Alexis vive. Cortei in tutta la Grecia. Cariche, feriti e fermi. – Nikos Romanos: studiare o morire

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Riceviamo e pubblichiamo da un compagno che si trova ad Atene

Manifestazioni in diverse città della Grecia per l’anniversario dell’omicidio di Alexis Grigoropuolos e per sostenere la lotta di Nikos Romanos in sciopero della fame in carcere. Migliaia in piazza ad Atene e Salonicco, cariche violente della polizia, arresti e feriti, mentre scrivo da Atene la polizia continua ad attaccare spazi sociali e stazioni della metro con lacrimogeni e idranti.

In questi giorni segnati da un clima di tensione crescente dovuto allo sciopero della fame (che sta arrivando alle estreme conseguenze, ha annunciato oggi di interrompere anche l’assunzione di acqua oltre che di cibo) del giovane detenuto anarchico Nikos Romanos le mobilitazioni per ricordare l’omicidio del quindicenne Alexis Grigoropulos, ucciso sei anni fa dalla Polizia ad Exarchia, hanno assunto una nuova e straordinaria importanza a. Il suo omicidio scatenò in Grecia una vera e propria ondata insurrezionale, all’inizio della crisi.  Manifestazioni e occupazioni si susseguono da giorni in tutta la Grecia, con sedi di sindacati, municipi e sedi istituzionali occupate da studenti e movimenti sociali in lotta. Oggi duri scontri ad Atene, Salonicco e Volos, ma le mobilitazioni  si sono svolte in diverse altre città compresa Creta.


Oggi ad Atene era attesa una grande manifestazione: oltre 10.000 persone hanno sfilato la mattina e il pomeriggio, per richiedere il permesso di studio per Nikos Romanos e per ricordare Alexis. La coda del corteo è stata caricata dagli idranti e a colpi di granate stordenti e lacrimogeni. Diversi fermi effettuati soprattutto da squadre di agenti infiltrati incappucciati, le ultime news parlano di oltre 120 arrestati solo ad Atene, mentre continuano i raid della polizia nelle vie limitrofe al corteo ed in particolare ad Exarchia e Omonia, dove sono stati lanciati lacrimogeni in metropolitana mentre le persone cercavano riparo, contemporaneamente alle cariche con idranti e lacrimogeni in diversi quartieri della città. 

Poco fa le squadre Delta (squadre di poliziotti in moto) hanno tranciato in due lo spezzone che si dirigeva verso Exarchia, ma la resistenza, con molotov e barricate, continua in via Stournari e in altreparti delquartiere, soprattutto intorno al Politecnico, dove la polizia carica ancora con gli idranti.

Decine di Delta appostati nei vicoli sono pronti a entrare a Exarchia e nella zona vicino al Politecnico, assieme a loro ci sono due camion Toma (con i cannoni ad acqua). Il rischio più grande riguarda le decine di agenti perfettamente camuffati che si isolano coi gruppi in ritirata e arrestano i compagni. Pochi minuti fa hanno circondato la nuova occupazione realizzata per Romanos e stanno per entrare. Attacchi con lacrimogeni alla sede GSEE, gli scontri continuano ad Exarchia e nei quartieri limitrofi. In piazza Exarchia sono state lanciate molotov dai balconi e la polizia ha risposto lanciando lacrimogeni nelle case.

Giornata di lotta anche a Salonicco, dove fin da stamattina in migliaia sono scesi in piazza: anche qui la polizia ha spezzato il corteo, attaccando il blocco antiautoritario e sparando lacrimogeni, i compagni hanno resistito e alla fine hanno scelto di occupare la sede dei sindacati per una grande assemblea. Pochi minuti fa la polizia ha fatto irruzione, con lacrimogeni e cariche, proprio nella sede dei sindacati occupata dai movimenti. Di seguito il video dell’attacco dei MAT. 

Fonte:

http://atenecalling.org/alexis-vive-cortei-in-tutta-la-grecia-cariche-feriti-e-arresti/

Per saperne di più sull’omicidio di Alexis e sulla vicenda di Nikos, leggere i seguenti link:

http://atenecalling.org/perche/

http://atenecalling.org/nikos-romanos-studiare-o-morire/

9 Novembre 1974 – Muore Holger Meins

 Domenica 09 Novembre 2014 09:15
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Holger Meins – militante della RAF, morì il 9 novembre 1974 a Wittlich a seguito del nutrimento forzato nel corso di uno sciopero della fame contro le condizioni annientanti dei detenuti politici.

Fu arrestato il 1 giugno 1972 assieme ad Andreas Baader e Jan-Carl Raspe. Questi tre detenuti, assieme a Gudrun Ensslin e Ulrike Meinhof, furono presentati dallo stato come “i capi principali della RAF“ e accusati per le azioni del maggio 1972 contro le basi americane a Heidelberg e Francoforte.

Immediatamente la morte di Holger venne vista come un suicidio imposto dalle condizioni inumane in cui i detenuti politici erano costretti a vivere.

Nel corso della conferenza-stampa dopo la morte, l’avvocato parlò senza mezzi termini di assassinio, documentando le sue affermazioni portando esempi concreti.

Ne riferiamo qui solo qualcuno: il Ministro regionale della giustizia, Martin, arrivò al punto di ordinare il blocco della distribuzione dell’acqua agli “scioperanti della fame”, dichiarando che chi non voleva mangiare non aveva diritto a bere. Solo l’immediata reazione del collegio di difesa e di parte dell’opinione pubblica costrinse il ministro Martin a ritirare il provvedimento. Sempre sulla scia dell’insegnamento nazista si pose il medico incaricato di nutrire forzatamente i detenuti: egli si servì infatti di una canula di dimensioni pari a quelle del tubo digerente, che provocò agli imputati lesioni interne inguaribili.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3142-9-novembre-1974-muore-holger-meins

17 ottobre 1977: i “suicidi” di Stammheim

Venerdì 17 Ottobre 2014 05:04

 

La notte tra il 17 e il 18 ottobre 1977 i militanti della Rote Armee Fraktion Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe furono 17 ottobretrovati morti nella loro cella.
Il primo ucciso da un colpo di pistola alla nuca, la seconda impiccata ad un filo elettrico, il terzo trovato in fin di vita in cella a causa di una botta in testa, morì il giorno seguente in ospedale.

Inoltre Irmagard Moller, altra militante della RAF venne salvata in ospedale nonostante le gravissime ferite (quattro coltellate al petto).

Il 5 settembre 1977 la RAF rapì a Colonia il presidente della confidustria tedesca, nazista, era stato gestore dell industrie di Boemia e Moravia ai tempi dell’occupazione nazista, Hans-Martin Schleyer.
La RAF comunicò che l’ industriale sarebbe stato tenuto prigioniero fino alla liberazione dei sei detenuti a Stammheim.

La reazione dello Stato tedesco fu dura, per legge, venne decretato il totale isolamento di tutti i militanti della RAF detenuti nelle carceri della Germania Federale.
Il 9 maggio 1976 dopo anni di duro isolamento e di sciopero della fame collettivo dei mebri della RAF contro le condizioni inumane della loro detenzione Ulrike Meinhof fu trovata impiccata alle sbarre della cella.

Anche in questo caso la polizia e la direzione del carcere parlarono di suicidio collettivo, fu da subito evidente che non poteva trattarsi di un suicidio.
Sia perchè non era credibile che dei detenuti in regime di isolamento, che giornalmente venivano cambiati di cella e che erano sorvegliati a vista dai secondini, fossero riusciti a far entrare armi nel carcere e sia per le modalità con cui si sarebbero ammazzati.

Il 19 ottobre con una lettera inviata al giornale francese Liberation, la RAF annunciò di aver posto fine, dopo 43 giorni, alla “miserabile e corrotta esistenza” di Hans-Martin Schleyer.
Il giorno successivo la legge che imponeva l’isolamento per i militanti della RAF in galera fu revocata dal presidente tedesco.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/2896-17-ottobre-1977-i-suicidi-di-stammheim

L’accoglienza diventa detenzione arbitraria per eseguire il rilievo delle impronte digitali. E centri di detenzione (CIE) vengono trasformati in centri di accoglienza, succede a Milano.

giovedì 16 ottobre 2014

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A Pozzallo sono in corso identificazioni violente dei profughi siriani forzati a rilasciare le impronte digitali. Sembra che almeno duecento profughi siano entrati in sciopero della fame all’interno del CPSA ubicato dentro il porto.
Si teme anche che siano in corso iniziative di identificazione nei confronti di cittadini solidali che si sono recati nei pressi del centro per verificare di persona cosa stava accadendo. Vedremo domani con quali risultati.
Intanto di risultati delle attività di polizia sono ben visibili questi, impressi sulla schiena di un profugo. Qualcuno avrebbe detto : “Con le buone o con le cattive prenderemo le vostre impronte”

https://www.facebook.com/video.php?v=877363518970667&set=vb.100000910804762&type=2&theater

Prima e dopo l’operazione congiunta di polizia “Mos maiorum”, che alla fine servirà probabilmente solo a qualche stratega della sicurezza per aggiornare le statistiche e dimostrare quanto sono efficienti gli apparati di contrasto di quella che definiscono “immigrazione illegale”, una trasformazione strutturale sta interessando i centri di accoglienza ed i centri di detenzione (CIE) in Italia.

Da tempo del resto, anche i CIE erano “centri di accoglienza” ed i migranti trattenuti, meglio sarebbe dire internati, ma si dovevano chiamare “ospiti”, parola del ministero dell’interno… Adesso succede con i profughi.

http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazione/sottotema006.html

Mentre  a sud, in particolare in Calabria ed in Sicilia non si sta assistendo a grandi retate, come nelle città del nord,  nelle regioni meridionali si verifica una trasformazione dei luoghi di accoglienza, variamente denominati, CSPA, centri di soccorso e prima accoglienza, come quelli di Pozzallo e di Lampedusa ( ormai riaperto), centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) come il centro S.Anna di Crotone-Isola capo Rizzuto. Cambiano natura anche i luoghi di detenzione amministrativa, come il CIE Corelli di Milano che starebbe per essere trasformato in un centro di accoglienza. Ed a Messina hanno riattivato una caserma dismessa, ma con una recinzione militare, per “accogliere” profughi e talvolta anche minori. Pratiche di confinamento e di esclusione che a Messina hanno trovato da mesi un primo terreno di sperimentazione nella tendopoli, aperta estate ed inverno, nel campo sportivo a ridosso del Palaspedini.

http://www.lurlo.info/index.php/rubriche/inchieste/item/896-l-affare-cara-20-000-euro-per-l-assistenza-ai-migranti-al-palaspedini

http://www.messinaoggi.it/News/Messina/Cronaca/2014/08/27/Nuovo-sbarco-aperta-lex-caserma-Bisconte-16691.html

Di fronte alla conclamata ingestibilità del sistema dei CIE, per i quali si è comunque prevista la riduzione del trattenimento amministrativo da 18 a 2 mesi, si sta organizzando un sistema di prima accoglienza e di seconda accoglienza con tutte le caratteristiche strutturali dei luoghi di detenzione, anche perchè i profughi siriani, somali, eritrei e di altre nazionalità, dopo lo sbarco, possono essere trattenuti arbitrariamente per giorni e giorni senza alcun provvedimento amministrativo, senza convalida del magistrato, senza garanzie di difesa se vengono sottoposti ad attività di indagine, senza mediatori linguistico-culturali indipendenti, senza informazione legale e senza assistenza psicosociale. Di fatto queste persone vengono sequestrate, o allo scopo di portare avanti le indagini per rintracciare gli scafisti, oppure più di recente, per costringerli con la violenza psicologica, se non con la violenza fisica al rilascio delle impronte digitali.

Si espongono dunque molti profughi,  tutti quelli che fuggono dalla Libia in guerra oggi lo sono, che in passato erano sottoposti soltanto alla formalità del fotosegnalamento subito dopo lo sbarco, al rischio di una vera e propria schedatura che ne compromette il successivo passaggio in un altro paese europeo per chiedere asilo.
Ricordiamo che quasi la metà dei circa 140.000 migranti che sono entrati quest’anno in Italia, la quasi totalità dei siriani, moltissimi eritrei, hanno lasciato l’Italia per un paese dove al riconoscimento dello status di protezione seguissero concrete possibilità di inserimento sociale.

Si diffondono quindi i comportamenti violenti delle forze di polizia, con un avvitamento delle pratiche di identificazione forzata che, nei giorni dell’operazione congiunta di polizia “Mos maiorum”,  corrisponde all’ordine lanciato da Alfano qualche giorno fa di “serrare i bulloni”. Cosa abbia significato questo vero e proprio atto di indirizzo del Viminale lo provano le fotografie riprese oggi che circolano in rete, di persone che già traumatizzate dalle violenze subite in patria e durante il viaggio, hanno trovato al loro arrivo in Italia altre percosse, al solo scopo di ottenere da loro, con la violenza, il rilascio delle impronte digitali.

La mutata destinazione del CIE di Milano a centro di accoglienza per richiedenti asilo se è da salutare come un successo, perchè significa la chiusura di uno dei peggiori centri di identificazione ed espulsione in Italia, potrebbe però corrispondere ad un progetto di trattenimento informale dei richiedenti asilo, come si è già verificato nei giorni scorsi nel CARA di Crotone, quando dopo le denunce degli abusi di polizia sugli ultimi arrivati dalla Siria, a tutti gli “ospiti” è stato impedito di uscire quotidianamente, dalle 8 alle 20, come invece facevano in passato. Si è voluto forse evitare che qualcuno testimoniasse sulle condizioni della struttura e sul trattamento subito dai siriani.

A Milano si sta pensando forse anche alla elevata probabilità che, dopo la fine dell’operazione Mos maiorum, una operazione congiunta di polizia che si sta svolgendo in molti paesi europei contemporaneamente, ci possa essere un forte aumento dei rinvii Dublino verso l’Italia. Il Cie Corelli di Milano, trasformato in centro di accoglienza, potrebbe essere il luogo migliore per “accogliere” queste persone e costringerle di fatto ad una segregazione informale, a tempo indeterminato, senza le pur deboli garanzie formali che ci possono essere nei centri di detenzione ( avvocati e comvalida giurisdizionale)

http://www.meltingpot.org/Milano-Il-CIE-di-via-Corelli-diventa-un-centro-di.html#.VD771kYcRsc

Questa è la ragione per cui le campagne, le commissioni di inchiesta e le visite parlamentari o di altre organizzazioni che difendono i diritti umani, che finora hanno chiesto di entrare nei CIE devono rivolgere le loro attività di indagine verso i centri di accoglienza, in molti dei quali, senza una particolare autorizzazione del ministero dell’interno, non è neppure possibile entrare, esattamente come succedeva, fino a qualche anno fa nei Centri di identificazione ed espulsione.

Ormai è possibile parlare di accoglienza/detenzione, come lo scorso anno si verificava anche a Lampedusa dopo la tragedia del 3 ottobre, su tutto il territorio nazionale, e sarà necessario rivolgersi agli organi della giustizia internazionale perchè l’Italia non adotti sistematicamente, magari con la scusa del prelievo delle impronte digitali, misure limitative della libertà personale, o peggio di respingimento, nei confronti di profughi e di veri e propri sfollati di guerra.

Fonte:
http://dirittiefrontiere.blogspot.it/2014/10/laccoglienza-diventa-detenzione.html

Urla di aiuto dal Cie: «Ci massacrano»

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Siamo a Guantanamo! Non abbiamo mangiato durante la traversata e adesso siamo in sciopero della fame. Si stanno comportando con noi come se fossimo dei cani! Hanno svegliato un ragazzo colpendolo, ora ci stanno prendendo uno ad uno, hanno un atteggiamento mafioso… urlano, i bambini piangono». Sono frasi raccapriccianti raccolte da un video, che non ha immagini ma solo la voce impaurita di un uomo siriano, sbarcato venerdì a Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Quel video è il tentativo disperato di lanciare un allarme, che è arrivato tra le mani di un’attivista per i diritti umani di “Informare per davvero”. Lei si chiama Nawal Syriahorra, fa l’interprete ed è la prima a ricevere il messaggio disperato di quell’uomo senza nome e senza volto. «Venerdì pomeriggio sono stata contattata da uno dei familiari dei migranti. La loro imbarcazione si è arenata vicino ad uno scoglio – racconta al Garantista -.

Ho segnalato la cosa al comando generale di Roma, che ha subito lanciato l’allarme. I migranti sono stati portati in salvo dalla guardia costiera e poi sono stati condotti al Cie di Isola Capo Rizzuto». La disperazione del lungo viaggio dei migranti siriani, però, non finisce così. La tanto sognata accoglienza diventa presto un incubo o almeno questo è il messaggio che dalla Calabria arriva fino a Catania, dove Nawal si trova e da dove cerca di far girare l’allarme. «Dopo una settimana di traversata senza cibo né acqua il primo pensiero della Polizia è stato quello di prendere le impronte digitali – racconta ancora Nawal.

Uno dei ragazzi che stavano lì seduti, da quanto mi è stato raccontato, ha detto di voler continuare il proprio viaggio fino in Germania e a quel punto è stato colpito dalla Polizia. Sono stati presi uno per uno e fatti entrare in una stanza. Mi sono stati inviati dei messaggi audio in cui si sentono i bambini piangere, perché la Polizia continuava a ripetere, con l’aiuto di un interprete, che avrebbero identificato tutti con l’uso della forza».

In quel gruppo di migranti, arrivati in 124 su un peschereccio dopo esser partiti dalla Turchia, ci sono anche 32 donne e 21 bambini. Qualcuno ha un cellulare e decide di denunciare quanto sta accadendo: accende la videocamera, registra tutto senza farsi vedere e lo invia a Nawal. Che sente le false promesse della Polizia: «Stamattina (ieri per chi legge) hanno promesso che dopo l’identificazione li avrebbero lasciati continuare il viaggio e che in Germania avrebbero accolto la loro richiesta d’asilo, cosa impossibile. Stanno mentendo ed è gravissimo», sottolinea ancora la donna. Per convincerli i poliziotti avrebbero sottolineato che, contrariamente a quanto accade in Libia, «qui non sparano».

E così i migranti hanno cominciato lo sciopero della fame, «mentre la detenzione continua e non verranno rilasciati prima di cinque giorni – insiste Nawal -. Ho detto a tutti loro di tenere i telefoni in mano per documentare i pestaggi ma sappiamo benissimo che in questi casi non lo si fa davanti a tutti. È successo in Sicilia l’anno scorso, è successo ancora a Crotone».

Ma i migranti denunciano anche una condizione igienico – sanitaria pessima, con i pavimenti e i bagni del centro sudici e al limite della decenza. «Nel video che ho ricevuto si sente dire ad un uomo che vuole essere riportato in Siria, che i poliziotti si comportano da razzisti», conclude l’attivista, che in queste ore sta cercando di comprendere meglio la situazione.

Già nel 2012 il centro del crotonese fu teatro di una rivolta drammatica da parte dei migranti e di una risposta durissima degli agenti. Ma poi una sentenza coraggiosissima rovesciò i luoghi comuni: «La rivolta del Cie di Isola del 2012 fu legittima difesa». Non lo disse un discepolo della disobbedienza civile ma un giudice, un giudice dello sperduto Tribunale di Crotone. Una sentenza senza precedenti, quella siglata da Edoardo d’Ambrosio, che non solo assolse tre migranti che si erano barricati nel Cie-lager di Isola capo Rizzuto respingendo a mattonate gli assalti delle forze dell’ordine, ma nello stesso tempo condannò uno Stato torturatore che aveva tolto dignità e sottratto i più elementari diritti umani a tre persone.

I tre erano stati arrestati in varie zone d’Italia e portati lì solo perché privi di documenti. Senza nessuna spiegazione o sentenza i tre rimasero segregati lì dentro per più di un mese. A quel punto si ribellarono e la reazione dei secondini fu durissima.

Ma il giudice D’Ambrosio, mesi dopo, diede loro ragione. E le motivazioni di quella sentenza sono un inno alla libertà e al diritto alla ribellione: «Le condotte addebitate agli imputati si sono dimostrate orientate esclusivamente a manifestare una protesta contro coloro che, ai loro occhi e nelle circostanze concrete dei luoghi, erano i responsabili di quella loro condizione (il personale di vigilanza del Centro e le forze dell’ordine); la protesta fu posta in essere nell’unico modo che – in tali circostanze – poteva essere efficace: ossia l’impedire il regolare svolgimento dell’attività di gestione del Centro. Né può ritenersi che gli imputati avrebbero potuto porre in essere forme di protesta passiva, come, ad esempio, lo sciopero della fame, dato che uno Stato laico di diritto non si può sostituire ad una scelta di valori (quali quelli da porre in conflitto rispetto alla condotta aggressiva subita) che compete esclusivamente all’agente». D’Ambrosio, nella sua sentenza, descrive il centro al pari di un lager: materassi e bagni luridi, pasti consumati a terra e di altre ”amenità”. Una situazione tanto più grave – scrive – se si considera che «sono state costrette ad abbandonare i loro Paesi di origine per migliorare la propria condizione». Dunque, ribellarsi era un loro diritto. Assolti perché il fatto non sussiste.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/12/urla-di-aiuto-dal-cie-ci-massacrano/

 

BAHRAIN, CONFERMATA LA CONDANNA A 10 ANNI PER IL FOTOREPORTER DELLE PROTESTE

Dieci anni per aver svolto il suo lavoro di fotoreporter documentando l’attacco di un gruppo di manifestanti contro una stazione di polizia.

Ieri mattina, una corte d’appello del Bahrein ha confermato la pesante condanna inflitta il 26 marzo, in primo grado, ad Ahmed Humaidan.

Humaidan, 25 anni, era stato arrestato il 29 dicembre 2012 mentre stava rientrando a casa dopo aver trascorso alcune ore in un centro commerciale. A carico suo e di altri 28 fermati, l’accusa di aver preso parte all’attacco alla stazione di polizia, con bombe molotov e altri ordigni incendiari, avvenuto nel villaggio di Sitra l’8 aprile 2012.

Tre dei 29 imputati erano stati condannati a tre anni di carcere, gli altri 26, tra cui Humaidan, a 10 anni.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani, Humaidan non ha preso parte all’attacco di Sitra. Anche quel giorno si era limitato a documentare con la sua macchina fotografica, come faceva da oltre un anno, un episodio (uno dei non molti segnati da violenza) della rivolta scoppiata il giorno di San Valentino del 2011 nel piccolo regno del Golfo persico. Rivolta che da allora va avanti, nonostante una repressione costantemente feroce.

Quest’anno, Humaidan è stato insignito del premio John Aubuchon per la libertà di stampa dell’Associazione nazionale della stampa degli Usa. Qui, alcuni dei suoi scatti.

Intanto, peggiorano le condizioni di salute del più noto prigioniero di coscienza del Bahrein, Abdulhadi Al-Khawaja, all’ergastolo e in sciopero della fame da una settimana.

 

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2014/09/01/bahrein-confermata-la-condanna-a-10-anni-per-fotoreporter/

 

LA SOLIDARIETA’ SIRIANA CON GAZA

traduzione 26 luglio 2014 9:07 GMT

A vigil with candles in solidarity with Gaza in Aleppo, Syria. Source: Syria Stands with Palestine's facebook page

Una fiaccolata di solidarietà per Gaza a Aleppo, Siria. Origine: pagina Facebook di Syria Stands with Palestine.

Questo post è stato originariamente pubblicato su SyriaUntold [en, come tutti i link seguenti]

“La Siria è sotto attacco, da Aleppo a Gaza” è uno dei primi slogan dei manifestanti siriani in solidarietà con i palestinesi. “Gaza e Aleppo, gloria e orgoglio”, e “Daraa è con te, Gaza”, sono altri. Dal poeta siro-palestinese Raed Wahash agli attivisti dal cuore di Aleppo, dove le bombe continuano a cadere, si vede come la solidarietà tra siriani e palestinesi è costante.

La lotta palestinese è sempre stata molto presente in Siria, ma fino al 2011 i siriani non sapevano cosa la resistenza fosse davvero.

“Soffrire sotto le bombe che il regime continua a tirarci sopra ci avvicina agli attacchi subiti dalla popolazione di Gaza e all’intera lotta palestinese”, dice uno dei coordinatori della campagna “Syria Stands With Palestine” a SyriaUntold:

“Ci sentiamo vicini più che mai e più uniti, specialmente nel campo della disobbedienza civile e della resistenza pacifica.”

A message in solidarity with Gaza, on a destroyed building in Daraa, Syria. Source: Lens of a Young Horani

Un messaggio di solidarietà per Gaza su un edificio distrutto a Daraa, Siria. Il murales dice “Pazienza Gaza, questa è Daraa.” Fonte: Lens of a Young Horani

La decisa vicinanza della società civile siriana con la Palestina si riflette sulla dichiarazione di vari gruppi spontanei, incluso SyriaUntold, come parte della campagna “Syria Stands With Palestine” (La Siria è con la Palestina), “perché il dolore peggiore che un popolo può sopportare è l’indifferenza alla lotta e la violazione dei propri diritti.”

Questo bisogno di solidarietà internazionale è stato sottolineato anche dal blogger Syria Freedom Forever:

“Bisogna anche ricordare a tutti che la liberazione della Palestina può solo essere raggiunta attraverso il ribaltamento dei regimi autoritari nella regione, che sono complici nella sofferenza del popolo palestinese. (…) Questo è il motivo per cui opporsi a qualsiasi rivoluzione popolare nella regione non significa solo tradire la causa dei popoli della Siria, Egitto, Tunisia, Bahrain o qualunque altro, ma anche tradire la causa palestinese e il suo popolo.”

La campagna ha portato con sé anche una valanga di arte e creatività, promosse da The Syrian People Know their Way e dall’organizzazione umanitaria siro-palestinese Jafra, tra le altre. Fotografie, brochure, poster e adesivi sono stati condivisi in gran numero online, riflettendo l’unità delle due lotte.

“One concern” (unica preoccupazione) è il titolo dell’ultimo lavoro dell’artista Khaled Malek, che rappresenta un missile formato dalla combinazione delle bandiere della Siria e della Palestina. Ahmad Jalal, da Kafranbel, ha disegnato due bambini morti, uno siriano e uno palestinese, i cui angeli si tengono per mano.

Painting by Khaled Malek depicts a missile formed by the combination of the Palestinian and the Syrian revolution flags. Source: the artist's facebook page

Dipinto di Khaled Malek che raffigura un missile formato dalla combinazione delle bandiere palestinese e siriana. Origine: pagina Facebook dell’artista

L’artista Hani Abbas ha raffigurato una madre con un bambino sulle ginocchia, nel campo devastato di Yarmouk, con il messaggio, “Dio protegga la nostra famiglia a Gaza”.

La solidarietà non si limita ad essere espressa solo in rete. Il suo impatto è stato notato anche sul campo. Sit-in e fiaccolate si sono svolte in città come Aleppo, con gli slogan “Aleppo e Gaza, stesso orgoglio”, e “Noi non saremo sconfitti, malgrado i bombardamenti, la distruzione e i proiettili della morte.”

Anche i siriani delle Alture del Golan hanno espresso la loro solidarietà con i palestinesi. Comunque, l’immagine più chiara della resistenza è arrivata dal campo profughi di Yarmouk, dove i siro-palestinesi subiscono l’assedio del regime da oltre un anno ormai. “Il campo di Yarmouk resiste con Gaza contro l’aggressione sionista”, è lo slogan visto su dei cartelli in tutto il campo.

Anche dei  personaggi famosi siriani hanno usato i social media per esprimere la loro solidarietà verso Gaza. Il legale Michel Shammas scrive: “Gaza, vittima dell’aggressione israeliana e dei calcoli sbagliati di Hamas”.

Il poeta Khawla Dunia ha criticato la posizione della comunità araba riguardo alla Palestina. “L’arabismo è una bugia utilizzata dai tiranni”, ha detto su Facebook.

Maher Sharaf al-Din ha messo a confronto la detenzione nelle prigioni israeliane e in quelle di Assad, collegando le due forme di occupazione. “I prigionieri dell’occupazione israeliana sono in sciopero della fame, quelli di Alawite muoiono di fame”.

La solidarietà della Siria per Gaza è l’unione del debole con il debole, dell’oppresso con l’oppresso, di quelli che cercano un mondo di pace creato per la pace, che non è mai stato testimone di pace.

A mother with a child on her lap in devastated Yarmouk camp, Syria, cries “God protects our family in Gaza”, by artist Hani Abbas. Source: the artist's facebook page

Una madre col figlio sulle sue ginocchia, nel campo devastato di Yarmouk in Siria, grida “Dio proteggi la nostra famiglia a Gaza”, realizzato dall’artista Hani Abbas. Fonte: pagina Facebook dell’artista.

Questo post è stato precedentemente pubblicato su SyriaUntold.

 

 

Fonte:

http://it.globalvoicesonline.org/2014/07/la-siria-e-con-te-gaza-la-solidarieta-siriana-e-il-comune-desiderio-di-pace/

 

PALESTINA SOTTO SEQUESTRO

Nota personale: 

ricordo che i tre israeliani scomparsi sono coloni illeggittimi di uno stato occupante. Magari se lo ricordasse anche e almeno  il manifesto, visto che comunque resta l’unico quotidiano a interessarsi della Palestina. 

D. Q.

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Da il manifesto

Edizione del 25 giugno 2014

• aggiornata oggi alle 17:17

 

— Michele Giorgio, GERUSALEMME,

Territori Occupati. Proseguono le ricerche dei tre israeliani rapiti e la campagna di arresti e raid che stringe in una morsa la Cisgiordania. Tra gli ultimi fermati anche Samer Issawi, protagonista un anno fa di uno sciopero della fame lungo 266 giorni contro la “detenzione amministrativa”, il carcere senza processo.

Laila Issawi ha capito subito che quei sol­dati, quelle camio­nette, apparse all’improvviso davanti casa, erano lì per suo figlio Samer. D’impulso si è messa al com­pu­ter, per lan­ciare l’allarme. Ma nel giro di qual­che minuto è arri­vata la con­ferma. Lunedì sera Samer Issawi, pro­ta­go­ni­sta del più lungo scio­pero della fame in un car­cere israe­liano, è stato arre­stato a casa del fra­tello Meh­dat, a Isa­wiyya, un sob­borgo di Geru­sa­lemme. Era stato libe­rato lo scorso dicem­bre sulla base dell’accordo rag­giunto qual­che mese prima con Israele che aveva messo fine a 266 giorni di digiuno di pro­te­sta con­tro la sua deten­zione. Qual­che mese fa è stata arre­stata anche la sorella Shi­rin. «Samer sapeva che gli israe­liani non avreb­bero rispet­tato l’accordo e che pre­sto o tardi sarebbe tor­nato in pri­gione», rac­con­tava ieri il padre Tareq.

La noti­zia dell’arresto di Samer Issawi ha fatto il giro della rete. La bat­ta­glia con­tro la “deten­zione ammi­ni­stra­tiva” – senza prove e senza pro­cesso — por­tata avanti prima da Issawi e ora da cen­ti­naia di pri­gio­nieri poli­tici in scio­pero della fame dal 24 aprile, è seguita in ogni angolo di mondo. Gra­zie ai social per­chè i media tra­di­zio­nali, in buona parte, la igno­rano nono­stante la “misura cau­te­lare” attuata da Israele sia con­tra­ria alle leggi inter­na­zio­nali e sia stata con­dan­nata più volte dalle orga­niz­za­zioni per la tutela dei diritti umani. Come igno­rano la por­tata e le con­se­guenze dell’operazione mili­tare “Brother’s kee­per” lan­ciata da Israele dopo la scom­parsa il 12 giu­gno nella Cisgior­da­nia meri­dio­nale di tre ragazzi ebrei, pro­ba­bil­mente rapiti dal movi­mento isla­mico Hamas. Uffi­cial­mente “Brother’s kee­per” è una cam­pa­gna per la ricerca dei tre ado­le­scenti — Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naf­tali Fraen­kel, tra i 16 e i 19 anni, – con l’impiego di migliaia di sol­dati. Sino ad oggi però si è mani­fe­stata soprat­tutto come una clava per col­pire Hamas e per inflig­gere una puni­zione alla popo­la­zione pale­sti­nese che, non è un mistero, vede nel rapi­mento un mezzo per otte­nere la libe­ra­zione dei dete­nuti poli­tici chiusi nelle car­ceri israe­liane. I pale­sti­nesi arre­stati in 12 giorni sono almeno 471 (11 sono depu­tati del Con­si­glio legi­sla­tivo, tra i quali lo spea­ker Aziz Dweik). Israele ne con­ferma 354. In que­sti giorni l’esercito israe­liano ha anche effet­tuato per­qui­si­zioni — veri e pro­pri raid distrut­tivi, denun­ciano i pale­sti­nesi – in 1800 edi­fici e abi­ta­zioni civili, isti­tu­zioni pub­bli­che, scuole, uni­ver­sità e in sedi di mezzi d’informazione. In città e campi profughi.

E’ subito cre­sciuto anche il numero dei dete­nuti “ammi­ni­stra­tivi”. Adda­mir, l’associazione che sostiene i pri­gio­nieri poli­tici (in totale oltre 5 mila), ha docu­men­tato 104 nuovi ordini di que­sto tipo di deten­zione. E quando i pale­sti­nesi hanno pro­vato ad opporsi alle incur­sioni, i sol­dati israe­liani non hanno esi­tato a spa­rare – “per legit­tima difesa”, spiega un por­ta­voce dell’Esercito – facendo almeno cin­que morti, tra i quali un 15enne di Dura (Hebron), Mah­mud Dudin, col­pito in pieno petto da un pro­iet­tile. Qual­che anno in meno di Dudin aveva Ali al-Awour, un bam­bino ucciso a metà giu­gno, a Gaza, da un mis­sile sgan­ciato da un drone israe­liano con­tro un pre­sunto mili­ziano jiha­di­sta. E gli stessi anni o poco più ave­vano gli altri quat­tro ragazzi pale­sti­nesi uccisi dalle forze mili­tari dall’inizio del 2014: Adnan Abu Kha­ter, 16 anni; You­sef al-Shawamrah, 14 anni; Muham­mad Sala­meh, 16 anni; Nadim Nawarah, 17 anni.

Chie­dere che i tre ragazzi israe­liani fac­ciano al più pre­sto ritorno a casa sani e salvi è dove­roso. Allo stesso tempo è inac­cet­ta­bile l’atteggiamento di buona parte del mondo poli­tico ed isti­tu­zio­nale in Occi­dente che rimane in silen­zio quando l’occupazione mili­tare israe­liana uccide ragazzi pale­sti­nesi, spesso bam­bini, e ne incar­cera tanti nelle sue pri­gioni. Non esi­stono esseri umani di serie A e serie B.

Oggi molto più di qual­che anno fa si tende ad igno­rare in Occi­dente la realtà quo­ti­diana dei pale­sti­nesi e a con­si­de­rare le incur­sioni mili­tari israe­liane quasi come nor­mali “ope­ra­zioni di poli­zia” con­tro cri­mi­nali comuni e non come atti­vità di una forza di occu­pa­zione. Que­sti, ad esem­pio, sono i giorni in cui i decine di migliaia di ragazzi della Cisgior­da­nia sono impe­gnati negli esami di matu­rità e all’università. E i raid mili­tari israe­liani hanno un impatto deva­stante su que­sti gio­vani, come rac­con­tano Aisha Sha­lash e Hanin Dweib, due stu­den­tesse dell’università di Bir Zeit. «La notte del 18–19 giu­gno — hanno scritto le due gio­vani in un mes­sag­gio postato in rete — men­tre era­vamo impe­gnate negli esami finali di lau­rea, anche il nostro cam­pus uni­ver­si­ta­rio è stato perquisito…Abbiamo visto le imma­gini dell’esercito israe­liano che riem­piva le strade del cam­pus, sfa­sciando porte di acciaio e di legno…I sol­dati hanno tro­vato solo le ban­diere, i mani­fe­sti e gli acces­sori uti­liz­zati nelle ele­zioni stu­den­te­sche, li hanno con­fi­scati e se ne sono andati..(dopo) abbiamo con­ti­nuato a chie­derci: per­ché stanno facendo que­sto? Per­ché scon­vol­gono il nostro stu­dio e i nostri esami? Non siamo forse umani? Non abbiamo il diritto all’istruzione? A un futuro di spe­ranza? A una vita in libertà di giu­sti­zia e pace? Per­ché il mondo non ascolta mai noi palestinesi?»

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/palestina-sotto-sequestro/#

NAPOLI, 19 GIUGNO… CANTA PALESTINA! COSTRUIAMO L’ASILO VITTORIO ARRIGONI!

Posted on 17 giugno 2014 by dimitri

 

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“Siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo”

 

Il 19 giugno Napoli ospiterà un prezioso evento musicale. Certo, niente di mai visto, ma per noi sarà un concerto che significa tantissimo: più di 10 artisti si esibiranno in solidarietà alla causa palestinese e le sottoscrizioni all’ingresso andranno interamente a finanziare la costruzione di un asilo nella Striscia di Gaza, intitolato a Vittorio Arrigoni. Ma perchè Daniele Sepe, La Maschera, gli Slivovitz e altri faranno questo? Perchè noi ci stiamo impegnando tanto tra attacchinaggi, volantinaggi e altro perchè riesca al meglio?

Perchè la Palestina parla di noi.

Per quanto possa sembrarci lontana geograficamente, lontana dai nostri occhi e dalle nostre orecchie, la “questione palestinese” dovrebbe essere vicina al cuore e alla mente di tutti noi. Perchè la profonda ingiustizia di cui è pregna la storia di un qualsiasi palestinese ci riguarda, appartiene a tutti coloro che, guardandosi in tasca, allo specchio, ripensando alle proprie giornate tra studio, lavoro, ricerca di un lavoro, si sentono affaticati, infelici, frustrati e in fondo sanno che questo mondo è troppo iniquo e crudele per essere vissuto così com’è.
Perchè i bombardamenti, la militarizzazione, lo sterminio sistematico di una popolazione, il furto di terra, sono tutte conseguenze dirette -e non “grandi inconvenienti”- dello stesso modello sociale ed economico che regola le nostre vite nel concreto e senza darci scampo. Solo che lì si presenta senza orpelli, nella sua forma più pura e atroce. Un modello che si fonda e si riproduce grazie allo sfruttamento, il sopruso e l’oppressione da parte di pochi a danno di molti. Un disegno che però può essere cancellato e reinventato solo da noi, insieme.

E noi parliamo di Palestina?
Talvolta, sempre più raramente, ci arriva confusa un’eco dal TG: “Bombardamenti, tre morti, razzi qassam”- o, come negli ultimi giorni, “rapimenti”. Ma tutto è riportato in modo così confuso che nemmeno il tempo di una pietosa compassione e si cambia canale, senza riuscire a farsi un’idea e a prendere una posizione in una questione che sembra così lontana nel tempo e nello spazio.
A Napoli sono anni che tentiamo di stabilire una controtendenza, di dare voce, nonostante il mutismo mediatico anche in casi gravissimi, ad un’istanza di libertà e giustizia. Dibattiti, assemblee, presentazioni di libri, presidi, cortei, l’organizzazione dell’accoglienza e partenza della Freedom Flotilla III: qualsiasi momento per informare, sensibilizzare, attivare quante più persone possibili su una terra, una storia, una popolazione che da 66 anni subisce un vero e proprio tentativo – attualmente in stadio avanzato – di genocidio, ma che da altrettanto tempo si afferma, lotta e resiste.

Una tra le più rilevanti proteste di massa attualmente in corso è quella portata avanti dai detenuti palestinesi in carceri israeliane. Si tratta soprattutto di arresti “preventivi”, la maggior parte senza alcuna giustificazione dichiarata. Ma nonostante le condizioni disastrose a cui sono costretti, attualmente 125 prigionieri sono in sciopero della fame per richiedere la fine della detenzione amministrativa (almeno 6 mesi senza processo né accuse dichiarate), per protestare contro il mancato rispetto dell’accordo del 2013 che prevedeva la liberazione di alcuni detenuti. E anche qui Israele tenta di annientarli e di annientare la loro protesta che si diffonde e trova sostegno anche fuori dalle mura carcerarie: è di 15 giorni fa la proposta di legge di Netanyahu per costringere i detenuti all’alimentazione forzata.

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Con Vittorio nel cuore…
Se dovessimo trovare un altro motivo per ritenere prezioso questo appuntamento, sarebbe sicuramente la volontà di tante e tanti di ricordare un compagno, un amico, giornalista e internazionalista che ha speso tutta la sua vita per la causa di un popolo oppresso e senza voce: Vittorio Arrigoni. Ormai sono 3 anni che la sua assenza pesa su di noi, sulla sua famiglia e su tante compagne e compagni palestinesi, italiani e di ogni parte del mondo che l’hanno conosciuto più o meno direttamente. Il suo omicidio rientra nel quadro di brutalità e ingiustizia che lo Stato di Israele tenta di fare della Palestina. Continuare a lottare al fianco dei palestinesi e per cambiare questo mondo pensiamo che sia il modo migliore per ricordarlo.

Sosteniamo Dima, un motivo in più per partecipare!
A maggior ragione abbiamo pensato anche quest’anno di supportare Dima, un’associazione nata dalla volontà di un gruppo di attivisti impegnati da anni sul fronte della solidarietà con il popolo palestinese e per una pace giusta e duratura in tutto il Medio Oriente. Devolveremo infatti le sottoscrizioni di entrata del concerto a Dima con l’obbiettivo di portare finalmente a termine la costruzione di un asilo – che porterà proprio il nome di Vittorio – nel campo profughi di Khan Younis nella Striscia di Gaza.

Insomma, di motivazioni per parlare e soprattutto cantare di Palestina ne abbiamo parecchie! Diamo quindi voce, una volta per tutte, a un popolo che viene sistematicamente ammutolito ma che non ha mai perso la voglia e la forza di lottare e resistere!

Con Vik e la Palestina nel cuore!

Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli

 

Fonte:

http://www.freedomflotilla.it/2014/06/17/napoli-19-giugno-canta-palestina-costruiamo-lasilo-vittorio-arrigoni/