prova ad avvalorare la versione del mendicante molesto e di una rimozione compiuta per il suo bene. Un giornale locale ha scovato la vittima e l’ha intervistata. Dopo due notti all’asilo notturno del Torresino, l’uomo vorrebbe andarsene da Padova. Si chiama Daniel Vancea, ha 41 anni ed è originario della Romania. «Ero appena uscito dall’ospedale dove ero stato ricoverato una settimana per problemi respiratori e al fegato», racconta il mendicante al Mattino di Padova. «Sabato pomeriggio in Prato della Valle chiedevo l’elemosina per comprare la vitamina b1 che il medico mi aveva consigliato di prendere. Ad un certo punto sono arrivati i vigili. Mi hanno chiesto un documento, gliel’ho dato, ma questi mi hanno fatto una multa di 50 euro. Non avevo fatto nulla e non avevo quei soldi, così ho strappato il foglio. Mi hanno preso per un braccio e mi hanno buttato a terra. Ho sbattuto il ginocchio e la schiena. Nella concitazione mi sono anche ferito dandomi una stampella in testa. Mi hanno ammanettato e tenuto fermo immobile. Tutti mi guardavano, come se fossi un ladro. Poi è arrivata l’ambulanza che mi ha portato al pronto soccorso, dove sono rimasto fino a sera prima di venire qua al Torresino». Era a Padova da tre settimane, prima viveva in Germania. «Appena mi portano delle stampelle nuove vado in stazione e salgo sul primo treno che va in Lussemburgo».

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2014/08/19/padova/